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Madri e figlie, sole senza nessuno
Quando si è madri, lo si è prima di ogni altra cosa. Un rapporto da cui non si può prescindere, che non si interrompe mai: questa è la vera sfida di Emilia, di sua figlia, di sua madre, di sua suocera. Il racconto di una ripartenza difficile e dolorosa, per una donna che mette in gioco tutto quello che ha, ritrovando, alla fine, il punto giusto da cui prendere la spinta e saltare.
Ambientato ai nostri giorni, questo romanzo racconta una sfida: quella di un’ex modella, Emilia, figlia di una sarta che ha lavorato nel prestigioso atelier romano delle sorelle Fontana, che si ritrova per le mani un’inconsueta proposta di lavoro. A fargliela è un giapponese, Murita, che organizza, per i suoi connazionali in viaggio in Italia che bramano l’esotico occidente, pseudo-matrimoni, o meglio, benedizioni della Chiesa cattolica, e che ha bisogno di Emilia per far funzionare questa macchina delicata e complessa. Lei accetta, tirandosi dietro, quasi suo malgrado, la figlia fotografa; resuscita l’eco del lavoro di sua madre, decidendo di cimentarsi nel disegno degli abiti da sposa; recupera l’ombra di un sentimento materno, ritrovandosi a occuparsi della giapponese di turno, suscitando la gelosia della figlia. Ma fa tutto come se non lo volesse davvero, come se a sospingerla fosse uno straziante istinto di sopravvivenza.
A quasi sessant’anni, Emilia si trascina dietro le pesanti zavorre del suo passato che, quotidianamente, l’assillano da ogni parte: una madre da cui non riesce ad essere amata, una figlia che non riesce ad amare, un marito con cui – se non alla fine – non riesce a fare i conti.
Resta in bilico, Emilia, attratta da quello che è in grado di essere – una non-persona, devastata e preda di un dolore maestoso – e sospinta verso il punto in cui l’asse, su cui è sospesa, finirà.
Fino alla presa di coscienza finale: siamo in una Roma magica, quella degli androni bui e risuonanti dei vecchi palazzi signorili, tutti muri spessi e ringhiere di imponenti scalinate, una Roma che è, come il cuore di Emilia, incapace di staccarsi dalla sua storia, che non ci sta dentro i sussulti angusti del dolore e prorompe in tutta la sua maestosità, come il passato di Emilia che dilaga in “triangoli di luce che tagliano le ginocchia”. E’ la vita stessa, infine, che, insospettata e sconvolgente, costringe l’anima a vibrare e, nella semi-oscurità dell’interno di un palazzo, a brillare di nuovo, in un lento, doloroso ma ineludibile cammino verso quella pienezza di sé che da tempo Emilia si merita di ritrovare.
Questo romanzo di Letizia Muratori assomiglia a una prova ben riuscita di un esercizio alla trave: si sente, nelle parole scelte, nelle evoluzioni di una vita in cui scorrono all’unisono l’allora e l’adesso, tutto lo sforzo di restare in equilibrio e continuare a camminare fino in fondo. Si avverte la fatica dell’impegno, il duro lavoro, l’esercizio continuo: per arrivare all’atterraggio perfetto dal doppio salto mortale in punta dell’infido attrezzo, niente è lasciato al caso. C’è maestria di rifiniture, c’è accettazione e, anzi, quasi gusto, del rischio, c’è desiderio di tentare figure nuove, ma sempre ben calibrate; c’è la sfida, superbamente affrontata e risolta, a cimentarsi con sentimenti che potrebbero travolgere una mano meno responsabile. C’è tutta la bellezza di un cuore messo su un piatto.