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Per affrontare il dolore
«Ma i miei fantasmi, un tempo, sono state persone, e io non posso dimenticarlo. Non posso dimenticarlo quando cammino per le strade di DeLeslie, strade che sembrano ancor più spoglie dopo Katrina. Strade che sembrano ancor più vuote dopo tutte quelle morti, dove invece di sentire i miei amici o mio fratello che ascoltano la musica in macchina nel parco della contea, l’unico suono che sento è il pappagallo di uno dei miei cugini, un pappagallo il cui grido tormentato, un grido simile a quello di un bambino ferito, è tanto forte da riechiggiare per tutto il quartiere da una gabbia così piccola che la cresta tocca la sommità e la coda sfiora il fondo. […] Mi chiedo perché il silenzio sia il suono della nostra rabbia repressa, dei nostri dolori accumulati. Decido che non è giusto, che devo dar voce a questa storia. Te l’ho detto: qui dentro c’è un fantasma, diceva Joshua.»
Jesmyn Ward da sempre ci ha abituato a scritti evocativi e dove i temi della natura e della famiglia erano preponderanti. Rapporti forti, intensi, travagliati. Rapporti fatti di legami anche marci a causa di una serie di vicissitudini affatto semplici da vivere e di un ambiente sociale altrettanto complesso. In “Sotto la falce” non vengono a mancare quei temi ad ella cari ma al contempo si toccano anche aspetti di cruda e dura quotidiana verità. Perché l’opera è prima di tutto un memoir all’interno del quale ella parla della dipartita prematura di suo fratello Joshua e di altri quattro ragazzi. Sono vite accomunate dal colore scuro della pelle ma anche giovani che tra il 2000 e il 2004 hanno visto spazzare via la propria vita a causa di alcol, droga, povertà, razzismo, diseguaglianza, solitudine, indifferenza e chi più ne ha più ne metta.
La Ward focalizza l’attenzione del lettore su quella che è una comunità che resta a sua volta silente in quel grido che non trova forma. E lo stesso vale per la scrittrice che è sopravvissuta a quelle perdite ma che sente il bisogno di tirar fuori il dolore, il rancore, il “covato” in quegli anni. Ed è questo ciò che accade.
Jesmyn si guarda intorno. È una bambina, poi una giovane ragazza, infine una donna adulta. Vede perire tante anime al suo fianco, sente la violenza che aleggia tutta attorno. Quella solitudine, inoltre, estrema che condanna e vincola quelle anime che non riescono a rifuggire dalle tentazioni quali la droga e l’alcol.
Il tutto sino a giungere a quell’ultimo capitolo in cui siamo colpiti da un’altra perdita per Jesmyn: quella del marito a causa della Pandemia.
Ed ecco allora che la scrittura è anche terapeutica e riesce a ricomporre il volto di quel vissuto che chiede consapevolezza e speranza per il divenire. Uno scritto dove il sentimento e l’emozione fuoriescono con tutta la loro forza dirompente. Un libro che fa male e che suscita tante riflessioni e domande a cui è necessario dare risposta.
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Non conosco l'autrice che, a quanto dici, mi pare assai interessante. Bella anche la copertina.