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Vasco e Ferruccio
Nato a Firenze nel quartiere de’ Magazzini il 19 ottobre 1913 e figlio di Ugo, cameriere, e di Nella Casati, sarta del laboratorio del corso morta nel 1918 mentre il marito era al fronte e ad appena 25 giorni di distanza dalla nascita del secondogenito Dante, ribattezzato dai suoi protettori, Ferruccio, Vasco Pratolini è un uomo malinconico, che affronta la vita con concretezza, senza illusioni, è un individuo che è mosso dalla curiosità, dalla smania di conoscenza tanto che, persino dopo essere stato cacciato dagli Scolopi per indisciplina, fa della lettura e dello studio da autodidatta una costante.
Da sempre il rapporto col fratello è complesso. Nella giovane età si può parlare di un legame paragonabile a quello di due sconosciuti: prima l’autore non vede di buon occhio Ferruccio perché implicitamente lo ritiene responsabile della morte della madre, successivamente lo percepisce come un estraneo, essendo quest’ultimo cresciuto sotto l’ala di una famiglia agiata ed essendosi i rapporti tra questi limitati a rapidi incontri del giovedì, brevi lassi di tempo in cui era impossibile instaurare un affetto per tempo e pensiero. Due anime parallele destinate a non incontrarsi mai, potrebbe osarsi.
Intorno ai venti anni del minore e dei venticinque dello scrittore, il riavvicinamento. Un rincontrarsi ma anche un imparare a conoscersi, per la prima volta, davvero. Da questo momento, i due costruiscono quel “ponte di contatto” che le circostanze della vita avevano impedito. Per entrambi essenziale è la nonna, con cui Vasco cresce e a cui Ferruccio chiede, domanda della madre. Ambedue soffrono dell’assenza di questa figura, il maggiore perché nel suo ricordo non poteva vedere una donna viva poiché questa altro non era che un’immagine confusa, avvolta nel velo della commedia, e percepita per la prima volta nel letto di morte, per il minore è quel punto fermo che non ha mai avuto, una persona intorno alla quale ruota la menzogna, il sentito dire, il riportato, si vociferava infatti che ella fosse “matta”, “strana”. Quale la verità? Quale la falsità?
Poi la malattia. Il dolore di un corpo che si consuma senza pietà, divorato da un male incompreso ed inspiegato dai medici che dopo tentativi su tentativi altro non hanno potuto fare che alzare le mani per arrendersi al destino. Alcuna la possibilità di salvezza. Il dolore per l’impossibilità e l’incapacità di fare qualcosa, di alleviare quella pena, quel dolore atroce a cui Vasco assisteva impotente.
Un romanzo che nella sua semplicità e brevità fa breccia nel cuore del lettore, lasciandolo riflessivo, turbato, scosso.
«Ci si può assuefare alle persecuzioni, alle fucilazioni, alle stragi; l’uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore. Il cuore dell’uomo è un meccanismo di precisione, completo di poche leve essenziali, che resistono al freddo, alla fame, all’ingiustizia, alle sevizie, al tradimento, ma che il destino può vulnerare come il fanciullo l’ala della farfalla. Il cuore ne esce con il battito stanco; da quel momento l’uomo diventerà forse più buono, forse più forte, e forse anche più deciso ma non troverà più ne suo spirito quella pienezza di vita e di umori in cui ogni volta egli sfiora la felicità.» p. 97
«La tua sensibilità ti portava a prospettare ogni conflitto, anche il più banale e fortuito, come una colpa di cui soffrivi esasperandone i toni, l’umiliazione e lo sconforto. Ora io so che tu eri un inerme, votato ad uno sterile sacrificio, in un mondo ove anche l’agnello è costretto a difendere ferocemente la propria innocenza» p. 102
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