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Humanitas
Nonostante sia sempre prevenuta verso i giudizi entusiastici e le lodi sperticate, devo riconoscere: è fondo e sapido questo romanzo della Murgia.
Bella la scrittura, vischiosa, pastosa. Frasi di una densità e di una forza espressiva straordinaria, materia vitale.
"Tra quelle pieghe di gonna e di donna Maria intuì per la prima volta la bellezza che non era più, e la ferì l'assenza di qualcuno che ne conservasse memoria."
La scrittura trascina dentro una storia che è insieme archetipa e nuova.
La Sardegna nella quale si muovono i personaggi non è arcaica, siamo tra gli anni '50 e gli anni '60, eppure.
Soreni è un paese immaginario, eppure.
I personaggi hanno un che di ancestrale e "mitologico", eppure.
Il mondo ancora intriso di superstizione, di ritualità antiche, sanguignamente descritto dalla Murgia si riempie di senso e di sensi moderni.
Solo per indicare i filoni principali.
Accabadora. Eutanasia.
Fillus de anima. Adozioni.
E' un libro sul "confine".
Il confine è violato da un muretto con una "fattura", e la rabbia sconfina in vendetta, in fuoco, e scivola poi nella vita da morti.
Il confine è segnato dal mare che inghiotte i ricordi, ma i ricordi anche quando sono pesanti come pietre tornano a galla, e nessun mare, neanche un mare di tempo lungo trentacinque anni, o un parco mai più oltrepassato, li può trattenere sotto.
Il confine, tra vita e morte, tra le cose che si fanno o non si fanno (giusto o sbagliato sono "categorie che non trovano posto" nel mondo in cui Maria era cresciuta, ma in quanti mondi giusto o sbagliato sono categorie vuote ), si sente, si sa.
Occorre semplicemente che arrivi il momento.
Sotto lo scialle nero dell'accabadora vi è la pietas, l'humanitas.
L'ultima madre non è meno amorevole della prima.
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