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Il dramma di un alcolizzato
Dopo aver letto il libro che lo aveva reso celebre, “Sulla strada”, mi era rimasta la curiosità di leggere una delle tante altre opere considerate minori - quantomeno dalla critica - di Kerouac e la scelta di “Big Sur” è stata dettata da tre fattori: lo conoscevo già di nome avendo visto il volumetto molti anni fa nella libreria di mia mamma; è un libro autobiografico, in cui l’autore non usa per se stesso uno pseudonimo, e volevo aggiungere altri pezzi della sua vita; sapevo vi fosse descritta l’esperienza del delirium tremens.
Il titolo è il nome della località californiana in cui nel 1960 Kerouac decide di trascorrere un periodo da solo, nella baita del suo amico e poeta (tuttora vivente) Ferlinghetti, per tentare di dare un taglio alla sua vita di eccessi e di continue baldorie. La fama che tre anni prima gli aveva improvvisamente dato il suo romanzo “Sulla strada” aveva avuto un effetto ambivalente sulla sua fragile personalità: egli si trovava attorniato da molti giovani che lo consideravano un mito, il padre della beat generation, l’uomo che aveva fatto dell’autostop una ragione di vita, che aveva rivelato un modo di vivere nuovo e alternativo, rompendo gli schemi di una società americana conformista e benpensante. Lui non si sentiva un modello per i giovani, voleva piuttosto essere lasciato in pace, in quanto stava letteralmente impazzendo "per la valanga di telegrammi, telefonate, richieste, lettere, visite, giornalisti, ficcanaso”, che si presentavano in casa di sua madre col pretesto di conoscerlo e si facevano offrire vitto, alloggio e sbronze nei bar della città. Così accetta il consiglio di Ferlinghetti di trascorrere in incognito qualche settimana nella baita isolata di Big Sur, in una zona selvaggia della costa a sud di San Francisco, circondato dalla natura incontaminata, da paesaggi grandiosi, il canyon a picco sull’oceano, il ruscello, gli amici animali, verso i quali Kerouac mostra talvolta un amore tipico di un vegetariano.
Ma l’idillio, come ammette l’autore nelle prime pagine del libro, dura poco. La spensieratezza e l’entusiasmo iniziali si trasformano in noia, fastidio, disgusto e infine in paura e presagi di morte. Questo mutare in peggio delle sensazioni percepite è il leitmotiv del romanzo. L’autore si illude spesso che operando un cambiamento di stato, netto, radicale, che si traduce a cambiare di luogo e di compagnia, egli possa mettere a posto le cose. Come un bambino, pensa che basti assecondare l’istinto, la volontà del momento, per vivere sempre sulla cresta dell’onda. Certamente agendo in questo modo non gli sono mancate le esperienze, le più svariate e strane compagnie e situazioni, ma non mai è riuscito a crearsi una condizione fisica e mentale stabile in cui stare bene con se stesso, senza ubriacarsi per svegliarsi sull’ennesimo dannato pavimento il giorno dopo con i postumi sempre più insostenibili di un uomo verso la quarantina, pentito e abbruttito.
Eppure, nonostante gli anni di eccessi, l’autore possiede ancora una lucida consapevolezza della sua situazione e senza filtri - e questa è la cosa più apprezzabile del romanzo - descrive questa condizione di facile entusiasmo iniziale e di inevitabile caduta finale, che è la tipica condizione del drogato o dell’alcolizzato: “"Parti gioioso e mesto ritorni" dice Tommaso da Kempis riferendosi a tutti gli sciocchi in cerca di piaceri come i liceali che escono a divertirsi il sabato sera e si affrettano verso l’auto facendo risuonare i tacchi sul marciapiede aggiustandosi la cravatta e sfregandosi le mani con zelo premonitore, per finire poi la domenica mattina a gemere ottenebrati nei letti che Mamma deve comunque rifare”.
Così il registro del romanzo è baldanzoso e leggero non appena l’autore opta per un cambiamento, vivace e frenetico quando “consuma” l’esperienza, inevitabilmente accompagnata dall’alcol, confuso e avvilito quando l’esperienza termina e rimangono solo i postumi.
Gli unici giorni in cui l’autore è sobrio sono i primi giorni trascorsi da solo a Big Sur. Dopo l’iniziale e positiva novità, si insinua la consapevolezza di una vita sprecata. In assenza dello stato di alterazione indotto dall’alcol, Kerouac vede se stesso in tutta la sua miseria e ne rimane sopraffatto: “E adesso che faccio? Taglio la legna? […] L’orrenda certezza di avere per tutta la vita ingannato me stesso pensando sempre che ci fosse qualcos’altro da fare perché lo spettacolo continuasse mentre in realtà sono semplicemente un pagliaccio depresso esattamente come chiunque altro”.
Da qui in avanti nel libro, Kerouac tornerà dunque sulla maledetta strada, della bottiglia e delle baldorie in compagnia dei suoi amici di Frisco, tra cui il suo Neal Cassady, appena uscito di prigione, in un turbine frenetico e insensato che lo riporterà ancora per due volte nella baita di Big Sur, ma non più da solo. E sarà come in un paradiso perduto, corrotto e deformato, in cui la natura gli sembrerà ostile e ne avrà terrore, in cui verrà tormentato da ogni sorta di atroci visioni e presagi, tipici del delirium tremens. In cui rifiuterà ogni aiuto che i suoi amici e persino la sua amante del momento (procuratagli da Cassady) cercheranno di offrirgli. Rifiuterà in ultima istanza la sobrietà e il farsi una famiglia, perché troppo insicuro e concentrato solo su se stesso, per accorgersi della bellezza del mondo e delle persone che lo circondano. Sappiamo come andrà a finire, Jack Kerouac, nove anni dopo.
Un romanzo potente, drammatico in quanto assolutamente vero, un tema scomodo ma sempre attuale, l’alcolismo, che l’autore forse involontariamente mette a nudo, col pretesto di raccontare se stesso.
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