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Celebrare il dolore
"«Divorzio dalla famiglia» ci aveva detto nostro padre. Non aveva mai più aggiunto altro quindi, ancora oggi, tengo come valida la spiegazione." Un viaggio nel burrascoso mondo dei rapporti famigliari che non può che essere, nella sostanza, un viaggio all'interno di se stessi: è questo ciò che facciamo leggendo questo testo fortemente autobiografico di Ilaria Bernardini, scrittrice e sceneggiatrice di successo, quarantenne con un figlio adolescente, imitatrice "di personaggi di Bertolucci, di pugili e di sirene playmobil." Ilaria da qualche anno non ha più alcun rapporto con il padre, o meglio, il suo può essere considerato un rapporto unilaterale. La donna infatti cerca in tutti i modi di contattare il genitore: email, messaggi, foto, note vocali, tutto ciò che può essere utile ad avere un briciolo di contatto con l'uomo che le ha dato la vita resta disatteso, senza risposta, cade in quella crepa profonda che si è venuta a creare tra i due. Ma perché è successo questo? Per spiegarne i motivi Ilaria dovrebbe prima conoscerli, e per conoscerli non c'è altra via che andare a scavare in tutto ciò che è stata la loro vita insieme, prima che Achille, questo il nome del padre latitante, prendesse la decisione di tagliarla fuori dalla sua esistenza. "Abbiamo la stessa età, non abbiamo nessuna età. Siamo bambino e bambina, fratello e sorella, molto più che padre e figlia. E in questo sguardo orizzontale, in questo dolore che ha una radice molto più antica di me e di noi, sta tutta la nostra unione e tutto il nostro amore." La scrittura diventa quindi il mezzo per sciogliere i nodi di un rapporto fatto di passioni comuni, liti furibonde, momenti di grande tenerezza e altri di assoluta indifferenza. La pagina resta l'unico spazio su cui Ilaria può continuare ad incontrare l'uomo attraverso ricordi più o meno reali, dialoghi immaginari, evocazioni di racconti. Finché non trova un nuovo terreno di speranza, un luogo fisico ma anche fortemente simbolico su cui proporre al genitore di incontrarsi, o meglio scontrarsi: il ring. "Ciao papà! Ho trovato i guantoni che chissà come mai mi avevi regalato a sedici anni e chissà come mai ho sempre tenuto, casa dopo casa. Non li ho mai usati ma da qualche mese mi alleno a boxe. Ti va un incontro sul ring, il 22 settembre a Milano? Sono ancora una totale schiappa ma spero di migliorare. Baci, Ilaria." La comune passione per il pugilato diventa il pretesto per un faccia a faccia, ma Achille non risponde, non si sa neanche se abbia letto le parole della figlia e, se si, se le abbia prese sul serio o snobbate con fredda indifferenza. Il dubbio non impedisce comunque alla donna di concentrarsi sulla sfida, allenarsi con costanza, preparare l'evento nei minimi particolari, ring, kimono, volantini, perfino i venditori di supplì a bordo ring. Nel frattempo la vita scorre, ci sono la pandemia e il lockdown, le sceneggiature da scrivere, un figlio adolescente con cui instaurare un rapporto che non li porti sulla stessa strada dove sono finiti lei e suo padre, l'incontro con il suo idolo Bernardo Bertolucci. Soprattutto, c'è la costante, incessante ricerca dei perché, delle ragioni, dell'origine di un distacco che più dura nel tempo più sembra definitivo, di una "assenza che è potentissima presenza". Salirà, Achille, su quel ring? Riuscirà, Ilaria, a mettere all'angolo il suo inafferrabile avversario? "Il dolore non esiste" recita il titolo di questo libro in cui, con grande autoironia e senza alcuna autocommiserazione, l'autrice si mette a nudo, scopre se stessa e (cosa che i congiunti, a quanto pare, gradiscono ben poco) la sua famiglia. "Il dolore non esiste" le ha insegnato Chillino quando, per giocare, mordeva e pizzicava lei e le sue sorelle e insieme ridevano come matti. Una frase che ritorna spesso, un mantra che non serve a non sentire un dolore che invece esiste eccome, che fa parte di qualsiasi esistenza umana, senza il quale probabilmente non ci sarebbe vita, ma ad affrontarlo con la forza necessaria, con la dovuta consapevolezza, a celebrarlo come qualcosa di indissolubile da noi stessi, anche quando fa male. "Rileggo tutte le mail in cui gli chiedo: “Perché non ci sei?”. Studio le sue risposte laconiche. Quelle in cui mi scrive che non c’è non solo per me ma per nessuno, e mi parla degli arcobaleni che io vorrei vedesse anche se è cieco. Ne trovo una in cui gli invio una nota audio con la voce di mio figlio che canta una canzone sul suo numero preferito, l’otto. Mio padre non risponde. Ne trovo una in cui mi spiega cheda quando ha un anno non si è mai sentito connesso agli umani. E che a me, come a tutti gli altri, è legato da una profonda estraneità. “Sono estraneo anche alle persone particolarmente vicine, alla come-si-chiama famiglia .” Il suo silenzio non è rancore o offesa, spiega. “La vicinanza è una casualità, anche se ogni estraneità è unica. Noi tutti siamo stati fortunati perché ci siamo trovati sostanzialmente simpatici. Ma è così forte la luce, il lampo, il fulmine dell’estraneità che quando arriva acceca. Mi passerà quindi di certo questo bagliore” assicura, “è sempre stato così, è questo il mio modo di respirare.”