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Quel rifugio che è in noi
L’opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant’anni e che comprende anche “Dentro le mura”, “Dietro la porta”, “L’airone”, “Gli occhiali d’oro” e “L’odore del fieno”, testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un’ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all’improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.
Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l’io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.
E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.
Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c’è traccia di orrore, non c’è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.
In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l’io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.
Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!
Ecco, l’invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d’obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l’unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.
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mercì
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però, dopo aver letto il tuo commento, mi è scivolato via quel sentimento di 'rigetto' e ho deciso di leggerlo appena ne avrò l'occasione.