Dettagli Recensione
La lotta per la democrazia e la libertà
Già alcuni anni fa, attraverso una meritoria iniziativa di un quotidiano nazionale, mi sono imbattuto in questo titolo che mi ha consentito di conoscere Héctor Abad. Colombiano di nascita, nato nel ’58, Abad racconta in prima persona, attraverso la storia della sua famiglia, la Colombia degli anni 70 e 80. Il momento più drammatico del racconto è l’assassinio del padre, Héctor Abad Gomez, avvenuta nel 1987. Uomo colto, docente universitario, tollerante, equilibrato e non dogmatico, un medico inviato dall’OMS in giro per il mondo, sempre proteso ad insegnare (ma anche ad attuare) come migliorare le condizioni igienico-sociali dei paesi; un giusto che si professava “cristiano di fede, marxista in economia, liberale in politica”. Mite, dal carattere allegro, non poteva sopportare il dilagare della violenza, gli assassinii degli squadroni della morte che fecero, in quegli anni, oltre 400.000 morti non risparmiando nessun ceto sociale: attivisti di destra e di sinistra, comunisti e conservatori, docenti universitari, teologi, scrittori, medici… Ciò che mi ha colpito, in un libro peraltro molto bello, è stato innanzitutto rendersi conto di come, a volte, si conosce così poco di altri paesi, di altre storie. La Colombia è sempre stata associata, nel mio immaginario perlomeno, alla grande produzione di droga, al cartello di Medellin, alla dittatura. Scoprire un mondo fatto anche di eroi borghesi che si sono opposti a costo della loro stessa vita ad un regime autoritario e connivente con la malavita organizzata è stata una piacevole sorpresa sia pure nell’amarezza di scoprire un mondo di violenza, brutalità e morte. Riscoprire cioè che, come diceva Machado alla vigilia della capitolazione di Barcellona nella guerra civile spagnola: “Si ignora che il coraggio è la virtù degli inermi, dei pacifici – mai degli assassini –, e che alla fine le guerre le vincono sempre gli uomini di pace, mai i sostenitori della guerra. È coraggioso solo chi può permettersi il lusso dell’animalità che si chiama amore per il prossimo, che è cosa specificatamente umana”.
Il secondo aspetto che balza agli occhi attraverso la descrizione di un ventennio di storia che Abad tratteggia con la sua cronaca familiare è (ri)scoprire come alcuni valori non hanno confini, non hanno latitudini; sapere che in qualsiasi parte del mondo, ovunque esista una dittatura, un regime oppressivo esistono frange più o meno ampie di resistenza, esistono persone che si oppongono e non si rassegnano né si piegano. Nelle pagine finali Abad spiega il motivo per cui, dopo quasi 20 anni (l’omicidio del padre è del 1987, la prima edizione del libro è del 2006) racconta l’assassinio del padre, la sua storia familiare e la storia della Colombia: cercare di confutare le parole dell’amato Borges “Già siamo noi l’oblio che saremo…” (Epitaffio) invitando direttamente il lettore ad avere “memoria”. E allora mi è tornato in mente l’incipit della Apologia della storia di M. Bloc: Papà, a che serve la storia? Ed eccola in Abad una possibile risposta: “Se le parole trasmettono in parte le nostre idee, i nostri ricordi, i nostri pensieri, se le parole tracciano, attraverso i libri in cui si trasferiscono, una mappa approssimativa della memoria collettiva, se attraverso queste parole (attraverso la storia) troviamo degli alleati, dei complici, capaci di far risuonare con le stesse corde quella cassa scura dell’anima che è la mente che la nostra specie condivide allora saremo in grado di riscuotere l’anima dal sonno e fare sì che l’oblio che saremo si protragga il più lontano nel tempo lasciando che la storia viva in chi verrà dopo di noi". Perché, parafrasando Sepulveda, un paese senza memoria è un paese senza futuro.