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La fantasia è ciò che ci separa dalla follia
Tanto vale essere sinceri. Mi hanno regalato questo libro per il mio compleanno e nella mia meschina, pregiudizievole superficialità mi era parsa una scelta letteraria alquanto azzardata, se non un po’ infelice. E adesso che ho finito “Apnea”, in una maratona che solitamente dedico solo ai thriller più ipnotizzanti, mi sento un emerito imbecille per aver pensato certe cose prima del dovuto. La disabilità è un ambito che “conosco” più approfonditamente solo da un anno a questa parte, e la letteratura che spazia su queste tematiche mi era ancora oscura. Non ho la presunzione di dire che dopo questo romanzo la mia sensibilità in merito sia cambiata notevolmente, non è così facile rapportarsi con realtà così dolorose e non tutti sono portati per questi incontri. L’incontro con Lorenzo, però, è diverso. E’ dolce, graduale, raccontato da un punto di vista lucido che analizza con coscienza il passaggio dalla plenipotenzialità che si dà per scontata alla gabbia fisica e psicologica che si chiude quando gli avvenimenti decidono per noi. Lorenzo Amurri, alla metà degli anni ’90 è un bel ragazzo di 25 anni. Un rockettaro incallito con una sfrenata passione per la musica e per le sue chitarre. Un estimatore del tatuaggio vistoso e del capello lungo. Un moderno bohémien che vive di eccessi e di forti sensazioni, nella imperitura ricerca di spezie dal sapore sempre più intenso per condire la propria giovane vita, ancora in boccio e gonfia di rosee aspettative. E’ una di quelle persone che non ha la minima intenzione di relegare la propria passione ad un ruolo di secondo piano nella propria esistenza. Vuole vivere di musica, vuole fare quello per cui sente di essere nato, vuole buttarsi a volo d’angelo sul pubblico alla fine di uno dei suoi concerti. E’ un ragazzo come tanti che aspetta di svolgere la matassa dei propri vent’anni nel modo più congeniale alla sua natura. La realizzazione dei suoi progetti non è però scritta nel suo futuro, che si spezza, assieme alla sua colonna vertebrale, in un drammatico incidente sciistico.
Da questo momento, da questa quasi-morte, inizia la sua successiva quasi-vita. Inizia una fase del proprio vivere priva di qualsiasi metro di paragone per poterla rapportare a quella in cui poteva contare sulla propria indispensabile indipendenza, quella garantita dall’uso delle gambe e delle mani. Si ritrova con l’ottanta percento del corpo paralizzato senza possibilità di guarigione, in cui il carceriere non è altro se non il proprio corpo inerte. Lorenzo, in una clinica svizzera, imparerà, dopo lunghi mesi di operazioni chirurgiche, fisioterapia e fasi di riabilitazione, a gestire il proprio corpo mutato da un incidente che non sarebbe dovuto accadere, in quella mattinata in cui tutte le cose animate e inanimate avevano lanciato segnali, in un’appartente, muto tentativo di farlo desistere da quella sciata fatta controvoglia.
E quando il nucleo protettivo dell’ospedale, quasi un grembo materno in cui trovare riparo, non risulta più necessario si rende conto di dover affrontare concretamente, con meno armi e meno sicurezza, la propria vita dal punto in cui l’aveva lasciata. Lascia quindi Stefan, l’infermiere anarchico che gli consentiva bonariamente di infrangere il regolamento ospedaliero, Claudia, la dottoressa con cui aveva instaurato un meraviglioso rapporto di amicizia, e tutti gli altri mielolesi con cui gareggiava in velocità sulle carrozzine motorizzate. Lascia tutto questo per tornare a Roma, dove lo aspetteranno delusioni, ricordi, speranze e difficoltà da dover sormontare per riconquistare il minimo indispensabile di quella voglia di vivere necessaria per andare avanti.
La storia autobiografica di Lorenzo, come è facilmente intuibile, non racconta della disabilità. Non è un patetico inno alla propria autocommiserazione, così facile e apparentemente benefica. Come non è un monito a tutti quelli che hanno ancora la fortuna di tenere in mano tutti i fili del proprio futuro. E’ una disperata ode alla vita. E’ una piccola, commovente favola reale che ci fa esplodere in faccia il vero significato delle nostre scelte, delle conseguenze che comportano e delle difficoltà da affrontare per ricostruire noi stessi. Con un linguaggio semplice, limpido e chiarissimo ci viene impartita con dolcezza una lezione di importanza cruciale per capire quanto valore diamo alle cose che ci sembrano scontate, che non sono più tali quando arriviamo a perderle irrimediabilmente. Questa lezione è la seconda a distanza di poco tempo che mi viene data da uno scrittore italiano. Se con Molesini avevo visto il significato più profondo della vita attraverso gli occhi di un bambino, con Amurri lo imparo attraverso l’esperienza della disabilità. Ed è con un personalissimo ragionamento che mi chiedo se sia giunto il momento di rivalutare in qualche modo la nostrana letteratura contemporanea, tanto evitata dal sottoscritto quanto, forse, meritevole di maggiore considerazione. La risposta certamente arriverà, per il momento sono grato alla persona che mi ha donato questo libro e sono speranzoso di poter fare altrettanto limitandomi a consigliare con tutta l’enfasi possibile questo romanzo di così rara profondità.
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