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Un uomo unico nel suo genere
Quando ho letto “Un uomo”, nella mia mente di quindicenne Oriana Fallaci era una giornalista scomoda che sembrava avercela a morte con l’Islam e alla quale Jovanotti tirava stilettate attraverso i versi “la giornalista scrittrice che ama la guerra perché le ricorda quand’era giovane e bella”. Inoltre non conoscevo nulla del regime dei colonnelli in Grecia (a parte i ricordi di mio padre che vi aveva vissuto per lavoro e che sintetizzava tutto quanto in “era meglio se stavi zitto e facevi bene ad avere paura”) e il nome Alekos Panagulis mi era completamente sconosciuto. Quando ho iniziato la lettura di questo romanzo sono rimasto subito incantato dallo stile etereo e molto elaborato della Fallaci, senza che questo appesantisse la scorrevolezza del testo. L’attentato fallito al dittatore Papadopulos, il carcere, le torture, la resistenza, il processo, tutto descritto in maniera viva e vera, quasi dolorosa, come se le percosse fossimo noi stessi a subirle. La parte più godibile, anche se può risultare macabro, è appunto la prima, quella che indugia sulle torture subite da Panagulis, sulla “tomba”, l’ipogeo sotterraneo costruito dal direttore del carcere appositamente per contenere la furia del prigioniero, i tentativi di evasione, i tradimenti. La seconda parte mi è risultata più noiosa o perlomeno meno scorrevole rispetto alla prima ma questo giudizio è puramente soggettivo. Quello che esce dalle pagine della Fallaci è il ritratto di un uomo unico nel suo genere, un poeta, un resistente, un eroe della libertà, un fallito idealista, un uomo buono tradito da tutti ma soprattutto dell’uomo che amava e questa è la cosa importante. Un romanzo non certo leggero, non di quelli da leggere in spiaggia, ma di quelli da assaporare e rifletterci sopra. Perché di Panagulis, anche in questo momento, è pieno il mondo, costellato di regimi totalitari di ogni ideologia. La vergogna è che resteranno per sempre sconosciuti fino a che una Fallaci non ce li faccia conoscere.