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Bimbo mio, non piangere più
“Un bambino piangeva” è un romanzo breve nel quale Aldo Nove riconferma la propria vocazione per la poesia.
L’occasione è qui fornita dall’autobiografismo dei ricordi di quando Antonello nelle vacanze estive partiva da Viggiù e raggiungeva il nonno Giuseppino in una Sardegna ancestrale ed essenziale (“Per arrivare dal porto a Ortueri bisognava fare chilometri e chilometri di stradine tortuose”), che si manifestava nell’animismo di luoghi popolati da spiritelli e attraversati dallo spirito della terra.
Dopo un’introduzione ironica nella quale Aldo Nove celebra l’ambiguità e l’infelicità (“Salgari… l’autosbudellamento rituale… sommerso dai debiti…”) di scrittori (“Borroughs… giocando a Guglielmo Tell con la moglie, la beccò in faccia e l’uccise”), pensatori (“Pitagora… davanti a un campo di fave… piuttosto che attraversarlo, si fece raggiungere e sgozzare”) e filosofi (“Althusser, noto più che altro per aver strangolato, uccidendola, la moglie durante un massaggio – i filosofi, si sa, hanno poca manualità”), per concludere che “ci sono troppi scrittori e filosofi assassini”, i ricordi di Antonello si alternano a mitologie (“Quel gioco era il passatempo degli dei”) e tradizioni (“Come il dio distratto le avesse trasformate da api in Janas”) rivissute in chiave personale attraverso la figura di Saltaro, che assiste sgomento alle atrocità della conquista fenicia dell’isola.
Tra bambini che piangono (“E io ero quasi in Sardegna e piangevo di gioia”). Prendendo le distanze dalle crudeltà della storia (“Così si fanno le guerre e la gente si ammazza. Prima perché fa confusione, poi perché fa più confusione di prima. Quella era la storia dell’uomo secondo mio nonno”).
Con un occhio puntato alle culture orientali (“La luna – insegnavano gli sciamani – è il sole della notte, e la notte è il giorno che dorme”), nella poetica che sembra ispirarsi a quella del fanciullino di Pascoli, Aldo Nove prosegue nel suo percorso poetico lasciandosi alle spalle un passato di ex cannibale.
Bruno Elpis