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Un tempo cristallizzato
Il tempo sembra essersi fermato a Mineo, immobile da secoli, come se si fosse cristallizzata la vita in una miseria a cui gli abitanti si sono assuefatti al punto che questo “enorme tempo” attenua i drammi quotidiani, le sofferenze, in una rassegnazione che sì stupisce, ma, soprattutto, lascia attoniti quelli, come noi, che trascorrono l’esistenza in un susseguirsi di periodi che non sono mai uguali.
Giuseppe Bonaviri, fresco laureato in medicina, dopo gli studi a Catania e il servizio militare in Piemonte, ritorna al paese natio e lo riscopre, fra l’entusiasmo di chi avvia una carriera e l’umana profonda pietà che sgorga, costante, pur essa immensa, nel corso di tutto il romanzo.
La sua è una discesa in un girone infernale, dove la miseria si autoalimenta; lo accompagna un vigile sanitario che di volta in volta può somigliare al Virgilio della Divina Commedia, soprattutto quando insieme si abbandonano a pacate riflessioni, oppure al Sancho Panza, fedele scudiero di un Bonaviri-Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento dell’ottusità burocratica, della superstizione e del potere che toglie, con l’acqua, quel poco che la povera gente ha.
E’ una scrittura che ricorda quella del Sarto della strada lunga, incline a un verismo senza sconti, ma pur tuttavia di tanto in tanto impreziosita da quella vena fantastica che è propria dell’autore siciliano e che nell’accostamento fra la semplice solennità della natura e la tragedia dell’esistenza umana ricorda e riconduce l’uomo al suo ruolo nell’ambito della creazione.
Già gli inizi del libro, con il ritorno in treno e poi in corriera a Mineo, sono di quelli che non possono lasciare indifferenti, perché è l’omaggio dello scrittore, nonché poeta, alla sua terra (…Mentre il treno riprendeva ansimando il suo cammino verso Grammichele, la corriera, con un tonfo gorgogliante, s’avviava per il piano di Càllari in cui già mugolava e si doleva il vento…).
E’ evidente che ci troviamo di fronte a una forma espressiva quasi poetica, che ogni tanto si ripresenta nel corso del romanzo, a stemperare o anche ad accentuare per contrasto un profondo senso di tristezza per la gente del paese, vista nelle sue ataviche tradizioni, forse anche indisponente nel rifiuto del progresso, come nel caso delle vaccinazioni, ma anche accarezzata con affetto per la sua tribolata e ignota esistenza.
Dove tutto è fermo da secoli, accompagna gli esseri umani la rassegnazione propria dell’immobilità dentro l’enorme tempo e non sfugge a questa precarietà esistenziale anche il Dr. Giuseppe Bonaviri, in cui si affievoliscono poco a poco gli entusiasmi iniziali, la voglia di fare, il desiderio di cambiare, nei limiti delle sue possibilità, quella situazione.
In un paese dove perfino i morti dell’obitorio stanno all’acqua sotto il tetto sfondato e le case si stringono l’una all’altra quasi per farsi forza e continuare, gli episodi che conducono a una non ricercata commozione sono innumerevoli. Lì si vive in una sola camera, spesso assieme alle bestie, si nasce e si resta in attesa della morte, poco nutriti, senza avvenire se non la disperata emigrazione; Mineo finisce con il diventare il cimitero di se stesso, dove vivi e morti quasi si confondono, dove nulla cambia, in cui regna sovrano l’enorme tempo.
Mi pare superfluo aggiungere che ci troviamo di fronte a un romanzo bellissimo, da leggere e rileggere, perché nulla è lasciato al caso fra quelle righe, nulla è di troppo o di troppo poco, in un equilibrio stilistico che, non a caso, fa di Bonaviri uno dei grandi della letteratura.