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La matita e la montagna
Vale la pena spendere alcune parole su questa autobiografia partendo dalla copertina, in quanto grazie ad una felice intuizione editoriale, la sua ambivalenza racconta già molto. A prima vista infatti l’occhio umano interpreta l’immagine vedendo una matita appuntita, evidente rappresentazione di quel “potente strumento” funzionale al raggiungimento di quell’educazione attraverso la quale Tara riesce a emanciparsi e costruire il proprio riscatto sociale, dopo un’infanzia e adolescenza vissute lontano dalle aule scolastiche e dai libri per scelta della famiglia:
“Tutti i miei sforzi, tutti i miei anni di studio mi erano serviti ad avere quest'unico privilegio: poter vedere e sperimentare piu verità di quelle che mi dava mio padre, e usare queste verità per imparare a pensare con la mia testa”.
Tuttavia da un’analisi più attenta questa matita diventa qualcos’altro, il picco di una montagna dove volano attorno alcuni uccelli con accanto la silhouette di una ragazzina. Allora si capisce che questo luogo rappresenta Buck Peak, il territorio del middle west americano, nell’Idaho, dove l’autrice ha passato la sua infanzia, la sua giovinezza, prima di compiere “il grande salto”.
Ed è proprio attorno a questa montagna che la giovane Tara cresce assorbendo quotidianamente gli insegnamenti di un padre mormone, bacchettone e bigotto, affetto per giunta da disturbo bipolare. Un uomo fanatico che considera lo Stato e la scuola, una minaccia perché le Istituzioni sarebbero guidate da “La setta degli Illuminati” in rappresentanza delle forze oscure, e che vede altresì il sistema sanitario come strumento demoniaco (per cui le uniche cure affidabili sarebbero quelle fornite dalle erbe contenute nelle boccette, che una madre succube del marito confeziona alacremente).
Inevitabile quindi che al cospetto di una famiglia patriarcale e violenta come quella di Tara, in cui oltre alla figura paterna si eleva a modello negativo di brutalità anche uno dei fratelli, diventi veramente difficile crescere senza subire contraccolpi psicologici. Il risultato, sicuramente paradossale, è quello di sentirsi un pesce fuor d’acqua e vivere con senso di colpa qualsiasi successo ottenuto nella vita, sapendo che per la propria famiglia scegliere l’emancipazione, lo studio, il dottorato di ricerca, assume il significato di tradimento profondo delle proprie radici (“Quand’ero bambina aspettavo di crescere, di accumulare esperienze e fare delle scelte, di formarmi come persona. Quella persona o quella sembianza di una persona, aveva delle radici. Appartenevo a quella montagna, la montagna che mi aveva creato. Solo quando diventai più grande mi chiesi se sarei sempre stata così”).
L’educazione è sostanzialmente una storia autobiografica che non ha particolari velleità stilistiche e dalla quale non è al momento possibile sapere se la Westover avrà un futuro come autrice. Rimane in ogni caso un libro dal contenuto importante, un’illustrazione-confessione del dolore vissuto, ed allo stesso tempo un libro che lancia messaggi di speranza, evidenziando che la vita può comunque riservarti sorprese ed occasioni da sapere cogliere per riscattarsi.
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