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un libro per tutti, così complesso che è riuscito
Recensione a Lessico famigliare, Einaudi, Torino 1963-1999
di Natalia Ginzburg.
Alcuni vocaboli e non altri, alcuni modi dire, così come certi argomenti, al pari di un orologio da polso o di qualsiasi altro feticcio di casa vanno a incasellarsi nei ricordi dei componenti del nucleo parentale. E’ così che prende corpo un lessico famigliare. Da un’operazione mnemonica, di recupero linguistico. Che cosa ha fatto Natalia Ginzburg nel suo Lessico famigliare, uscito a stampa nell’ormai lontano 1963 e scritto di getto in pochi mesi poco prima della data di pubblicazione? A messo mano al lessico di casa. Si è attaccata ai tic linguistici uditi in casa dal burbero professore di anatomia che era suo padre, dall’affabile e sbadata casalinga che era la madre, dai fratelli, tutti più grandi di lei, e dalla cerchia dei parenti e degli amici più prossimi, per mettere insieme un concentrato di ricordi che fosse rappresentativo di quella famiglia, sullo sfondo di quarant’anni di storia d’Italia. Grossomodo, dall’avvento del fascismo alla fine degli anni Cinquanta. Si badi, la famiglia Levi (che era il cognome della scrittrice da nubile) non era una famiglia qualunque. Ebreo, professore universitario il padre, cristiana, di estrazione borghese la madre. Il cognato, ovvero il marito della sorella Paola, è Adriano Olivetti, l’industriale a capo della fabbrica omonima, a cui lo sviluppo culturale e sociale di chi lavorava alle sue dipendenze stava a cuore non meno delle sorti economiche dell’azienda, che seppe mantenersi competitiva a livello mondiale anche dopo di lui. Natalia sposerà Leone Ginzburg, intellettuale di prestigio e antifascista che morì in carcere durante la guerra. Insieme i Ginzburg, anche se in tempi diversi, avranno un ruolo di primo piano nelle scelte culturali della Einaudi, condividendo il lavoro con gli altri importanti intellettuali che gravitarono intorno alla casa editrice di Torino. I fratelli di Natalia, dopo aver partecipato attivamente al movimento antifascista, si ritaglieranno ruoli importanti nelle professioni. E fin qui per dire chi erano i Levi e con chi si accompagnavano.
E ora veniamo al lessico. Ci sono le parole e le espressioni ormai diventate celebri, come il “non fare malegrazie” detto dal padre ai figli nell’invitarli di continuo a un maggior contegno, oppure “sei un asino” espressione tipica, sempre del professor Levi, per dare dello screanzato al primo dei figli che gli venisse a tiro. Ma quello che ci ha veramente restituito la Ginzburg scrittrice è farci sentir camminare per casa i Levi, sentirli passare dalle studio, dalle camere da letto al soggiorno per pranzo e per cena, e qui discutere come ogni altra famiglia. Ci ha dato una rappresentazione di vita famigliare attraverso un racconto fatto di espressioni quotidiane, dettagli minimi di vita domestica, amicizie e frequentazioni basate su incontri semplici. Si usciva di casa, si facevano quattro passi lungo corso re Umberto o lungo qualche altra via centrale di Torino e così si incontrava sempre qualcuno. Il tutto, sullo sfondo di eventi nazionali e mondiali tra i più importanti e drammatici del Novecento, eventi che, appunto, sono stati lasciati volutamente sullo sfondo, affinché non appannassero con la loro urgenza storica e psicologica, la naturalezza dei personaggi che li hanno vissuti giorno dopo giorno, momento dopo momento.
Si è scritto, per mano di alcuni degli eminenti recensori di questo fortunatissimo libro, che l’olocausto, ovvero l’evento più drammatico per una famiglia ebrea nel periodo storico di riferimento, non viene praticamente mai nominato direttamente. E anche il fascismo, così come l’antifascismo attivo dei Levi sembrano solo accennati, quasi come fossero stati un banale inghippo per la tranquillità dei membri della famiglia e degli amici più prossimi. Sappiamo che non fu così, ovviamente. Tuttavia nel libro si tace la storia degli accadimenti che sconvolsero il mondo per non togliere naturalezza alle persone chiamate sulla ribalta dell’intreccio narrativo. Vi si accenna soltanto qua e là in riferimento a cosa è capitato a questo o quel personaggio, amico o parente che sia.
Ma il vero capolavoro la Ginzburg l’ha fatto nelle scelte linguistiche e di focalizzazione della voce narrante: la sua voce di bambina, di ragazza, di figlia, di moglie, di madre, di intellettuale scrittrice. Tutte queste voci e i connessi punti di vista sono montati con una costruzione temporale molto movimentata sul piano dell’intreccio, così che Natalia bambina vede e descrive le cose ma poi il commento viene lasciato alla ragazza o alla donna ormai adulta, quando non direttamente alla scrittrice con la sua schietta sensibilità talentuosa, per ritornare ancora alla bambina o alla ragazza che vive l’evento in presa diretta. Il linguaggio della voce che narra si fa mimetico del parlato, del colloquiale e famigliare. La tecnica narrativa utilizzata è quella dell’understatement, ovvero del raccontare senza eccedere nei dettagli, senza voler dire tutto e subito, quanto piuttosto nell’omettere e nel ripulire il racconto in favore di ciò che è veramente essenziale, affinché quello che resta, sia quello che veramente merita di assurgere a valore di simbolo.
Se è vero, parafrasando l’incipit di Anna Karénina, la cui traduzione italiana ancora in circolazione è ancora quella di Leone Ginzburg, che tutte le famiglie felici si assomigliamo, mentre quelle infelici lo sono ciascuna a suo modo, allora un lessico famigliare per diventare veramente unico dovrebbe appartenere a una famiglia infelice. O, meglio a una famiglia infelice a suo modo. Che non necessariamente vuol dire infelice per tutti. Ecco, forse la famiglia Ginzburg era infelice a suo modo e a suo modo felice. La differenza con tutte le altre famiglie e che ora la sua vicenda appartiene alla storia della letteratura mondiale, proprio come quella dei Karénina che ci ha lasciato Tolstoj.