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La dislessia vissuta in prima linea
Teo ha dodici anni, frequenta la prima media ed è un bambino bello, intelligente e profondo. I suoi occhi ti scrutano dentro, le sue riflessioni ti sorprendono tanto sono mature. Ha una indole solitaria, introversa, riflessiva ed è felice soltanto quando indossa la sua camicia bianca, quando dorme rannicchiato a panino, quando non è costretto a fare quel che non desidera e soprattutto la grammatica (che tragedia il passato e il trapassato remoto!) e il tedesco (perché devo perdere tempo a imparare questa roba chiaramente inutile?). Eppure con il passaggio alle scuole medie qualcosa, in questo prima fanciullo e poi ragazzino, si infrange. È sempre stato considerato un po’ strano, ha sempre avuto delle difficoltà che altri suoi coetanei non avevano, ha sempre nutrito delle riserve sull’ammettere complicazioni nell’allacciare le scarpe o memorizzare le coniugazioni, ha sempre detto in giovane età “tì” invece di “sì” e ancora non sapeva pronunciare la ci, gi, zeta nonché la erre che saltava nei racconti, ha sempre trovato tantissima facilità a memorizzare tutti gli audiolibri che ascoltava, ma da quando frequenta questa nuova classe quelle eccentricità iniziano ad assumere nuove forme e colori. All’inizio i genitori pensavano che tutto questo potesse derivare dal suo carattere un po’ filosofo e ribelle, poi alla rivalità con la sorella o ancora al diverso atteggiamento della madre e del padre nei suoi confronti in quanto la prima tende ad essere troppo protettiva e a sopperire a tutto, a dispetto del secondo più intransigente e della filosofia di lasciarlo sbagliare e diventare autosufficiente.
Infine, su sollecitazione dei docenti stessi che giorno giorno assistono al suo distruggere le penne, ai suoi scatti d’ira, al suo chiudersi in un mondo tutto suo, al brillare per la rapidità dell’apprendimento frontale e alla totale disapplicazione nei compiti – che nemmeno appunta – e nella loro esecuzione, il colloquio con la psicologa, le analisi, i test, la diagnosi: DISLESSIA.
A questo punto tutto assume un senso come un puzzle che finalmente prende forma. Non è che non volesse le scarpe con le stringe, semplicemente non sapeva allacciarle, non è che non segnasse i compiti per una volontà di non farli bensì per l’assoluta incapacità di comprendere come farlo non sapendo come utilizzare lo strumento del diario, ancora la spiegazione di tutte quelle difficoltà, quelle ostinazioni che apparentemente non avevano una ragione comprensibile. E ancora, l’accettazione. L’imparare a vivere con questa diagnosi, l’imparare a far fronte a quelle esigenze che non sono sintomo di vizio o pigrizia, ancora la difficoltà di destreggiarsi nel mondo quando quel mondo per una “difficoltà” ti considera diverso.
Con un linguaggio fresco, lineare, semplice, diretto e soltanto nella prima parte talvolta un poco lento, Francesca Magni delineai i confini di un universo non così lontano dal nostro seppur spesso considerato tale. Perché la dislessia, ci sussurra tra le pagine, non tocca soltanto chi ne è affetto ma anche chi vi è accanto. Quello del lettore sarà un vero e proprio excursus di crescita e di conoscenza, di approfondimento e di empatia. Si sentirà vicino ai genitori, si sentirà vicino alla sorella e si sentirà, non di meno vicino a Teo.
Il tutto in un viaggio ricco di spunti di riflessione, di consapevolezza di chiavi di lettura per questa intelligenza disincantata avvalorato nella sua conclusione dalla presenza di due appendici sulla dislessia.
«Ora immagini che lì dentro fluttuino pezzi di coniugazioni greche abbarbicati ad associazioni assurde, un uomo che gioca con i lego, una limousine fatta di mattoncini colorati, una cantante pop che di greco antico sa meno di zero. Aggrappata a un’immagine come a un palloncino, ogni parola vola nell’etere cerebrale di tuo figlio. Intelligentissimo, dislessico. Quarta ginnasio, domani prima verifica di greco. Che Omero l’abbia in gloria, pensi mentre scende a fare merenda.»