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Mariniello
 
Mariniello 2021-03-03 11:42:38 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Marzo, 2021
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Dolce stil novo

L’autore di “Mariniello”, questo insolito ed interessante romanzo, o meglio un intenso e tenero racconto breve, il fiorentino Stefano Prizio, è un noto giornalista sportivo.
Direi di più, è un intenditore appassionato e competente della squadra di calcio della sua città, di cui da sempre segue le gesta con le sue cronache precise e incisive, che delineano ben oltre i soli profili agonistici della partita domenicale, spesso sono solo un pretesto per discutere e dissertare di Firenze e della fiorentinità in tutti i suoi aspetti, anche per radio, in televisione, sui siti online.
Finché un giorno, all’apice del suo excursus umano e professionale, a Prizio accade un fatto che lasciamo definire a lui stesso.
Un evento che l’autore riporta subito, già nelle righe iniziali del suo libro, con una frase semplice ma quanto mai forte e struggente, efficace ed esaustiva, che racchiude in poche parole l’origine e l’idea di derivazione di questo suo romanzo:
“Neppur quarantenne, divenni portatore di handicap”.
Sic et simpliciter, Stefano Prizio, costretto d’improvviso a fare i conti con il lato duro e invalidante dell’esistenza, nonché con tutto quanto questo stato comporta e consegue a livello dei rapporti affettivi e professionali, non se ne lascia però fuorviare.
Lo rielabora alla luce della sua sensibilità di artista, e ne trae spunto per parlare di un altro handicap.
Dopo i primi, comprensibili e allucinanti momenti di sconforto, lo scrittore gradualmente prova a venirne fuori, a modo suo, avvalendosi soprattutto di quello che sa fare meglio nella vita, scrivere.
E lo sa fare davvero bene, con competenza e passione.
“Mariniello” ne è il fortunato risultato, proprio lo stato di impedimento fisico conduce l’autore a riconsiderare suo malgrado, tutta la sua esistenza trascorsa, le sue origini, le sue radici.
Ricostruisce, avendone tempo e modo durante la lunga, dura e dolorosa riabilitazione, un vero e proprio viaggio a ritroso nella propria esistenza, avvisando in questa un crociano corso e ricorso storico delle proprie vicende familiari.
Lo fa con il rigore del cronista, si informa, compie ricerche, scava negli archivi, si affida alla memoria e alle reminiscenze di parenti e amici, poi il tutto è la sua sensibilità a renderla sulle pagine.
Ne viene fuori un libro che non si ascolta, ma si vede, rende per immagini, e l’immagine è resa bene.
Perché Prizio non è, in un certo qual senso, nuovo all’incontro con l’handicap, prima che una sorta di ostacolo fisico lo limitasse personalmente soprattutto nell’interazione sociale, la stessa cosa era avvenuta prima di lui ad una persona a lui cara e vicina, il giovane Marino, di origine irpine, che era stato compromesso appena bimbetto da un handicap sensoriale, limitante ed esclusivo quanto non mai. Prizio mette al servizio della storia del piccolo Marino, “Mariniello” appunto, tutta la sua passione e competenza stilistica di scrittura, questa volta non decanta vicende calcistiche, e però l’incanto, l’emozione, la capacità di suscitare partecipazione ed interesse nella lettura della vita prima del bambino, poi del giovane e infine dell’adulto “Mariniello” , è la stessa che ne hanno fatto un cantore mirabile delle dispute viola.
L’autore ha scritto un romanzo curato nei fatti, nella cronologia, nella verità storica, a tratti anche puntuale e rigoroso nelle date, nei nomi, negli eventi occorsi, ma fa di più, narra luci e colori, note e suoni, pensieri ed emozioni, usa l’Amore come inteso nel fiorentino dolce stil novo per scrivere dell’Amore tra un padre e un suo figliolo, un amore unico ed inimitabile, stupendo ed impareggiabile, a prescindere dalla presenza di un handicap.
Un amore che si rinnoverà uguale, identico e speciale, e proprio perché tanto particolare, tra il figlio divenuto a sua volta padre, e poi ancora via così, una generazione dopo l’altra.
“Mariniello” infatti, narra Prizio, “…come se non bastasse la vita da sola a render dura la vita”, è uno degli otto figlioli di una modesta coppia di contadini dell’alta Irpinia, e quindi già nelle intenzioni destinato ad una vita semplice e certamente non completamente avara di gioie, ma infallibilmente dura, difficile, faticosa.
Sono posti quelli del Sud del primo dopoguerra arretrati, depressi, una natura affascinante ma spigolosa nella produzione di beni, per tanti motivi sociali anche avara per il sostentamento dei locali, per essi perciò è destino usuale stentare la vita e l’esistenza, scandita da sacrifici, rinunce, sofferenze, già alla nascita il loro duro destino è già prestabilito dagli dèi, dagli uomini e dalle circostanze.
Come se non bastasse, però, il piccolo Marino è colpito da una forte febbre maligna, proprio appena bimbetto, e perde l’udito.
Ciò ne compromette, a quell’età iniziale, anche la parola, e diviene quello che all’epoca, gli anni ’50, si definiva crudamente e crudelmente un sordomuto.
Tagliato fuori dal suono, dalla parola, ed in sintesi dal consorzio civile, condannato ad un’esistenza limitata e limitante per causa di una delle più gravi patologie invalidante l’interazione sociale.
Solo che…Pane e companatico mancavano alla sua famiglia, ma non l’amore, il coraggio, l’unione.
La stirpe di contadini di quell’epoca e di quei luoghi non era solita piangersi addosso per le sventure del vivere quotidiano, spesso frequenti per i motivi più svariati, guerre, fame, tribolazioni economiche, devastanti terremoti e calamità naturali.
Piuttosto la famiglia, non solo quella di origine, ma coinvolgendo anche quanti annessi e connessi fino ai rami più remoti degli intrecci familiari, suole far fronte comune in queste circostanze attorno al fuoco scoppiettante del focolare.
“…diverse generazioni condividono i pasti, il lavoro, gli svaghi.”
E le sventure.
Mai come nelle disgrazie, il senso della solidarietà tra sodali nella fatica del vivere è quanto mai sviluppato, vivo e condiviso.
L’ultima parola sul destino futuro del bambino sordo spetta al vero protagonista del romanzo, la figura principe nell’esistenza di Mariniello, il suo papà Antonio, detto Tata Antonio, o meglio l’Amore senza limiti che questo papà prova per il suo figliolo meno fortunato.
Ogni papà nutre un debole per il suo figlio più fragile, e Tata Antonio ama Mariniello in misura speciale ed intensa, inversamente proporzionale alla sua cultura e stato sociale, e dopo lunghe riflessioni e tentennamenti decide in amore e per amore, il corso dell’esistenza del suo figliolo, tanto più amato proprio perché colpito dalla malattia che lo renderà un disabile.
Per evitare al proprio figliolo limitato nella comunicazione di divenire altro che non sia un mulo da soma rozzo, incolto e inselvatichito nel suo microcosmo silenzioso, Tata Antonio accetta di separarsene sebbene con il cuore straziato.
Non vede il proprio tornaconto affettivo come qualsiasi genitore, ma solo un auspicabile futuro quanto più possibile analogo alla norma per il ragazzo, e lo accompagna pertanto personalmente all’istituto per la riabilitazione dei sordomuti di Firenze, certo lontanissimo dal luogo natio, ma di quanto più adatto ed efficace per la riabilitazione sociale e un minimo di educazione per i casi simili.
In sintesi, non lo affida ma lo cede agli altri questo figliolo adorato, e sa di farlo, perché lo educhino al meglio, anche se preferirebbe privarsi di un arto se non due, ma è uomo concreto ed efficace, come lo sono naturalmente sempre i lavoratori della terra. Non esiste Amore più grande.
A Firenze il piccolo, certamente anche lui con dolore e malinconia per il distacco forzato da luoghi e affetti, crescerà e diverrà un giovane adulto, apprenderà una proficua attività artigianale, imparerà a comunicare con i suoi simili attraverso l’apposita lingua per i sordomuti, una lingua visiva e non verbale, che segna anziché dire, che appunto sfrutta il canale visivo segnante integro nella persona sorda. Una comunicazione per immagini, e perciò efficace.
Un modo che serve per comunicare con i suoi simili, e con gli altri: ma non serve con Tata Antonio, più che con chiunque altro al mondo, tra il papà ed il suo figliolo non esiste invece alcun ostacolo a conoscersi, comprendersi, includersi, contenersi. Non è mai esistito, handicap o meno.
Non servono segni tra quel padre e quel figlio, ed è tutta qui la poesia del testo.
Antonio ed il suo Mariniello non sono divisi dal silenzio, ma da quello sono uniti: ed è un silenzio assordante il loro, pieno di riflessioni e considerazioni, di progetti ed intenzioni, di pareri e convincimenti. Non è una comunicazione la loro basata sull’empatia, su intesa mentale, unione istintiva, attrazione naturale, o finanche su una risonanza telepatica, è molto di più.
La loro simbiosi è la stessa che lega i funghi al sottobosco, che ne determina la crescita all’ombra dei grandi alberi, sono uno humus dell’altro, ambedue bisognano l’uno dell’altro.
Ciascuno dei due stimola la crescita dell’altro, finanche a distanza, sono nello stesso rapporto che sussiste tra una terra che dona cibo, calore e rifugio ed un seme che cresce e fruttifica.
L’handicap non limita, non li limita, fa da collante molto più di quanto potrebbe fare il semplice amore tra un papà ed il suo figliolo, un padre disposto a privarsi del proprio figliolo perché abbia non una parvenza ma un’autentica esperienza di vita, forse non esauriente ma certamente esaustiva.
Sarà anche grazie a questo amore ed esempio paterno che Mariniello, il “povero muto” come indicato a dito nella sua terra di origine, diverrà un uomo, un fiorentino più che se ci fosse nato, tifoso appassionato della Viola, supererà finanche la sua inconfessata inesperienza e timidezza nell’estrinsecare i propri sentimenti, dichiarandosi alla sua anima gemella, la graziosa grassottella Maria, anche lei sorda ma assai più spigliata di Mariniello, ed insieme a lei diverrà padre.
Ed il ciclo sembra chiudersi.
Proverà Mariniello la stessa gioia di Tata Antonio, sarà padre e educatore, sarà mentore, guida e protettore di un figliolo come Antonio lo è stato mirabilmente con lui.
Mariniello è quindi compreso tra l’amore del padre e quella del suo figliolo, Mariniello ricoprirà un duplice ruolo, sarà figlio sordo di padre udente e padre sordo di figlio udente.
Ambedue gli estremi della sua esistenza medieranno i suoi rapporti con il mondo dei suoni, compenetreranno il suo silenzio con le note della gentilezza, del garbo, della cortesia, sono i poli attraverso cui si incanala l’energia dell’amabilità, dell’affabilità, della disponibilità che rende ogni persona consapevole della propria dignità umana che nessun handicap potrà mai scalfire.
Mariniello sia con il padre che con il figlio non sarà mai diviso da alcun muro della comunicazione, perché sia il padre che il figlio hanno saputo abbattere questo muro scalzandone con delicatezza e premura mattone su mattone, e con quelle stesse pietre hanno realizzato un ponte, a due corsie, anche meglio di uno di quelli che sovrasta l’Arno, il primo con la manualità artigianale, il secondo con studi e cultura, ambedue con arte e amore oltre ogni limite.
Questa è l’emozione che restituisce il romanzo, la sua bellezza, la sua armonia, stanno in questo, è un racconto che ci narra come fu che il sordomuto Marino, bello, allegro, solare, con i capelli lisci, libero e indipendente, esattamente come si vede ritratto nella copertina del libro, sempre con la sigaretta in bocca ed il sorriso alla Diotifulmini, sarà per sempre per quanti lo conobbero non un povero sordo, non un misero muto, ma semplicemente “Mariniello”, figlio prima e padre poi di udenti di cui amava sentire la voce, recependola incredibilmente in pieno in tutte le loro tonalità e sfumature sonore, le stesse sue. “Mariniello” è il babbo di Stefano Prizio, l’autore di questo libro.
Lo è davvero, non è il parto della fantasia dello scrittore, è un personaggio reale, non un simbolo o una metafora, ed è un signor babbo, che un giorno divenne un portatore di handicap, e ciò malgrado ebbe una vita felice, per niente limitata. Per l’ amore portatogli dal suo, di babbo, Tata Antonio.
Stefano Prizio ne ha ricostruito il suo iter vitale, e poiché è bravo a scrivere di passione, qui si è superato, ha descritto l’amore per il suo babbo Mariniello, e lo ha fatto superando sé stesso, ha scritto di amore vergando la figura del suo babbo in tono gentile, in dolce stil novo, come d’uso a Firenze.
Stefano Prizio, fiorentino doc, che un giorno anche lui divenne un portatore di handicap, e poi a sua volta anche lui è divenuto padre, così che il cerchio non si chiude mai, rende un doveroso omaggio alle proprie origini non fiorentine, non perché necessita di una personale catarsi o redenzione nel ricordo degli avi o per porgere una banale riverenza al suo babbo.
No; Stefano Prizio con “Mariniello”, in sintesi, rammenta con garbo tutto toscano a tutti noi che l’Amore è il nostro babbo, il sentimento a cui tutti, nessuno escluso, dobbiamo il buono che siamo, il meglio che possiamo divenire, non esiste handicap che tenga con questo nostro Babbo che:
“…aveva sempre tenuta diritta la barca in ogni tempesta e tutti si appoggiavano a lui nei marosi della vita.”.
Non esiste silenzio che possa zittirlo, l’Amore del Babbo.
Lo puoi rendere solo con un’immagine, quella di copertina.

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