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Un’autobiografia come romanzo horror triste e dive
Un’autobiografia insolita quella che ci propone Michele Mari, con il titolo “Leggenda privata”. Dichiaratosi costretto da una non meglio identificata Accademia dei Ciechi a scrivere la storia della sua vita, l’autore si premura di avvisare i committenti e i lettori che il suo sarà un romanzo dell’orrore, “un romanzo triste/angosciato e dunque caratterizzato da una certa quota di divertimento e di virtuosismo.” Egli infatti afferma di essere nato “da un amplesso abominevole” tra un padre in parte Mosè in parte John Huston e una madre spesso vista come un ultracorpo talvolta triste, talvolta sorridente, talvolta urlante. È così che Mari inizia il suo racconto, che prosegue rievocando le umili origini dei nonni paterni emigrati dalla Puglia verso il nord d’Italia, e descrivendo con spirito critico ma pieno di malcelata ammirazione l’impegno eccezionale del padre Enzo a divenire un grande e noto designer. La personalità paterna dominante nell’ambito familiare viene vista dall’autore in età adolescenziale come incompatibile con il carattere della madre le cui fragilità saranno d’ostacolo a un’unione duratura. Il racconto non concede nulla al patetico, pur lasciando trasparire una certa sofferenza giovanile. Mari riesce a creare una serie di personaggi tra il fantastico e il grottesco, ai quali non dà nomi precisi, ma che definisce con originalità Quello dalle Orbite Vuote o Quello che Gorgoglia o anche Quello che Biascica, tutti membri dell’Accademia dei Ciechi. Ma il suo cuore di adolescente è preso da una giovane cameriera vista e ammirata alla Trattoria Bergonzi che egli definisce quella “cum quej sokkol” colpito da quei talloni rosei divenuti per lui un sex-symbol. Della ragazza non sa il nome vero: egli la chiama “Donatella-Ivana-Loretta”. Le sue fantasie erotiche si alternano a incubi fantastici che si ripetono lungo tutta la sua vita. Il racconto e, in senso più lato, la letteratura è il mezzo per demistificare le paure dell’inconscio. Il vocabolario di Mari è opportunamente diversificato: dalle espressioni dialettali dei nonni, al linguaggio colto e ricercato, risultato di studi letterari e di frequentazioni intellettuali con personaggi del calibro di Montale, Buzzati, Jannacci e Gaber. Originale e inattesa è la conclusione del racconto, che trasforma legittimamente l’autobiografia in romanzo. Molto belle le fotografie tratte dall’album di famiglia dell’autore, che aiutano a immaginare l’atmosfera e l’ambiente in cui si sono svolti i fatti narrati, e che ci danno altresì un’idea di quale potesse essere realmente il carattere dei personaggi.