Dettagli Recensione
L'incontro..
«Sono tragedie terribili e penose, ma in genere capitano agli altri. Le guardiamo come tragedie individuali che suscitano gesti di solidarietà o scaramanzia – le carezze alla bambina che non parla eppure sorride se la tocchi, un fazzoletto al naso per non sentire un certo olezzo di deodorante e urina – ma rimangono questioni private»
Un incidente. Una notte, un’operazione di tante, troppe, ore, una vita che inesorabilmente cambia. Di prospettiva, di sostanza. Perché da quel momento, ella non è più la stessa. Non può materialmente e propriamente esserlo. Da quel momento le sue gambe cessano di essere il contatto col mondo; ospedali, rianimazione, il Dottor G, il suo midollo, le sue ossa, la fisioterapia, diventano costanti insieme a quel senso inarrestabile di perdizione.
Perché da quell’attimo, chi è lei. Dov’è finita la donna che sino ai trent’anni, data del sinistro, conosceva? Nostalgia. Di chi? Di sé stessa. Malinconia? Si, di quel che aveva e che più non ha. Paura. Paura di quel che è diventata. Morta. Semplicemente deceduta. Una sensazione tangibile con mano nei giorni di degenza e di cura, una sensazione palpabile in quell’animo che ogni dì è chiamato a fare i conti con sé medesimo e con il mondo circostante. Il tutto si insinua ed intercala in quella che era la sua esistenza, una realtà caratterizzata da un compagno, da una figlia, da una presunta normalità.
Essenziale l’incontro con Giovanna, la c.d. Donnagatto per le abilità quasi feline nonché per il suo esser capace di apparire e sparire silenziosamente come i medesimi. E’ a questa figura, a cui è stata amputata una gamba e a cui è impossibile muovere l’altra, che si deve l’educazione al mondo della disabilità, è all’energia, la volontà, la testardaggine ma anche alla sfiducia, all’avvilimento che costituisce il suo secondo volto, che costituisce e rappresenta la sua preferenza alla morte piuttosto che alla condizione di diversità in cui è radicata, che si deve la crescita e la maturazione della protagonista. E’ a questa che si deve il suo continuare a scrivere: perché scrivere, è un marchio. Non può farne a meno, eppure non si aspetta il successo. Non si aspetta di essere letta, non si aspetta riscontro alcuno, da alcuno.
Con “La notte ha la mia voce”, Alessandra Sarchi, affronta una delle problematiche più complesse e più lasciate a sé stesse: quella della disabilità. Questa, è infatti, una condizione che siamo abituati a riconoscere negli altri, ad indentificare come un qualcosa che non ci appartiene direttamente e a cui dunque, soventemente, ci relazioniamo con un filtro, come se innanzi a noi sussistesse un vetro che ci colloca dall’altro lato della barricata. Certo, non per tutti è così, vi è anche chi conosce direttamente della stessa, chi negli anni vive e cresce con persone malate, chi è indotto dalle circostanze a venire a contatto diretto con queste dimensioni, di fatto, però, esse sono percepite dalla maggioranza, per una ragione o un’altra, con distacco.
L’autrice parte col raccontarci quello che significa dover cambiare radicalmente la propria prospettiva di guardare e vivere il mondo dal semplice e mero dover scrutare l’interlocutore dal basso verso l’alto e non direttamente negli occhi, con sguardo paritario, racconta cosa significa dover abbandonare quei vezzi femminili quali le calze di seta trasparenti, o ancora i tacchi, perché la circolazione delle proprie gambe non ne consente più l’utilizzo, racconta l’ansia dell’attesa di ogni visita, di ogni sintomo che al manifestarsi è un presagio o motivo di preoccupazione, ed ancora descrive quel senso di impotenza che attanaglia, quel dolore intimo e costante che ci piega ma non ci spezza. Perché Alessandra è stata trascinata dal vento, ma ad esso non si è arresa. Ha tirato avanti.
«Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva.»
E ci descrive ancora la brama di quella polvere sotto i talloni, di quella voglia di alzarsi sulle punte, di rivivere un “en dehors” o un “en dedans”, di compiere quei gesti sinonimo di indipendenza e di esistenza.
E ci descrive ancora il rapporto con Giovanna, un legame accuratamente delineato ma che mai si sovrappone al contesto. Con le sue parole fa sì che le due donne si confrontino tra loro, che percorrano un “pezzo di strada” insieme e poi, come l’incontro ha avuto luogo, fa sì che il medesimo abbia fine e che ciascuna strada riprenda il proprio corso.
Il tutto è un viaggio scandito dalla forza di tre elementi; “La terra”, “L’aria” e “L’acqua”, elemento in cui la gabbia del corpo, viene meno. Il tutto è avvalorato da una penna erudita, dura, diretta, che nulla risparmia al lettore in ogni suo frangente.
«Li era iniziato il distacco da me. Se scavi e dividi la neve, sotto puoi scoprire il nero che agglutina. Retrocedi per gradi fino allo zero di te stesso, separi le sillabe, scomponi il suono dal significato e ti senti quello che sei: un estraneo sempre, calato in un insieme di membra che non hai scelto, anche se ti hanno detto che quel corpo è tuo e devi averne cura, calato in un nome che non ti rappresenta, ma al quale aderisci per inerzia burocratica e consuetudine fonetica: così ti ha sempre chiamato tua madre, e dopo di lei tutti. »