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La battuta perfetta
Il romanzo di Carlo D’Amicis è strutturato in due parti, due lunghe lettere che il narratore scrive prima a suo padre, poi a suo figlio. La lettura procede come quella di un diario, e di questo ne coglie tutta l’intimità, vuoi anche per l’uso ricorrente delle parole 'padre' e 'figlio', usate per rivolgersi ai presunti destinatari. Lettere che forse nessuno mai aprirà, perché destinate non ad altri ma a se stesso, a Canio Spinato, protagonista e narratore del racconto.
La storia si svolge in gran parte a Matera, dove la rappresentazione cinematografica della crocifissione del Cristo di Pasolini, evento che sembra essere storicamente fine e inizio della città stessa, cattura l’attenzione di tutti. E dove un dialetto, profondo e mai fuori posto, traccia sentimenti genuini e spontanei (spesso anche repressi).
Attraverso la vita di Canio si svolge anche quella del padre, prima, e del figlio, dopo; ma, soprattutto, si traccia la vita di tutta una società italiana che cresce, passando dagli anni ’50 fino ad… oggi, perdendo innocenza e pudore. Motore di questo cambiamento, proposto da Carlo D’Amicis come aspetto involutivo dell’intero arco temporale, è la televisione. Necessariamente educativa nei primi anni, procreatrice, fautrice e idolatra del 'mercato' in seguito.
La ricerca (velata d’innocenza) di Canio è quella del bene, una ricerca però distorta da un’ingannevole realtà che gli viene rimandata dal tubo catodico televisivo. Il bene, per Canio, si confonde con la felicità, e la felicità, a sua volta, con la risata. Di qui la ricerca assillante della battuta perfetta, ricerca che concede al lettore quasi degli intervalli costituiti da barzellette (esilaranti, a dire la verità) che assumono all’interno del libro, però, un carattere grottesco, se non proprio amaro.
Lo stile è molto ricercato, con continue metafore che prendono spunto da ogni possibile accadimento o cosa osservata dal narratore. Forse l’estrema ricercatezza dello stile è, allo stesso tempo, un punto di vantaggio e di debolezza dell’opera, obbligando il lettore a rallentare il ritmo di lettura. Ma c’è chi, come me, trova questo un piacere.
Il finale, evocativo, spinge l’immaginazione del lettore a raffigurarsi la scena con cui si chiude il libro, scena che probabilmente alcuni lettori considereranno minore rispetto alla narrazione, ma che acquista un suo significato se solo si considera che si è di fronte a un diario oltre che a un racconto.