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LA VIOLENZA INDIVIDUALE E LA VIOLENZA DEL SISTEMA
Il romanzo d’esordio di Vargas Llosa è una storia, in parte autobiografica, ambientata in un collegio, il Leoncio Prado di Lima, retto da militari, dove i giovani cadetti vivono immersi quotidianamente nella violenza: violenza nei rapporti interpersonali, basati sulla sopraffazione e – si potrebbe dire, con linguaggio da caserma – sul “nonnismo”, e violenza dell’istituto, che con una disciplina rigida e soldatesca tarpa e comprime l’adolescenziale spontaneità dei ragazzi. La vicenda è semplice, c’è il furto di un esame, una spiata, un’inevitabile espulsione, una sanguinosa vendetta e una finta inchiesta che mette a tacere le cose, cose che potremmo trovare tanto in un giallo di Sciascia quanto in un qualsiasi romanzo di formazione adolescenziale, in cui il protagonista cresce e si trasforma, prendendo coscienza che nulla può essere più come prima e che il mondo dei grandi è cinico e spietato. Il meccanismo per così dire “giallo” è quasi grossolano, non abbiamo alcun serio dubbio circa la paternità dell’assassinio che gli ufficiali vogliono (e riescono a) far passare per incidente. A Vargas Llosa interessa soprattutto, contrapponendo i cadetti da una parte (che, nonostante il dispotismo e la corruzione imperanti tra loro, sono visti tutti con simpatia e affetto) e gli alti ufficiali dall’altra (i quali col pretesto della difesa del decoro e della rispettabilità della scuola non esitano ad insabbiare l’inchiesta sulla morte del cadetto Arana, facendo forti pressioni su chi cerca onestamente di far emergere la verità), rimarcare polemicamente come la violenza peggiore non sia quella istintiva e animalesca degli individui, ma quella cieca, opportunista e fanatica della istituzione del collegio, probabile ipostasi di un più generale degrado in cui versa l’intera società peruviana.
Ma anche il condivisibile discorso sulla violenza, intesa in questo senso pervasivo e quasi ontologico, non riesce a esaurire il fascino del romanzo, che secondo me va ricercato nel particolare stile dell’autore, il quale verrà poi sviluppato in maniera ancora più audace e ambiziosa nel libro successivo, “La Casa Verde”. Qui a spezzare la linearità della storia vi sono numerosissimi salti temporali, la frequente alternanza della prima e della terza persona, il cambio di personaggi che di volta in volta assumono il ruolo del protagonista (Alberto, lo Schiavo, il Boa, il tenente Gamboa e, celato anonimamente nel flashback a lui dedicato, il Giaguaro), l’intersecazione di episodi diversi (ad esempio, la violenza alla gallina e la fallita spedizione notturna nella camerata dei “cani”), lo stream of consciousness che fa affiorare pensieri diversi senza apparente coerenza, la presenza di personaggi, come quello di Teresa, che fanno un po’ da raccordo tra le varie vicende individuali. Alla fine resta un convinto senso di ammirazione per quello che è un crudo ma raffinato, disordinato ma elegante, capolavoro sulle profondità dell’animo umano (soprattutto quello degli adolescenti), sulla disparità dei destini e sulla fatalistica onnipresenza della violenza nei rapporti sociali.
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