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In cerca dell'identità sconosciuta.
Mauro Covacich, nel gennaio 2017, pubblica La città interiore. Lui è nato a Trieste nel 1965, e in questo testo assume il difficile compito di “testimone” della memoria, conseguenza diretta della sua nascita in una terra i cui conflitti hanno aperto le porte alla grande cultura,a personaggi che assurgono a “mito” più che alla loro appartenenza ad un cenacolo letterario. Saba, Svevo, Slataper, Tomizza, Pahor: ci sono tutti. Sono scrittori di confine che esprimono in sé “quell’essere altro” da un’italianità provinciale, perché la Storia è passata sulle loro geografie ampliando e destituendo la memoria. E tali sono rimasti. Paiono quasi nobili narratori che vagano smarriti tra dialetti e mescolanze di razze, scolpiti nel tempo come testimoni indefessi.
La città interiore è una ricerca memoriale, un romanzo di formazione, ma è il libro sulla “sua Trieste”. Città limpida, viva nelle onde, ventosa, dove gli echi della cultura mitteleuropea si scontrano con le radici di una appartenenza divenuta, anche, odio etnico, guerra, fratricidio. Si inizia con un bambino di sette anni che attraversa Trieste, appena liberata nel 1945, portando una sedia sulla testa. Si continua, poi, con quello stesso bambino divenuto ormai adulto e padre, che nel 1972, accompagna suo figlio a contemplare la città dall’alto. Quel bambino, anche lui di sette anni, è Mauro Covacich che da adulto si sofferma a meditare sulle proprie radici, recuperando il tracciato morale e culturale della sua stessa famiglia.
E’ un percorso d’amore per una città, la sua città Trieste, compiuto da uno scrittore che ancora si affanna a comprendere, scavando a fondo, perché, come diceva Quarantotti Gambini:
“il tempo fa crescere tutto ciò che non distrugge.”
Un libro patito, importante, ricco di questioni irrisolte con la Storia con la S maiuscola, scritto con una prosa elegante, precisa, profonda, colta. Un libro sulla memoria, che guarda con uno sguardo disinteressato ma sofferto ai tanti enigmi irrisolti dei popoli “di confine.” Perché anche quando si trova casa nella scrittura, perché l’idioma con cui si scrive:
“è lì a rammentarti che non sei a casa tua. E’ un disagio di cui però puoi fare tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello.”.
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