Dettagli Recensione
Una valigia di ricordi per indagare sé
La valigia è un insieme di racconti di carattere aneddotico in cui l’esperienza leningradese dell’autore Sergej Dovlatov si lega con quella americana. Sono racconti umoristici, ma sono avvolti da una patina di profonda amarezza. Nato nel 1941 in Kazakistan da una madre di origini armene e da un padre di origini ebree, Sergej si sente tuttavia a pieno titolo un russo di Leningrado, città abbandonata dalla famiglia durante i 900 giorni di assedio nella Seconda guerra mondiale. Dovlatov era un gigante, uno che spiccava per la sua altezza e per la sua possente corporatura. Fu osteggiato dal governo comunista sovietico e non poté pubblicare le proprie opere in modo legale negli anni della Stagnazione, poiché il carattere umoristico dei suoi scritti non piaceva al governo sovietico. Si sentì costretto a emigrare in America, precisamente a New York, ma sarebbe sbagliato definire Dovlatov un vero e proprio dissidente politico. Era consapevole che in Urss il comunismo negli anni Sessanta e Settanta non esisteva più, ma era divenuto, parole sue, “una porcata che anche i capi avevano smesso di chiamare comunismo”. Però, la sua analisi non parte mai dall’esterno, ma sempre da dentro di lui. Ciò emerge molto bene anche ne La valigia. La sua è un’introspezione idealistica e raramente accusa in maniera evidente ed eccessiva il potete sovietico. Come accennato, non è costretto a emigrare ma si sente invitato a salutare l’Unione Sovietica. Sceglie come meta New York, l’unica città al mondo dove, come egli stesso sosteneva, non si sarebbe sentito straniero, essendo un mix di culture, proprio come lo stesso Dovlatov. D’altro canto, per le sue origini e per la sua stazza fisica, Dovlatov si sente nel mondo sempre un diverso ed è la scrittura che lo aiuta a indagare sé stesso. Scrivere è, perciò, per lui un’operazione alquanto intima ed è chiaro che domina la componente autobiografica. Ciò è evidente ne La valigia, fin dalla premessa, dove si possono immediatamente percepire le caratteristiche caratteriali di Sergej: è timido, è schivo, non accetta sé e nega spesso il suo io. Dovlatov ne La valigia accetta la mancanza di senso della realtà. Osserva il mondo, partendo da sé, con sguardo cinico e disilluso. Nel corso della narrazione non si nasconde mai, ma preferisce mettere in scena costantemente le sue mancanze e i suoi problemi. Fa tutto questo senza emettere giudizi su quanto avviene. Gli episodi che propone ne La valigia sarebbero perfetti per dare alcuni giudizi personali, poiché sono episodi strani e paradossali, ma Dovlatov si impegna a narrare lasciando le conclusioni ai lettori. Raffigura il paradosso del mondo che non è dissimile dal suo personale paradosso: lui alto e possente, era in realtà pigro, timido e debole. Un appunto lo merita lo stile. Lo definirei eccezionale nel suo laconismo. È coinciso e semplice. Le frasi sono brevissime, sono quasi delle sentenze. Risultano, perciò, dense di significato, quasi come se fossero versi poetici. È lapidario e oserei dire giornalistico, lui che ha praticato per anni quest’attività, proprio come si evince anche dai racconti Un bel vestito a doppio petto e Il colbacco inseriti ne La valigia. Ma come si struttura quest’opera di Dovlatov? Abbiamo, come accennato, una premessa seguita da otto racconti aneddotici. È un oggetto a far nascere un ricordo che può andare dall’infanzia fino all’emigrazione avvenuta nel 1978. La riflessione su sé stesso parte, perciò, da oggetti posseduti che sono contenuti nell’unica valigia che Dovlatov dall’Urss potrà portare nella sua nuova vita in America. “Era tutto ciò che avevo messo insieme in trentasei anni, durante tutta la mia vita in Russia… Ma allora ero un poveraccio? E come avevo fatto a ridurmi così?” annota nella premessa Sergej. Sono le cose, non i valori, è la concretezza, non l’astrattezza, ad avviare il ragionamento. Gli oggetti presenti nella valigia sono capi d’abbigliamento, non sono libri o altri oggetti di valore. Sono vestiti con cui è entrato in contatto casualmente nel corso della sua esistenza in Russia, non hanno perciò un particolarmente significato ma fanno tornare alla memoria un frammento del passato. Il collage ha poco di lineare, così come non sono mai lineari i nostri ricordi. L’oggetto durante il racconto di Dovlatov non perde mai la sua concretezza, tanto che l’autore non ritrova mai attraverso l’incontro con l’oggetto sensazioni che riguardano il suo passato. La cosa, pertanto, stimola semplicemente un aneddoto, una storiella; sono gli avanzi degli episodi vissuti. Un velo di nostalgia nei confronti della sua terra si sente (precede la premessa questa citazione di Aleksandr Blok “… Ma anche così, Russia mia, sei la terra a me più cara…”), ma l’oggetto non è mai trasfigurato dal sentimento. E quali sono gli oggetti citati? I calzini finlandesi (illustra la pratica del mercato nero, dilagante in Urss negli anni della Stagnazione), le scarpe del sindaco (parla del furto, pratica diffusissima in un paese nel quale tutti rubavano, non credendo più nessuno nel comunismo), Un bel vestito a doppio petto (propone la sua vita da giornalista), La cintura da ufficiale (ricorda il suo periodo da sorvegliante di un gulag. È un racconto nel quale la pazzia risulta capovolta: il collega di Sergej beve, perde la testa e picchia lo stesso Sergej, mentre il detenuto, reputato da manicomio, appare sano), Il giaccone di Fernand Léger (mostra tutte le disuguaglianze sociali e di ceto in un paese ormai solo sulla carta comunista), La camicia di popeline (propone il suo rapporto con la moglie e la loro comune indifferenza), Il colbacco (emerge il paradosso della vita in un’avventura con il cugino) e I guanti da automobilista (Sergej si ritrova a casualmente a recitare nei panni di Pietro il grande, assomigliandoci molto fisicamente).