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"Impara a morire e così imparerai a vivere"
“Impara a morire e così imparerai a vivere” (dal libro I miei martedì col professore di Mitch Albom): partendo da questo assunto, si svolge l’intero tessuto del libro, una sorta di manuale di istruzioni per l’uso della vita, da parte di chi l’ha imparato sulla propria pelle, apprezzandola nella sua essenzialità, perché per essa ha sacrificato una gamba, un polmone e un pezzo di fegato: “queste pagine sono un compendio di quanto ho imparato dal cancro e delle scoperte fatte grazie ad amici che, come me, hanno lottato contro la malattia.” Così, quello che comunemente è considerato un handicap, diventa un valore aggiunto, capace di spalancare nuovi orizzonti e soprattutto di dare la chiave di volta di lettura dell’esistenza. Ecco, dunque, da buon ingegnere, “una lista di concetti, di idee, di emozioni, una lista piena di felicità. Una lista di scoperte che mi hanno spinto a creare quello che considero il mio mondo.” Dal paradosso del dolore e della morte, intriso delle vicissitudini dei suoi compagni di stanza - i cosiddetti “Capelloni”, come li denominavano i dottori quale parodia della loro calvizie - si eleva un inno di magnificenza alla vita. Quest’ultima, proprio quando è respinta fino all’estrema frontiera, è allora che si rivela in tutta la sua pienezza. Il paziente Albert, che ha trascorso la sua giovinezza, dai 14 ai 24 anni, in ospedale, con l’acutezza che scaturisce dalla sofferenza, è attento osservatore che fa tesoro di ogni insegnamento che gli venga somministrato da medici, infermieri, malati e dalle proprie esperienze personali, ciò che declina in ventitré scoperte. La prima, fondamentale, è: “Le perdite sono positive. (…) Dobbiamo imparare a perdere, visto che prima o poi perderemo ogni cosa.” Allora, per esorcizzare il trauma, ecco l’umoristica quanto grottesca “festa d’addio alla mia gamba”, prima che venga amputata, suggerita da un dottore, ciò che gli permette di rielaborare il lutto.
Dopo quest’ampio ventaglio di suggerimenti, gli ultimi capitoli sono dedicati alla personale visione del “mondo giallo”, vale a dire intinto nell’oro della gioia e dell’amicizia, immerso nella luce calda della vita, in tutta la sua positività che sa trasformare anche il negativo in preziosa risorsa. “I gialli sono il nostro riflesso, colmano alcune delle nostre lacune e, quando entrano nella nostra vita, le fanno fare un salto di qualità”: sono persone che schiudono nuovi spiragli, che ci permettono di guardare dentro di noi, svelandoci verità che ci danno il trampolino di lancio per un’evoluzione.
Infine, l’autore affronta con serenità sorprendente un argomento diventato tabù per la nostra società: la morte. “Bisogna morire per lasciare un’eredità, per finire in bellezza. Devi pensare alla morte come qualcosa di positivo. La gente celebra la vita, festeggia i battesimi; a maggior ragione dovrebbe festeggiare la morte delle persone care, rendendo onore al loro ingresso nell’universo del ricordo. (…) Ma non devi perdere di vista il fatto che la morte in sé non esiste. Quando qualcuno muore, si trasfonde nella gente che ha conosciuto. I suoi ricordi perdurano, la sua vita si divide tra chi gli era vicino, come se si moltiplicasse in tante persone.”