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RINASCERE ALLA VITA
Quando, dopo un’inaudita sofferenza, la libertà finalmente arriva (come Levi documenta all’inizio de “La tregua”, ideale prosecuzione di “Se questo è un uomo”) di fronte ad essa “ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte”. “L’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre. […] Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. […] Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia”.
L’iniziazione alla vita dopo l’inferno del lager è lenta e laboriosa: abbandonati a loro stessi e circondati da indifferenza o disprezzo, gli ex-prigionieri si muovono come particelle impazzite in cerca di un centro di gravità qualsiasi. Intorno a loro, il mondo, lungi dall’essersi ristabilito miracolosamente sulle sue naturali fondamenta, fatica a riprendersi dagli orrori della guerra. Inizia così un lungo e precario vagabondaggio, tanto più penoso in quanto è come “se un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo, e che arrivi alla meta, nell’atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano”. Non c’è tempo per rilassarsi, non c’è tempo per commiserarsi: la lotta continua perché “guerra è sempre”, come ama dire con cinico pragmatismo Mordo Nahum, il greco con cui Levi divide una settimana di straordinarie avventure. Attraverso le esperienze di Cracovia, Katowice e Staryje Doroghi, il romanzo si sviluppa con un andamento tipicamente picaresco. Mentre lentamente riaffiora la voglia di vivere, mescolata ad una intensa nostalgia dell’Italia e della propria casa, si fa luce e viene progressivamente a delinearsi una galleria di personaggi indimenticabili. Oltre al greco, uomo forte e freddo, solitario e capace di “organizzarsi” in ogni situazione, voglio ricordare almeno Cesare, uomo libero e spregiudicato, simpatico ed insofferente di qualsiasi costrizione.
In queste pagine, Levi mostra una padronanza di mezzi espressivi ancora maggiore di quella evidenziata nel romanzo di esordio: ciò è senz’altro dovuto a un naturale affinamento tecnico dello scrittore, dato che “La tregua” è stato scritto molti anni più tardi, ma anche, a mio parere, e nell’ottica di una totale immedesimazione con le vicende narrate, al graduale sciogliersi di quel grumo doloroso rappresentato dallo stretto contatto con la morte e con gli orrori del lager, cosa che rende possibile perfino l’inserimento di qualche intermezzo dichiaratamente comico (ad esempio, la farsesca selezione dei russi nel campo di Katowice o il delizioso episodio della “curizetta”). Dalla narrazione viene anche fuori lo spirito della gente russa, caratterizzato dall’insofferenza per i formalismi, dalla approssimativa disciplina, dalla diffidente e sospettosa chiusura verso l’esterno, ma anche da un primordiale e omerico amore per la vita e per la terra.
I nove mesi trascorsi in giro per l’Europa, anche se duri e vissuti ai margini della civiltà, costituiscono un periodo di tregua, “una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino”. Il ritorno a casa, pur agognato e bramato in innumerevoli occasioni, significa infatti affrontare prove terribili ed ignote, tornare a misurarsi con il passato e la memoria, convivere con l’ineliminabile veleno di Auschwitz che subdolamente mina la volontà di vivere (e il suicidio di Levi sembra il tragico avverarsi di una lontana e fatale profezia). Scrive Levi, al termine di questa drammatica odissea, che a distanza di anni un sogno continua a tormentarlo con insistenza: “Sono […] in un ambiente placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti […] tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone. […] Sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno. […] Odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba di Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, Wstawac”. La ferita di Auschwitz, con il suo strascico di orrore e di dolore, non cessa di dolere anche una volta rimarginata, impietosamente l’Olocausto, che invano si è tentato di esorcizzare, continua a mietere le sue vittime.