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Tra sogno e realtà, ricordando Fellini.
Accantonati Benjamin Malaussène e la sua tribù, Daniel Pennac ricorda con affetto sincero Federico Fellini, regista visionario e sognatore. “La legge del sognatore”, per chi non ha mai letto Pennac, non è di facile comprensione. Non segue un filo logico, ha una trama esile, intessuta di ricordi d’infanzia, di sogni ricorrenti, di riflessioni su presente e passato, una trama sostenuta per altro abilmente con uno stile ironico e disincantato. Al centro del romanzo Pennac pone il sogno come presenza fondamentale e condizionante, narrato con la consapevolezza di creare una storia che procede a vari livelli e che si dipana dall’infanzia via via fino all’età adulta, laddove la presenza immaginaria di Fellini si fa più pressante e nostalgica. Pennac e Fellini sono entrambi sognatori ed uniti da una particolare attenzione per i sogni ed i loro significati. Pennac ricorda nel suo romanzo che, ai primordi della sua carriera di insegnante in una scuola media del Nord, stimolava i suoi alunni, anche quelli “ più sgangherati” delle cosiddette “classi differenziate”, a tradurre su carta con frasi, disegni, brevi narrazioni i sogni della notte: il maestro poi li correggeva e ne traeva storie compiute scritte in bello stile dalle quali gli alunni avrebbero appreso come esporre correttamente i loro ricordi onirici. Così come Fellini amava ogni mattina, allo stesso modo di Pennac, riassumere con scritti o disegni i sogni della notte, traendone spunto per la regia dei suoi film. E proprio con un sogno infantile inizia il romanzo, una fuga attraverso la finestra della camera da letto con l’amico Louis in un paesaggio inondato da colate di luce che tutto travolgono e sommergono, convinto che “la luce gialla delle lampadine e la luce bianca dei neon è fatta di acqua”. E lo stesso paesaggio lo sogna da adulto, immaginando un’immersione sul fondo di una diga dove ritrova lo stesso paesaggio, le stesse strade, la chiesa e addirittura la finestra della casa dell’infanzia: il lettore confonde sogno e realtà, non sa più se Pennac descrive fatti realmente accaduti o se invece ripercorre i suoi sogni come fossero episodi di vita realmente vissuta. Del resto Pennac stesso mette in guardia il lettore: guarda, dice, che episodi raccontati come reali sono pura fantasia, che persone e fatti emergono dai miei sogni e dalla mia immaginazione. Al centro del romanzo è insomma il sogno, concepito come omaggio al grande Federico Fellini, nel centenario della nascita: un mix di ricordi autobiografici, sogni, realtà e bugie, visioni e stranezze, con l’impegno di divertirsi e divertire e la convinzione, come scriveva Fellini, che ci siano due vite, “una con gli occhi aperti, e una con gli occhi chiusi”. L’omaggio a Fellini troverà concretezza in un progetto che Pennac vorrebbe realizzare al Piccolo Teatro di Milano: un grande spettacolo rievocativo dei film felliniani, con un finale pirotecnico di balli e musiche lungo via Dante fino al Castello Sforzesco e al Parco Sempione.
Anche se l’ultimo capitolo non appare all’altezza di tutto il resto, lasciando un po’ d’amaro in bocca come un discorso incompiuto o improvvisamente interrotto, il romanzo è un’opera di grande impegno e va letto lasciandosi cullare dal mondo e dai sogni di Pennac, accanito lettore oltre che grande sognatore: perché, come ha scritto l’autore in un saggio del 1992 (“Come un romanzo”), “ la lettura è una compagnia che non prende il posto di nessun’altra ma che nessun’altra potrebbe sostituire”. Non ci dimentichiamo, aggiungo io, che la lettura aiuta anche a sognare.