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Terra Santa
Ha grande forza poetica questo Diario che, a detta della stessa autrice, è “un'opera lirica in prosa”. Pagina dopo pagina, annotazione dopo annotazione, Alda Merini ricostruisce e ripercorre la propria esperienza personale all'interno dell'ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove venne fatta ricoverare dal marito a partire dalla metà degli anni Sessanta: un lungo dolorosissimo internamento che le avrebbe lasciato nell'anima ferite profonde e, seppur a distanza di tempo, cicatrici destinate a non scomparire mai più.
“Ricordo il primo giorno che entrai in manicomio. Fin lì non ne avevo mai sentito parlare. Avevo chiesto aiuto a dei neurologi per dei piccoli disturbi, ma non conoscevo questi ghetti. Perché, se avessi saputo una cosa simile, mi sarei certamente uccisa.”
Ed ecco sfilare uno dopo l'altro, nella memoria di chi li ha vissuti sulla sua pelle, tutti gli orrori di quello che era all'epoca il manicomio, uno spazio strano e inumano, pieno di odori penetranti, in cui il tempo veniva meno riducendosi a una successione di giorni incolori sempre uguali: dalle abluzioni forzate del mattino all'elettroshock, senza dimenticare l'abbondante e scriteriata somministrazione di farmaci che finiva per distruggere la salute mentale di “malati” che, in molti casi, dalla pazzia vera e propria non erano certo affetti al momento del ricovero (spesso, in verità, si trattava di ordinari casi di depressione o di crollo nervoso); folli, semmai, si diventava per davvero, quasi come autodifesa, tra le inquietanti mura del manicomio, a seguito di trattamenti disumani e degradanti che buona parte del personale, tra medici e infermieri, non risparmiava a chi, là dentro, era totalmente inerme e alla sua mercé. Pochi, ma preziosi, i gesti di umanità in quel luogo di supplizio; calpestati senza pietà sogni e bisogni; limitata e mai incoraggiata la socialità tra i ricoverati (anche se ciò non impedirà alla Merini d'innamorarsi e sentire ancora la propria femminilità). Come quella di biblica ed evangelica memoria, anche il manicomio diveniva una sorta di Terra Santa, dove si espiavano le colpe del mondo e ogni cosa si faceva sacra, soprattutto il dolore.
“Sì, la Terra Santa. E noi vi eravamo immersi, in quelle latrine puzzolenti, dalle albe (ma non vedevamo mai un'alba) al tramonto più cieco.”
Tale esperienza non si esauriva con la fine dell'internamento, ma si trascinava anche oltre i cancelli dell'ospedale psichiatrico, condizionando per sempre l'esistenza anche di chi veniva infine dimesso, costretto a portare addosso un marchio d'infamia indelebile fra i pregiudizi e la diffidenza delle persone cosiddette “normali”.
“Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai”.
Pagine particolarmente drammatiche, sconfortanti e cariche di dolore intenso che, a tratti, sembra farsi palpabile nella successione talvolta disordinata e ripetitiva degli sprazzi di memoria che la grande poetessa milanese ha voluto qui condividere. Perché dopo il silenzio, anche poetico-creativo, al quale erano stata costretta in quegli anni miserevoli, sentiva forse il bisogno di raccontare, affinché niente di tutto ciò che aveva vissuto fosse più vittima anzitutto dell'indifferenza generale.
“La nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille solitudini; un silenzio ingombrante, atono, come le foglie ferme ma noi eravamo teneri usignuoli feriti e la nostra infelicità dava sangue e le nostre ali erano tarpate e il nostro grembo deserto.”
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Te lo consiglio, un libro molto toccante!
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