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L’autobiografia di Heni Beyle
Non si può certo negare che fra le caratteristiche di Stendhal ci fosse la passione per gli pseudonimi, e del resto Stendhal stesso è un nome di fantasia, sotto cui si cela Henry Beyle. Non c’è da stupirsi, quindi, se alla propria autobiografia, che poteva essere benissimo intitolata Vita di me medesimo, oppure più direttamente Vita di Henri Beyle, l’autore abbia preferito ricorrere ancora una volta a un innocente stratagemma ed è così che ai posteri è stata tramandata la Vita di Henri Brulard, dove, guarda caso, le iniziali del nome e del cognome sono le stesse di quelle dello scrittore francese.
Una domanda che però ci si pone è il perché di questa autobiografia, la cui stesura iniziò nell’ottobre del 1835, allorché aveva cinquantadue anni; sarebbe una risposta troppo semplice individuarne il motivo nella necessità di fare un punto della situazione, di tracciare, lasciando un segno a futura memoria, un’esistenza, magari più avventurosa e meno canonica di altre. In realtà, pur non escludendo questa ipotesi, per come è scritta, per le domande che vengono poste (Chi sono io? Sono buono, intelligente, cattivo, stupido?), assume le caratteristiche di una ricerca interiore, di una esplorazione fin dalla nascita del proprio “io” per cercare di arrivare a delineare un ritratto di se stesso. Lo stile non è diverso dal solito di Stendhal: diretto, immediato, con ben pochi fronzoli, votato unicamente al fine per cui il lavoro è stato intrapreso. E se i ricordi non seguono un preciso ordine temporale e le digressioni, peraltro sempre ben pertinenti, sono frequenti, è un piacere immergersi in questa narrazione, fatta in prima persona, non senza aver ben valutato pregi e difetti di parlare con un Je o con un moi, che ripugna un po’ all’autore, timoroso di porre troppo in risalto se stesso, nonostante che l’opera verta su di lui.
Sintetico e mai greve, apprendiamo così cose che ignoravamo, come l’autentica passione per la madre, persa quando era ancora un bambino; l’avversione per un padre, avido, ma non intelligente, e che finirà con il rovinarsi; la deliziosa e rapida descrizione del nonno materno, visto come un personaggio di cui non si può che avere rimpianto.
C’é tutta la sua vita, da scapolo sempre dietro alle sottane, le campagne napoleoniche, la penosa delusione per la restaurazione, i suoi viaggi, la disistima dei nobili, perfino il suo ateismo, insomma una confessione a tutto campo, spesso di un candore fanciullesco che induce a tenerezza.
Sembra un romanzo, il frutto di un’idea creativa, ma non lo è; è invece un quadro che si viene formando pagina dopo pagina e che ci aiuta a comprendere meglio, attraverso l’Henri Beyle uomo lo Stendhal scrittore, in fondo un incompreso alla sua epoca, troppo avveniristico, e del resto le sue qualità e gli estimatori emersero assai più tardi, nel secolo scorso.
A volte la narrazione diventa anche imbarazzante, come quando stila l’elenco selle sue donne: non poche, ma più insuccessi che successi, e forse sarebbe il caso di dire che non amò chi lo amava veramente, accendendosi invece di passione con quelle che giocavano all’amore. Si ritrova in questo un certo infantilismo, ma che non stupisce più di tanto, perché la prima donna che amò veramente fu proprio la madre, che un crudele destino gli portò via quando ancora ne era invaghito da bimbo che si stava affacciando alla vita.
Psicologicamente si potrebbe dire che la sua vita amorosa fu la continua ricerca di una seconda immagine di madre, che però non trovò e che comunque non avrebbe mai trovato.
Non credevo che, leggendo queste pagine, avrei provato un senso di pietà per uno scrittore che è fra i miei preferiti, e invece, nonostante una sua continua autoironia, trapela un patimento di fondo, un senso d’incompiutezza per un’infanzia troppo presto finita e la rincorsa accelerata verso un’età adulta, che lasciarono un vuoto che mai riuscì a colmare.
Vita di Henry Brulard è uno di quei libri che inizi a leggere per curiosità, ma che poi ti avvince tanto da non poter far meno, una volta ultimato, di riprenderlo in mano ogni tanto, per rivedere questa o quella pagina, per scoprire in fondo che nella vita di ognuno di noi gli aspetti comuni non sono poi così rari.
Potrei dire che è bello perché stato scritto da Stendhal, e sarebbe vero, ma forse il giudizio più aderente a una simile opera è assai più sintetico: è un capolavoro.
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