Accabadora
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Un racconto che fa riflettere
Accabadora si potrebbe definire una favola dai contorni noir ambientata in una Sardegna di metà 900 molto ben caratterizzata dall’autrice. Soreni, paesino dove hanno luogo i fatti del racconto, ha i contorni tipici che potrebbero essere propri di un qualsiasi paesino del sud italia: un ecosistema chiuso in cui ciascuno dei suoi abitanti è ben inserito e svolge un ruolo, dove tutti sanno di tutti ma le apparenze devono essere mantenute perchè il pettegolezzo rappresenta ancora una sorta di controllo sociale che tutti temono. Soprattutto se è per “stupidità” a finire sulle bocche dei compaesani. Ed è proprio un fatto “stupido” (una disputa terriera finita in tragedia) a rappresentare la rottura della normalità per una famiglia molto sui generis composta da Bonaria Urrai, sarta del paese, e la sua fillus de anima Maria Listru.
Il povero Nicola Bastiù, mentre tenta di dar fuoco al campo dei confinanti, viene colpito da una fucilata ad una gamba, in seguito amputata a causa delle ferite riportate. Il suo forte temperamento e la strabordante vitalità giovanile vengono annientati dalla sua nuova condizione fisica, portandolo ad una profonda depressione. Dunque è in questo frangente che Maria scopre un segreto molto importante riguardo la sua madre acquisita, ovvero lei è l’accabadora, colei che finisce: Bonaria, colpita dalla storia del ragazzo in cui rivede il suo promesso scomparso anni addietro, decide di mettere fine alla sua vita cedendo alle sue insistenze, tradendo un pò i dogmi che la sua professione gli impone, ovvero di aiutare a compiere il destino dei morenti in assoluta accondiscendenza con la famiglia dell’infermo, che in questo caso viene tenuta all’oscuro.
La scoperta turba la giovane Maria che, presa da un atto di profonda indignazione, decide di lasciare il paese per andare a lavorare come tutrice a Torino.
Passano un paio d’anni e la ragazza si ambienta nella nuova realtà e (quasi) scopre l’amore ma una chiamata improvvisa la costringe a tornare in Sardegna: Bonaria ha avuto un ictus e non è più autosufficiente. Maria decide quindi di tornare a prendersi cura della madre adottiva. Nei due anni che seguono la situazione diventa per entrambi sempre più insostenibile e nella mente della giovane comincia a maturare l’idea di porre fine a tanta sofferenza. Con le parole in testa di Bonaria pronunciate tempo prima durante il litigio che ha portato la famiglia a separarsi, ovvero “non dire mai: di quest’acqua non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”, Maria decide di compiere l’estremo atto nei confronti della madre sofferente, atto che tanto aveva criticato in passato.
Il libro si legge tutto d’un fiato, complice uno stile asciutto ma efficace, che non annoia. I dialoghi dei protagonisti, molto ben scritti e cuciti in maniera impeccabile attorno al carattere dei vari personaggi, sono incalzanti e danno ritmo alla lettura.
Sono proprio i dialoghi a mio avviso il fulcro su cui poggia la struttura del libro perchè scritti in modo tale da indurre il lettore alla riflessione, senza che l’autrice rischi di imporre in maniera esplicita il suo pensiero. I fatti in sé sono dunque solo la cornice che dà l’opportunità ai protagonisti di poter riflettere e maturare di conseguenza le proprie idee.
Come ogni favola che si rispetti, Accabadora ha un suo insegnamento, ma sta a voi saperlo cogliere!
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Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno
Un romanzo che ci porta diretti in una Sardegna anni ’50 ancora legata a riti e tradizioni in parte arcaici, in difficoltà nel confronto con la modernità incipiente. E’ infatti ancora in uso la pratica dei “figli dell’anima”, bambini cioè che vengono passati da una famiglia che fa fatica a sfamarli (sono spesso gli ultimi figli) a una donna sterile e che gli farà da madre, pur non essendolo da un punto di vista di legge.
"i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra"
Maria Listru, quindi, ultimogenita, viene ceduta dalla famiglia biologica a Tzia Bonaria Urrai, sarta del paese, che la alleva come figlia con l’obiettivo di assicurarle educazione, istruzione e futuro. E affetto, per quanto la società dell’epoca in quella Sardegna consentisse di esternare.
Maria cresce esattamente così, brava a scuola, bella e intelligente. E perfettamente consapevole della sua situazione di figlia-non figlia.
Nota di quando in quando strane uscite di Tzia Bonaria la notte, ma non ottiene alcun chiarimento nonostante le domande.
Scoprirà poi, dopo la morte di un ragazzo del paese rimasto con una sola gamba a seguito di un incendio appiccato per vendicare un torto, che Tzia Bonaria è l’Accabadora del paese, si occupa cioè di garantire una morte pietosa a chi la chiede perché in condizioni di estremo dolore e impossibilità a proseguire oltre una terribile agonia.
Si tratta di un’opera di carità, non di un omicidio. La morte e la mano che la porta possono essere pietose.
Quando Maria lo scoprirà non lo accetterà, perché “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”, e questa è una di quelle che non si fanno.
Con l’aiuto della sua insegnante lascia la Sardegna e va a lavorare in una casa privata a Torino. Quando però riceve una lettera che la avvisa che Tzia Bonaria è gravemente ammalata, dopo aver anche perso il lavoro a Torino ritorna in Sardegna e assiste la madre adottiva fino all’ultimo.
Capirà quindi in quel lungo periodo il senso di ciò che fa l’Accabadora, capirà che la morte può essere un gesto di pietà dovuto a chi soffre e lo desidera.
E aveva quindi ragione Tzia Bonaria a dirle “Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.”
Il romanzo mette sul piatto diversi temi, primo tra tutti quello dell’eutanasia e delle sua implicazioni, tema di stretta attualità. Non faccio qui riflessioni in merito, non sarebbe giusto trattandosi di un tema etico sul quale possono esistere sensibilità diverse. La Murgia spiega e declina bene l’argomento in differenti sue possibili accezioni e non occorre aggiungere altro. Certe sue frasi, anche quando decide di negare una morte perche non sarebbe opera di carità, dicono e insegnano moltissimo, o quantomeno dovrebbero far riflettere. Perché, questo vuol dirci la Murgia, per giudicare occorre comprendere.
Benché non tanto approfondito (non era il tema principale) c’è poi il tema dell’adozione. Maria sa di non essere figlia di Tzia Bonaria, eppure la sente ormai come una madre, colei con la quale confrontarsi sui temi importanti della vita, alla quale si ritorna e per la quale si è importanti. Non gli ultimi, come si è invece sempre sentita Maria.
La scrittura è densa, nessuna parola è usata a caso, alcune aggiungono particolare pathos alla storia.
L’ambientazione è molto bella, la ricostruzione di una Sicilia arretrata e che si forza di progredire è molto ben fatta e ce la sentiamo addosso mentre leggiamo. Non c’è particolare descrittivo o atmosfera che non sia curato, ho apprezzato in particolare quella del lutto.
Cosa non mi è piaciuto? Sicuramente la parte che Maria trascorre in Piemonte. Necessaria ai fini della storia non riesce a mio parere a saldarsi bene al resto, rimane qualcosa che il lettore vorrebbe si concludesse al più presto per tornare alla storia che sente come “vera”, quella in Sardegna. Non so come, ma forse si sarebbe potuta trovare una diversa soluzione.
Inoltre, nonostante sia al centro della storia, il lettore non riesce a sentirsi davvero accanto e solidale alla figura di Maria che ci rimane sempre un po’ staccata da chi lette, non si riesce ad empatizzare con lei. Fredda, forse, non lo so. Di fronte al suo amico di infanzia Andrea Bastiu che, pur nella disperazione per la morte del fratello, le dichiara il suo amore, Maria non riesce ad essere davvero lì con reazioni umane, è invece fredda e compassata come in un rito imposto.
Di fatto il lettore di sente molto più vicino a Tzia Bonaria, vera protagonista pur nella sua apparente freddezza. Ma è una freddezza tutta esteriore: Bonaria è una donna di immensa profondità, sente cosa è giusto e cosa non lo è aldilà di qualsiasi precetto, è comunque attraversata da mille dubbi ma avverte la pietas e agisce di conseguenza.
Ho letto questo libro in due giorni, la storia, salvo la parentesi torinese, è appassionante. Non perfetta, certo, di sicuro una bella storia che chi ha a cuore in modo aperto il tema del fine vita può leggere.
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Non dire mai...
Maria è bambina, graziata dalla giovinezza che le concede di non piegarsi al peso delle parole altrui.
Così, abituata a una madre che di fronte alle altre comari lamenta l’arrivo della Quarta e dello sforzo ulteriore nella situazione sua disgraziata di vedova. Si adatta a quell’essere chiamata con un numero ordinale, invece che col nome proprio. O, tutt’al più, l’Ultima.
Viste le difficoltà di mettere un tozzo di pane nel piatto, Anna Teresa Listru cede Maria in adozione a Tzia Bonaria, che accoglie amorevolmente la piccola nella sua casa vuota.
Accabadora è colei che aiuta a raggiungere la fine, in una terra pervasa di suggestione e superstizioni è lecito e tacitamente convenuto quel che altrove è null’altro che delitto.
Ciò che insegnerà l’accabadora a Maria sarà riconoscere la differenza tra pietà e complicità, alla fine di un percorso in cui due anime nate sole, strette in un legame affettivo sempre più solido, convoleranno al loro naturale destino: la vita, la morte.
Un romanzo che calza come un vecchio velluto verde e prezioso, un velo sul capo ricamato da merletti in tombolo nero, narrando di una Sardegna di terra e sudore, di fatture e benedizioni, di uomini e donne che sono isola ancora più dell’isola stessa, protetti da una legge che non sta né in cielo né in terra né sui testi giuridici.
Spicca la narrativa di Michela Murgia per il realismo attribuito ai personaggi in una scenografia perfettamente affrescata, aspra la vita e aspra la gente, scavando tra le pietre un cuore satollo di nettare come quegli acini d’uva rossa e dolce, nella vigna dei Bastìu.
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Diritto e Pietas
Un romanzo molto molto bello “Accabadora” di Michela Murgia. Una prosa asciutta, spesso aspra, direi, come certi meravigliosi paesaggi selvaggi della terra di Sardegna. Personaggi che evocano nei particolari il carattere e le usanze degli abitanti di quei luoghi che sopravvivono nel non facile tentativo di preservare l’orgoglio della propria cultura.
Due donne sono al centro di questo racconto, Tzia Bonaria e Maria, la vecchia generazione e la nuova che vivono come madre e figlia. È Maria, l’ultima figlia giunta per caso in una famiglia povera, la fill’e anima di Bonaria e come ogni fillus de anima nasce una seconda volta a una nuova vita. Amata sia pure con la durezza di cui è capace una vecchia sarta abituata ad affrontare tutte le difficoltà della vita senza cedere alla debolezza, Maria è intelligente e studiosa. Sente tuttavia che qualcosa di misterioso circonda la persona di Tzia Bonaria, non sa spiegarsi certe sue uscite notturne che precedono sempre la morte di qualche conoscente o amico in fin di vita. Il mistero si dileguerà dinanzi agli occhi di Maria, quando dovrà affrontare il dolore per la morte dell’amico Nicola Bastiu mai ripresosi dopo l’amputazione di un arto dovuta a una cancrena seguita a un colpo di pistola che lo aveva raggiunto in una notte in cui cercava di incendiare il campo del vicino che aveva osato spostare il suo confine a danno della sua proprietà.
Maria non riesce ad accettare questo ruolo di “accabadora” di Tzia Bonaria. Mettere fine alla vita di un essere umano è terribile e inaccettabile per lei. E certo ci vorrà del tempo e ancora tanto dolore perché possa capirne tutto il significato.
Un tema assai complesso questo che la Murgia affronta nel suo romanzo, un tema che implica considerazioni etiche e che riguarda il dibattito attuale sull’ammissibilità giuridica dell’eutanasia.
È il personaggio stesso di Tzia Bonaria che testimonia quanto sofferta sia la sua decisione di agevolare il trapasso di chi soffre, di chi in effetti sopravvive solo per un accanimento terapeutico. Ma è proprio in contrapposizione a questi casi che si pone il destino di Nicola Bastiu, il quale desidera la morte solo perché non ha la forza e il coraggio di affrontare una vita da disabile, in pieno possesso delle sue facoltà intellettive e di abilità fisiche parzialmente ridotte. È qui il punto centrale del romanzo. Il dibattito sulla legittimità del fine vita dovrebbe sempre basarsi su una valutazione globale dello stato in cui si trova chi chiede l’eutanasia o un suicidio assistito. Difficile condannare o assolvere. Ogni caso è singolare. Una legge rigida e universale non può risolvere ogni problema. Maria capisce tutto ciò quando si trova al capezzale di Tzia Bonaria morente e ricorda le sue parole: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo.” Il destino si è compiuto. La giustizia non può mai ignorare il diritto a vivere e morire con dignità, ma può essere intransigente con chi potrebbe rendere dignitosa una vita dimezzata.
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Il fine giustifica i mezzi?
La Murgia affronta con uno stile molto particolare e personale un tema moderno ma evidentemente presente nei tempi addietro senza tutto il dibattito etico sulla giustezza dell’atto che invece contraddistingue le pagine di oggi. Si sa che nel passato anche recente alcune attitudini o comportamenti che erano socialmente accettate più o meno in maniera esposta, nei tempi moderni suscitano dibattito ed indignazione; è il risultato del progresso e dello sviluppo, chiamiamolo culturale, della nostra società. Oggi farebbe senz’altro specie pensare ad una donna che si raggira di notte chiamata dai familiari di un malato terminale a fare quello che non tutti avrebbero il coraggio di fare, ossia “finire” il povero essere umano ed aiutarlo a traghettare verso l’altro mondo; la nostra accabadora (dal termine spagnolo acabar “terminare”) utilizza un cuscino plausibilmente, ma se si legge la storia sarda di queste accabadore esistevano (o esistono?) strumenti anche più macabri. Ma alla fine, a parte il mezzo, qual è la differenza con il rivolgersi ad una clinica svizzera? Il confine tra il bene e il male è fine; ovviamente mi distacco totalmente dalla volontà di esprimere un giudizio, certo è che Maria, fill’e anima della nostra Bonaria fa fatica a comprendere un po’ per la sua giovane età un po’ per il senso di tradimento che prova. Una storia che parte da qui ma che poi si evolve in tutt’altro modo che non mi aspettavo, perché ero convinta man mano che proseguivo nella lettura che la Murgia volesse approfondire il tema, invece rimane in superficie, si limita al racconto dei fatti con un certo distacco, prova alla fine a ricongiungere il quadro ma a mio parere non ci riesce. Un altro tema bellissimo che affronta è proprio la fill’e anima, già il termine di per se evoca una vicinanza non materiale e fisica, quindi non figlia biologica ma figlia dell’anima, un concetto bellissimo e romantico; forse vale doppio, la scelta di avere un figlio supera anche qui il mezzo per ottenerlo che sia fisico e naturale, che sia acquisendo una figlia/o di un terzo per dare a lei/lui una seconda possibilità hanno lo stesso valore se non maggiore nel secondo caso; e nella nostra storia senza dubbio maggiore, la nostra Bonaria sceglie proprio lei , non vuole un’altra, ma quella bimba che sente il bisogno di aiutare. Un’esaltazione dell’amore filiale!
Lo stile della Murgia è davvero interessante, le tematiche impegnative ma non abbastanza approfondite; avrebbe potuto dilungarsi molto di più, una storia troppo breve per la profondità dei concetti che lei stessa ha voluto prendere in esame. Mi aspettavo qualcosa di più, ma sicuramente leggerò altro dell’autrice.
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Promette e non mantiene
Il romanzo parte bene, forse con qualche tecnicismo di troppo ma con ingredienti letterari sapientemente dosati che danno colore e spessore ad una trama abbastanza originale, farcita di espressioni idiomatiche regionali dal sapore arcaico.
A un certo punto, però, qualcosa si sgonfia e la banalità prende il sopravvento: frasi trite come “lo guardò stupita” e considerazioni della stessa scrittrice, che alla fine di un capitolo tira in modo dilettantesco le somme guidando il lettore verso riflessioni che dovrebbero sorgere spontaneamente, guastano tutto il buono della narrazione.
Di alcuni capitoli, poi, che non si amalgamano bene al resto della trama, si sarebbe potuto anche fare a meno.
E mentre non si è più tanto sicuri che certe frasi un po’ arzigogolate significhino realmente qualcosa, prevale la sensazione di leggere un romanzo d’appendice con morale e buoni sentimenti annessi.
Il potenziale politicamente scorretto, che avrebbe fatto la differenza, resta sostanzialmente inespresso, la ribelle sensualità della protagonista rientra nei ranghi e la verve delle prime pagine sparisce.
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- no
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Tradizioni e superstizioni
Proprio in questi giorni si sta discutendo in Parlamento la legge sul fine vita, questione che genera fra qualcuno molte perplessità, eppure le tradizioni popolari (come quella riportata in questo libro) ci insegnano che anche l'eutanasia è una pratica che in qualche modo è sempre esistita.
Il romanzo è davvero molto evocativo: sembra davvero di stare negli anni '50 in un paesino sperduto in Sardegna, in un'atmosfera che a tratti è misteriosa e a tratti invece molto familiare. Maria, ultima nata in una famiglia povera, viene data volentier in adozione dalla madre come fill'e anima a una donna anziana e sola. Maria con Tzia Bonaria Urrai crescerà in un clima completamente diverso da quello che aveva a casa sua: affetto da parte della donna, rispetto ma anche cultura (Maria ha la possibilità di studiare e imparerà a fare la sarta) ma allo stesso tempo rigore da parte della donna, che nasconderà una parte di sé alla figlia adottiva. Bonaria Urrai è infatti un'accabadora, una donna che interviene per aiutare il destino a compiersi: portare una fine benevola a una vita divenuta troppo sofferente. Quando Maria scoprirà questa cosa, il loro rapporto si incrinerà ma ci sarà sempre un filo a tenerle legate fino all'ultimo.
Il romanzo è molto scorrevole, lo stile è molto elegante ma allo stesso tempo semplice. Leggendo questo libro non ho faticato a immaginarmi in una Sardegna dell'epoca tra folklore e tradizioni (o superstizioni) popolari. Anche nella descrizione dei personaggi o delle vicende, si lascia volutamente sempre un non detto che crea un alone di mistero e che invita il lettore a immaginare ma anche a riflettere.
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Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono
Anni ’50, Soreni, Sardegna. Maria Listru, figlia di Anna Teresa Listru, è una fill’e anima. Quarta e ultima nata, viene adottata da Tzia Bonaria Urrai, nubile benestante e sarta di facciata. Sono i lustri in cui nell’entroterra sardo è diffusa la pratica del “fillus de anima” ovvero di quell’accordo ingenerato tra privati per cui si manifesta l’affidamento volontario e consensuale di un figlio da parte dei genitori a terze persone. La piccola si ritrova così in una nuova casa, con nuove regole perché quelle della madre adottiva sono legge di Dio e come tali vanno rispettate, e con uno spazio tutto per sé. L’anziana, resasi conto delle condizioni economiche e affettive in cui la giovane è vissuta, inizia un vero e proprio lavoro di ricostruzione, un lavoro atto a creare prima di tutto un rapporto di amore, di rispetto e di famiglia.
E quello che si instaura tra le due, è un legame fortissimo. Bonaria dona alla bambina istruzione, saggezza, intelligenza, severità, affetto e generosità, tanto che questa ha tutti gli strumenti per crescere sana e responsabile, ha tutti gli strumenti per crescere nella consapevolezza che alcune cose possono essere fatte, mentre altre, no. Questi concetti, purtroppo, non sempre e non necessariamente coincidono con l’idea filosofica del giusto e dello sbagliato.
Ma l’opera non si esaurisce con quanto sino ad ora esposto. Attorno alla figura di Bonaria si cela il mistero, il segreto. E’ oggetto e destinataria di domande, domande alle quali non può essere data risposta, domande, ancora, che semplicemente non possono essere poste. Maria si impegna a mantenere il silenzio, a domare la curiosità. Non sa spiegarsi il perché di quelle improvvise uscite notturne, ma sa anche che l’anziana è stata categorica in merito. Quando scoprirà quel che davvero si cela dietro la sua figura, quel che queste sortite notturne hanno ad oggetto, resterà destabilizzata e si staccherà da quel ventre materno che l’ha tirata sù per ritornarvi soltanto dopo aver maturato, soltanto quando alcuna parola è più necessaria perché ogni silenzio vale più di ogni verbo espresso.
Caratterizzato da un linguaggio curato, fluente, quasi magico, uno stile narrativo capace di far rivivere le tradizioni, le superstizioni e le credenze della cultura sarda, “Accabadora” è un romanzo che si auto conclude in appena una giornata ma che lascia il segno. L’intero suo scorrimento è caratterizzato da quell’alone del mito, della fiaba mixato alla trattazione di argomenti attuali ed infine, alla dimensione eterna. Quest’ultima è quella che parla dell’orgoglio, dei doveri di una figlia verso la madre e della madre verso la figlia, della vita, del significato che le attribuiamo, di quando questa perde quei connotati che siamo soliti riconoscere quali elementi giustificativi di dignità e di vivere.
«Perché Arrafiei era andato sulla neve del Piave con scarpe leggere che non servivano, e tu invece devi essere pronta. Italia o non Italia, tu dalle guerre devi tornare, figlia mia»
«Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono solo conferma»
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Nascere, vivere e morire.
Nella Sardegna al trapasso tra il mondo contadino e la società dei costumi moderni si dipana una storia in cui le protagoniste sono donne. Un’accabadora, colei che finisce, l’ultima madre che accompagna i moribondi al loro destino con un gesto di pietà e sollievo. Una bambina, poi ragazza e donna, che dall’accabadora viene adottata, salvata da un destino di indigenza e con il beneplacito della sua madre naturale.
È un universo di valori lontani dalle prospettive moderne, valori che popolano l’orizzonte duro di una società abituata a far fronte alla miseria.
Su questo sfondo si svolge una vicenda che assume i toni di un romanzo di formazione. Un romanzo che parla di un modo tanto diverso dal nostro di concepire la famiglia, la vita e la morte, i ruolo dei sessi, ma al contempo capace di mostrarlo naturale e condivisibile: se una donna non sa di che sfamare il proprio figlio è normale che un’altra lo prenda come proprio; se alle sofferenze di un malato non c’è più rimedio è naturale aiutarlo a mettervi fine.
Lineare l’intreccio, da potersi quasi dire povero, ma sostenuto da uno stile magistrale, evocativo, capace di gonfiare il significato delle parole. Non manca quel tentativo di ritrovare una lingua primitiva, ancestrale, che lasci trasparire i toni e i suoni di un mondo lontano, sì, ma la cui memoria, con qualche sforzo, può ancora essere ritrovata.
Da leggere senza dubbio.
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Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo
Maria ha sei anni, è la quarta ed ultima figlia indesiderata di una vedova disattenta e scostante. Vive a Soreni, un minuscolo paese dell’entroterra sardo.
Il romanzo è ambientato in un periodo storico nel quale, in certe località, era diffusa la pratica del “fillus de anima”, un accordo privato che prevedeva l’affidamento volontario e consensuale di un figlio ad altre persone.
Maria viene “adottata” da Tzia Bonaria Urrai, l’anziana sarta del paese, una misteriosa nubile che tutti sembrano osservare con rispetto e timore.
Tra le due nasce un legame forte. Bonaria dosa saggezza, affetto e severità, permettendo alla bambina di crescere sana e responsabile, consapevole che ci sono cose che possono essere fatte, limiti da non superare e domande che non devono essere poste. Per questo Maria resta in silenzio, soffoca la curiosità, quando scopre che a notte fonda alcune persone bussano alla porta di Bonaria e vede la madre adottiva uscire avvolta nel suo solito vestito nero. Nella piccola comunità di Soreni tutti sanno tutto di tutti ed il conteggio delle dicerie ha raggiunto cifre incalcolabili, ma una tacita consapevolezza impone la presenza di segreti che devono restare tali, per non compromettere la convivenza comune
Un aspetto che colpisce è l’ambivalenza temporale del romanzo. L’attaccamento alle antiche tradizioni, la superstizione spirituale, la descrizione di una natura onnipotente che sovrasta l’essere umano, donano al testo una dimensione arcaica, mitica, fiabesca, collocabile nel secondo dopoguerra.
Allo stesso tempo Michela Murgia tratta argomenti complessi ed attuali, come l’eutanasia, periodicamente alla ribalta delle cronache nazionali.
Con altrettanta curiosità ho notato la disparità caratteriale che divide le figure femminili da quelle maschili.
“Accabadora” è infatti un romanzo incentrato sull’universo femminile. La parte attiva della trama, le decisioni, le azioni compiute, hanno come uniche protagoniste le donne.
Gli uomini, sia per motivi caratteriali che fisici o psicologici, si trovano tutti in una condizione passiva, di reazione più che di azione.
Ho apprezzato meno la parte che precede il finale, un cambiamento di scenario fin troppo sbrigativo e che aggiunge un’ulteriore, eccessiva, tematica importante ad un testo che fino a quel momento si regge su un equilibrio perfetto.
Ma questo aspetto non scalfisce particolarmente il valore di un romanzo importante, maturo e ben scritto, vincitore del Premio Campiello nel 2010.
“Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere quando qualcuno se ne accorge”.
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L’ultima madre che molti hanno visto
Tzia Bonaria Urrai è l’Accabadora di Michela Murgia.
Di giorno pratica l’attività di sarta (“In ginocchio con il metro di pelle si muoveva rapida come un ragno femmina”).
Di notte conduce una doppia vita (“Ha chiesto lui di me?”).
E interpreta un ruolo (“Io sono stata l’ultima madre che molti hanno visto”) che la vita (“Eroe era il maschile singolare della parola vedove”) e la collettività con le sue pratiche ancestrali le hanno assegnato.
Maria è una ragazza intelligente, rifiutata dalla madre naturale per una sorta di “aborto retroattivo”, manifesta il suo disagio con piccoli ingenui furti. Viene accolta nella casa di Bonaria come “fill’e anima”.
Quando scopre la vera identità di accabadora della propria madre adottiva, si ribella, insorge, fugge… salvo tornare per adempiere ai suoi doveri di riconoscenza nell’occasione dell’agonia della madre adottiva.
Ho trovato molto interessante sul piano etnologico la ritualità di una pratica primitiva (“Gli avete tolto le benedizioni di dosso?”), che in fondo pone gli stessi temi etici dell’eutanasia scientifica.
Altrettanto efficaci sono le rappresentazioni dei riti (“L’attittadora attaccò allora un pianto simile al canto”) e delle liturgie della Sardegna rurale degli anni cinquanta.
Lo stile (“Molte delle cose che accadono non sono che parodia delle cose pensate”) calza a pennello la storia narrata, che ha un notevole impatto emotivo per il tema trattato.
Giudizio finale: etnico, coinvolgente, problematico.
Bruno Elpis
La morte, solo la morte
Questo è un romanzo sulla morte, sulla vita, su una ragazza, Maria, "nata due volte", ("Fillus de anima. E' così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra") e su una anziana donna, "Tzia" Bonaria Urrai, che tutti in paese sapevano essere l'accabadora, ossia colei che dà la morte, la morte dolce, ai moribondi. E non solo a loro...
Morte dolce. eutanasia, in Italia è da decenni che se ne discute, ma non è servita neanche la morte dolce "assistita" di Piergiorgio Welby (20 dicembre 2006) ad acceleare i tempi di una legge sul fine vita, che ancora non c'è.
In questo bellissimo romanzo, la Murgia affronta alcuni temi, che per lo più sono tabù, o quasi, e lo fa con un italiano perfetto, sebbene infarcito di termini della sua "lingua " madre, il dialetto sardo delle parti dove è nata lei, Cabras; a me il romanzo è piaciuto moltissimo, mi ha fatto conoscere aspetti della cultura sarda che non conoscevo affatto, mi hanno impressionato tutti i personaggi del libro, sia le protagoniste, da Maria, a Bonaria, alla maestra torinese, che i protagonisti maschi, da Nicola, ad Andrìa a Piergiorgio; mi ha fatto riflettere su quanto certe tradizioni siano importanti per mantenere in piedi certi tessuti sociali, fondati su valori che a noi sembrano sorpassati, ma il nostro progresso non ha saputo sostituire con valori altrettanto forti.
Mi è piaciuto molto che Michela Murgia non abbia preso posizione su civiltà contadina, di se "era meglio allora" o adesso, ma si è limitata a riportarci, con grande maestria, un pezzo di storia italiana, degli anni '50, e di una cultura a noi continentali del tutto "straniera".
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La morte e le donne
Apprezzo la ricerca seria e dignitosa di Michela Murgia intorno all’umano spirituale e religioso. L’accabadora è una figura ancora una volta femminile, dalla natura selvatica, che accompagna, che strappa il futuro dal grembo della vita, aiutando a morire. La sua presenza è riconosciuta come autorità. Attraverso le sue azioni, il destino di vita e di morte si manifesta come cura.
L’accabadora si muove sospesa fra la pietas dinanzi al dolore di una vita che fa male e la complicità scellerata con la parte onnipotente di ogni persona.
“In quella prima e amara scuola di fatto, la figlia di Taniei Urrai apprese la legge non scritta per cui sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine… A quindici anni Bonaria era già in grado di capire certe cose, farle o vederle fare è la stessa colpa, e mai da allora le era venuto il dubbio di non essere capace di distinguere fra la pietà e il delitto.” p.93
Di chi siamo fill ‘e anima? Attraverso codici e rituali che la comunità richiede per difendersi, l’accabadora, nera e dolente, è vicina e ascolta. Coniuga il tr?d?re come trasmissione, affidamento, resa e narrazione. E, quindi, infine, tradisce, senza salvare davvero nessuno. Non salva nessuno, l’accabadora, perché evita l’attraversamento.
Leggiamo di terre sarde maledette, di voci imprigionate, di anime impazzite che lottano, di persone che si vedono ma non si distinguono. Non c’è una ragione perché la morte sia considerata una soluzione. “Gli studiati” perdono nel confronto con l’accabadora che si rivela madre adottiva intuitiva, cinica e normativa.
“Non metterti a dare nome alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare, e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti.” p.116
L’accabadora esprime la scelta che manifesta la peggiore hybris, la sfida contro gli dei incomprensibili e, insieme, si rivela come servigio di accompagnamento oltre il dolore, opera non retribuita verso l’altrui paura.
Per chi resta, non esiste la morte dolce. Con l’amore, la morte rimane, silenziosa, lentamente, a vegliare sui desideri di vita, a insegnare che non esiste libertà di vivere o di morire, a mostrare le libertà di stare al mondo per quello che è e per quello che siamo. Pazientemente.
“Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima.” p.92
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QUALE ETICA? QUALI SCELTE?
ACCABADORA
La storia di Maria, figlia di anima, e di sua madre è un racconto potente e dai contenuti finemente celati. Ambientato nella Sardegna rurale degli anni cinquanta, sullo sfondo di un paese, Sorali, in cui usi e costumi sono parte integrante e fondamentale della vita quotidiana, il racconto narra della vita di Maria, "adottata" a sei anni da Tzia Bonnaria, quando l' adozione sembrava più un passaggio di oggetti da una famiglia all' altra o un semplice problema di comodità, della sua crescita e maturazione, fino alla sconvolgente scoperta su Tzia Bonnaria con la quale aveva intessuto un legame fortissimo che sembrava indissolubile.
Tzia Bonnaria è l' Accabadora, colei che finisce, colei che aiuta a morire chi non riesce ad abbandonare la vita terrena con le proprie forze. Un ruolo in società rispettato e temuto da tutti, Una figura accettata perfino dal prete del paese che col suo silenzio assenso, di fatto accetta l' Accabadora ed il suo compito.
Maria, di fronte a dilemmi etici e morali si scontra con la realtà non accettando il ruolo svolto dalla madre tantomeno il ruolo in se. Ma sarà la vita con la propria schiacciante realtà a farle rimettere tutto in discussione.
Michela Murgia, attraverso un interessantissimo spaccato isolano degli anni cinquanta, affronta temi attualissimi e delicatissimi, quali adozione ed eutanasia, con la destrezza ed il tatto di una scrittrice vera. La sua sensibilità non inganni però, questo è un libro forte, come solo le penne sensibili possono creare.
Il racconto può essere a tratti acerbo ma lo stile ed i contenuti sono preponderanti.
Scrittrice vera la Murgia ed in evoluzione.
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Non dire mai: di quell'acqua io non ne bevo.
Devo ammettere che non è facile esprimere un giudizio su questo libro perchè sicuramente è un romanzo che merita di essere letto ma nello stesso tempo è ben lungi dalla perfezione.
Cominciamo con i pregi: anzitutto lo stile di scrittura, elegante, diretto, periodi ben articolati con una scelta molto attenta ed efficace dei termini, direi che andrebbe letto ad alta voce per apprezzarne la musicalità delle parole.
Poi l'ambientazione: le tradizioni, i costumi, la gente, l'aria della Sardegna traspira da ogni pagina del libro... e per chi come me ha avuto la fortuna di visitare l'isola in lungo ed in largo, soprattutto l'entroterra, è facile ricostruirsi nella mente quei luoghi, che sembrano quasi essere immuni al trascorrere del tempo, e che neanche la 'civiltà' ed il turismo dilagante lungo la costa sembra riuscire ad intaccare.
Gente meravigliosa, quella della Sardegna: ospitale, affabile, generosa ed estremamente rispettosa delle tradizioni. E la storia ruota proprio intorno a due usanze che la nostra civiltà, quella del 'continente' non potrebbe mai accettare e giustificare ma che in questo borgo isolato dal resto del mondo sono tacitamente consentite, personificate nelle due figure femminili protagoniste del romanzo, Maria, la fill'e anima, e Bonaria, l'accabadora.
E' una storia che coinvolge ed incuriosisce perchè racconta il rapporto tra queste due donne "particolari", una 'madre' ed una 'figlia' fuori dal comune e soprattutto fuori da quello che noi siamo abituati a considerare come etico, morale.
Maria, la fill'e anima, una figlia che nasce una seconda volta perchè affidata dalla madre naturale alle cure di un'altra donna che diventa a tutti gli effetti la sua seconda madre, come se il cordone ombelicale venisse reciso una seconda volta; e nel caso di Maria, la sua seconda nascita sembra quasi una grazia, una fortuna inattesa, per lei che era destinata ad essere considerata da tutti come "l'ultima", la quarta e non desiderata figlia dopo altre 3 sorelle maggiori e già praticamente accasate.
Bonaria, invece, la sua madre acquisita è un'accabadora, colei cioè che seguendo un rituale preciso "aiuta" a morire chi ormai non ha più speranze di condurre una vita degna di essere chiamata tale, perchè dilaniata dal dolore e dalla sofferenza; è una sorta di 'ultima' madre, perchè tutti noi nella nostra vita incontriamo ogni giorno madri e padri nuovi, persone che intervengono nel nostro destino plasmandolo, visto che nessuna delle nostre scelte dipende esclusivamente da noi, neanche la nascita. E spesso nemmeno la morte; l'accabadora è l'ultima madre, colei che segna l'ultimo giorno.
Si tratta perciò di un rapporto molto particolare quello che s'instaura tra Maria e Bonaria: offre diversi spunti di riflessione e viene inizialmente affrontato in modo perfetto, senza inutili retoriche e ben calato nel racconto e nello sviluppo della vicenda.
Però poi c'è una brusca interruzione, l'autrice crea una svolta nella storia, a mio parere del tutto inutile ed evitabile, tanto più che rimane una parentesi isolata, come se fosse una piccola storia all'interno della trama principale ma del tutto scollegata da questa. Ed anche il finale secondo me ne risente negativamente, perchè perde la carica emotiva, l'intensità delle prime pagine risultando quasi banale e scontato.
Rimane comunque un'ottima lettura.
Se non altro per alcune perle di saggezza popolare:
"Non dire mai: di quell'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata".
"Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell'anima."
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Di quest’acqua io non ne bevo
Ammaliati dal fascino di una Sardegna anni cinquanta ci perdiamo tra vigneti e campi di grano, accarezzati dalle piacevoli brezze che spirano dal mare portando le strida degli uccelli e spargendo nell’aria l’odore delle stoppie tagliate. Ci tuffiamo in un mondo pieno di calore e colore, dove tradizioni forti e radicate nel tempo regolano ancora la vita dei piccoli centri di provincia come Soreni. Circondati dai succulenti profumi di pane caldo e fichi infornati, di gueffus, di porcetto e di culurgiones conosciamo i riti del fidanzamento, del matrimonio, dei funerali e del lutto, le figure centenarie dell’attittadora, dei fill’e anima e dell’accabadora. Trasportati dalla penna dolce e sensibile di Michela Murgia e dal suo linguaggio curato e arricchito dalle inflessioni dialettali ci troviamo coinvolti in storie di terre che parlano di chi le possiede, di asti, invidie e rivalità che ergono confini di basalto nero, di muri che piangono e camminano, di fucili che sparano con troppa facilità. Entriamo nella vita di Tzia Bonaria e della piccola Maria, eterna vedova l’una ed eterna ultima l’altra, legate da un sodalizio che va al di là del normale rapporto tra madre e figlia. L’anziana sarta però nasconde un segreto che, quando verrà scoperto dalla ragazzina, provocherà tra le due una rottura apparentemente insanabile. Ma nel momento del bisogno i contrasti verranno messi da parte e l’amore e la devozione che legano Maria e Bonaria avranno la meglio. La ragazza saprà saldare il suo debito di fill’e anima, valuterà diversamente la controversa figura della madre adottiva e comprenderà finalmente ciò che la donna intendeva dirle quando, tre anni prima, nel momento della sua partenza, la salutò con queste parole: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”.
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IL SENSO DELLA VITA
Bel libro, breve ed intenso, che all'inizio ammalia il lettore, mentre nel proseguio s'intravede uno stile asciutto, scarno ed essenziale, ci si porta fuori dalla Sardegna per una Torino un po' sbiadita. Vengono descritte atmosfere di una antica ed unica terra, la Sardegna, in cui sembra si ritrovino i profumi delle campagne dopo il tramonto, i costumi della gente nella quotidianità, il linguaggio della popolazione che parla ancora il latino e che di questa lingua ne ha conservato gran retaggio. Molte le chiavi di lettura per una storia, originale e cruda, che fa meditare sull'essenza della vita, l’appartenenza al territorio, l’istruzione e il significato del lutto, che tocca con garbo argomenti delicati come quelli dell’adozione e dell’eutanasia: temi, questi ultimi, che pongono frequenti domande e molteplici risposte.
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Uno scorcio di autentica Sardegna
Essendo io Sarda, non potevo non leggere un romanzo che, tra l'altro è stato tanto pubblicizzato e, più che meritatamente, premiato! Ho quindi iniziato a leggere Accabadora un po' per il "dovere" che mi sentivo di farlo e mi sono invece trovata a divorarlo nel giro di 3 giorni scarsi!
Lo stile della Murgia è veramente coinvolgente ed affascinante con tutte quelle descrizioni di luoghi, persone ed usanze della sua (e mia) terra...forse mi è piaciuto così tanto proprio perché già conoscevo l'ambiente da lei descritto, i detti, la mentalità contadina, la festa del fidanzamento, i procedimenti della preparazione dei dolci tipici, l'abbigliamento, il rito de "s'attitu"...e la adoro per aver fatto scoprire un pezzo di autentica Sardegna anche ai "continentali"!
Inoltre, la semplicità e la naturalezza con cui tratta un argomento così delicato e tabù (ora come allora) come quello dell'eutanasia, ed il modo con cui riesce così bene ad amalgamarlo alle vicende semplici di un paesino immaginario degli anni '50 come Soreni, è stupefacente!
In conclusione, un romanzo molto coinvolgente sia nello stile che nel contenuto, che porta a riflettere su questioni di un certo spessore, ma senza far pesare troppo la complessità dell'argomento.
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Accabadora
"Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata."
Con grande maestria ci viene raccontata una storia particolare che si svolge in Sardegna: Tzia Bonaria decide e sceglie in un'istante di prender Maria con sè per diventare sua fill'e anime (figlia adottiva), facendo chiacchierare e non poco, il piccolo paesino di Soreni.
Maria capirà subito che Tzia Bonaria è una persona particolare, unica e preziosa, e scoprirà a seguito di un avvenimento, che nasconde un segreto che è difficile da confessare e da accettare.
Proprio le cose non dette porteranno ad una spaccatura del loro rapporto, ma solo momentanea, le due donne alla fine si ritroveranno, Maria accetterà ciò che le sembrava intollerabile.
Un libro che tratta un argomento delicatissimo, quello dell'eutanasia, con garbo,sapienza e accortezza, bravissima la Murgia!
"Non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada, Maria, e tu dovresti saperlo."
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Umanità o crudeltà?
Romanzo ambientato nella Sardegna degli anni ’50.
La protagonista è Bonaria Urrai, l’accabadora, cioè colei che pone fine alle sofferenze degli anziani malati terminali, donna saggia, riservata e dall’aspetto austero.
È un lavoro notturno gratuito, sussurrato ed invocato nei momenti di dolore e disperazione.
Ma Bonaria non è sola, ha una fill’e anima di nome Maria, che nulla sospetta della seconda occupazione della madre adottiva, di giorno sarta, fino a quando una tragedia porta tutto a galla.
Come può spiegare la propria missione di ultima madre che una persona vede prima del trapasso? Non riesce a farlo, tanto che Maria fugge a Torino per rifarsi una nuova vita.
Ma i conti in sospeso devono essere saldati e la figlia d’anima tornerà a metter mano al destino dell’accabadora.
Ringrazio chi me lo ha prestato.
Tratta un tema delicato, l’eutanasia, con umanità, pietà e senza pretese.
L’autrice inserisce alcune espressioni e tradizioni sarde, ma non intralciano la lettura, anzi la caratterizzano. L’inizio è lento e calmo, si lascia godere.
La figura dell’accabadora, per alcuni leggenda e per altri realmente esistita, incute un timore reverenziale.
Un libro che merita di essere letto, scatena emozioni e riflessioni; anche la copertina, secondo me, cattura l’attenzione del lettore.
“Perché il lutto di una famiglia risvegliava la memoria mai sopita di tutti i lutti passati”
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Le cose che vanno fatte
Ci deve sempre essere un luccichio per trascinarci emotivamente verso qualcosa o qualcuno, qualcosa di indefinito, magico, soprannaturale, così io definisco il mio rapporto con i libri, un rapporto intangibile di attrazione come il Sole con la Terra.
In questo caso è stato il suo titolo a fare da attrazione, non provenendo dalla Sardegna, non possedevo elementi di comprensione. Ma il mio sesto senso, anche questa volta non mi ha abbandonato. Una storia triste ma al contempo dolcissima, una donna rimasta vedova ed avanti con l'età decide di prendersi in casa una bimba, Maria forse non desiderata, non amata, venuta dopo il tempo massimo, ma questa si rivelerà la sua fortuna. Quando si dice che i figli non sono di chi li partorisce ma di chi li cresce, niente di più vero. Maria così avrà una vita migliore, una stanza tutta per sé, pasti regolari, vestiti, istruzione, affetto e buoni consigli. Dalla sua famiglia di origine verrà schernita sempre per il suo troppo-inutile sapere, ma la matassa si aggroviglia quando iniziano a calare dei misteri sulle inspiegabili assenze notturne di Tzia Bonaria. Bonaria, lo si capisce molto in avanti con la lettura, aiuta le persone degenti e sofferenti da lungo tempo ad una veloce dipartita. Come la Murgia ci presenta Bonaria non si riesce a condannarla o giudicarla, se solo lo si volesse fare, ma nel prosieguo della lettura la si accetta ed avrà in maniera acquiescente il nostro bene placido. E' vero che alcune tematiche, anche le più spigolose, se scritte e raccontate in un determinato modo acquisiscono un sapore totalmente diverso. Non si riesce a condannarla forse perché alla piccola Maria oltre ad aver dato tutto ciò che le serviva per crescere bene, le ha donato le armi per fronteggiare il mondo e per avere un posto nel mondo, insegnandole un mestiere, quello di sarta, sarà quello che farà da grande.
Quando la ragazza scoprirà ciò che per lunghi anni ha sempre fatto Tzia Bonaria, avverrà la rottura. La separazione durerà qualche anno, in questi anni Maria crescerà , lavorerà, cercherà di dimenticare il suo passato, ma non servirà a nulla, dovrà ritornare, Bonaria sta male. Al suo capezzale giorno dopo giorno, Maria non comprende ancora le ragioni di Tzia Bonaria, come per un insegnamento sarà un'agonia lenta e inesorabile, la sua vita diventerà come uno sgocciolio di una fontana rotta. Solo allora Maria capirà il senso delle parole della madre:”non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza e non sapere come ci sei entrata.” Ciò che si deve fare verrà fatto prima o poi, ciò che deve avvenire avverrà. La scrittrice ci ha donato un grande libro, di una semplicità sconcertante, si lascia leggere velocemente e intensamente, siamo sopraffatti dalla lettura. Ogni libro è una persona, ogni persona è una storia, ogni storia è un batter d'ali .
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L'ultimo atto d'amore
Un libro di una intensità dolorosamente importante...L'ultima madre è il dono che attraverso una pratica diffusa in una realtà di estrema povertà, Dio ha voluto fare a Maria, l'ultima figlia...una bimba che dimostra il suo bisogno d'amore rubando cose che già ha...e che cresce fino alla consapevolezza di non essere mai andata via, di non aver mai abbandonato la sua famiglia, i suoi affetti, per cercare una "vita diversa". Le lacrime che solcano il volto di Bonaria Urria, l'accabadora, l'ultima madre, lasciano il segno di una scelta difficile, eticamente e religiosamente inaccettabile, ma vissuta come atto d'amore verso chi implora la pace, e impone il perdono di chi questo amore è stato costretto a perderlo. Come l'amore profondo di Maria, che glielo rende fino in fondo, dopo averlo ricevuto gratuitamente in un giorno in cui andò via assieme a lei e ad una torta di fango,un giorno in cui "intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci qualche motivo per piangere", ma non riusciva a farselo venire in mente....
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Colei che finisce
Una storia emotivamente cruda, in cui leggi non scritte, rimangono ancora radicate in una cultura legata ad antiche tradizioni. Due figure su tutte emergono nel romanzo, quella di Maria Listru e di Bonaria Urrai. Maria, all’età di sei anni acquisisce la condizione di “Fillus de anima”; la madre, vedova, non essendo in grado di sfamare le quattro figlie, accetta senza traumi la richiesta dell’anziana Bonaria di avere Maria in figlia. La vecchia donna, in paese è guardata con rispetto e malcelato turbamento per quello che sanno di lei ma che rimane, almeno all’inizio, oscuro per Maria la quale crede che facesse la sarta. “Se si ha bisogno di aiuto per nascere, lo si ha anche per morire”, questa la filosofia di vita di Bonaria Urrai. Il legame tra le due donne, fa nascere a Maria la consapevolezza del lutto e del dolore ma, allo stesso tempo, vive il rapporto ponendosi interrogativi sulle uscite notturne della madre adottiva, interrogativi che porteranno a scoperte drammatiche. La bravura della scrittrice risalta sin da subito per la sua scrittura ricercata, permeata dalla lingua sarda, rendendo storia e personaggi impregnati dalla cultura isolana che danno fascino al romanzo. È un libro che per il suo linguaggio ti adesca non solo perché si fa leggere ma perché ti fa entrare e partecipare celatamente alle scene e lo stupore che ne deriva non ti permette di lasciare quelle scene fino alla fine. Stupendi alcuni passaggi in cui è protagonista Bonaria Urrai; la saggezza dell’anziana donna serve a farci riflettere su temi importanti come l’appartenenza, l’istruzione, il senso della vita e il significato del lutto. Michela Murgia ci richiama al significato di “Accabadora”, che da il titolo al romanzo: una presenza interiore tracciata di interrogativi senza risposte se non quella di prendere coscienza della sofferenza e della pietà. Credo, onestamente, che il premio Campiello se lo sia meritato.
Siracusa 10-9-2012
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tra antico e moderno
Accabadora è un romanzo che si fa leggere con scorrevolezza innata. L'autrice in questa storia sospesa tra antico e moderno, un occhio alle tradizioni di una Sardegna arcaica e un altro a un tempo moderno e lontano ( la seconda parte del romanzo) traccia una storia al femminile appassionante lasciando un'aura di mistero che viene svelata al lettore piano piano.IL punto di vista adottato è quello di Maria, la fill'e anima dell'anziana accabadora ed è solo attraverso i suoi occhi che ci viene svelata la verità su Bonaria Urrai, l'anziana donna che se l'è presa in casa.
Il lessico semplice e ricercato al tempo stesso, fanno di Accabadora un romanzo quasi colto da usare come opera di narrativa nelle scuole e sicuramente destinato a permanere nel panorama della letteratura italiana contemporanea. Da leggere e da conservare nella biblioteca di casa.
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Donne a confronto
Non ho letto recensioni prima di leggere il libro quindi non sapevo di cosa trattasse. Rimango folgorata dalla prima pagina, dalla descrizione della bambina ceduta, dei fill'e anima. E poi tutto è un crescendo di emozioni che ho trattenuto sotto l'ombrellone quest'estate. Stile sopraffino senza cedere alla prolissità...Ottimo. Meravigliosa anche la descrizione della permanenza a Torino della protagonista.
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Il Talento di Murgia
La prima difficoltà in cui mi sono imbattuta iniziando a leggere questo libro è stato il titolo. Non c’era verso di ficcarmelo in testa.
Cosa stai leggendo? Abbacadora… Acabbadora… insomma, quello lì della Murgia.
Eppure l’avevo scorto dalla quarta di copertina che in spagnolo “acabar” significa finire e che in sardo “accabadora “ è colei che finisce. E come il titolo, in partenza, mi ci è voluto un discreto tempo di pagine per intrufolarmi nel linguaggio. In questo linguaggio nudo e crudo che non è prettamente sardo ma che cammuffa il sardo con un buon italiano in grado di richiamare luoghi e credenze, persone e vicende. Lo stile poi è di quelli che mi catturano: svelto, scorrevole, con delle descrizioni che mi piace chiamare “sul momento”, ovvero schizzi veloci e precisi come di un pittore che ha voluto fermare un particolare in un paesaggio; e soprattutto i dialoghi sono della lingua parlata, senza abbellimenti né ammanchi a quanto i personaggi hanno detto o avrebbero voluto dire.
Un mondo intero che prende forma sin dalla prime battute; e non è certo facile metterlo su; specie quando il senso di questo mondo, tutto racchiuso in una minuscola comunità sarda degli anni cinquanta, andrà a parare su uno dei temi più dibattuti degli ultimi decenni: la fine intenzionale della vita quando questa non ha più modo né possibilità d’essere vissuta.
Non ci sono volontà eticamente dottrinali nell’autrice, né tantomeno l'intento ipocritamente morale di prendere una posizione: ci sono solo queste due figure femminili incastrate in una ferrea realtà di usi e costumi, dove tutto ciò che è pratica culturalmente accettata è vita comune.
Maria rinasce così una seconda volta, senza trauma alcuno per essere stata strappata alla famiglia d'origine, quando Bonaria Urrai decide di prenderla come figlia d'anima; e rinasce una terza volta quando, in giovane età, prova a ricrearSi nel lontano continente per sfuggire a quella madre adottiva che le ha riconsegnato una vita ma che sa anche accompagnare la morte.
Non c'è soluzione, tuttavia, per fuggire da se stessi: e ciascuno si ritrova in un circolo continuo di amore dato e preso, di vita e, innegabilmente, di morte. Una morte che, a volte, necessita anche di un gesto pietoso d'amore.
I miei complimenti più appassionati vanno a questa autrice: per il modo intenso ed autentico attraverso cui ha saputo porgere la sua meravigliosa terra; per il coraggio nell'affrontare una tematica così delicata e controversa raccontando semplicemente la realtà di un tempo e di un luogo neppure troppo lontani; per il talento indiscutibile nel mettere tra le mani del lettore pagine in grado di prendere forma in base ai movimenti suscitati nell'animo di ciascuno.
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Non male, ma mi aspettavo di meglio
Interessantissima e particolare la tematica trattata in questo libro, quella della morte volontaria, nei nostri anni definita eutanasia. Ma ancora più interessante è apprendere che nella Sardegna degli anni '50 questa era una pratica comune, affidata ad una persona che svolgeva l'incarico come se fosse un mestiere. Il libro è scritto molto bene (a parte la caratterizzazione dei personaggi che non mi ha soddisfatta), e soprattutto nella prima parte la storia mi è piaciuta in modo particolare, perché è stato come entrare a far parte degli usi e costumi antichi del popolo sardo, che a me personalmente erano del tutto sconosciuti. Oltre alla figura dell'Accabadora, è stato anche molto interessante conoscere l'usanza dei fill'e anima (figli dell'anima), quei bambini adottati senza alcuna forma di regolamentazione giuridica, e che di fatto venivano allevati dai genitori adottivi ma senza perdere contatti con i genitori naturali.
Poi però, nella seconda parte del libro, devo ammettere di non aver apprezzato per niente la parentesi torinese. Le prolisse descrizioni degli anni vissuti lì mi hanno profondamente irritata, perché tentavano di sviare dalla storia principale con particolari talmente inutili che ho pensato che quella parte fosse necessaria solo per allungare il libro (altrimenti forse troppo corto) di un altra ventina di pagine. E dopo questo inutile interludio, che ha avuto solo il potere di congelare il mio interesse iniziale per la storia, anche il ritorno in Sardegna con relativo e agognato finale mi ha lasciata un po' fredda e indifferente.
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Accabadora
Non si dimenticheranno mai Maria e la vecchia Bonaria, non si è madre solo con il parto, anzi, quando si sceglie con il cuore il legame è molto più forte.
Quando mia madre stava morendo e soffriva anche io tanti anni fa ho pensato che porre fine alla sua sofferenza sarebbe stato un atto di amore. Una madre che ti accompagna alla fine.
Michela Murgia ha toccato il mio cuore ed il cuore di molti altri.
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Humanitas
Nonostante sia sempre prevenuta verso i giudizi entusiastici e le lodi sperticate, devo riconoscere: è fondo e sapido questo romanzo della Murgia.
Bella la scrittura, vischiosa, pastosa. Frasi di una densità e di una forza espressiva straordinaria, materia vitale.
"Tra quelle pieghe di gonna e di donna Maria intuì per la prima volta la bellezza che non era più, e la ferì l'assenza di qualcuno che ne conservasse memoria."
La scrittura trascina dentro una storia che è insieme archetipa e nuova.
La Sardegna nella quale si muovono i personaggi non è arcaica, siamo tra gli anni '50 e gli anni '60, eppure.
Soreni è un paese immaginario, eppure.
I personaggi hanno un che di ancestrale e "mitologico", eppure.
Il mondo ancora intriso di superstizione, di ritualità antiche, sanguignamente descritto dalla Murgia si riempie di senso e di sensi moderni.
Solo per indicare i filoni principali.
Accabadora. Eutanasia.
Fillus de anima. Adozioni.
E' un libro sul "confine".
Il confine è violato da un muretto con una "fattura", e la rabbia sconfina in vendetta, in fuoco, e scivola poi nella vita da morti.
Il confine è segnato dal mare che inghiotte i ricordi, ma i ricordi anche quando sono pesanti come pietre tornano a galla, e nessun mare, neanche un mare di tempo lungo trentacinque anni, o un parco mai più oltrepassato, li può trattenere sotto.
Il confine, tra vita e morte, tra le cose che si fanno o non si fanno (giusto o sbagliato sono "categorie che non trovano posto" nel mondo in cui Maria era cresciuta, ma in quanti mondi giusto o sbagliato sono categorie vuote ), si sente, si sa.
Occorre semplicemente che arrivi il momento.
Sotto lo scialle nero dell'accabadora vi è la pietas, l'humanitas.
L'ultima madre non è meno amorevole della prima.
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5°: Non uccidere!
Con stile scarno ed essenziale, l'autrice ci presenta questa storia in cui il sapore acre delle tradizioni si mescola con la violazione secondo me, più grave , quella al quinto comandamento: non uccidere...Non che io sia particolarmente religiosa, ma devo dire che questo libro mi ha emozionato e turbato notevolmente...
La storia è la seguente: una vecchia sarta adotta l'ultimogenita di una famiglia numerosa, una bambina trascurata che altrimenti sarebbe vissuta nell'ombra delle sorelle...
Tolta dalla famiglia di origine che poco la considerava, Maria conosce il sapore di essere finalmente la prima, la preferita, unico soggetto di un affetto esclusivo, attenzioni affettuose, istruzione e tutto ciò che una bambina può desiderare nel suo limitato universo di comprensione e di ricerca...
La sarta però nasconde un segreto e le sue uscite notturne, provocano preoccupazione e curiosità in Maria, che per anni si chiederà il senso di questo comportamento materno senza potersene dare una spiegazione logica...
La vecchia enigmatica Bonaria è un'accabadora, cioè una persona che accellera la fine di coloro che non hanno più speranza, che soffrono troppo e con il consenso dei parenti l'agonia di costoro viene abbreviata...
Ci sono delle leggi e dei codici morali a cui la vecchia sarta deve tuttavia sottostare, il malato deve essere moribondo e i parenti d'accordo...
Quando lei infrangerà una di queste leggi morali che la rende bene accetta all'interno della comunità, l'equilibrio che reggeva
questo suo comportamento inusuale si spezza e lei viene travolta dal suo errore...perderà tutto a causa di questo..
Alcune considerazioni personali: sono contraria all'eutanasia, ma non perchè non voglio riconoscere la volontà e la dignità di una morte serena, ma perchè temo che vi siano abusi da parte di parenti che potrebbero decidere al posto del malato quando lui non è più in grado di intendere e di volere...
Detto questo e considerato che la storia viene ambientata in un periodo storico in cui la Sardegna viveva ammantata e chiusa in queste orrende tradizioni, lo si può accettare come triste retaggio di un'epoca in cui il valore della vita umana non aveva ancora raggiunto una giusta e valente consapevolezza.
Consigliato.
Saluti.
Ginseng666
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Accabadora di Michela Murgia
A Bonaria Urrai "non si e' mai aperto il ventre, e Dio sa se lo avrebbe voluto. Tuttavia anche lei aveva una sua parte da fare e l'ha fatta. E' stata l'ultima, l'ultima madre che alcuni hanno visto". Questo e' il fulcro del bel romanzo di Michela Murgia, ambientato prevalentemente nella Sardegna rurale dei primi decenni del '900, dove spesso, qui come altrove, le famiglie naturali in difficolta' cedevano a quelle piu' agiate e senza prole i figli non desiderati o che comunque non sarebbero riusciti a far crescere dignitosamente.
E' cosi' che Maria, intelligente bambina ultimogenita, orfana di padre, viene affidata alla misteriosa e cupa Bonaria Urrai, anziana donna rimasta sola dopo la morte del promesso sposo in guerra nel continente. La vita con la nuova madre tuttavia non e' cosi' dura come potrebbe accadere nelle favole e anzi Maria stringe presto un legame solidale e a suo modo affettuoso con la vecchia sarta, che rimane certamente una figura ambigua e indecifrabile, ma che garantisce alla giovane una vita senz'altro piu' agiata rispetto a quella presso la famiglia di origine, permettendole di proseguire anche gli studi verso i quali la giovane si dimostra molto portata.
Il romanzo procede con stile scarno, che lascia tuttavia spazio a notevoli e incisive descrizioni di luoghi, atteggiamenti e situazioni inerenti la vita della piccola Maria presso la riservata madre adottiva. E un velo di suspence accompagna il lettore nella progressiva consapevolezza di Maria sul vero ruolo della madre adottiva nella societa' locale, in quel microcosmo in cui ogni ruolo e' attribuito dalle circostanze ineluttabili della vita. E la lezione che Bonaria Urrai impartisce alla piccola: "Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo" si rivela quanto mai vera e anticipatrice dei futuri eventi.
Meritatissimo Premio Campiello 2010.
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Eutanasia
Questo libro affronta l'argomento dell'Eutanasia. Decidere per la vita degli altri è giusto o no?
Quesiti che si pone Michela Murgia,scrittrice Sarda.
Amo molto questa Scrittrice piena di Idee e di una grinta invidiabile. Il libro è stato molto pubblicizzato ,e purtroppo mi aspettavo qualcosa di piu. Indubbiamente un ottima idea che poteva essere ampliata e non ridotta ad una storia poi via via sempre piu sfuggente e meno attinente con la trama iniziale( vedi la storia d'amore della Protagonista a Torino). Avrei preferito una spiegazione ulteriore alla figura dell'Accabarora.
Apprezzo comunque l'autrice e l'idea.
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Great expectations
Avevo grandi aspettative per questo libro. Michela Murgia mi sta simpatica, mi ci identifico pure.
Ma questo libro, non mi ha convinta.
Raccontando un mondo che non c'è (quasi) più, la Murgia ci porta in Sardegna alla scoperta di antiche tradizioni e sentimenti sempre presenti.
Maria, la protagonista, è una ragazzina forte e fragile, che diventa figlia dell'anima di una strana donna, con uno strano destino.
Il libro, sia chiaro, mi è piaciuto. Ma francamente credevo meglio.
Credevo di trovare qualcosa che invece non c'è
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Eutanasia alla sarda
Già dopo le prime pagine ho capito che questo è un romanzo da leggere prima con il cuore e poi con la testa, una narrazione stilisticamente eccellente che offre l’immagine di un mondo chiuso, isolano, in cui i gesti hanno una ripetitività ancestrale, in una specie di pellicola in bianco e nero che riporta agli albori del cinema e che è il quadro di un ambiente in una certa epoca.
La tradizione dell’affiliazione di fatto vede unite una bimba, Maria, a una signora che veste il lutto da quando l’amato non ha fatto ritorno dalla prima guerra mondiale, ed è un rapporto fatto di poche parole e di molti silenzi assai più significativi di qualsiasi linguaggio.
Ma Bonaria Urrai, così si chiama la signora, è anche un’accabadora, cioè una persona tanto ricercata quanto temuta che pietosamente pone fine alle sofferenze altrui, in una forma di eutanasia tipicamente del luogo.
Non nascondo che il libro mi ha entusiasmato e avvinto, con quel suo ritmo lento, ma non statico, almeno fino a pagina 119, perché dopo, una volta che Maria scopre quest’attività tenutale prima sempre celata, se ne va, lascia la casa dove ha vissuto gran parte della sua fanciullezza e fugge a Torino a fare la baby sitter.
Ora, se la reazione della giovane Maria è più che comprensibile, del tutto inutile è la narrazione di questo periodo con cui si cerca di cancellare la memoria del passato; sono pagine artificiose, che nulla aggiungono alla storia, e che anzi troncano quell’equilibrio così apprezzabile che mi aveva soggiogato. Da romanzo d’ispirazione classica si passa così a uno scritto quasi insipido, un cambiamento repentino che non giova al libro e che prelude all’ultima parte, con il ritorno di Maria al capezzale di Bonaria Urrai, costretta in un letto per un ictus.
E qualche cosa deve essere accaduto all’autore, perché cade ancora una volta l’omogeneità dello scritto, il ritmo diventa altalenante e si arriva a una conclusione che, fra le tutte possibili, è senz’altro la meno azzeccata.
C’è la volontà di dare a un mondo di naturale dolore un sviluppo positivo che stona con la logica dell’opera, almeno per quella presente nelle prime 119 pagine.
La fretta di chiudere, fra l’altro, svilisce il ritrovato affetto (e forse un giorno amore) fra Maria e Andrìa, quest’ultimo suo compagno d’infanzia.
Si perde, soprattutto, il concetto di come in una vita che si chiude con la morte l’unica cosa che conti è l’amore.
E’ un peccato, perché le intenzioni erano ottime, ma poi si sono perse per strada, e così può anche capitare che un premio (Il Campiello) tributi gli onori non tanto a un’opera coerente, ma solo alle sue intenzioni.
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Accabadora
In un paesino della Sardegna degli anni '50, vive l'anziana Tzia Bonaria, ossequiata e rispettata, forse temuta, da tutti e sua "figlia d'anima" Maria di sei anni, una bambina, ultima figlia di una povera famiglia, "adottata" secondo l'uso del tempo.
La bambina crescerà e stabilirà un forte legame con quella che le fa da madre al di là del rapporto biologico, fino a scoprire che il mestiere della Tzia Bonaria è la sarta, ma la sua capacità principale, quello per cui è conosciuta nel paese, è essere "accabadora", colei che regala dolci e pietose morti ai malati terminali e lo scontro culturale e generazionale fra le due esploderà e porrà fine al loro rapporto, fino al giorno in cui l'anziana Tzia Bonaria sarà sul letto di morte.
Michela Murgia, ci immerge magicamente nell'atmosfera sarda, di paese, di metà secolo scorso, i suoi riti, i suoi profumi, le sue luci regalandoci pagine di buona letteratura e lo fa affrontando due temi molto delicati: l'eutanasia e l'affido eterofamiliare che qui fanno parte della tradizione antica e risultano quindi accettabili e normali.
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