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contro la cultura della dissimulazione
«Scrivere un libro erotico in arabo è invece una cosa naturale, con la sterminata, raffinata eredità che abbiamo in materia», sostiene Salwa al Neimi - arabista originaria di Damasco, ma da anni trapiantata in Francia, a Parigi, dove lavora nel prestigioso Institut du Monde Arabe - autrice de La prova del miele (in arabo Borhan al -’Asal), breve romanzo di un centinaio di pagine, pubblicato con successo - è giunto alla sesta edizione in meno di due mesi - da Feltrinelli per la traduzione di Francesca Prevedello.
Il titolo si ispira a una sentenza del mistico Ibn ’Arabi, «La prova della dolcezza del miele è il miele stesso», in cui si sottolinea il primato dell’esperienza sull’estasi. Naturalmente il miele è qui inteso nel senso del liquido vaginale: peraltro, nel mondo arabo il termine halu, dolce, ha valenza polisemica, collegandosi alle sfere semantiche del cibo, della bellezza interiore ed esteriore, e dei piaceri del sesso.
La protagonista de La prova del miele è una bibliotecaria siriana, chiara controfigura narrativa dell’autrice, che vive a Parigi, in un demi-monde fatto da intellettuali espatriati. La donna è sempre stata una lettrice appassionata dei libri erotici, oggi quasi messi al bando, della tradizione araba («li leggevo e li rileggevo, assaporavo i loro scritti, traducevo la mia vita nelle loro parole e le proteggevo perche erano una lingua segreta»), da quando, appena adolescente, una compagna le prestò di nascosto il Libro della voluttà.
Tuttavia, ha sempre nascosto questa sua passione dietro la veste dell’erudita della materia. Per questa ragione, il direttore della sua biblioteca la incarica di scrivere un saggio sugli autori che nei primi secoli dell’Islam cantarono il sesso come «gloria di Dio». Così tra numerose citazioni di testi antichi, dove le «parole erano precise», l’io narrante accompagna il lettore nel suo peregrinare tra Parigi e Tunisi, facendogli conoscere luoghi come l’hammam - molto simile al salone di bellezza del film Caramel - dove si stabilisce una solidarietà tutta femminile. Non a caso, in questo libro le figure maschili sono quasi del tutto assenti, mai indicate con il loro nome di battesimo, ma come il Viaggiatore, il Regista, l’Editore, il Lontano e il Pensatore, con cui il sesso è stato perfetto.
Eppure, al contrario di quanto si possa pensare questo non è un romanzo erotico, ma un vero e proprio pamphlet in chiave narrativa contro quella cultura della dissimulazione, la taqiyya, che ha portato a snaturare, se non ad occultare le tradizioni culturali di una grande civiltà araba, presentandola come sessuofoba.
"Le mie letture segrete - si legge nel terzo capitolo - mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per il quale il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio. L’insigne e prode shaykh Sidì Muhammad al-Nifzàwì - sia pace all’anima sua - comincia così la sua opera Il Giardino Profumato: Sia Gloria a Dio, che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini. Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa..."
E il citare da testi erotici come Il Giardino Profumato, probabilmente composto verso la metà del XVI secolo, nonché da tanti altri testi classici della letteratura araba, riveste un senso del tutto politico, visto che nel mondo musulmano la lingua araba qui assume il valore di lingua sacra - è quella in cui il Corano è stato scritto - e al contempo di lingua del sesso. Cosa in assoluto contrasto con i dettami della attuale società araba, dove un termine come nikah, accoppiarsi, viene sottolineato con il rosso dal programma di correzione ortografica del computer. Laddove un autore del nono secolo come al-Giahiz sottolineava: «Questi termini sono stati coniati perché la gente li usi. Se sono conservati è per essere pronunciati».
vito santoro