Dettagli Recensione
La perdita
Attraverso lo strumento di una scrittura cadenzata e mai casuale Marcos Giralt Torrente affronta uno dei temi più complessi; il rapporto padre-figlio, figlio-padre.
E’ un vero e proprio memoir narrativo quello che lo spagnolo ci destina, un memoir dove superata una prima parte più lenta e farraginosa perché caratterizzata da una mera esposizione cronologica dei fatti, il lettore viene inevitabilmente coinvolto grazie ad un’altrettanta seconda sezione in cui non vi è spazio che per i sentimenti in tutti i loro corollari e in tutte le loro sfumature. Perché tante sono le emozioni provate da questo figlio, tante sono quelle custodite dal padre. Tanti sono i sensi di colpa, le responsabilità, le criticità che taluno attribuisce all’altro e, di poi, a se stesso.
Sin dalle prime battute si evince l’incertezza. Raccontare o non raccontare questa storia? A che pro? A quali contro? Rischiare riportando e descrivendo la figura del genitore con la consapevolezza del fatto che questo mai avrebbe voluto essere analizzato e studiato così da vicino, oppure fare un passo indietro e proteggere quella intimità che gli era propria? Resistere al richiamo dello scrivere, d’altra parte, è impossibile, rifiutarsi a quella voce, alla necessità di esporre del loro legame, della malattia, della morte, del prima e del dopo è impensabile, sottrarsi alla necessità di anatomizzare il dolore della vita insieme ma anche della perdita è inimmaginabile.
E così ci ritroviamo nel 1964, scopriamo degli affetti familiari, di come i suoi genitori si sono conosciuti, di come si sono sposati, di quando è nato il figlio, degli anni in cui i padre dipingeva e il piccolo Marcos gli girava intorno, di quando è subentrata la separazione di due figure che avrebbero dovuto condurre la progenie nel percorso della vita, di quando una madre forte, spensierata e perché no, anche talvolta sconsiderata, si è resa protagonista della loro nuova vita a due. Tuttavia quel padre manca. Vi è legato dagli interessi artistici, ciò nonostante, vi si vuole contrapporre. Un equilibrio questo, già precario, in cui si inserisce la figura di quell’amica brasiliana, fidanzata dell’uomo per oltre vent’anni e che ha il compito di raggelare ulteriormente i rapporti non volendo, “tra i piedi”, parenti fantasmi del suo prima. Segue l’abbandono di questa femme fatale, segue il depauperamento del patrimonio, segue il sopraggiungimento di quella malattia che unisce padre e figlio. Marcos ha trentasette anni quando si riscopre padre del suo stesso padre che al contrario ne ha sessantacinque. Diciotto mesi che colmano un vuoto lasciandone un altro altrettanto vasto, altrettanto angosciante. Perché tra operazioni, chemioterapia, viaggi all’estero, mostre, arte, musica, libri, perché tra tentativi di alleggerire il peso della degenza, l’obiettivo è sempre quello di recuperare il tempo perduto, di darsi e di trovare un perché a questi lustri andati, consunti, smarriti.
Un libro, quello di Torrente, forte, che può piacere come non a causa dell’intensità della problematica trattata. Alla complessità della tematica si somma una prima parte lenta e difficilmente scorrevole ed una seconda rapida e diretta, nonché, una scrittura a tratti nervosa, acuta, graffiante, autentica che analizza nel profondo le relazioni umane, i rapporti che ne scandiscono l’essere da una prospettiva talvolta fanciullesca, talaltra adulta.