Dettagli Recensione
dolore inesprimibile
“I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo” (p.52)
Una lunga lettera destinata ad una sorellina morta nel 1938, a soli sei anni, di difterite; un tentativo di saldare un debito perché, se Annie è nata, lo deve a lei, a Ginette, la bimba di cui nessuno in famiglia osava parlare, “una santa”, “più buona di quella lì” e “quella lì” era lei, Annie.
Solo a distanza di molto tempo (il testo è del 2010) l'autrice decide di rielaborare un ricordo sconvolgente: la scoperta casuale, a dieci anni, di aver avuto un'altra sorella, scomparsa due anni prima della sua nascita. Annie è dunque “l'altra figlia”, quella venuta al mondo per compensare una perdita incolmabile, per sanare una ferita inguaribile. Di Ginette, Annie non sa quasi nulla, ne conserva solo qualche fotografia; non ha nemmeno mai osato chiedere, perché un tempo certi argomenti in famiglia erano tabu inviolabili.
Annie in questa lettera ci parla soprattutto di sé e dei suoi genitori, del disagio che ha vissuto nel rapporto con sua madre:
“Scriverti significa parlare di lei in continuazione, lei, la padrona del racconto, colei che ha proferito il giudizio e con la quale il combattimento non è mai terminato, se non alla fine (…). Tra lei e me è una questione di parole” (p. 41)
La prima di queste parole, la più ricorrente è “dolore”: per la consapevolezza di essere nata per sostituire la sorella, per aver creduto di essere amata per quello che era mentre forse, per i suoi genitori, rappresentava solo una replica mal riuscita, un vano tentativo di rimpiazzare un originale perfetto.
Dolore per tutto ciò che non è mai stato detto, per quella barriera che, di fatto, aveva creato un'incolmabile distanza: “con il silenzio proteggevano anche se stessi. Proteggevano te. Ti mettevano fuori dalla portata della mia curiosità, che li avrebbe torturati” (p. 52).
Dolore respirato da Annie in tutto ciò che la circondava: “il loro dolore l'ho sentito a lungo senza identificarlo, l'ho conosciuto senza riconoscerlo” (p.57) nel modo in cui sua madre cantava durante le processioni, nel suo mutismo, nell'apprensione e nel rimprovero per ogni minimo ritardo.
Dolore per essersi sentita una figlia sbagliata ed incompresa, costretta a fuggire altrove: “non sono buona come lei, sono esclusa. Dunque non sarò nell'amore, ma nella solitudine e nell'intelligenza” (p. 74-75)
Dolore per non aver mai proferito una parola davanti alla lapide di Ginette, per non essere riuscita ad amare una sorella cui avrebbe dovuto essere grata, ma per la quale ha invece nutrito per molti anni solo un sordo risentimento: “Forse ho voluto saldare un debito immaginario dandoti a mia volta l'esistenza che la tua morte mia ha dato. Oppure farti rivivere e rimorire per liberarmi di te, della tua ombra. Sfuggirti. (p. 80)
“L'altra figlia” è un testo che, come “Il posto”, ho apprezzato molto sia per le tematiche trattate, sia perché testimonia il potere evocativo e terapeutico della scrittura che apre ferite, ma è anche in grado di sanarle e consente di fare pace con i fantasmi del passato. Un libro che mi ha colpita per la capacità dell'autrice di scavare dentro se stessa come se si osservasse dall'esterno, con freddezza, ma a mio avviso con grande efficacia.
La prosa della Ernaux è incisiva, scarna ed essenziale: non usa mai una parola di troppo, ma quelle che scrive si incidono nell'anima.
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Commenti
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Elena
E' vero, la Ernaux non racconta solo di se stessa, della propria infanzia, della sorella mai conosciuta, ma con i suoi interrogativi scava in profondità. E si dà delle risposte, con una freddezza implacabile e una lucidità sorprendente, in contrasto con un argomento così intimo.
E' proprio questa freddezza che ho trovato poco affine al mio gusto.
Non so se mi conviene provare con "Il posto".
Un caro saluto
Elena
L'idea di leggere la fragilità che si nasconde dietro l'apparente freddezza già mi predispone al tentativo :)
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