Dettagli Recensione
Un viaggio lungo 20 secoli (o forse solo una vita
ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER
Il libro inizia in modo difficile: ci si immerge così, senza aver preso fiato, nella Gerusalemme degli anni ‘40, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che la città viveva in quegli anni. Sin dal primo momento fanno capolino personaggi importanti della letteratura israeliana (pressoché sconosciuti ai lettori europei, come il poeta Cernicowskij); il primo membro della famiglia Klausner che viene presentato è l’ingombrante zio Yosef, con il salotto culturale che ruota intorno alla sua tavola, la silenziosa e servizievole zia Zipporah sempre un passo indietro a lui, le aspirazioni fallite del padre di Amos (imputate a un eccesso di zelo dello zio accademico, che taglia le gambe al meritevole nipote pur di non essere accusato di nepotismo).
Il libro, quindi, inizia con difficoltà. Ma, superato lo scoglio iniziale, Oz mette in fila una serie di personaggi della sua famiglia, paterna e materna, che meriterebbero ognuno un romanzo a sè. C’è l’adorabile nonno Alexander, che sopravvive a tutta la sua famiglia, instancabile amatore, appassionato ascoltatore delle donne, irrimediabilmente attaccato alla vita. Sua moglie Shlomit, che muore per “troppa pulizia” dopo aver sentenziato l’iconica frase “il Levante è pieno di microbi”. La temibile nonna mame, bambina viziata fino alla fine dei suoi giorni, e il laborioso nonno pape, quasi contento di aver perso tutte le sue ricchezze, per potersi finalmente dedicare alla vita da semplice operaio che ha sempre perseguito.
La storia prosegue in modo lineare, in linea cronologica, prima per parte di padre e poi per parte di madre, fino ad arrivare alla nascita di Amos. Da qui, il racconto prosegue diseguale, a passi di gambero, estremamente sbilanciato verso i primi anni della giovinezza, con un capitolo squarciato sul presente, nel momento in cui l’autore sta scrivendo il libro, seduto alla scrivania ereditata dal padre, in una torbida mattina di luglio del 2001.
Amos, che descrive con dovizia di particolari ogni singolo momento della vita dei suoi avi, non pronuncia una parola su come si sono incontrati i suoi genitori, come si sono innamorati, quando si sono sposati. L’unione dei due è presentata come un dato di fatto, descritta attraverso gli occhi di un figlio chiacchierone e magrolino, troppo attento per la sua età. La storia della giovinezza della madre, però, risulta fon dal primo momento diversa da quella degli altri personaggi: Oz la racconta attraverso la voce della zia Sonia, sorella della madre, non parlando quasi mai in prima persona. Come se non ci riuscisse, come se parlare della madre fosse ancora un tabù. La storia di Fania resta così appesa, dice che si è suicidata senza spiegare come, quando, perché. Il libro procede raccontando la vita di Amos bambino in tutte le sue tappe, il rapporto con il padre, le favole “fantasiose” della madre, l’incontro con la scrittura, l’accettazione di essere uno scrittore. Eppure la vita non si snocciola fino alla fine dei suoi giorni: alla sua vita nel kibbutz Hulda (che è durata ben 30 anni) sono dedicati pochi capitoli; alle guerre combattute in trincea, neanche una riga. Tutto è concentrato in quei primi anni di vita, e la storia della madre, della sua malattia, del lutto, fa capolino tra i capitoli, alternandosi alle vicende del giovane Oz. Fino alle ultime pagine, quando finalmente l’autore racconta il momento della morte. Parla prima della malattia, poi del lutto, e l’ultimissima pagina è dedicata a quella notte tra il 6 e il 7 gennaio del 1952, quando la madre assunse una dose eccessiva di sonniferi nella stanza degli ospiti a casa della zia Haya. Allora è chiaro che tutto il libro, tutte le storie in esso raccontate, non sia altro che l’ultimo tentativo di un figlio di fare pace col passato, di elaborare quel lutto taciuto e illacrimato (per stessa ammissione di Oz) per oltre 50 anni. Il lutto che lo aveva portato ad allontanarsi dal padre, a cambiare cognome, a vivere lontano da Gerusalemme alla sola età di 14 anni. Un lutto che ancora oggi gli impedisce di lasciare oggetti sparpagliati per casa: il disordine fu il modo in cui lui e suo padre manifestarono il dolore. L’incuria della casa fu l’unico modo in cui i due uomini, che non ne parlarono mai, esternarono il dolore immenso per quella perdita che non sarà mai rimpiazzata.
Nessuna parola sulla matrigna, poche righe sull’amatissima moglie, solo qualche accenno ai figli nati da quella longeva unione. L’intero libro è il racconto di dolore di quel figlio che a 12 anni si sentì così impotente e arrabbiato per quella madre che non era riuscito ad aiutare.
Nel frattempo Oz ci insegna la letteratura ebraica, le correnti politiche interne al sionismo, la difficile convivenza con i vicini arabi, la gioia per la creazione del nuovo stato di Israele, le contraddizioni legate a questo delicato momento storico.
È un libro potente, colto, difficile, estremamente umano. Ti tocca l’anima, e si può dire solo grazie.