Dettagli Recensione
La lingua dell'amore
Primo volume di una monumentale autobiografia iniziata nel 1977 e continuata con “Il frutto del fuoco”, nel 1980 e “Il gioco degli occhi”, nel 1985. Una lettura sicuramente gradevole che ha come sottotitolo “Storia di una giovinezza” e che, per quanto mi riguarda, ha tenuto desta l’ attenzione per i tre quarti mentre ha generato una certa stanchezza nella parte finale; probabilmente perché ho trovato molto avvincenti le situazioni narrate rispetto alla prima, seconda e terza infanzia mentre l’avviarsi dell’autore nella pubertà è stata appesantita dal profilo dello stesso ragazzo narrato. Il volume inizia con i primissimi ricordi di vita, in Bulgaria, in seno a una famiglia di ebrei sefarditi di origine spagnola; una famiglia facoltosa, di commercianti, ben integrata ma con un’identità linguistica precisa e ancorata alla lingua spagnola. Una coppia genitoriale giovane e affiatata che invece parla eleggendo a veicolo linguistico, privilegiato e intimo, il tedesco; un bambino che sente parlare contemporaneamente spagnolo e bulgaro, comprendendoli entrambi fino ai sei anni, e che si incuriosisce all’universo linguistico esclusivo della mamma e del papà. Un periodo della vita, felice, comunitario, integro, che improvvisamente si sgretola e si sfalda a causa, prima, di dissapori interni alla grande famiglia, in particolare per via della rottura tra il padre di Elias e il genitore, il capofamiglia, e poi per via della morte prematura dello stesso papà di Canetti quando ormai la famigliola è emigrata in Inghilterra. Inizia così una vita nuova, caratterizzata dalla condizione di orfano e di fratello maggiore che comporterà al piccolo Elias preoccupazioni, ansie e responsabilità inaudite. È la parte più toccante della narrazione, non interessa un unico blocco ma si dissemina nel resto dell’opera e della vita, lasciando un segno profondo, quello dell’assenza e al tempo stesso del rapporto quasi simbiotico con la madre. Segue poi il resoconto delle tappe di una vita in viaggio; ai due anni trascorsi a Manchester ( 1911-1913) si giustappongono gli anni di Vienna, tra il 1913 e il 1916, e per finire quelli del “paradiso perduto”, in Svizzera, che coprono il restante intervallo fino al 1921. Si tratta di soggiorni lunghi ma il senso di precarietà è latente. Il periodo inglese e quello viennese sono ricchi di aneddoti che permettono di costruire un profilo biografico di tutto interesse; al centro sempre la riflessione costante sull’esposizione linguistica; un esempio fra tutti, il più evidente, è sicuramente il barbaro apprendistato al quale la giovane vedova sottopone il figlio per fargli apprendere la lingua tedesca, ultimo ed estremo ancoraggio all’amato marito. Canetti, poliglotta, scriverà tutte le sue opere in tedesco. Gli anni della crescita corrispondenti alla scolarizzazione sono inizialmente molto interessanti, si entra dentro l’universo privato del percorso di formazione, generosamente anticipato dalle sollecitazioni ricevute in famiglia; emerge netto il profilo di un alunno sui generis, un assettato di sapere che stona perfino con il rigore educativo che pure caratterizzava l’epoca facendolo entrare in conflitto con un universo studentesco comunque eterogeneo e non sempre zelante. Un atteggiamento quasi superbo, il suo, del tutto involontario che solo l’onda antisemita riesce a fargli finalmente percepire. I ricordi legati alla Svizzera sono meno interessanti, forse perché nel frattempo il ragazzo che è lontano dalla madre, ha modo di crearsi una sua autonomia di pensiero e si perde quell’aura eccezionale che aveva caratterizzato le altre età fino a quando la mamma non irrompe prepotentemente a indirizzarlo un’altra volta, lontano dalla favola bella della Svizzera, imponendogli l’ennesimo trasferimento, questa volta in Germania. Sigla Canetti: “il paradiso zurighese era finito, finiti gli unici anni di perfetta felicità”.
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Commenti
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Grazie per la chiarissima presentazione,
Manuela
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