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Alla ricerca di noi stessi
Dopo le prime pagine avevo tratto la convinzione di trovarmi di fronte a un romanzo che aveva attinto ispirazione dal celeberrimo Moby Dick o da qualche narrazione di Joseph Conrad. In effetti sono presenti elementi che convaliderebbero questa mia impressione: la ricerca spasmodica di un’isola misteriosa, un sogno/incubo del capitano Beltramino divorato da questa ossessione, le lunghe giornate a bordo, ripetitive, tranne quando le forze della natura si scatenano, la descrizione intensa dell’equipaggio, di rudi uomini di mare visti dagli occhi stupiti del giovane mozzo al suo primo imbarco.
E invece Istanbul Bound è un romanzo dotato di propria autonomia ed è la descrizione di un viaggio, effettuato nell’imminenza della seconda guerra mondiale, da Massa a Istanbul, località a cui la nave non arriverà mai in un finale del tutto imprevedibile, ma frutto di una geniale invenzione dell’autore che, nelle ultime pagine, ha profuso a piene mani un’indubbia eccellente creatività. Del resto, anche prima, ci sono delle felici intuizioni, una sorta di stacchi temporali che evitano che la narrazione possa appiattire, così che il lettore abbia a godere un po’ di rilassamento, astraendolo momentaneamente da una lenta, ma crescente suspence. In effetti, come ne Il deserto dei tartari, si ha viva l’impressione che da un momento all’altro la quasi noiosa calma apparente possa subire un’improvvisa lacerazione, come accade poi alla fine.
Ben scritto, con un’analisi accurata dei personaggi, con delle riflessioni e approfondimenti di pregevole livello (raccomando di leggere con attenzione quella relativa alla guerra), Istanbul Bound è un romanzo che merita di essere letto.