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Quelli che conoscono Beppe Viola e quelli che no
“Mio padre è stato anche Beppe Viola” è un bel ritratto di un uomo pieno di ironia, di genio, di capacità di improvvisazione, scritto con amore da una figlia cui capitò di perdere il padre troppo presto.
Beppe Viola, indimenticabile giornalista sportivo, morì per un ictus il 17 ottobre 1982, a quarantadue anni, dopo la partita Inter-Napoli a cui stava lavorando. Ricordo ancora, dopo oltre trent’anni, il commosso articolo-necrologio che gli dedicò Gianni Brera, e che ho ritrovato in rete:
“Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli… Povero vecchio Bepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato in una corsa. Tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva uno humour naturale e beffardo, un’innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per avere chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io che soprattutto per questo lo amavo, ora provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore…”
Marina Viola ci avvisa: “questo non è un libro su Beppe Viola. E’ un libro su mio padre, quello che mi sgridava quando la facevo fuori dal vaso, quello che mi firmava le giustificazioni, quello che veniva in vacanza con me, che leggeva il giornale sulla poltrona.” Il suo omaggio e saluto al papà ci mette in contatto con la straripante personalità di un personaggio che era Beppe Viola anche tra le mura domestiche, genio e sregolatezza sempre, che si trattasse di commentare una partita di calcio, scrivere una canzone con Jannacci, la sceneggiatura di un film, un testo per Teo Teocoli o per Cochi e Renato, scommettere su un cavallo, far arrivare in ritardo Bruno Pizzul alla sua prima telecronaca, intervistare Gianni Rivera su un tram con i passeggeri che si muovono intorno, coinvolgere la figlia di nove anni nell’intervista televisiva a Umberto Tozzi e concludere tutti e tre alla mensa della Rai, spedire a casa da sola a sei anni, da San Siro a viale Argonne un’altra figlia “rea” di eccessiva incompetenza calcistica.
Quest’ultimo episodio merita una citazione: “Anche Anna dovette tornare a casa da sola, una volta che aveva appena sei anni: fu quando lui decise di portarla a vedere una partita di calcio a San Siro, che non è propriamente vicino a via Sismondi. Lei era ovviamente gasatissima, e fingendo di voler imparare le regole del gioco gli chiese: "Ma quello che corre vestito di nero, di che squadra è?". Mio padre non rispose neanche: si alzò, afflitto, la scortò fino all’uscita dello stadio. "Là in fondo c’è la metropolitana, arrangiati. Ci vediamo a casa” .
Sul lavoro non tollerava sciatterie, e arrivava a multare chi usava parole retoriche come “sfrecciare” o espressioni inappropriate come “ginocchio in disordine”, il centrocampista va a battere”, “il tiro si spegne”. Del resto, erano i tempi in cui raccontare lo sport era ancora materia umanistica, coltivata da uomini come Sergio Zavoli, Gianni Brera, Oreste del Buono.
Il ritratto di Beppe Viola, la storia di personaggi come il padre marconista e la madre Cicchinina, la rumorosa compagnia degli amici del bar Gattullo e del Derby è anche il ricordo di una Milano che oggi è difficile riconoscere, di famiglie vissute sempre nello stesso piccolo reticolo di strade attorno a via Lomellina, vacanze in Liguria, il tram la mattina presto, le botteghe, il vicinato, il quartiere.