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Il miracolo della letteratura «frin-frin»
Leggenda Privata di Michele Mari è uno di quei libri che merita di essere letto innanzitutto per il suo vocabolario, per come è scritto: latinismi, citazioni continue, mises en abîme, manierismi, aposiopesi e parole alate, ancora adesso inafferrabili, trovano perfettamente il loro spazio in un periodare di una bellezza senza tempo.
L’Accademia dei Ciechi ha deliberato: Michele Mari deve scrivere la sua autobiografia o, come gli ha intimato Quello che Gorgoglia, «isshgioman’zo con cui ti chonshgedi». Temibile richiesta che, però, di fatto lo può salvare dall’incubo di ogni scrittore: veder scritta banalmente la propria vita da qualcun altro.
L’io inizia così a dar voce a quel destino passato per la cruna di un ago, il suo (in effetti fu «una borsa su cinquecento» quella vinta dal padre Enzo), prediligendo una via aneddotica e non lineare.
Sono dunque i moltissimi aneddoti, scanditi dal ritornello «nacqui d’inverno», a ripercorrere la sua “sanguinosa” infanzia-giovinezza, vissuta fra due entità opposte (i propri genitori, i «miei-loro»), una cameriera senza nome («Dea ma volgare»), rimembranze ancor oggi angosciose («vuoi un uovo?», «nastri gialli»), atti mancati e incubi fantastici, destinati alla condanna della ripetizione.
Un racconto privato in cui - pagina dopo pagina - viene mostrato in maniera sempre più evidente il miracolo di cui la letteratura «frin-frin» è capace: la possibilità di perfezionare-domare le proprie ossessioni con un solo e semplice strumento, la parola scritta.
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