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Un'indagine tra rovi e memoria
E’ un giallo e, al contempo, un viaggio nel tempo e negli scheletri di un passato che è meglio dimenticare e lasciar ricoprire dai rovi e dalla vitalba il nuovo romanzo di Marino Magliani, Quella notte a Dolcedo. Al suo protagonista Magliani fa condurre un lavoro da archeologo della memoria: con il pennellino ripulisce i cocci del passato, li seleziona, controlla se in qualche modo possano essere collegati a formare qualcosa di più grande. Il punto di partenza è una lapide che, tra le terrazze a secco ormai abbandonate, è il ricordo scomodo, rimosso, di una famiglia assassinata.
Perché quella strage nazista non fu un semplice atto di rappresaglia; e quella bimba nascosta in un rovo non era soltanto una sopravvissuta.
Nessuno è quello che sembra, nel 1944, a Dolcedo, sui monti affacciati al mare del Ponente Ligure. Solo una cosa è reale: la morte di una famiglia di fornai, nascosti in un pozzo e traditi da qualcuno.
Anche 45 anni più tardi, a Dolcedo, nessuno sarà quello che sembra: né il vecchio Hans Lotle, ex soldato dell’esercito regolare, la Wermacht, e poi cameriere, che ha lasciato Berlino Est a caccia di una verità che il tempo sembra aver reso irraggiungibile; né Lori, giovane ligure sbandata e autolesionista legata al suo paese da un rapporto di amore e di repulsione; né la variopinta colonia di tedeschi che, nel tempo, si è insediata in quelle valli che i loro genitori non erano riusciti a conquistare con fucili e granate.
Impegnato nel suo lavoro di archeologo della memoria, Hans non si accorge che il presente incalza: si abbattono i muretti per far posto alle piscine, e si abbatte il Muro di Berlino per far posto a una nuova generazione di (vecchi) squali. Ma è durante un improvvisato valzer tra ulivi, rovi, silenzi e chiar di luna che le due facce della verità si sfiorano e si lasciano. Senza spiegazioni. Come spesso accade nella vita. Nel lettore resta quella struggente nostalgia che nasce dall’incontro tra chi è tormentato perché non sa la verità e chi sa la verità ma non per questo ha la pace. Anzi, tende a farsi capro espiatorio delle malvagità altrui.
La scrittura di Marino Magliani è intrisa di colori, suoni, memorie della Liguria con tappe nella livida Berlino, nell’opprimente burocratismo di quei servizi segreti della Ddr anni ‘80. Pagina dopo pagina il giallo sembra incunearsi in uno di quei carrugi sempre più stretti e bui, dai quali pare impossibile uscire, ma che poi, imprevedibilmente, si aprono verso colline e ulivi. Da abile narratore, Magliani dimostra di tenere sempre sotto controllo il suo romanzo. Niente concessioni a misteri esoterici, fantomatici tesori o azioni spericolate. Il soldato Hans, catturato da quelle stesse colline, dai quei paesaggi mozzafiato che 45 anni prima gli avevano dato ancora più filo da torcere dei partigiani, riuscirà a portare a termine la sua missione. E, un po’ come avviene per il soldato di Mediterraneo innamorato della prostituta e per lei pronto a disertare, anche Hans finirà per sentirsi parte di un nuovo mondo: in cui vivere, facendosi dimenticare.