Dettagli Recensione
Qualcuno nasconda la carta ad Ozpetek!
Un libro che a mio parere raggiunge a malapena la sufficienza; un bignami di sensazioni, ricordi e nuove esperienze appena abbozzati che non riesce, e forse nemmeno si sforza, di andare oltre una narrazione superficiale e scarna, cosparsa qua e là di massime a dir poco banalotte. Non aiutano gli evidenti riferimenti fatti a molti personaggi dei suoi film; non so se ci siano elementi autobiografici o meno, in ogni caso l'impressione che rimane è quella di un'opera di marketing (mal riuscita) che è un po' un'accozzaglia di tutte quelle particolarità che contraddistinguono la sua regia. Istanbul non l'ho vista, non l'ho sentita e non l'ho immaginata, è rimasta lì, chiusa in se stessa e a debita distanza. Se ne avesse fatto un film sicuramente sarebbe stato più apprezzato, anche se solo per la singolarità del modo in cui Ozpetek presenta l'immagine, saper scuotere gli animi attraverso la lingua scritta purtroppo non è cosa da tutti. In conclusione, poche righe di riflessione sul suicidio sono l'unica cosa che mi è rimasta impressa di questo altrimenti trascurabilissimo racconto:
«Ma perché?» mi chiedo, inutilmente. Non c’è mai un perché quando una persona rinuncia a vivere. Quando sceglie il buio, invece della luce. Non c’è mai un perché, o meglio, ce n’è uno solo: il mal di vivere. La fragilità. Ci sono persone troppo fragili, ed è proprio questa la loro debolezza ma anche la loro bellezza: un’immensa fragilità, quasi fossero fatti di cristallo, così trasparenti e luminosi, ma difficili da maneggiare, anche per gli altri. Non resistono agli urti della vita, agli ostacoli, agli ammaccamenti, alle cadute. È per questo che Yusuf si è ucciso? Forse, ma le spiegazioni del dopo sono inutili. Il mal di vivere ti afferra alla gola, ti avvelena lentamente; quando prendi i sonniferi, quando ti butti dalla finestra, quando scegli il buio, in realtà ti sei già ucciso piano piano, migliaia di volte. La morte, allora, è una liberazione.