Le recensioni della redazione QLibri

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Luglio, 2019
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Istanbul, città femmina

Sarà poi vero che, quando il nostro cuore cessa di battere, l’attività cerebrale persista per svariati minuti? E, nel caso, quanti e quali pensieri in quel momento sopravvivono?
La mente di Leila, dopo la morte, ha continuato a essere attiva esattamente per dieci minuti e trentotto secondi, un lasso di tempo insignificante ma sufficiente per rievocare, partendo da sapori e profumi che riaffiorano come per incanto, tutta una vita iniziata non nel migliore dei modi e finita tragicamente. Prende così avvio la vicenda narrata nel nuovo romanzo di Elif Shafak, scrittrice turca tra i nomi più noti dell’odierno panorama letterario, non solo vicinorientale ma mondiale.
Leila, la protagonista, soprannominata “Tequila” per la sua resistenza a mandar giù le amarezze della vita un sorso dopo l’altro, era una prostituta della vecchia via dei bordelli di Istanbul, città di cicatrici più che di occasioni, dove era arrivata ancora molto giovane, sola e senza un soldo, facile preda di chi se n’era subito approfittato vendendola a uomini di tutte le età; il passo che l’aveva poi portata a esercitare in una casa di tolleranza autorizzata era stato brevissimo. Nata e cresciuta in una cittadina di provincia lontana anni luce dalla capitale, Leila fuggiva da un ambiente familiare pieno di veleni e menzogne. L’amore l’aveva dapprima sfiorata, poi trovata, infine tristemente abbandonata, mentre l’amicizia, quella più autentica e coltivata nel corso degli anni, avrebbe continuato a riempire e sostenere la sua esistenza messa a dura prova. E proprio i suoi amici, cinque in tutto, ognuno a suo modo appartenente a un mondo di reietti della società, trovano ampio spazio tra le pagine del romanzo con le rispettive storie che s’intrecciano a quella di Leila.
Trama originale e anche appassionante, quella costruita dall’autrice che ci racconta non soltanto una dolorosa vicenda umana, seppur di fantasia, ma pure parte della storia contemporanea di un Paese, la Turchia, da sempre in bilico tra Europa e Asia. Sullo sfondo, bella e dannata con le proprie aspirazioni occidentalizzate, compare in particolare Istanbul, “città femmina” secondo la definizione della stessa Shafak, dove convivono modernità e tradizione e nella quale si ritrovano i sogni e le disillusioni di tanti che vi si sono trasferiti per cercare fortuna. Il Cimitero degli Abbandonati di Kylos, esistente per davvero, diviene drammatico simbolo di come la vita possa concludersi nel peggiore dei modi per molte di queste persone che sono tagliate fuori dal perbenismo ipocrita della società, Leila e i suoi amici compresi.
A parte la traduzione in lingua italiana che reitera scorrettamente la parola musulmano con la doppia esse (persino in arabo, si scrive con una esse sola!) e diverse imprecisioni formali anch’esse ripetute più volte, il romanzo offre una prima parte, incentrata sulla storia personale di Leila dalla nascita fino alla morte violenta, che cattura il lettore con uno stile affascinante e coinvolgente; nella seconda e terza parte, a mio parere, l’intensità della narrazione viene invece decisamente a scemare, seppure vi siano svelati vari retroscena utili a ricostruire il quadro completo della storia, forse per via degli eventi finali troppo concitati o dei tanti dialoghi non esaltanti tra gli amici. Nel complesso, una buona lettura che, tuttavia, non mantiene pienamente le promesse iniziali.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Luglio, 2019
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Attenzione all'orso-coniglio mannaro

Il nuovo romanzo di Lethem è un noir dall'ambientazione originale. La vicenda si svolge in una parte desolata della California con deserti, montagne e chilometri di nulla tra roulotte, capanne e grotte abitate da persone che hanno lasciato la civiltà e si sono riunite in fantomatiche comunità a metà strada tra zen, new age e setta con relative regole rigide e integralismo. L’ambientazione è la cosa più interessante e riuscita della storia che è piacevole e di facile lettura, ma a mio parere non esce dai confini di una letteratura di genere. Di questo autore non riesco a cogliere la decantata originalità.Lo stile è curato, si sente che è un buon lettore, anzi io direi che questo libro si ispira a due autori in particolare: Chandler e la Ferrante. Però, tra i due, è la Ferrante a fare la parte del leone nel senso che anche se il detective selvaggio richiama per i modi poco ortodossi e il moralismo free lance il caro vecchio Marlowe, forse proprio per questo, cioè per distogliere il lettore da un accostamento troppo scontato e difficile da reggere ( Marlowe è Marlowe), l’autore sceglie di parlare con la voce della cliente e non del detective, una donna matura di mezza età, piuttosto colta che richiama per modi e linguaggio l’Elena della Ferrante. In una situazione però più adatta a Marlowe. Al romanzo manca un po’ di spessore psicologico e di empatia per spingersi oltre il genere. La protagonista che fa tanti chilometri per salvare la figlia dell’amica, studentessa universitaria ribelle, poi non le rivolge mezzo pensiero dedicando tutte le sue attenzioni all'investigatore, al suo corpo e ai suoi cani. Ci sono anche alcune incongruenze che l’editor americano avrebbe dovuto eliminare. Se il detective conosceva già Arabella, non si spiega la sua reazione nella scena della buca. Caduta di stile pure la folgorazione lesbo per la ragazza che è del tutto fuori luogo. Ma forse è di moda, dato che simili brutture compaiono anche in altri romanzi contemporanei: centinaia di pagine dedicate al grande amore e folgorazione lesbo (Sally Rooney) che piove nel mezzo della storia dal nulla. Ma a parte la bruttezza di tali parentesi, la conclusione del romanzo di Lethem è inficiata nella sua efficacia proprio da tali digressioni/ folgorazioni che minano l'immagine di detective e cliente come possibili genitori affidatari/ educatori.
Lethem ha anche il gusto dei richiami, delle citazioni, e una certa ironia nei nomi (l’orso Yogi, attenzione pericolosissimo!). Però devo dire che preferisco a lui gli autori che cita anche se in casi come questo ho il dubbio di essermi perso l’opera migliore. L’autore ha una buona dose di ironia che nei dialoghi è più scontata ma viene fuori nel finale. Dopo tante avventure, salvataggi e scopate, dopo aver affrontato orsi di tutti i tipi, deserti, lotte e pericoli vari, il vero pericolo per la narratrice è incastrarsi in una casa con l’amato a pulire cesso e pavimenti per una marea di gente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    11 Luglio, 2019
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Potere agli angeli

Il filone dei romanzi complottistico-religiosi si arricchisce di un nuovo capitolo. Glenn Cooper immagina che esista la possibilità di evocare gli angeli grazie all'uso di un oggetto capace di riflettere la luce, un medium particolarmente dotato e la conoscenza delle giuste formule. Secondo lo scrittore tutta una serie di angeli se ne starebbe lì in attesa di essere evocato. Questi angeli un po' maestri severi, un po' servitori disponibili garantirebbero a chi li ha al proprio servizio di tenere tra le mani le sorti dell'intera umanità. Solo una cosa questi angeli sarebbero restii a dare agli uomini: la formula per accedere al quarantanovesimo livello. In questo, quello che si trova più in alto di tutti, infatti risiede l'angelo caduto: Satanian. Essere al suo cospetto ed avere la forza d'animo di affrontarlo significa ottenere tutti i vantaggi che solo il male può dare. L'autore arriva a ipotizzare che anche le crociate e altre grandi battaglie a sfondo religioso sarebbero state agevolate con interventi di tipo angelico. Dalla ricerca di questa formula che solo poche volte gli angeli si sono fatti convincere a cedere, salvo poi pentirsene, parte la trama di questo romanzo. Un potente immobiliarista di origini asiatiche, ma trasferitosi negli Stati Uniti, infatti venuto a conoscenza del ritrovamento di un kit per l'evocazione angelica si dà da fare con tutti i mezzi per entrarne i possesso. A difendere il mondo il dapprima inconsapevole Cal Donovan, figlio dell'archeologo che ha fatto la scoperta.
Ho trovato questo romanzo poco stimolante e privo di grandi attrattive. Devo dare merito a Cooper di essere un buon narratore. Con naturalezza salta da un'epoca storica all'altra, da uno scenario all'altro senza mai perdere per strada il lettore. Il suo tratto è semplice e lineare, forse un po' troppo orientato verso la chiarezza e la semplicità a discapito della tensione e del mistero. Questa mollezza nello scrivere si abbina a una trama che con qualche correzione avrebbe potuto essere più accattivante e originale. Gli elementi che entrano in questo genere ci sono tutti: l'affasciante studioso, una bella, giovane e entusiasta ragazza che lo aiuta nella difesa del mondo. e ancora un cattivo con risorse finanziarie infinite oltre a una immoralità di tutto rispetto. Infine il nostro povero mondo e noi poveri cittadini ignari che come al solito siamo in balia di un folle qualsiasi. I personaggi però sono solo tratteggiati, i momenti di azione sono piuttosto soft e il finale è scontato. Da bravo scrittore di serie, naturalmente Cooper ha scelto un finale che lascia la porta ben spalancata al capitolo successivo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    11 Luglio, 2019
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Una conclusione senza il botto

"Il confine" rappresenta il finale della trilogia per la quale Don Winslow è più famoso: quella incentrata sui cartelli della droga e che ha come protagonisti l'agente Art Keller e il Patròn Adàn Barrera.
Quest'ultimo capitolo presenta lo stesso problema che presentavano anche i capitoli precedenti: è troppo, troppo lungo. Mentre in passato questo problema era meno marcato e pesante, in questo caso l'ho avvertito tutto. Troppi dettagli, eventi, ripetizioni, ma soprattutto, troppe storyline parallele.
Vorrei soffermarmi proprio su quest'ultimo aspetto.
Nessuna delle storyline create dall'autore in questo libro possono essere considerate per nulla interessanti, ma devo dire che sono probabilmente superflue nello svolgimento degli eventi che si vengono a raccontare nel romanzo. Avrebbero potuto costituire materiale per dei romanzi a sé stanti (ovviamente arricchiti da altro), ma lasciano in certi casi una spiacevole sensazione, che riesco a spiegare solo in questo modo: rendono ancor più pesante una lettura che è già stracarica di avvenimenti e personaggi. Credo che se non fosse stato per lo stile piacevole di Winslow, la cosa avrebbe potuto provocarmi istinti suicidi. Certo, capisco che un autore voglia creare un mondo tutto suo e che nel capitolo conclusivo voglia concludere degnamente, ma lo si può fare anche senza scrivere pagine su pagine.
Oltretutto, nonostante la storia sia piacevole, a tratti adrenalinica e interessante, non è la conclusione "epica" che mi aspettavo dalla trilogia che ha principio con "Il potere del cane". Una storia piacevole, ma non uno di quei finali indimenticabili che restano impressi nell'immaginario del lettore.

La storia comincia con la morte di Adàn Barrera, protagonista indiscusso del precedente capitolo "Il cartello". Il libro rimane dunque immediatamente orfano di uno dei suoi personaggi più carismatici, durante una spedizione atta a eliminare i leader dei Los Zetas, violentissimo rivale del cartello di Sinaloa, il Patròn resta ucciso e il suo corpo non viene ritrovato. Quest'ultimo particolare genera il dubbio che ci seguirà per la prima parte del libro: Barrera è davvero morto?
Nel clima di dubbio riguardo a quest'ultimo aspetto, si cominciano a creare i primi movimenti di tumulto all'interno dei cartelli messicani, privi di un leader e agitati dalle eventuali questioni di successione. Nel frattempo, Art Keller viene nominato direttore della DEA, incarico che accetta dopo un'iniziale titubanza, convinto dalla possibilità di fare davvero qualcosa per estirpare il cancro della droga negli Stati Uniti.
Tuttavia, Keller si ritroverà faccia a faccia con delle verità scomode, che coinvolgono non solo criminali conclamati e riconosciuti, ma anche persone che normalmente sono considerate al di sopra di ogni sospetto. Dunque, si troverà a combattere con nemici diversi che, in fondo, sono la stessa cosa.

"Alcuni vogliono zittirlo e mandarlo in galera; sa che ci sono anche altri, pochi, che vogliono ucciderlo. Quasi si aspetta di udire il rumore di uno sparo mentre sale i gradini per andare a testimoniare, perciò la risata di quel bambino è un sollievo, un promemoria del fatto che fuori dal mondo della droga, delle menzogne, del denaro sporco e dell'omicidio, c'è un'altra vita, un'altra terra, dove i bambini ancora ridono."

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I precedenti capitoli "Il potere del cane" e "Il cartello"
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Avventura
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    11 Luglio, 2019
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VXA-01

Sud America, gennaio 1525. Un colpo tremendo capace di far perdere l’equilibrio, ma non anche di scalfire la pesante armatura, è quello che colpisce al petto Diego Alvarado. Francisco Pizarro, un uomo fatto della stessa pasta del primo soldato spagnolo ma di cui quest’ultimo non riesce a fidarsi, lo accompagna nella missione. Una spedizione la cui riuscita è sempre più ardua non solo a causa del nemico ma anche della malattia, del vaiolo. Una patologia dai minuscoli agenti patogeni (responsabili anche del morbillo) che si è propagata con ogni respiro, ogni schizzo di sangue e saliva tra gli indigeni del Nuovo Mondo che non vi erano mai stati esposti. Non hanno difese, questi, contro quel nemico invisibile. E così, nel giro di una settimana la maggior parte dei guerrieri che avevano partecipato all’attacco contro gli spagnoli infetti si sarebbero ammalati, nel giro di un mese sarebbe stato colpito l’intero villaggio, nell’arco di un anno decine e decine di insediamenti sarebbero stati contagiati ed entro dieci anni l’intera regione sarebbe stata piegata dall’epidemia. Senza alcun controllo, il vaiolo avrebbe cioè decimato l’impero Inca spianando la strada ai colonizzatori invasori.
I nostri giorni. Sette giorni, sette giorni per perlustrare tutto quell’oceano e trovare un ago in un pagliaio. Sette giorni per trovare e neutralizzare una bomba ad orologeria che avrebbe potuto scuotere le stesse fondamenta terrestri.
Di tutti gli uomini della NUMA, Gunn è sempre stato quello più enigmatico. Prossimo alla cinquantina non ha mai perso la passione e l’amore per la precisione, il suo carattere è sempre stato impetuoso ma riservato, spiritoso e divertente senza però mai abbassare la guardia. La sua mente è sempre stata perennemente vigile, riflessiva ma attenta e pronta a venire a capo di ogni situazione, di ogni più complessa circostanza. La sua visita, e questo Kurt Austin, ex agente della CIA e adesso capo della squadra progetti speciali della NUMA, subacqueo di prim’ordine ed esperto in operazioni di recupero, lo sa bene, non è certo un caso e tantomeno è un incontro di piacere. Se il vicedirettore si è mosso sino alle Hawaii per cercarlo, qualcosa di davvero grave deve essere accaduto. È sufficiente un breve colloquio per capire che è così, che Kurt non si è sbagliato: il veicolo chiamato Nighthawk, denominazione ufficiale VXA-01 e grande il doppio del suo prototipo, l’X-37B che altro non era che un banco di prova per sviluppare tecnologie all’avanguardia, è scomparso in un’area del Pacifico lontana da tutto, ipoteticamente nelle Galàpagos, e indicativamente posizionata a quattromilacinquecento miglia da Pearl Harbor e a duemila novecento da San Diego. Dal momento della perdita delle sue tracce e del supposto ammaraggio, i servizi di intelligence europei e nello specifico russi e cinesi si sono mossi; si contano ben trenta navi di tre paesi diversi in movimento a cui si sommano una decina di veicoli aerei. Tutti militari. Ma cosa si cela dietro a tutto questo interesse per il Nighthawk? Che dipenda soltanto dal fatto che è il veicolo più avanzato che sia mai esistito? Che dipenda dal fatto che sia stato costruito con materiali e tecnologie di due generazioni più avanti rispetto a quelle delle agenzie russe, cinesi ed europee? Che dipenda dal fatto che è un veicolo capace di manovrare in orbita, di agire autonomamente e di portare a compimento missioni mai neppure ipotizzate per uno shuttle pur non possedendo la propulsione a ioni la cui assenza, comunque, non va ad inficiare sul fatto che il suddetto mezzo è capace di ridurre della metà i viaggi Terra-Luna nonché il tempo di percorrenza verso Marte? O forse il motivo di cotanto interesse è determinato da un carico di materiale rarissimo estratto dalla parte superiore dell’atmosfera e conservato a una temperatura prossima allo zero assoluto e che sino a che si mantiene in detta condizione resta inerte per dimostrarsi, in caso di scongelamento, un pericolo tale da poter scatenare una catastrofe di proporzioni inimmaginabili?
Clive Cussler e Graham Brown propongono con “Il mistero degli Inca” un romanzo d’avventura in piena regola, con qualche tratto fantascientifico che ben si mixa con il dato storico. Le ambientazioni variano e si spostano dalle Isole Galapagos, alle giunge del Sudamerica, alle Ande, passando per la Cina e la Russia e alternando le vicende del presente con quelle di un passato che ha segnato la storia dell’umanità. Lo stile narrativo è fluido e accattivante e ben si amalgama a una trama ben orchestrata e leggera. L’opera si presta ad uno scorrimento rapido e ricco di colpi di scena, con protagonisti solidi e concreti e con vicende che sanno catturare l’attenzione. Non spicca particolarmente per contenuti e tematiche affrontate ma certamente si dimostra essere un’ottima lettura da spiaggia nonché un elaborato adatto a chi ama il genere dell’avventura e a chi cerca un qualcosa di non impegnativo ma che sappia tenerlo con il fiato sospeso. Diversamente, potrebbe risultare inadeguato o non soddisfare le esigenze del lettore.
In conclusione, una buona prova, non eccelsa e indimenticabile ma piacevole.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Luglio, 2019
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L’esercito degli Idioti Nazionali

«Oggi abbiamo ucciso l’imprenditore Paris Fokidis. Non vi diremo perché l’abbiamo ucciso. Lo dovrà scoprire la polizia, che è il Cerbero del sistema. Noi diremo solo una cosa: meritava di morire. L’esercito degli Idioti Nazionali»

Quando il commissario Kostas Charitos apprende della rivendicazione da parte del gruppo terroristico (o del gruppo organizzato perché ancora troppo pochi sono gli elementi per capire chi è l’autore del reato), è da poco diventato nonno del piccolo Lambros. La vittima deceduta a causa dell’esplosione di un ordigno non è altro che un imprenditore di successo, Paris Fokidis, dall’animo filantropo e apparentemente integerrimo in tutto. Da un albergo in Calcidica – il suo luogo natale – il magnate è arrivato ad essere il proprietario di una catena alberghiera, la Fokea SR Hotels, con alberghi siti nei centri più disparati (ovvero, da Anàvyssos a Noùfaro, località dove è avvenuto l’assassinio, arrivando a Sifnos, a Creta e a Xilòkastro) e ad essere titolare di un’agenzia di viaggi organizzati a Londra. Il suo curriculum vitae è chiaro e limpido, i panni che riveste sono evidentemente quelli di un uomo altruista e benefattore ma allora perché nella rivendicazione si asserisce al fatto che meritasse suddetta morte? E perché la stessa è trascritta a mano e non da pc e oltretutto con un’ottima calligrafia vergata con calamaio e pennino? Chi poteva avere un motivo per uccidere un imprenditore così perfetto e, per di più, mettendogli una bomba in macchina? Chi è l'Esercito degli Idioti Nazionali? Qual è il movente che può aver spinto ad un siffatto gesto? Questo ancora Charitos e la sua squadra non sono in grado di stabilirlo ma una cosa è certa, dietro la facciata si nasconde qualcosa perché è indubbio che la vittima sapesse perfettamente come nascondere la natura e le dimensioni dei suoi interessi. Da questi brevi assunti avrà inizio un’indagine concreta e lineare che porterà gli agenti ad investigare non soltanto su un semplice caso di omicidio ma anche su fatti e dinamiche che coinvolgono la nostra società odierna. Perché nelle opere di Petros Markaris mai e poi mai ci si sofferma soltanto al giallo, le sue pagine ospitano con grande maestria e modi garbati anche gli usi e i costumi della realtà greca nonché dei suoi problemi, delle sue criticità e delle sue pecche. In particolare né “Il tempo dell’ipocrisia” tra le tante tematiche che vengono affrontate vi sono quelle del lavoro, della classe benestante che mangia e si arricchisce sulle spalle sempre più provate della classe media o medio-bassa, dei licenziamenti in età adulta (dai quarantacinque anni in su) a favore di assunzioni di personale più giovane, meno costoso e quindi meno pagato, del PIL che viene dichiarato in crescita anche se si è ben consapevoli che di questo beneficeranno i ricchi mentre agli altri nemmeno il merito di aver creato un flusso positivo in entrata pagando le tasse verrà riconosciuto, dei paradisi fiscali, del malessere di questi tempi così poco meritocratici e così tanto funesti.
Al tutto si aggiunge una prosa curata in ogni dettaglio, dal giusto ritmo narrativo, ben articolata, fluente ed erudita con personaggi a loro volta solidi e tangibili. Ottima anche l’ambientazione che è originale così come questa storia in cui non tutto è come appare, non tutto è come sembra. Totalmente appropriato anche il titolo dell’opera.
Un elaborato che intriga e che conquista sia per il giallo che per i fatti di attualità che vi sono custoditi e che sono capaci di indurre riflessione nel lettore.

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Letteratura rosa
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    08 Luglio, 2019
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ADMIRAL HOUSE E LA FORZA DI POSY

Admiral House, è l'ambientazione perfetta che fa da sfondo a questa nuova storia romantica scritta da Lucinda Riley.
Ci troviamo a Southwold nel Suffolk, e siamo immersi in una natura meravigliosa, in giardini stupendi e profumati dove possiamo ammirare varie specie di farfalle.
Chi conosce già questa autrice sa bene che il suo punto di forza è proprio la creazione di storie famigliari con molti personaggi riuscendo a spaziare anche nel tempo, unendo epoche lontane in maniera assolutamente coerente e riuscendo a non far sentire al lettore il cosiddetto "salto temporale".
La storia di questo libro si svolge principalmente nel 2006, ma ci saranno alcuni capitoli che torneranno indietro negli anni della seconda guerra mondiale e in quelli successivi, per spiegare meglio alcuni passaggi delle vicende che stiamo leggendo.
Posy Montague è la protagonista indiscussa dell'intero romanzo, donna forte e molto legata alla sua famiglia, ha quasi settant'anni e vive da sola a Admiral House. Nonostante l'età, Posy lavora ancora part-time nella sua galleria d'arte e cura la villa di campagna, dove è nata e cresciuta e dove fino a qualche anno fa abitava con i suoi figli Sam e Nick.
Il marito di Posy è venuto a mancare quando i loro figli erano piccolissimi e la donna ha dovuto crescerli da sola, con coraggio e determinazione.
Admiral House è una dimora piena di ricordi e Posy non vorrebbe mai lasciare la sua casa, ma non può più sostenere le spese per mandarla avanti e i figli non sono intenzionati ad abitarci.
"Entro breve il giardino era diventato il suo padrone, il suo amico e il suo amante, e non le era rimasto tempo per nient'altro."
Sam il primogenito, è sposato con Amy e ha due figli e vive a Londra in un minuscolo e fatiscente appartamento, da anni il ragazzo colleziona fallimenti su fallimenti e la moglie è seriamente preoccupata per il futuro dei suoi figli.
Nick, invece, vive da oltre dieci anni in Australia, è più affidabile del fratello e ora dopo tanto tempo lontano dall'Inghilterra decide di tornare e aprire una nuova attività nel suo paese d'origine. Il rapporto tra i due fratelli non è dei migliori anche perchè Nick non ha mai visto i suoi nipoti.
Posy dal canto suo ha sempre cercato di tenere uniti i due figli anche se forse qualcosa non ha funzionato.
"Quella sensazione l'aveva prostata. Fino a quel momento non aveva mai capito davvero che cosa fosse la depressione, anzi, la considerava un segno di debolezza, [...] Aveva bisogno di qualcosa che le tenesse la mente occupata, che la distraesse dal pensiero dei ragazzi e dal vuoto che provava."
Posy ad un certo punto si decide a mettere in vendita la proprietà anche se è l'ultima cosa che vorrebbe fare, ormai per lei quella casa è troppo grande e non riesce più a pagare le spese per la sua manutenzione.
"Sì. E' l'amore che fa nascere la magia nella vita, Posy. Anche nelle giornate più uggiose, è capace di illuminare il mondo e farlo sembrare splendido com'è adesso."
Un giorno la protagonista, rivede per caso il suo grande amore Freddie, l'uomo che molti anni prima l'ha lasciata senza una spiegazione. E' come se il tempo non fosse passato, ma Posy non è sicuramente incline ad accettare di nuovo Freddie nella sua vita, ma non sa ancora che l'uomo ha tenuto per sé un segreto che potrebbe sconvolgerla.
Il libro si concentra anche sulle vicende dei figli di Posy, Sam e Nick.
Sam, è un uomo inaffidabile, che nonostante abbia una famiglia e due figli non è ancora un uomo responsabile, vive di sogni ma in realtà non è in grado nemmeno di badare a se stesso. Litiga spesso con la moglie Amy, che dal canto suo, cerca di tenere unita la famiglia, anche se non è felice e questa non era la vita che avrebbe immaginato.
Conosciamo anche meglio Amy e il suo matrimonio con Sam, le difficoltà economiche sono alla base dei problemi che ci sono tra di loro, l'uomo è un sognatore e pensa solo a se stesso e non alle conseguenze di quello che fa.
Nick, l'altro figlio di Posy, invece è un uomo con la testa sulle spalle, è però chiuso all'amore fino a che non incontra Tammy e con fatica riuscirà ad aprire il suo cuore, ma anche per lui un segreto rischierà di rovinare questo amore appena nato.
Sam e Nick, hanno dei segreti come anche Admiral House ne contiene uno di terribile che nessuno potrebbe immaginare.
Posy è forse il personaggio che viene approfondito di più, ci viene descritto come una persona vera, autentica e genuina, che ci porta per mano nella storia e ci fa conoscere la forza delle donne quando c'è di mezzo la cosa più importante, la famiglia.
La lettura di questo libro è da subito stata coinvolgente e appassionante, il primo capitolo ci catapulta in questa bellissima villa con una torre dove il padre di Posy, colleziona farfalle, da qui la famosa "Stanza delle Farfalle".
Ma le prime pagine ci mostrano come, in contrapposizione alla bellezza della villa e delle farfalle, ci sia anche la guerra e il terribile destino di molte famiglie.
Nel complesso il libro si legge velocemente, ci sono molti colpi di scena e il lettore non si annoia, ma ci sono dei punti deboli a mio avviso che vorrei analizzare.
L'autrice introduce molti personaggi e ne approfondisce circa cinque/sei che sono quelli principali, sicuramente quello che viene sviluppato maggiormente è Posy.
Ma in contrapposizione ne nomina altri che proprio non conosciamo, l'aiutante di Tammy al negozio o i soci di Sam, che quindi vengono solo indicati a titolo informativo.
Ma dal punto di vista psicologico, leggiamo solo le dinamiche legate al personaggio di Posy, conosciamo le sue paure, le sue preoccupazioni, le sue ansie, le sue gioie nel presento e nel passato.
I personaggi femminili però, tranne Posy, non hanno sfaccettature, sono piatti e hanno un ruolo positivo nella storia, lo stesso per quelli maschili dove li troviamo o totalmente negativi oppure talmente perfetti da non sembrare reali.
Un esempio è Sebastian Girault, lo scrittore famoso che andrà a vivere con Posy a Admiral House per scrivere il suo nuovo libro, è affascinante, ricco, buono ed estremamente gentile, un po' troppo per non far sospettare al lettore, che forse i personaggi introdotti siano sicuramente troppi per riuscire ad approfondirli tutti al meglio.
Forse meno storie all'interno dello stesso libro avrebbero creato delle dinamiche, allo stesso modo interessanti ma avrebbero reso il romanzo più vivido e reale.
La storia in alcuni punti è molto prevedibile e forse scade un po' nel classico cliché del romanzo rosa, dove ci sia aspetta solo fiori e felicità.
Lo stile di narrazione è come sempre molto scorrevole, semplice e immediato, ho apprezzato che la maggior parte della storia fosse ambientata ai giorni nostri, con qualche salto indietro nel tempo che però non ha fatto perdere il ritmo alle vicende narrate.
I capitoli sono brevi e molto veloci da leggere, nonostante qualche perplessità che il testo mi ha lasciato per me questo libro merita più della sufficienza.
Anche se arrivo alla conclusione, che questo romanzo sia una lettura non impegnativa, molto leggera proprio per il periodo estivo, anche se credo che l'autrice riesca a costruire delle storie ben più complesse.
Ho apprezzato sicuramente il personaggio di Posy e mi è dispiaciuto per lei, perché dopo tanti anni dove ha dato tutto per la famiglia, alla fine si ritrova sola, allo stesso modo ho ammirato anche il suo coraggio nell'affrontare la vita e i piccoli, grandi ostacoli che ha incontrato.
Alla fine della quarta di copertina è stata scritta una nota "Personaggi indimenticabile e sconvolgenti verità...", questa mi sembra un po' esagerata, ma credo che di questo libro ricorderò la semplicità e la forza di Posy, l'amore che non ha età e confini e l'ambientazione suggestiva e magica di Admiral House.

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Consigliato a chi ha letto...
Sì se siete delle fan di Lucinda Riley e vi piacciono le storie leggere e romantiche
No se pensate che sia un libro impegnativo e ci sia una grande storia famigliare
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Romanzi
 
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4.3
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Luglio, 2019
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Marie & Sylvie

Quando Sylvie e Marie prendono servizio quali cameriere presso la pensione Les Ondines hanno rispettivamente diciassette e diciotto anni. Tuttavia, nonostante siano quasi coetanee, cresciute insieme e legate da un rapporto di amicizia ai confini tra l’amore e l’odio, molteplici sono le differenze che le contraddistinguono. Mentre Sylvie Danet è figlia di un capomastro all’arsenale, ha un corpo sinuoso, un seno invidiato da tutti che non manca di mostrare impudicamente, una femminilità pronunciata e la spregiudicatezza di chi vuole arrivare e migliorare la propria condizione sociale, Marie Gladel è figlia unica, orfana di padre, strabica e ingenua ma è anche un giovane donna onesta che conosce alla perfezione la mente dell’altra. Ecco perché quando il corpo del ventitreenne Louis – dall’intelligenza di un bambino di otto anni e gli occhi chiari e ingenui – viene rinvenuto privo di vita nel ripostiglio delle scope è chiaro a quest’ultima che il suo gesto sia collegato alla compagna. La fine della stagione; un fatto che segna la svolta, lo sfruttare di quel corpo, la partenza per Parigi. Sempre loro, ancora insieme ma ciascuna indipendente.
La convivenza durerà circa una decina di mesi, sino a che le loro strade non si separeranno a causa della classica goccia che fa traboccare il vaso e di una ferita che difficilmente potrà risarcire. Si scroceranno nuovamente una prima volta nel 1945, ventitré anni dopo il fatto, e si rincontreranno davvero nel 1950 quando Sylvie si recherà da Marie per chiederle aiuto a causa di una vicenda ereditaria… Riceverà il suo soccorso o questo le verrà negato?
Con una penna fluida e densa Georges Simenon torna, in “Marie la strabica”, a raccontare dell’animo umano e più precisamente torna a narrarci della psiche femminile e dei suoi aspetti più caratteristici e profondi. L’intera opera si snoda sulle personalità di queste due donne così diverse eppure così tra loro vincolate, nel bene e nel male. Ne analizza le menti, i comportamenti, le morali, i contrasti e il risultato è quello di un testo che si fa divorare in poche ore, affatto scontato, dall’epilogo agrodolce e che lascia il segno per la sua semplicità.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    06 Luglio, 2019
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Pinturas rojas come il sangue

Nell’estate del 2016 Parigi scopre che un nuovo efferato serial killer si aggira tra le sue strade. La prima vittima è la giovane spogliarellista Sophie. È stata trovata in una discarica, completamente nuda, legata, anzi strangolata, con la sua stessa biancheria intima, brutalmente sfregiata per simulare uno straziante urlo alla Munch, reso più agghiacciante dalla pietra atrocemente incastrata nella sua gola. Dopo alcune settimane di infruttuose ricerche, a cura della seconda sezione criminale, le indagini sono affidate alla squadra di Stéphane Corso, capo della prima sezione.
Corso è un poliziotto caparbio e ostinato sul quale pesa il burrascoso passato, fatto di abbandoni, orfanotrofi, vita precaria presso famiglie affidatarie, microcriminalità, violenze fatte e subite, abuso di droghe e alcool. Recuperato a una vita “normale” (o quasi) grazie alla protezione della Bompart, Capo della Criminale, ormai si dedica anima e corpo solo al suo lavoro, convinto che l’unica forma di redenzione per lui stia nel far rispettare la legge… a qualsiasi costo. Sul suo presente grava pure la difficile relazione con la ex moglie Èmiliya, in pubblico brillante funzionario ministeriale, ma nell’intimità una perversa sadomasochista. Lei gli contende con tutti i mezzi più sporchi l’affido del figlio, il piccolo Thaddée, e Stéphane ne teme l’esiziale influsso.
Nonostante questa difficilissima situazione personale l’ispettore si mette rapidamente al lavoro e, in pochi giorni, delinea la tipologia del presunto assassino, il quale, nel frattempo, ha fatto una nuova vittima, amica fraterna della prima. Il secondo omicidio ricalca in tutto e per tutto il primo ed entrambi richiamano alla mente i raccapriccianti dipinti dell’ultima fase artistica di Goya, quella delle pinturas negras e delle ancor più inquietanti pinturas rojas recentemente venute alla luce.
Così l’attenzione di Corso, indirizzato da un collega in pensione, si interesserà di un idolatrato pittore: Philippe Sobieski. Tutti gli indizi convergono su di lui. Già condannato a diciannove anni per un omicidio a scopo di rapina che ha alcuni punti di contatto con le odierne uccisioni, ha un trascorso carcerario da efferato giustiziere e una psicologia contorta e violenta. Pratica il bondage e tutte le forme più crude di sesso. Ha ritratto le due vittime di cui era amante. I suoi quadri trasudano violenza e depravazione. Però, ha un alibi per le ore dei delitti ed è tenuto in palmo di mano da tutti gli ambienti culturali di Francia per il crudo ed esasperato realismo delle sue opere. È considerato un genio, la pecora smarrita ritornata all’ovile. Forte di queste protezioni e del fascino ambiguo che esercita, tenterà di beffarsi della polizia. La tenacia di Corso sembrerà aver la meglio sui suoi giochetti. Tuttavia è davvero lui l’assassino?
Il “polar” è un genere letterario di grande successo in Francia. Etimologicamente la parola dovrebbe essere la crasi dei termini policier e noir, ma il richiamo al gelo della calotta artica non è meramente casuale. Gli autori francesi più di tutti gli altri scrittori di thriller accentuano i lati crudi della vicenda narrata. Non provvedono ad alcuna autocensura, non smussano le descrizioni, non glissano sugli aspetti più orribili, ma, al contrario, analizzano, accentuano la crudezza, radicalizzano le situazioni. Nulla è lasciato all’immaginazione; tutto è indirizzato a far rabbrividire il lettore.
Nell’iniziare “La Maledizione delle Ombre” mi ero già predisposto, con una certa angoscia, ad affrontare una simile rudezza di immagini, una brutalità, una tensione emotiva che non ti fanno fiatare sino alla fine.
Questo romanzo non fa eccezione: la trama è dura e cruda sino all’esasperazione e il linguaggio adoperato l’asseconda. L’A. scava senza pudore nelle più segrete e oscure pieghe dell’animo umano. Non mancano descrizioni forti, soprattutto nella prima parte del romanzo, contesti ben oltre il limite dell’accettabile. Alcune minuziose descrizioni rasentano la bassa macelleria e, inevitabilmente, suscitano repulsione. Ci si può fare una “cultura” (non richiesta) sulle più incredibili perversioni sessuali e sulle tecniche di tortura, pornografia estrema e degradazione del corpo umano. Tuttavia la storia è narrata con un distacco da analista. L’esposizione spesso risulta asettica come fatta da un freddo osservatore esterno.
I sentimenti di Corso (personaggio non particolarmente simpatico né oltremodo deduttivo) ci vengono descritti, ma non se ne diviene partecipi. Gli omicidi efferati suscitano orrore, ma non empatia.
Molto intelligente, apprezzabile e, soprattutto, inquietante è il filo conduttore (ufficiale) del romanzo: la relazione tra la brutalità umana e l’impeto artistico che agita una psiche tormentata. Lo stile accurato di Grangé, poi, rivela una profonda, indiscussa cultura e una puntigliosa documentazione. Forse un po’ troppo puntigliosa la descrizione di Parigi, quasi da guida turistica, così particolareggiata da consentirci un “pedinamento” di Corso nelle sue peregrinazioni, ma, tutto sommato è interessante.
Complessivamente, però, ho avuto la sensazione che manchi quel quid decisivo per fare del romanzo una storia pienamente convincente. La trama risulta troppo arzigogolata, contorta, ben oltre la plausibilità: sono troppe le situazioni nelle quali si deve far ricorso alla sospensione dell’istintiva incredulità e chiudere un occhio su passaggi zoppicanti sotto il profilo logico. Le oltre cinquecento pagine, poi, risultano eccessive: è impossibile mantenere la propria attenzione viva su ogni passaggio.
I colpi di scena si susseguono, soprattutto nella seconda parte del libro, in un crescendo rossiniano, ma spesso giungono prevedibili, un po’ perché non sono tutti così sorprendenti, un po’ perché si intuisce che sono necessari a tenere viva la storia che, altrimenti, perderebbe di interesse e si avvilupperebbe su sé stessa. L’epilogo vorrebbe essere una sorta di coup de theatre da grande prestigiatore, ma, in fondo non risulta neppure così stupefacente. L’A. ha abusato troppo, durante tutto il testo, di improvvisi cambi di rotta, assuefacendo in tal modo il lettore che, alla fine, smette di meravigliarsi, quando addirittura non riesca a precorre i tempi e prevedere le varie “sorprese”.
In conclusione, pur essendo un romanzo buono e ben scritto, non riesce a toccare tutte le giuste corde per divenire davvero un’opera effettivamente memorabile. Piacevole se ci si accontenta di farsi trascinare dalla storia senza porsi domande, un po’ meno se si analizzano con attenzione le varie situazioni. Peccato!

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A chi conosce e apprezza la prosa di Grange: il suo romanzo più famoso è “Fiumi di porpora” sul quale è stato adattato pure il film di Kassovitz, con J. Reno e V. Cassel. In genere a chi ama i polar e gode a farsi torcere le budella da situazioni raccapriccianti.
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    28 Giugno, 2019
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Harry e le menzogne

Peter Swanson, americano, dopo aver pubblicato Il lungo inganno, Quelli che meritano di essere uccisi e Senti la sua paura, torna in libreria con Una perfetta bugia, i cui contenuti principali sono:
“Una morte misteriosa. Un ragazzo intrappolato in una rete di sottili bugie. E due donne troppo affascinanti per non essere pericolose. Sullo sfondo, un paesino del Maine dove niente è come appare e nessuno è chi dice di essere.”
Ingredienti che non possono che attrarre il lettore.
Il libro narra la storia di Harry, giovane studente universitario, in procinto di discutere la sua tesi universitaria, che riceve una di quelle telefonate destinate a distruggere per sempre la propria vita. A chiamarlo è la matrigna, Alice, che gli annuncia la morte, avvenuta in circostanze misteriose di suo padre: il libraio Bill. Normalmente lui si reca a fare una passeggiata tranquilla sempre sullo stesso promontorio, ma in quel giorno sembra trovare proprio lì la morte. Una morte inspiegabile e misteriosa, poco comprensibile. Ad Harry non resta che affrontare una pesante situazione, aggravata anche dal clima di greve menzogna che lo attornia. Un clima dove tutti mentono. Ha mentito prima suo padre che, dopo aver sposato in seconde nozze una ragazza molto più giovane di lui, la tradisce bellamente con Grace. Mente Alice che pare decisa a sedurre il figliastro, e che nasconde con abilità una vita passata di segreti, cupi e misteriosi. Mente John, il socio di suo padre,circa la sua vera identità e il suo passato lavoro. Mente, ovviamente, Grace, una bella ragazza, che pare conoscere molto intimamente Bill, e che sembra avere troppo fascino per il contesto in cui vive. Infatti:
“Aveva i capelli di un castano profondo, quasi neri, e gli occhi azzurri con delle pagliuzze verdi. Il nasino piccolo con la punta leggermente all’insù, e una bocca stretta con il labbro inferiore più carnoso di quello superiore. Aveva sopracciglia folte e scure e un’ombra di lentiggini sulla fronte, un’età imprecisata tra quella di Harry e i trent’anni.”
In un tale contesto il percorso per ristabilire almeno una parvenza di verità non può che essere irto di ostacoli, reso con grande perizia e sapienza narrativa dall’autore.
Una lettura alla “Hitchcock”, un’atmosfera sospesa dove si respira un’attesa malcelata, che rende il clima pesante ed enigmatico. Una lettura molto interessante, e molto intrigante. Non conoscevo questo autore e mi riprometto di leggere altri suoi libri; visto la seduzione che questo ultimo ha esercitato su di me. In generale, un ottimo giallo, costruito ad incastro, la cui trama, perfettamente congegnata, esercita un fascino irresistibile per il lettore, costretto a proseguire imperterrito la lettura fino alla soluzione finale, del tutto inaspettata ed imprevedibile.

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Consigliato a chi ha letto ed amato i libri precedenti di Peter Swanson: Il lungo inganno, Quelli che meritano di essere uccisi e Senti la sua paura.
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Romanzi
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    27 Giugno, 2019
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Siamo uomini o ominicchi?

Amurusanza: è un termine mancante nel dizionario della lingua italiana perché è stato coniato e tramandato dalla cultura e dalla tradizione popolare siciliana che impregna col suo vernacolo le pagine dell'omonimo romanzo di Tea Ranno, purtuttavia senza mai risultare tedioso ed ostico: indubbio merito dell'autrice che ha saputo orchestrare armoniosamente le parole attraverso una scrittura d'impatto che si rivela tale soprattutto nei dialoghi tra i vari protagonisti, ma nello stesso tempo permeata di una certa musicalità che ammalia ed incanta il lettore, come se quei termini, per quanto sconosciuti, divenissero subito chiari nel significato e comprensibili a tutti, siciliani e non.
Amurusanza è una parola che raccoglie in sé tutto ciò che può far bene all'anima, che la riscalda e la ricolma di amore: gesti, pensieri, piccoli doni, parole dolci sussurrate ma anche passionali ed impetuose dimostrazioni di affetto.
E Agata Lipari, la bellissima e sensuale Tabacchera, di amurusanza ne ha ricevuto tanta dal marito Costanzo Di Dio, e tanta ne ha donato a quell'uomo di cui era
follemente innamorata: un uomo tutto d'un pezzo, fervido ed accanito sostenitore dell'ideologia comunista in un'epoca e in una società in cui l'ideologia - qualunque essa fosse - era sempre più schiava e sottomessa all'interesse personale:
S'era innamorata di lui appunto ascoltandolo nei discorsi che l'infiammavano in piazza, o davanti al negozio, ogni volta che qualcuno esibiva l'entusiasmo facile per un'Italia nuova, forte, azzurra e televisiva, fatta di sorrisi e belle ragazze, di un liberismo che vuole dire:"Io penso a me, alla panza mia, chi resta s'arrangia".
E sarebbero vissuti per anni in perfetta armonia, magari con tanti figli e nipoti al seguito, trascorrendo le afose giornate estive nella Saracina, la splendida tenuta di campagna che Costanzo possedeva e che aveva curato personalmente, se un infarto non avesse stroncato cuore e sogni di Costanzo lasciando Agata sola e vedova in un paese dove già prima le donne la invidiavano per la sua statuaria bellezza, fonte di cattivi e peccaminosi pensieri per i propri mariti, e dove gli uomini altro non desideravano se non trasformare quei pensieri in fatti e azioni.
'Ma lei niente. Ferma. Muta. Si limita a scavarli con gli occhi cercandogli negli occhi l'anima meschina che corre a infrattarsi nel carbone delle colpe, dietro il sipario delle palpebre calate, nel fondo opaco della loro coscienza, semmai ne possedessero una. "Condoglianze" dicono le mogli. "Condoglianze" dicono i figli. E intanto la guardano, tutti la guardano Agata Lipari, ora vedova Di Dio. Alta, bella che belle come a lei non ce ne sono, snella e slanciata, le caviglie sottili, il petto superbo, il collo lungo, bianco, carezzato da capelli neri che scendono fin oltre le spalle. La guardano.'
E aveva ragione Costanzo, una compagnia di porci erano i suoi concittadini, "anime nere" senza onore e rispetto per se stessi e gli altri, agli ordini del sindaco 'Occhi janchi' che tra tutti era il peggiore: mafioso e corrotto politicamente, riusciva a domare le menti poco acculturate dei suoi compaesani piegandole al suo volere, con promesse di favori e piaceri in cambio del loro consenso e appoggio alla sua amministrazione, la stessa che aveva già favorito la costruzione di un stabilimento petrolchimico vicino al paese e che avrebbe presto ottenuto finanziamenti e concessioni per lo smaltimento dei rifiuti, trasformando poco alla volta quell'angolo di paradiso in un quartiere industriale che avrebbe probabilmente risollevato il tasso di disoccupazione ma anche quello dei decessi per tumori e inquinamento ambientale.
Fortunatamente però, il marcio non ha ancora insozzato la coscienza di tutti: in quel piccolo paese c'è ancora qualcuno che crede nella giustizia, divina e terrena, c'è ancora chi sia disposto a sacrificare il proprio interesse personale a favore di quello collettivo e chi decida di non barattare la propria dignità di uomo in cambio di un posto di lavoro o una concessione a proprio vantaggio, e c'è persino chi trova il coraggio di opporsi al pregiudizio e ad un'omologazione di massa verso un atteggiamento fortemente maschilista sedimentato nel corso dei secoli e che solo una vera e propria rivoluzione culturale potrebbe sgretolare.
E' così che lo scontro tra la 'tabacchera' ed 'occhi janchi' diventa rappresentativo della Sicilia perbene che cerca di emergere dalla melma fatta di omertà, corruzione, clientelismo ed arretratezza culturale che sembra aver sedimentato su questo territorio nel corso degli anni, infangando luoghi che avrebbero potuto distinguersi - se opportunamente valorizzati - per la loro bellezza paesaggistica ed infettando come una metastasi ogni (seppur rara) cellula buona, debole baluardo di sani valori come l'integrità morale, l'onestà ed il rispetto del prossimo.
Il messaggio quindi è chiarissimo: c'è ancora tempo e modo di salvare la Sicilia, se ogni siciliano singolarmente riuscisse a scrollarsi dalla coscienza quel fango e con fierezza riprendesse possesso della propria dignità di uomo.
Nel romanzo c'è ottimismo, c'è fiducia nella possibilità di cambiamento: per quanto la trama evolva attraverso episodi a volte farseschi, riportando spesso alla mente la commedia napoletana con tanto di presenza soprannaturale (quasi fosse necessario l'intervento dell'anima defunta di Costanzo per smuovere e risvegliare gli animi sopiti dei suoi concittadini), si avverte forte il desiderio da parte dell'autrice che la speranza di una Sicilia più 'pulita' (e non solo dal punto di vista ambientale) non si riduca ad una mera utopia.
Cosa servirebbe? Ce lo dice proprio nel titolo: amurusanza.

"Parola d'ordine ci vuole,
mio signore,
per accedere alle stanze
della vita,
parola stramma
di desiderio e ardimento
che squaglia il gelo
e splende sparpaglio
di bellezza e luce.
La sapesse, Vossia,
quella parola?
La covasse da mill'anni
in petto?"
"Amurusanza"
fa lui senza esitazione.
E le porte si spalancano
e il sole ride
e la vita
canta.

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Romanzi autobiografici
 
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    26 Giugno, 2019
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Un percorso tra vita e produzioni letterarie

Paul Auster è considerato tra i più validi scrittori statunitensi viventi e questo libro-saggio rappresenta il background della sua opera. Non è una autobiografia vera e propria ma un'intervista durata circa due anni da parte dell'accademica I.B. Siegumfeldt, che ripercorre tutta la sua opera letteraria ponendo quindi accento non tanto sulla sua vita privata ma su quella artistica. Certo, tra le due c'è sempre un solido filo conduttore e infatti tutti gli aspetti personali che riguardano l'autore emergono sempre in relazione ai suoi libri.

Prima di iniziare a leggerlo, mi ero fatta un'idea diversa sul contenuto, credevo che contenesse soprattutto sue filosofie di vita, pensieri articolati collegati al suo vissuto e nella prima parte del libro- dove vengono osservate le sue opere autobiografiche- effettivamente questo succede, ma in maniera abbastanza blanda e spesso ricorrendo alle citazioni vere e proprie dai libri scritti piuttosto che un suo libero pensiero modellato in modo spontaneo, che dica sì le stesse cose ma in maniera diversa, più colloquiale, più "spiegata" per il lettore. Questa non vuole essere una critica ma solo un'aspettativa un po' sopravvalutata forse, distorta. Questa è la seconda volta che mi capita di leggere un libro-intervista e nel primo caso, chi intervistava faceva spesso delle domande semplici a volte persino banali ma la risposta dell'autore era quasi sempre un interessante studio argomentato oppure delle altre domande più profonde e argute, in questo caso invece spesso succede il contrario: le domande spesso corredate da interpretazioni sono davvero interessanti e stimolanti, e alcune risposte dell'autore un po' scialbe e ripetitive.

"I.B.S.: In questa pagina (tratta dal libro "Notizie dell'interno") lei parla anche di una rivoluzione sociale: "La rivoluzione sociale dev'essere accompagnata da una rivoluzione metafisica. Bisogna liberare non solo le esistenze fisiche ma anche le menti. In caso contrario ogni conquista di libertà sarà necessariamente illusoria e passeggera. Bisogna creare armi che permettano di ottenere e conservare la libertà. Per fare questo è necessario guardare con coraggio verso l'ignoto, verso il trasformarsi della vita...L'ARTE DEVE BUSSARE CON VIOLENZA ALLE PORTE DELL'ETERNITA'..." Era una specie di manifesto?
P.A. (Ride): Non sapevo di cosa parlavo.
I.B.S.:"Le porte dell'eternità!" Non la realtà, ma l'eternità?
P.A.: Non ne ho idea.
I.B.S.: Però l'ha inserita nel libro.
P.A.: Si perché era così enfatico, così enfatico che l'ho scritto a lettere maiuscole. L'ho tenuto nel libro ma non lo capisco."

...ecco queste sue risposte mi hanno fatto un po' arrabbiare, perché come lettore cerco di dare un significato a quello che leggo, cerco di capire cosa l'autore mi dice con questa frase, per poi scoprire che non sa nemmeno lui ma suonava bene e allora l'ha scritta. Credo che sia una cosa comune in letteratura, comunque, non solo un artificio usato da Paul Auster ma di tanti altri, tra i quali magari anche classici, però il saperlo, da lettore, mi infastidisce perché mi sento un po' preso in giro. Chissà James Joyce quanto ci ha presi in giro e non tanto a noi lettori quanto ai suoi critici letterari che ancora ci lavorano su.

Archiviato questo rimprovero, devo anche dire che il testo si rivela nel complesso molto interessante sia per chi non ha mai letto nulla di Auster in quanto gli permette di entrare nel suo mondo e di essere guidato per mano tra le sue opere e quindi avere una visione complessiva sulla sua opera riuscendo poi la successiva lettura dei romanzi a interpretarla in maniera più illuminante; ma si rivela ancora più interessante per chi conosce già da tempo questo autore e apprezza i suoi scritti. In questo ultimo caso direi che la lettura è d'obbligo per meglio comprendere e completare i romanzi letti. La cosa che mi è piaciuta molto in questa intervista è che i vari personaggi prendono vita e vengono evocati come delle vere persone, hanno i loro misteri, la loro vita indipendente dall'autore, la loro parte dell'inconscio che nemmeno l'autore può penetrare, davvero un approccio interessante e vivo dove l'autore svela anche molte curiosità che altrimenti un lettore non potrebbe mai conoscere e che danno tutt'altra prospettiva. Credo che avere un testo- guida come questo sul quale potersi confrontare con l'autore, attraverso la sapiente voce di I.B.Siegumfeldt sia una grande fortuna e piacere per un lettore appassionato di Paul Auster. Si passa attraverso i suoi drammi, la sua incapacità iniziale di scrivere prosa, le sue difficoltà finanziarie e il complicato rapporto con il padre, il fallimento del primo matrimonio e rinascita attraverso il secondo, insomma Paul Auster oltre che ad essere una scrittore è un uomo ed è uno che il cammino se l'è costruito con le proprie mani (e penna) tra fatica e sacrifici, è una di quelle persone che nella vita "ce l'ha fatta" e leggerlo sicuramente contribuisce a un arricchimento.

Personalmente faccio parte della prima categoria sopra nominata e cioè da coloro che non hanno letto nulla di Auster ma ne sono incuriosite e la lettura di questa intervista-saggio mi è stata utile a capire il suo "mondo", a farmi un'idea della qualità della prosa che reputo significante e di sostanza ma anche a osservare il suo percorso di crescita artistica. Mi ha invogliata a conoscerlo meglio e approfondirò sicuramente con la lettura di qualche suo romanzo.

"P.A: Voglio rovesciare le cose. Come un architetto che costruisce una casa con tutti i tubi e i fili elettrici a vista. Sono attratto dal versante artificiale della letteratura. Sappiamo tutti che è un libro: lo apriamo sapendo che non è il mondo reale. E' un'altra cosa. Un'invenzione."


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Paul Auster
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Romanzi
 
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Giugno, 2019
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IL GRANDE SOGNO DI UN MONDO INCORROTTO

“Io credo che una foglia d'erba non valga affatto meno della quotidiana fatica delle stelle.” (Walt Whitman, “Tutto vale”)

Circa un anno fa, rispondendo a un commento relativo alla mia recensione de “Il tempo di una canzone”, mi sbilanciai scrivendo che, se un autore contemporaneo fosse stato in grado di scrivere il prossimo “Grande Romanzo Americano”, quello sarebbe stato proprio Richard Powers. Ebbene, lo scrittore dell'Illinois, con “Il sussurro del mondo”, è riuscito a superare ogni più ottimistica previsione e a scrivere addirittura quello che, senza esagerazioni, può essere a mio parere definito il “Grande Romanzo del Pianeta”. Le tematiche ecologiche, come ciclicamente accade, sono tornate di estrema attualità, come dimostra il successo mondiale riscosso da una giovane attivista quale Greta Thunberg, e confesso che quando ho preso per la prima volta in mano il ponderoso volume di 650 pagine mi ha sfiorato il sospetto di un astuto paraculismo, di una opportunistica intenzione di cavalcare un argomento di gran moda come la difesa dell'ambiente. Il dubbio si è però rivelato assolutamente infondato nel breve volgere di poche pagine, tanto appariva chiara e trasparente la volontà di comporre un autentico, genuino inno alla natura e alla bellezza incomparabile degli alberi e delle foreste, e solo secondariamente di lanciare un monito alla civiltà che, attraverso uno sviluppo incontrollato e insostenibile e lo sfruttamento sconsiderato delle risorse (“Stiamo per riscuotere un miliardo di anni di buoni di risparmio planetari e sperperarli in gioielli assortiti”), sta distruggendo intere specie che erano sulla Terra ben prima che facesse la sua comparsa l'uomo. Powers, come sua abitudine, non rinuncia a un approccio marcatamente scientifico, e la biologia (così come la musica e la fisica quantistica ne “Il tempo di una canzone”, o la fotografia, l'informatica e la genetica in altre sue opere) viene sviscerata con l'autorevolezza e la competenza di un vero specialista della materia. Ma egli è altresì convinto, come si esprime uno dei personaggi del romanzo, che “le migliori argomentazioni del mondo non faranno cambiare idea alle persone” e “l'unica cosa in grado di farlo è una bella storia”. Così ne “Il sussurro del mondo” non ci viene presentata una sola bella storia, ma, in un profluvio incontenibile di ispirazione, ben otto storie che, nalla prima parte intitolata “Radici”, costituiscono quasi una raccolta di racconti apparentemente autonomi e autosufficienti. I nove personaggi (giacché in un capitolo ad essere protagonista non è un individuo singolo ma una coppia) sono quanto di più diverso per età, provenienza geografica, estrazione sociale e inclinazioni culturali si possa immaginare. C'è il discendente di una famiglia di coloni che nell'Ottocento si erano trasferiti in America dalla Norvegia, la figlia di un profugo di Shanghai in fuga dal comunismo di Mao, un ragazzo autistico interessato a tematiche di psicologia sociale, un veterano del Vietnam, un avvocato esperto di brevetti e copyright con la sua compagna stenotipista e attrice amatoriale, un programmatore informatico ideatore di videogiochi di successo, una studentessa in crisi di identità e una biologa innamorata delle piante al punto da preferirle di gran lunga agli esseri umani. L'unica cosa che in un certo senso accomuna questi personaggi è che le loro esistenze sono, in qualche caso (la biologa Patricia) in modo evidente, in altri casi in maniera assai più indiretta e nascosta, contrassegnate dalla presenza degli alberi: dal castagno che, per una bizzarra consuetudine tramandata di generazione in generazione dagli antenati di Nicholas, viene fotografato lo stesso giorno di ogni mese, fino a ottenere una sorta di zoopraxiscopio, un migliaio di fotografie che cambiano tra loro impercettibilmente e che, viste in rapida successione, mostrano in time-lapse il mistero della vita in divenire, all'anello di giada con un albero di gelso finemente intagliato portato dalla Cina dal padre di Mimi, dagli alberi piantati dal padre di Adam in occasione della nascita di ciascun figlio e che Adam è convinto che creino un collegamento magico con ciascun bambino influenzandone il carattere e il destino, alla famosa foresta del “Macbeth” che Ray e Dorothy recitano all'epoca del loro primo incontro, dal baniano che salva la vita di Douglas nell'Estremo Oriente al leccio da cui invece precipita Neelay condannandolo a un futuro da paraplegico, e così via. I nove protagonisti sono quasi dei predestinati, degli esseri prescelti (con un meccanismo che mi ha ricordato alla lontana “Incontri ravvicinati del terzo tipo”) per portare avanti le istanze di un mondo a rischio di estinzione. E' così che nella seconda parte (“Tronco”) le varie storie convergono, si sfiorano, si incrociano e si intrecciano, fino a procedere all'unisono sullo sfondo dei movimenti ambientalisti di protesta e del radicalismo ecologista a cavallo tra gli anni '80 e '90 negli Stati Uniti dell'Ovest. Ribattezzandosi con nomi di albero come dei partigiani, Olivia, la donna che è spinta ad agire mossa dalle voci di misteriose creature di luce, Nicholas, Mimi, Douglas e Adam partecipano a sit-in di protesta, occupazioni pacifiche e altre plateali manifestazioni, cercando di mettere i bastoni tra le ruote della fiorente industria nordamericana del legname che disbosca a ritmo forsennato intere foreste di alberi secolari e pagando spesso in prima persona con violenze ed arresti il loro giovanile e appassionato idealismo. Sono anni di ideali, di speranze, di visioni perfino (come detto, Powers non esita neppure a flirtare con il paranormale, come aveva già fatto un altro grande romanzo di questi anni, “Canta, spirito, canta” di Jesmyn Ward), destinati a scontrarsi duramente con interessi, economici e politici, molto più grandi e potenti. Olivia e Nicholas trascorrono addirittura un anno in cima a una gigantesca sequoia, per impedire che venga abbattuta, scoprendo che tra i rami del grattacielo verde, a sessanta metri sopra il livello del suolo, vive uno straordinario e inimmaginabile ecosistema (con tanto di piante di mirtilli e laghetti popolati di salamandre). Il dolore causato dalla vista di tanta distruzione e la volontà di ritardare il più possibile ciò che loro considerano una imminente apocalisse finiscono fatalmente per spingere i cinque amici ad intraprendere piccoli gesti di terrorismo, che sfoceranno inevitabilmente in tragedia. Dal canto suo, Patricia, la biologa che vive appartata nei boschi e le cui idee rivoluzionarie (gli alberi sono organismi sociali, che comunicano tra loro, nell'aria e sotto terra, si nutrono vicendevolmente e costruiscono sistemi immunitari condivisi, diffondendo messaggi chimici di allerta quando un pericolo si avvicina), dopo essere state inizialmente respinte dalla comunità scientifica, tornano in auge riabilitandola agli occhi del mondo, scrive un bestseller sugli alberi e ottiene una generosa sovvenzione pubblica per creare una sorta di banca dei semi di specie a rischio di estinzione, cosa che tuttavia non le impedendisce di sentirsi in colpa al pensiero di quante piante abbiano dovuto essere abbattute per poter stampare il suo libro o quanto danno abbiano arrecato all'atmosfera i suoi viaggi in aereo per scopi scientifici.
La struttura del romanzo di Powers è genialmente a immagine e somiglianza di un albero. Alle radici e al tronco delle prime due parti, seguono la chioma e i semi delle altre due sezioni. E come le storie individuali si erano riunite per un certo periodo nell'azione comune, nella solidarietà della lotta e nella complicità affettiva, così lo scorrere del tempo fa tornare a prevalere le spinte centrifughe e distanzianti. Come i rami che si biforcano e si allontanano, i nove protagonisti tornano a vivere le loro vite solitarie e appartate, minate dal rimpianto per ciò che non si è realizzato, dallo scoramento per i fallimenti subiti e dalla paura nei confronti di un passato che sembra farsi vivo solo come eterna minaccia e non come una promessa che si avvera. E' la vecchiaia che segue all'infanzia e alla giovinezza, in un'altra ideale e simbolica ripartizione del libro. La morte, la solitudine e la condanna fanno capolino nel romanzo, diffondendo un'aura di pessimismo e di sconfitta. Ma le molteplici e imprevedibili diramazioni dei rami di un albero richiamano alla mente anche le diramazioni della vita, le esistenze alternative che si sarebbero potute realizzare in un universo parallelo. Come un mago della dimensione temporale, Powers immagina che un suicidio per aver ingerito un veleno da un bicchiere possa trasformarsi in un brindisi al non-suicidio, o che la figlia che i coniugi Brinkman non hanno mai avuto possa rivivere all'indietro, in un poetico time-lapse, mentre i loro occhi sono fissati sul castagno del loro giardino. C'è un personaggio emblematico che ipostatizza alla perfezione questa “fluidità” temporale, ed è Neelay, il guru della realtà virtuale, il quale attravreso i suoi elaborati videogames crea nuove vite e nuovi mondi, talmente realistici da poter essere preferiti da milioni di persone alla realtà vera. Ebbene, Neelay, sconcertato per il fatto che i suoi giocatori riproducono nei suoi universi virtuali tutti i comportamenti negativi del mondo autentico (cieca violenza, accumulazione indiscriminata di ricchezze, distruzione di risorse, espansione illimitata), progetta un nuovo gioco in cui il mondo è una sorta di nuovo paradiso terrestre, ma in cui le risorse sono calmierate come le nostre, i comportamenti non sono senza conseguenze e le vite non sono infinite, bensì solo una, da gestire con oculatezza, non solo risolvendo problemi ma anche prendendosi cura della comunità, dell'ambiente e della natura circostanti. E' una sorta di sogno chimerico, che dimostra comunque come Powers abbia profondamente a cuore la speranza. In un mondo che l'uomo ha sempre pensato fosse fatto esclusivamente a suo uso e consumo, e che i suoi comportamenti dissennati minacciano pericolosamente di distruggere, non è utopistico pensare che la salvezza risieda proprio negli alberi, “i prodotti più spettacolari di quattro miliardi di creazione”. E' una sorpresa per i personaggi del libro scoprire alla fine, dopo aver faticosamente metabolizzato la delusione per non essere riusciti a salvare le foreste dalla furia erinnica del capitalismo selvaggio, che le creature che dovevano essere salvate non erano gli alberi, ma erano proprio loro, gli uomini, e che i salvatori sarebbero invece stati, con la loro silenziosa e paziente tenacia pronta a sfidare i secoli, gli alberi. “La vita ha un modo tutto suo – pensa Neelay – di parlare al futuro. Si chiama memoria”. Gli alberi di Powers possiedono uno straordinario potere, quello di annullare il confine tra passato e futuro, di trasformare i ricordi in predizioni, di far rivivere ciò che non è più: i ricordi di Mimi bambina che in riva al fiume pesca col padre risuscitano al profumo irresistibile di un pino (“una zaffata devastante di duecento milioni di anni prima”), così come gli alberi piantati in gioventù e poi colpevolmente dimenticati riportano in vita la freschezza e la gioiosità dei primi, spensierati anni del matrimonio di Ray e Dorothy, e le fotografie del castagno degli Hoel dissepolte da Nicholas lo riportano vertiginosamente indietro nel tempo, all'inizio del secolo scorso.
Richard Powers non è uno scrittore che indulge in virtuosismi inutili, in acrobatici tour-de-force verbali, non è un Nabokov o un Faulkner per intenderci. Il suo stile è fatto di periodi brevi, essenziali, precisi, apparentemente neutri e cronachistici, eppure capaci di aperture straordinariamente liriche ed evocative, come un fiume carsico che esce in superficie quando meno lo si aspetta. Se dovessi avvicinarlo a un altro autore contemporaneo, il nome che farei sarebbe senz'altro quello di Cormac McCarthy. Ne “Il sussurro del mondo” questa scrittura appare quanto mai congeniale, perché è come se l'autore si fosse messo alla stessa altezza degli alberi, e osservasse, con il loro stesso metro temporale, le vicende umane. Le tragedie e gli altri momenti topici, per esempio, capitano all'improvviso, quasi senza preparazione, in maniera del tutto anti-emotiva e anti-spettacolare, proprio come se fossero viste “sub specie aeternitatis” (o sarebbe meglio dire “sub specie arboribus”). Sono infatti gli alberi, più che i personaggi umani, i veri protagonisti del romanzo. Le loro esistenze ieratiche e solenni sono, benché misconosciute, sommamente più interessanti di quelle umane. Gli alberi fanno riprodurre gli uccelli, assorbono carbonio, purificano l'acqua, filtrano veleni dal suolo, formano il clima e costruiscono l'atmosfera, riparano, nutrono e proteggono tutti gli esseri viventi, offrendo persino l'ombra ai boscaioli che li distruggeranno. Powers li guarda con un senso di reverente meraviglia, di stupefatto incanto, e dedica loro pagine ispiratissime, magari per descrivere una semplice venatura lignea sulla superficie di un tavolo o la forma unica e inconfondibile di una foglia. Quando scrive il suo libro “La foresta segreta”, Patricia ricerca nel suo scritto tre qualità: speranza, verità e utilità. “Il sussurro del mondo” le possiede indubbiamente tutte quante: in primis la speranza che la civiltà umana, che è ormai ridotta come “un vitello cui vengono somministrati gli ormoni della crescita”, possa finalmente imparare non solo a convivere pacificamente con i suoi vicini vegetali, a cui è legata da tantissime affinità (in fondo, viene fatto notare nel romanzo, tutti quanti proveniamo dallo stesso seme e, pur avendo intrapreso strade opposte, ancora adesso condividiamo il 25% del DNA), ma anche a comprenderli per l'interesse della propria specie (“Se sapessimo cosa vuole il verde, non dovremmo scegliere tra gli interessi della Terra e i nostri. Sarebbero gli stessi!”); la verità, poi, supportata da inoppugnabili anche se sorprendenti (per un profano) affermazioni scientifiche, come la messa in discussione della visione antropocentrica del mondo (in fondo, se riduciamo la vita dell'universo in una sola giornata, l'uomo sarebbe apparso solo pochi secondi prima della mezzanotte); infine l'utilità di trasmettere al lettore una visione inedita del mondo vegetale, dal momento che, dopo aver letto “Il sussurro del mondo”, non credo che si possa più fare jogging in un parco o una passeggiata in un bosco senza guardare i faggi, gli aceri o le betulle con occhi nuovi e pieni di gratitudine, meravigliandosi di averli trattati fino ad oggi con così poca considerazione e degnati di così scarsa attenzione. Ma oltre a speranza, verità e utilità, nell'opera di Powers c'è – soprattutto – bellezza, la bellezza di un libro che ci avvince con le sue straordinarie storie di amore, di amicizia, di dedizione, di tradimento e di perdono, capace di farci attraversare il corso dei secoli, magari in un unico momento di estatica visione (Adam che dal suo appartamento vede improvvisamente Manhattan come doveva essere prima della comparsa dell'uomo, con le sequoie al posto dei grattacieli e gli animali preistorici al posto dei newyorkesi), di farci assaporare la libertà dei nostri limiti e il potere dei nostri sogni (foss'anche solo quello di trasformare il giardino di casa in una piccola foresta, a dispetto di tutte le leggi e le ordinanze comunali), e persino di inviare messaggi a un lontano futuro (come Nicholas che con i tronchi caduti nella foresta compone una gigantesca scritta - “TUTTAVIA” - che può essere letta dallo spazio), la bellezza di un libro eccezionalmente denso, stratificato e complesso, che le mie parole non sono forse in grado di restituire appieno, ma che sono sicuro un giorno sarà considerato un imprescindibile caposaldo della narrativa del XXI secolo. Se anche gli alberi non dovessero riuscire a salvare il mondo, sicuramente, con “Il sussurro del mondo”, avranno in piccola parte contribuito a salvare la letteratura contemporanea.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    17 Giugno, 2019
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Il passero che cammina

Il mio primo impatto con Mo Yan è stato traumatizzante. Di lui colpisce lo stile del grande scrittore al servizio di un contenuto sgradevole e difficilmente comprensibile. Il testo allucinato e onirico fa sì che non si possa raccontare una trama anche perché la oggettività dei fatti viene continuamente messa in discussione, ragion per cui lo stesso episodio viene riferito più volte in modo ossessivo e volutamente contraddittorio, ma questo è il meno. Infatti anche l’identità dei personaggi è mutevole. E’ come se ci fosse un deus ex machina, un io narrante superumano che diventa di volta in volta ogni personaggio oppure, a sua scelta, resta al di fuori della storia come narratore. Il libro ha un incipit bellissimo che ho dovuto rileggere 5 volte prima di rassegnarmi a capire di non averci capito nulla, in cui il narratore, una specie di mostro in gabbia mangiatore di gessetti, racconta a un pubblico di studenti, la storia di un professore di fisica morto durante una lezione sulla bomba atomica. Ma poi il professore ha un sosia, forse, in alcune versioni della storia suo gemello, e comunque suo vicino di casa, anche lui con una moglie e due figli in perfetta e non casuale simmetria. Il professore morto viene rimpiazzato dal sosia benché non sia veramente morto, oppure è morto e risorto, oppure il professore è oltre che se stesso anche il sosia e forse pure il narratore e magari in alcune versioni anche sua moglie e in altre versioni ancora anche qualcuno dei suoi amanti. La realtà è dunque onirica e magmatica, ma molto magmatica. L’incipit con il mostro in gabbia mi è piaciuto moltissimo, ma poi la lettura si fa ardua sia per l’inesistenza di una trama stabile, sia per la sgradevolezza estrema del contenuto. La moglie del primo professore di fisica scuoia conigli, la moglie del secondo professore di fisica lavora in un obitorio come truccatrice di cadaveri. Più che truccatrice è una chirurga plastica di cadaveri, con tanto di descrizioni di estrazioni di grasso adiposo e di visceri di cadavere che vi raccomando. Dunque, scuoia esseri umani.
Anche se Mo Yan è stato accusato di essere allineato al regime comunista cinese, il romanzo contiene una evidente critica sia a Marx che alla società cinese con gli insegnanti, quindi gli intellettuali, che muoiono di fame (mangiano gessetti) e i burocrati del partito che accumulano adipe e si servono a man bassa delle donne proletarie salvo poi mascherare questa condizione di evidente disparità sociale e prepotenza con operazioni di chirurgia plastica post mortem. C’è una falsità sociale diffusa. La giustizia e l’uguaglianza comunista si realizzano, sì, ma solo dopo la morte dato che i conigli scuoiati, così come i morti, contadini o dirigenti che siano, sono tutti uguali. L’obitorio è l’altare dove si realizza l’uguaglianza vera al di là di ogni finzione propagandistica. Io credo che se Mo Yan non ha avuto problemi con la censura è perché nessuno dei suoi papabili censori ha mai letto un suo libro o leggendolo ci ha capito qualcosa.
In ogni caso, il mondo di Mo Yan è terribile. C’è solo materia, materia in decomposizione, materia che sopravvive alla sua morte ma questa sopravvivenza ha qualcosa di mostruoso. E’ come se la materia potesse eternizzarsi, divinizzarsi, perdendo però ogni umanità. Il personaggio nella gabbia dello zoo che compare nell’incipit e che, con il senno di poi, dovrebbe essere uno dei due professori di fisica, è una figura mostruosa, con quegli occhi che mandano bagliori verdi, gli stessi occhi del professore di fisica resuscitato. Il verde ha un significato in genere di rinascita, ma qui è anche e soprattutto legato alla marcescenza cadaverica, per cui è una rinascita ma in una condizione solo materica. I personaggi del romanzo non hanno umanità solo istinti. L’amore è citato nel romanzo come idea, nel senso che, come nei romanzi di Marquez, che solo in questo gli assomiglia, i personaggi hanno istinti e mai affetti. Gli affetti muovono gli istinti o sono istinto mascherato. L’unico affetto autentico è quello della scimmia per il figlio. L’uomo ha un cervello (anche se non superiore a quello della scimmia) che usa solo per fare i suoi interessi perseguendo istinti o necessità materiali. In un certo senso c’è pure una idea di cannibalismo senza sacrificio, che porta a una maggiore materialità e bestialità dell’uomo, all’opposto di quello della religione cristiana. Questa carne che mangiano tutti, che a volte è di animali, carne cruda, carne che ho sospettato venisse anche dall’obitorio, rende l’uomo una bestia più delle bestie dello zoo. Allo stesso tempo ogni personaggio è lo stesso personaggio. Forse per questo alla disuguaglianza sociale si contrappone una gemellanza morale che rende ogni personaggio simile a tutti gli altri nell’essere una bestia in gabbia, la stessa bestia. Il romanzo esprime un materialismo asfissiante. Io credo che ci sia un’esigenza di amore o di spirito in tutto questo. L’amore è citato alcune volte dai personaggi sempre per dire che però l’amore è un’altra cosa, rispetto alle relazioni che vivono. L’amore è come un vago ricordo, ma molto più remoto e inafferrabile e lontano di un vago ricordo. E’ qualcosa come i baffi verdi della moglie del professore di fisica (quello vivo), qualcosa che pare di un altro mondo. Gli uomini sono come la tigre e il leone e generano figli più feroci di loro. Non per niente la tigre e il leone sono una coppia con due figli, simmetrica anch’essa a quella formata da ogni professore di fisica e consorte. E il guardiano dello zoo che ha quegli occhi con pericolosi bagliori verdi e commercia carne umana che scambia con altra carne di animali, sembra una immagine speculare e opposta del Dio cristiano. Per poi sovrapporsi all’immagine del professore di fisica e del narratore dentro la gabbia, mangiatore di gessetti, che non si capisce bene se crei la storia o ne sia attore o tutte e due le cose insieme, un po’ come nella religione cristiana la figura di Cristo ma capovolta e speculare. Il professore è tornato vivo in una resurrezione della materia divinizzata senza però anima, perciò ingabbiata in una eterna schiavitù che alla fine ingloba anche il lettore. Le descrizioni, quelle non di cadaveri, per esempio il temporale che c’è a pagina 300, sono bellissime e il finale è meraviglioso. Il libro data l’inesistenza della storia e la forza delle immagini è quasi fatto per immagini. Ciò non toglie che la lettura sia pesantissima.

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Non è un libro per tutti per le descrizioni morbosamente macabre e molto disturbanti.
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    12 Giugno, 2019
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Due ragazze: Chloe e Nicky.

Sorelle sbagliate di Alafair Burke è il suo ultimo libro edito, dopo La ragazza nel parco e La ragazza che hai sposato.
Le sorelle "sbagliate" sono Chloe e Nicky. La prima è sempre stata una ragazza assennata, diligente e studiosa; mentre Nicky è la ribelle problematica, dedita all'alcool e all'abuso di droghe. Così quando sposa Adam e ha un figlio, Ethan, tutti pensano che ci sia un netto miglioramento. Ma gli avvenimenti smentiscono tale convinzione. Quando Nicky viene trovata a bordo piscina drogata, e dopo aver tentato di affogare il piccolo, Adam , disperato, chiede aiuto alla stessa Chloe. Lui che ha:
"Un sorriso bellissimo: dolce, ma anche un po' ammiccante",
Non può che allontanarsi da una moglie così inaffidabile, e gioco forza innamorarsi della cognata. Lo scandalo scoppia, e dopo tanti anni la normalità sembra faticosamente raggiunta. Ma non è così: Adam viene trovato accoltellato nella loro casa negli Hamptons. Chi lo ha ucciso? Nicky torna da loro, profondamente cambiata e così iniziano ad insinuarsi sospetti sulla vera natura del suo matrimonio con Adam e del loro rapporto. Quando Ethan viene accusato di aver ucciso il padre, le due sorelle non possono che affrontare , unite e solidali, un lungo, doloroso, percorso alla ricerca della verità, superando pregiudizi ed illusioni.
Un libro che affronta molte tematiche, che:
"Esplorano la complessità delle relazioni femminili e i diversi ruoli che le donne svolgono nella società contemporanea."
Tratta, in profondità, analizzando e discutendo, dei legami tra fratelli e sorelle, dei rapporti tesi con i genitori, della violenza sulle donne, degli abusi, spesso perpretati all'interno della famiglia stessa.
Tuttavia la lettura è poco profonda, non vi è intrigo né fascinazione. Tutto è molto piatto, e del giallo e delle sue caratteristiche peculiari ha veramente molto poco. Buona è la caratterizzazione dei personaggi, il loro vissuto narrato che conduce a riflettere sugli argomenti detti sopra. Una lettura scarsa, per quanto attiene il genere, buona per la comunicazione e per il pensiero che induce.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Giugno, 2019
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In balia delle correnti della vita

Per chiunque abbia avuto occasione di trascorrere un periodo della propria vita al Cairo, e non soltanto come semplice turista, questo bel romanzo fresco di stampa non può che rivelarsi sorprendentemente evocativo. Tra le sue pagine io ho ritrovato la stessa identica città conosciuta una decina d’anni fa, lo stesso caos devastante, gli identici struggenti tramonti, colori, odori, profumi di sempre…

“[…] il tappeto sonoro della città, un fruscio ininterrotto come quello dello schermo di un vecchio televisore senza canali, un tessuto che ci sovrasta, tenuto insieme dal contrappunto di migliaia di clacson, di un’infinità di auto, di camion, le sirene delle ambulanze, lo sferragliare delle betoniere, degli autobus, e poi le motociclette, i trattori, il fumo nero della nafta bruciata che soffia su dai tubi di scappamento arrugginiti e si va ad aggiungere alle tenebre sopra di noi, senza stelle, senza luna.”

La città del Cairo è così: la si odia o la si ama. O entrambe le cose, in un alternarsi, spesso contrastante, di sentimenti e stati d’animo suscitati da questa frenetica metropoli moderna dal cuore antico.
Alex, il protagonista di origine italiana di “Al Tayar”, sceglie di amarla in verità fin da subito, catturato da un fascino ambiguo a cui si è voluto aggrappare in cerca di una possibile salvezza e redenzione. Approda casualmente nella capitale egiziana per ripagare un debito contratto con un giro di gente poco raccomandabile; il suo lavoro interrotto da fotografo è rimasto forse a Londra o nell’Estremo Oriente, tra le insoddisfazioni e le delusioni di una vita sì giovane ma già pesantemente vissuta. Ad attenderlo al Cairo, in mezzo al sudicio frastuono delle sue strade, persone non certo migliori di coloro per cui deve fare una consegna illegale di farmaci, ma tra le quali lui sembra trovare all’improvviso una sua giusta dimensione, al punto da chiedere di restare sul posto a lavorare per loro. Eppure dietro la facciata pulita e l’odore pungente di disinfettante della clinica di al Maadi, Mohamed, Ahmed, Khaled e altri celano affari tra i più sporchi e turpi che possano esistere e che non tarderanno a bussare alla coscienza di Alex, il quale capirà presto che il suo nuovo lavoro non consiste soltanto nei recarsi all’aeroporto ad accogliere ricchi pazienti inglesi che hanno pagato cifre strabilianti per un trapianto che possa salvare loro la vita. Da dove, e soprattutto da chi, provengono gli organi trapiantati? È proprio tutto così semplice e filantropico come qualcuno cerca di dipingere sbrigativamente l’intera questione?
In un crescendo di suspense e colpi di scena ben dosati, la penna di Mario Vattani, diplomatico non nuovo alla narrativa, con grande maestria dà vita a un noir che intreccia lunghe giornate assolate e notti insonni ancor più interminabili, dove i concetti di bene e male si rincorrono spesso lungo confini poi non così marcati.
Una scrittura, a livello formale, perfetta, solida, per nulla incline a comode semplificazioni linguistiche oggi purtroppo in voga; a livello sostanziale, piacevolmente coinvolgente (tant’è che non si avverte nemmeno la mole delle pagine) e d’una scorrevolezza che è pari a quella del Nilo, la cui corrente, come già anticipa il titolo del libro, affascina e quasi ipnotizza il nostro protagonista.

“Per la prima volta mi trovo all’altezza del fiume, e resto incantato dalla sua massa immensa. I miei passi risuonano sulle tavole, e sento nelle narici l’odore di quella superficie buia e fluttuante, punteggiata da mille riflessi di luce. A meravigliarmi non è solo il profumo di umidità, di fango, di natura, ma soprattutto l’idea che quello stesso profumo, come un vapore invisibile che si è andato costituendo particella per particella, ha attraversato il continente africano per migliaia di chilometri.”

E proprio da questa corrente, grande metafora della vita, si lasciano trascinar via ineluttabilmente tutti i personaggi, ciascuno ben delineato, tra cui spiccano, in particolare, le figure femminili principali (Amal, Noura, Nawal) che rispecchiano alla perfezione la tipologia delle donne in un Paese arabo: da quelle che sono velate e (mica tanto) pudiche a quelle che, con buona pace di tutti i nostri cliché preconfezionati sull’argomento, vivono pressoché all’occidentale con i capelli rigorosamente al vento; a tal proposito, un meritato plauso deve essere tributato a chi ha scelto l’immagine di copertina, finalmente lontana da scontati e prevedibili volti femminili muniti d'islamico hijab, se non addirittura del più intrigante niqab che, come dimostrato nel tempo, aiuta a vendere un maggior numero di copie specie quando si tratta di presunti casi editoriali di poca sostanza.
Scritto con grande passione e dovizia di particolari, “Al Tayar” è un bellissimo romanzo che un autore digiuno del Cairo non avrebbe mai potuto mettere nero su bianco; si sente che Vattani ha vissuto la città nel profondo, l’ha fatta propria (persino linguisticamente!), forse l’ha amata come il suo Alex e, chissà, anche odiata nei giorni più grevi e insopportabili. In fondo, è lei l'altra grande protagonista, questa immenso, tentacolare agglomerato urbano dal colore del deserto e che il deserto intorno sembra voler ormai divorare, con i suoi labirinti di sopraelevate, il suo traffico disordinato e incessante, la selva di antenne satellitari sulle terrazze, ma anche i suoi angoli che paiono oasi fuggite dal caos cittadino, come la collina del Muqattam, dove sorge la Cittadella con la Moschea di Muhammad ‘Ali (uno dei luoghi più belli che io stessa abbia mai visto), o il complesso di al Azhar. Una città che incanta e rapisce l’anima quando scende la sera sul Nilo e dai minareti s’alzano all’unisono le voci dei muezzìn, ma che può anche precipitare negli inferni più oscuri come accade nel drammatico epilogo della vicenda narrata. Cinque stelle e lode!

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Giugno, 2019
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C'era qualichi cosa che non gli quatrava...

Tutto ha inizio con il ritrovamento del corpo di Spagnolo Carmine, che “arrinisciuto a trasire dintra al capannone”, ha posto termine alla sua vita impiccandosi. Lo stabilimento all’interno del quale ha luogo il decesso è quello della Trincanato, “n’a fabbrica di scafi che fino a dù anni avanti era ghiuta bona” impiegando oltre duecento persone. Poi, alla morte del vecchio proprietario l’attività era passata al figlio Giovanni, il quale aveva la testa soltanto per “il joco e le fìmmine”. Il padre questo lo sapeva bene e aveva tentato di estrometterlo dalla gestione (seppur mantenendovelo nominativamente), purtroppo non riuscendovi. Ma davvero le condizioni economiche della Trincanato erano così malmesse da richiedere una chiusura immediata e improvvisa senza soluzioni di continuità e/o alcuna altra chance se non quella del licenziamento in tronco di tutti i dipendenti e del fallimento?
Il primo approccio tra Salvo Montalbano e Giogiò è tutt’altro che positivo e a complicare le cose ci si mette l’arrivo di una goletta tutta bianca “che pariva na’ navi spitali, […] longa venticinco metri e larga quasi setti”, con il nome Alcyon “scrivuto a prua”, che ben presto risulta evidente essere collegata proprio a questo imprenditore di dubbia rettitudine morale.
Tuttavia, le sorprese per Montalbano non sono ancora finite perché proprio durante lo sciorinamento delle indagini, ecco che, da ordini superiori, viene messo a riposo immediato – per “ferie accumulate” – per dieci giorni. Raggiunta Livia in Liguria, ecco che quello che sembrava essere un semplice periodo di sospensione si tramuta in ben altro: Salvo infatti apprende che il suo non è un congedo temporaneo, che i suoi uomini sono stati trasferiti di punto in bianco in vari e diversificati distretti e con varie e diversificate mansioni e che di fatto il suo commissariato è stato smontato. Ma perché? È davvero così? Che i suoi superiori abbiano studiato a tavolino un complotto per liberarsi di lui magari sfruttando una qualche sua reazione istintiva e imprudente a seguito dell’allontanamento forzato? O forse dietro la facciata c’è ben altro? Perché alla fine, se si fosse trattato davvero di una manovra a suo danno, il piano Bonetti-Alderighi non sarebbe stato reso pubblico… Cosa sta succedendo in verità? Qual è il ruolo delle picciotte? E cosa succede a bordo dell’Alcyon? E perché verso Giovanni Trincanato vengono prese delle misure così estreme?
Nato come soggetto per un film italo-americano, a cui poi è venuta a mancare la produzione e non quindi come romanzo, una decina di anni fa, “Il cuoco dell’Alcyon” vede tornare in scena il tanto – e meritato – amato Salvo Montalbano con Fazio, Augello, Catarella e tutti i membri più fidati della sua squadra per risolvere un caso tutt’altro che semplice e costruito sulla combinazione di più misteri e circostanze che vedranno la partecipazione anche di forze d’oltreoceano.
Il risultato è quello di un giallo diverso dai soliti Montalbano perché strutturato con caratteri tipicamente scenografici, e quindi non canonicamente letterari, ma che comunque conquista sin dalle prime pagine il lettore che è travolto dalle vicissitudini tanto da non riuscire a staccarsi dall’opera. È un flusso che come un campo magnetico impedisce di interrompere il leggere.
All’investigazione, inoltre, è possibile ravvisare tra le pagine anche le profonde riflessioni dell’autore che tramite i fatti narrati si interroga su quelle che sono le problematiche della società attuale, in particolare focalizzando l’attenzione su quella che è la realtà del mondo del lavoro.
Il tutto grazie ad una trama comunque solida, una penna magnetica e familiare, personaggi stratificati e l’indiscussa genialità di un Camilleri che non delude le aspettative.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    05 Giugno, 2019
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L'ascesa dei Florio

Bagnara Calabra, 16 ottobre 1799. Paolo Florio è un uomo ambizioso, essere ‘u bagnaroto non gli basta più. Non può essere sufficiente ad appagare il suo orgoglio, la sua bramosia di arrivare, di esser qualcuno. La decisione è rapida e immediata tanto come l’ascesa che ne consegue: il trasferimento a Palermo con il fratello Ignazio, la moglie Giuseppina e i figli è d’obbligo anche se questo significa separarsi dalla sorella Mattia coniugata con Barbaro, un uomo che non esita a far pesare il suo ruolo di capofamiglia affermando la propria volontà con violenze di ogni genere. E anche se con fatica, l’Aromateria viene aperta, piano piano supera le reticenze dei palermitani, le malevoli voci messe in giro dai rivali e arriva anche la possibilità di quel magazzino e quel fantomatico e atteso Don a dar rigore e forza al nome. Ma le difficoltà non sono finite, la strada intrapresa è irta di ostacoli e la famiglia Florio dovrà affrontarne tante prima di poter raggiungere quel riscatto sociale tanto auspicato e inseguito.
Primo volume della serie dedicato da Stefania Auci alla famiglia Florio, “I leoni di Sicilia” è un’opera che ben bilancia dato storico e finzione e che inizia con il trasferimento del nucleo principale sull’isola per terminare con l’ascesa del nuovo erede, il nipote Ignazio. È una storia stratificata, perseverante e arguta, che si sostanzia sull’ambizione del riscatto economico-sociale raccontando quelli che sono gli avvenimenti realmente vissuti dai Florio senza nulla risparmiare al lettore. L’arco temporale che è oggetto della saga è molto ampio poiché parte dalla miseria di fine diciassettesimo secolo per giungere all’affermazione nella rinnovata Palermo del diciannovesimo. Lasciare la terra natia per abbracciarne una nuova porterà a molteplici riflessioni e mostrerà al lettore anche uno scenario cittadino molto diverso dalla bellezza iniziale dell’arrivo e delle apparenze. Conosceremo i retroscena, le brutture e le oscurità di un luogo che cela molto più della mera facciata. Nel proseguire degli anni muteranno altresì anche gli stessi personaggi e verrà meno perfino quella rettitudine morale propria dei patriarchi. Quell’intransigente sobrietà, onestà, integrità verrà sostituita dalla cupidigia, dall’avidità, dall’insaziabilità, dalla bramosia dell’escalation sociale.
Una trama solida con personaggi credibili e altrettanto corposi che è avvalorata da una penna ricercata, erudita, descrittiva nonché accentuata da qualche espressione dialettale introdotta nelle voci dei personaggi per rendere ancora più veritiero il contesto narrato.
Ma non si ferma qui l’autrice. Perché nelle pagine che scorrono vengono affrontate anche molteplici tematiche, talune di particolare attualità, altre di carattere più storico ma comunque di denso significato. Tra le tante viene focalizzata l’attenzione sul ruolo della donna nella famiglia e sui valori in quest’ultima radicati, sull’impostazione maschilistica e spesso sessista del capofamiglia che era proprietario della moglie ma anche dei figli, sulla dimensione del meridione anche a livello politico e non solo socioculturale ed economico, e tante altre ancora.
Unica pecca che ho ravvisato è una certa lentezza nella lettura a causa di una propensione alla prolissità descrittiva in alcuni anfratti.
Nel complesso, comunque, un ottimo romanzo storico adatto a chi ama il genere, a chi ama le storie familiari, a chi vuol approfondire le vicissitudini del sud-Italia. Si noti bene che un particolare accento è posto proprio su quella che è la verità storica, a riprova di ciò ogni capitolo ha inizio con detti popolari ma anche con brevi postille all’interno delle quali la scrittrice inquadra gli avvenimenti più salienti del periodo narrato. Non a caso molteplici sono state le ricerche da questa effettuate per ricostruire i fili delle vicende, dagli abiti, alle canzoni, alle lettere, ai gioielli, alle barche, alle statue, agli usi e costumi più intimi. Un grande impegno che viene ripagato nella lettura.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    03 Giugno, 2019
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La scuola del livore

Ad Amsterdam esisterebbe un istituto scolastico che si ispira, nei metodi di insegnamento, ai principi ideati da una grande educatrice italiana: Maria Montanelli. Tuttavia, mentre il sistema Montanelli sarebbe stato ideato per consentire l’accesso all'istruzione ai bambini poveri nei quartieri degradati di Napoli, in Olanda è divenuto base per la costruzione di un percorso scolastico modernista per i figli dell’élite cittadina: la scuola ha sede in uno dei quartieri più lussuosi, vi accedono solo i rampolli di ricchi e di artisti mentre il sistema educativo, buonista e volto alla crescita autonoma della consapevolezza, è sostanzialmente una quintessenza dello snobismo.
Frequentano la scuola, però, anche uno studente decisamente atipico, particolarmente riottoso a sottomettersi alle regole che gli vengono imposte, e un altro chiaramente affetto da handicap cognitivi che diviene, proprio perciò stesso, bersaglio dei compagni quanto più egli è oggetto di protezione da parte dei docenti.
La storia, che è, più che altro, una elencazione dei motivi di scontento dello studente ribelle, ci vuol spiegare perché, alla fine, lo studente “ritardato” troverà la morte durante una gita scolastica o, meglio, durante una di quelle che ufficialmente, nella scuola Montanelli, sono chiamate “settimane di lavoro”.
Trovo molta difficoltà a recensire il breve romanzo di Koch (pubblicato in lingua originale nel 1989, ma edito solo ora in italiano) che mi ha lasciato letteralmente sconcertato.
Le centoventotto pagine del libro sono un’unica ininterrotta invettiva dello studente ribelle (la voce narrante) contro la scuola, i suoi professori, il quartiere ove risiede, le persone che lo abitano e tutto il contesto in cui si trova a vivere. Palesemente autobiografico (ho scoperto solo in seguito che Koch ha studiato al Liceo Maria Montessori di Amsterdam e ne è stato espulso), pare quasi una seduta psicanalitica nella quale l’A. caccia fuori tutto il fiele che gli si è accumulato dentro per i torti che ritiene gli siano stati inflitti.
Raramente mi è capitato di leggere pagine più intrise di livore e odio di queste. Nulla gli aggrada, tutto è degno delle più feroci critiche e dei peggiori vituperi. La cronaca della morte annunciata dello studente è solo un pretesto coltivato marginalmente, mentre l’obiettivo principale è proprio lo sfogo del narratore, chiaramente disturbato e psicologicamente fragile, contro tutto ciò che gli rende l’esistenza insopportabile. Il protagonista (e di conseguenza forse anche l’A.) si trova a vivere un durissimo momento con l’improvvisa malattia dell’amata madre che lentamente scivola nella morte. Il comportamento anaffettivo del padre che, indifferente alle sorti della moglie, intrattiene alla luce del sole una relazione extraconiugale con una ricca vedova che abita nei paraggi, aggrava il suo stato d’animo. A questo punto, il metodo di insegnamento blandamente comprensivo, l’atteggiamento dei compagni (pochi esclusi) e, in genere, lo snobismo dilagante in cui si aggira, formano una miscela esplosiva che non risparmia nessuno.
Il romanzo, scritto con lo stile che potrebbe caratterizzare la prosa di un diciannovenne, pieno di voli pindarici, di incisi e di digressioni, non si comprende dove voglia condurre il lettore. È stato definito una feroce critica al sistema, al perbenismo e conformismo che ci caratterizza; una sferzata contro le ipocrisie. Io non ho percepito nulla di tutto ciò. Vi ho visto solo un disperato grido d’aiuto di un ragazzo che si dibatte disperatamente, oppresso dalle sue angosce e dai suoi dolori per i quali non riesce a trovare risposta da nessuno di coloro che potrebbero e dovrebbero dargli soccorso. Tutto sommato alla fine si ricava una sensazione di acuta mestizia.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Giugno, 2019
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Racconti di cruda realtà

Ultimamente, Einaudi si sta dedicando abbastanza alla pubblicazione di racconti e raccolte di racconti di scrittori apprezzati, con più o meno successo. L’ultimo caso è quello di John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, con questa raccolta: “Bugie”. Devo dire che in questo caso, i sette racconti contenuti in questo libro di nemmeno 100 pagine sono perlopiù interessanti, alcuni addirittura belli: penso a “La vecchia e i gatti” e lo stesso “Bugie”,
che hanno protagonisti e temi in comune così come altri due, suggerendo come forse contenessero il germe per un vero e proprio romanzo. I primi tre racconti, invece, sono completamente scollegati dal resto, dando l’impressione (pur restando piacevoli) di essere un semplice riempitivo.
Lo stile dell’autore mi è sembrato particolarmente efficace nella composizione di racconti brevi, forse anche migliore di quello che ho riscontrato nell’unico romanzo di sua penna che ho letto. Forse il “mezzo racconto”, nel suo imporre la necessità di condensare, ha permesso all’autore di essere più conciso e a strutturare i pensieri in maniera più efficace, regalandoci vari spunti di riflessione e pensieri di grande profondità.
I temi che risaltano di più sono quelli evidentemente più cari a Coetzee, considerato che sono messi in risalto anche in “Vergogna”, una delle sue opere più famose; sto parlando dell’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia, della morte, e la considerazione della vita animale.
Coetzee ha una particolarità che solitamente apprezzo in ogni autore: non ha paura di affrontare argomenti spinosi; argomenti che potrebbero anche disturbare un lettore che ha paura di guardare in faccia la realtà. Non nascondo che, in certi tratti, affrontare temi che non sono particolarmente piacevoli (come la brevità e limitatezza della nostra vita) non è assolutamente piacevole, ma quale vantaggio c’è nella negazione dell’ovvio? Certe cose fanno parte della vita e occorre contemplarle e rifletterci, ogni tanto. Non sempre; non occorre essere masochisti, ma ogni tanto affrontare autori come Coetzee (o McCarthy) è educativo e può ampliare i nostri orizzonti.
Se non si fosse capito, vi consiglio di leggere questa raccolta di racconti, riservando un’attenzione speciale agli ultimi quattro.

"Ai confini dell'essere - è così che me lo figuro - ci sono tutte queste piccole anime, anime di gatti, anime di topi, anime di uccelli, anime di bambini non nati che si affollano e chiedono di poter entrare, supplicano di potersi incarnare, e io voglio farle entrare. Tutte. Anche se è solo per un giorno o due, anche solo per un rapido sguardo a questo nostro mondo meraviglioso. Perché chi sono io per negare loro la possibilità di incarnarsi?"

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    26 Mag, 2019
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Verità inderogabili

Di Loriano Macchiavelli ho letto tutti i libri con protagonista indiscusso il questurino Sarti Antonio in tempi lontani. Ora la casa editrice Einaudi lì sta ripubblicando tutti e, questo ultimo, Delitti senza castigo, è una indagine inedita. Lo stesso autore specifica che:
"Ho scritto il romanzo in quel di Montombraro il 4 ottobre 1998, (...) Nel 2018 , venti anni dopo, e prima di inviarlo all'editore, me lo sono riletto e l'ho completato. Perciò troverete accenni ad avvenimenti e riflessioni che non appartengono agli anni 1992-94 e 1998 ma che da quegli anni derivano".
Ricordando un impareggiabile classico, Delitto e castigo di Dostoevskij, Loriano Macchiavelli affronta un periodo vergognoso della nostra Storia italiana, in cui la verità non è ancora del tutto stabilità. Perché essa è:
"In continuo mutamento e cambia assieme all'esistenza e in questo mutamento continuano ad esistere quattro verità possibili. Noi siamo destinati , a causa della nostra miopia, a conoscere la verità che emerge. Una parte di verità, piccola o grande che sia, resta a noi sconosciuta. La terza verità è composta dalla prima e dalla seconda. Cioè dalla verità emergente e dalla verità non rivelata. (...) La verità non sarà mai completa. Mancherà sempre quella parte di verità sommersa."
E di giustizia ne reclamano parecchi fatti inspiegabili. Il primo è l'aggressione , inspiegabile e violenta, di "Settepalto'", un uomo che non ha mai fatto male a nessuno e proprio per questo un atto incomprensibile. Il secondo è l'uccisione, lontana nel tempo, di due ragazzi, drogati e ladri, brutale ed enigmatica, rimasta senza un vero colpevole.
A Sarti Antonio non resta che indagare a fondo, fino al momento catartico e purificatore del crollo Delle illusioni:
"Viviamo tempi oscuri dove verità e conoscenza ci sono proibiti (...) Le illusioni sono fatalmente destinate a cadere e, quando succede, le rovine sono molte, troppe."
Sullo sfondo, come sempre, la città di Bologna, una:
"Ex isola felice, ex grassa, ex dotta, e con la più antica ex università di Europa."
Una nuova avventura di Sarti Antonio e della sua bislacca squadra, tra un alternarsi continuo di passato e presente, ambiguo ed enigmatico. Un ottimo affresco sui molti, tanti, troppi segreti che investono la bella Italia, tra soprusi ed insabbiamenti atti a nascondere la realtà. Un ottimo libro, con una ottima caratterizzazione di personaggi, ambientazione e trama. Un testo che fa riflettere su come il passato possa presentare modalità e malignità che vanno perpretandosi nel tempo, mai del tutto sconfitte. Da leggere.

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Consigliato a chi ha amato Delitto e castigo di F. Dostoevskij.
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    24 Mag, 2019
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La scomparsa delle ideologie

PERICLE, DISCORSO AGLI ATENIESI, 431 A.C.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
(Tucidide)

Ecco, per commentare l’ultimo romanzo di Claudia Pineiro, “Le maledizioni”, partirei proprio da qui: dal discorso di Pericle agli ateniesi, come ci giunge attraverso Tucidide. È un discorso sull’essenza e sull’importanza della democrazia, un discorso che detta le linee guida di una buona politica. E tutto ciò potrebbe essere portato ad esempio come modello di governo ideale nella polis ateniese, se non fosse poi stato tutto smentito nel dialogo con i Meli, dal quale traspare la forte tendenza imperialista e brutale di Atene. Da ciò si evince il divario tra la politica espressa nelle idee e quella realizzata nel vivere quotidiano. Oggi questo divario non esiste neanche più nella misura in cui non esistono più né idee né ideologie. È questo il tema centrale del romanzo della Pineiro, che si snoda intorno a figure mediocri impegnate nella cosa pubblica, con fini utilitaristici ad personam. La politica oggi soffre del male inevitabile causato dal progresso della tecnologia. Tutto è velocizzato, la comunicazione deve essere rapida, breve ed esauriente. Il tweet a cui si affida il moderno persuasore delle folle non deve superare i 280 caratteri, il suo contenuto dunque deve riguardare le cose essenziali e fondamentali che vuole trasmettere senza indulgere in considerazioni di tipo ideologico o filosofico. Insieme alla rapidità nella comunicazione, altro elemento fondamentale è l’immagine di sé che il politico vuole trasmettere, un’immagine del tutto fittizia, basata su una famiglia perfetta, che alleva figli secondo i più tradizionali canoni borghesi. Ma l’inganno non può protrarsi a lungo. La carriera politica di Rovira, uomo senza scrupoli, che ha scelto di circondarsi di fedelissimi pronti a tutto, si scontra con la coscienza mai del tutto sopita del giovane Romàn, collaboratore scelto tra tanti grazie alle sue mediocri qualità intellettuali e alle scarse ambizioni che tuttavia non reprimono in lui quei valori e quei principi che costituiranno il punto di partenza per il suo riscatto.
Un’analisi lucida e spietata della realtà politica attuale, che non lascia grande spazio alle illusioni. Compromesso, corruzione, criminalità si intuiscono e divengono quasi palpabili in un mondo che fa dell’ambizione un naturale modus vivendi.



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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    23 Mag, 2019
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Tempo, dove fuggi?

"Parole- di chi, di altri, di nessuno; le parole sono come l'aria e le stagioni, non appartengono ad alcuno. Gran confusione, troppo grande per la piccola testa che la contiene."

Una grande e duplice sfida quella di Claudio Magris: da un lato c'è lui che cerca di ordinare e mettere nero su bianco le sue idee sull'eternità, sull'incomprensibile Tempo, e dall'altra parte c'è il lettore che deve impegnarsi a seguirlo, a meno che non scatti una immediata intuizione ed empatia con l'autore. Il Tempo è un tema molto ricorrente nella letteratura perché ricorrente nei nostri pensieri, nella nostra quotidianità, il Tempo ci detta la vita a suon di tic-tac e ci ossessiona nel nostro tentativo di conoscerlo, fermarlo, prolungarlo, ma per quanto possiamo sforzarci non ne verremo mai a capo di una sua conoscenza oggettiva, universale. In fin dei conti il tempo lo abbiamo inventato noi, siamo noi che gli abbiamo dato unità di misurazione e funziona nella nostra terza dimensione, ma quando ci sforziamo di capirlo a livelli superiori, tutto il nostro sapere al riguardo non ci è più utile e si sbriciola ogni nostra fragile certezza.

Sono moltissimi i libri che si occupano dell'argomento e tra quelli da me conosciuti e ritenuti molto concentrati e con una buona, esaustiva e chiara argomentazione sono "La montagna incantata" di Thomas Mann e "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust. Li nomino perché scrivere sul Tempo non è facile, non è facile dare una forma chiara e comprensibile ad un argomento così misterioso e complesso e nello stesso tempo offrirci anche una piacevole lettura poetica e filosofica, e per me i due libri sopramenzionati ci sono riusciti. "Tempo curvo a Krems" un po' meno, fortunatamente è un libro breve, 88 pagine di lettura perciò nonostante la difficoltà, la sua brevità lo alleggerisce e lo rende abbastanza accessibile ai lettori in generale e non solo a quelli interessati particolarmente sull'argomento.

Nonostante sia una raccolta di cinque racconti, è molto compatto per via del filo comune che li unisce: il Tempo visto da chi ne ha fatto di strada attraverso di esso "prendendosi sempre più anni e cose sulle spalle, come un attaccapanni sempre più carico". Ognuno dei cinque personaggi dei racconti si trovano ad un dato momento nel tramonto della loro vita a indagare sulla strada percorsa fin lì e su come sono ora, su come erano, cosa li ha trasformati e il Tempo rappresenta l'elemento fondamentale. Ognuno di essi da una prospettiva diversa, c'è chi si sente leggero "si toglieva dalle tasche le pietre raccolte in tanti anni" perché "adesso il mondo era un cane che non poteva più morderlo ma si metteva a correre e a giocare con lui" e c'è invece chi è pieno di rimpianti e tristezza. Sono racconti intensi, che in poche pagine e in un battito di ciglia offre al lettore una fotografia istantanea del vissuto di ogni personaggio, vissuto che è fondamentale poi sulle riflessioni fatte sul Tempo. Chi è arrivato sereno al tramonto è anche colui cha ha vissuto una vita bella, circondato da agi e fatto tutto a suo tempo e nei migliore dei modi, ottenuto grandi risultati con pochi sforzi e un pizzico di furbizia nel "saper fare". Chi invece è arrivato amareggiato è anche colui che ha vissuto gli orrori della guerra e dello sterminio degli ebrei. E c'è anche uno scrittore, con un vissuto culturale e quindi la sua riflessione non può che essere la più scientifica e filosofica per così dire, anzi forse prevale più il lato scientifico cercando di esporre la teoria della curvatura spazio-tempo nel racconto "Tempo curvo a Krems", che da anche il titolo alla raccolta. Questo è il racconto che mi è piaciuto meno, nonostante la situazione descritta sia bizzarra e comica allo stesso tempo sono molto impegnative le riflessioni che fa e la descrizione quasi accademica della teoria menzionata poco fa toglie molto dal piacere della lettura e si fa fatica a comprenderlo e qui mi riallaccio al discorso di prima sui libri di Mann e Proust che nonostante siano impegnativi sono riusciti a modellare in modo armonioso e comprensibile la prosa mentre quella di Magris a tratti risulta essere spigolosa, impenetrabile e questo toglie molto dalla piacevolezza della lettura. Il mio racconto preferito invece è il primo, "Il custode".

Difficoltà a parte, che comunque gli fa onore, i racconti sono scritti con una prosa forbita, poetica e colta, che profuma di classico e quindi di eleganza, bellezza e forse immortalità.

"Sempre mentitore, perché mette in ordine ciò che non ha e non può - non deve?- avere ordine: gli anni, i minuti, le storie, le gocce di pioggia, il frangersi di un'onda, la pelle liscia e la pelle vizza."

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    22 Mag, 2019
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Perché alla fine "Ogni riferimento è puramente...

Torna in libreria Antonio Manzini il celebre autore della saga dedicata all’eclettico Vicequestore Rocco Schiavone e lo fa, questa volta, con un elaborato composto da sette racconti che oscillano tra il realismo grottesco e lo psicologico e che sono tutti retti da un unico filo conduttore: quello di analizzare una società sempre più fatta di speculazione e sempre meno libera attraverso il canale dell’editoria. I libri, per questa ragione, sono sempre più in difficoltà perché in un mondo dove vigono regole ben serrate e dove si ragiona in compartimenti stagni a loro volta mossi dal sacro vincolo del Dio denaro, non vi è spazio per i contenuti, per la cultura, per l’importanza che i testi ricoprono, per la meritocrazia ma soltanto per il numero di copie vendute, per le presentazioni e via dicendo. La qualità, ma soprattutto il pensiero unico, vengono spazzati via perché la consapevolezza che il libro sia ancora di salvezza, espressione del livello di civiltà, libertà di esprimersi, è un qualcosa di altamente pericoloso.
E così, mediante il canonico linguaggio critico, cinico e talvolta polemico, iniziamo il nostro viaggio in “Ogni riferimento è puramente casuale”. Manzini ci fa conoscere il mondo delle presentazioni, l’euforia che precede il neo-scrittore alle prime armi, la stanchezza che segue alla monotonia di viaggi massacranti su treni scomodi, alberghi di quart’ordine, di presentazioni composte sempre dalle medesime domande, da persone che acquistano il libriccino esclusivamente perché rincorrenti il desiderio di vedere un giorno, quel volume di fatto mai letto, trasposto in tv, l’assenza di domande sulla poetica adottata, sulla narrativa, ci racconta ancora delle allucinazioni che lo colpiscono dopo il susseguirsi della ripetitività e la discesa nella più totale solitudine perché tutti gli amici presunti e gli altri affetti, si sono dimenticati di lui, e ancora in un altro racconto, ci narra delle scelte che sono poste in essere da una casa editrice per la valutazione di uno scritto, o ancora in un altro dei ringraziamenti che alla fine sembrano tutti uguali e in cui “ogni riferimento è puramente casuale”, o ancora in un altro delle speranze disilluse di quelle lettrici che credono nelle parole di un affabulatore da tutti deriso, ma a cui disperatamente si aggrappano, sino a vedere infranti sogni e vita perché fragili e insoddisfatte di quel percorso esistenziale che le ha segnate e che nel corso degli anni ha visto sgretolare quelle aspettative che le avevano indotte a credere nel futuro.
Questo e molto altro è l’ultima fatica proposta dal romano e edita da Sellerio. Un componimento di facile e rapida lettura che stilisticamente si conforma ai precedenti lavori, facendoci dunque ritrovare tutti i caratteri della penna a cui siamo abituati, ma che per contenuto se ne distanzia mostrandoci i retroscena di un universo che cela molteplici volti.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    18 Mag, 2019
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cena con delitto

Immaginate la storia di "il giorno della marmotta". Per un giornalista la stessa giornata si ripete all'infinito: ogni giorno alla radio la stessa, canzone, poi lo stesso commento da parte di un passante e via di seguito fino a sera. Riuscire a cambiare in una giornata quello che non funziona della sua vita è il solo modo per scender da questa giostra. Questo romanzo parte dalla stessa idea di base, ma è tutt'altra cosa: coinvolgente, inquietante, innovativo e pieno di sorprese. Stuart Turton si immagina un uomo che si sveglia in mezzo a un bosco, forse coi postumi di un doposbronza, o forse dopo aver commesso un delitto o magari ancora a seguito di un aggressione. Si ricorda solo un nome: Anna e convinto che sia stata uccisa cerca aiuto. Privo di memoria arriva in una dimora un tempo di un lusso abbagliante, ma oggi in piena decadenza. Affacciatosi all'ingresso scopre di essere uno degli ospiti invitati per ricordare un macabro evento di diciannove anni prima. Il figlio dei proprietari, infatti è stato ucciso in riva a un laghetto a pochi metri dalla casa. Convinto di poter liquidare la sua avventura come una momentanea perdita di memoria, se ne dovrà presto ricredere. Piano piano, assieme a noi scopre di essere finito dentro un gioco terribile: ogni giornata per lui si ripeterà all'infinito. Lui si troverà ogni volta nei panni di una persona diversa e avrà il compito di indagare sull'omicidio di Evelyn, la figlia dei proprietari della magione. In cambio della soluzione del mistero riotterrà indietro la sua vita. Così Aiden inizia a entrare a uscire dai panni delle persone che popolano la casa: si scontra con fisici decadenti, giovani vigorosi, personaggi ambigui. Dentro ognuno di loro Aiden deve lottare per mantenere la propria personalità e per portare avanti il suo compito. Deve però essere abbastanza abile da usare le caratteristiche del suo ospite che siano utili ai suoi scopi. Giorno dopo giorno sommando gli indizi che ha raccolto nel giorno precedenti un po' si avvicina e un po' si allontana dalla sua meta. Scopre che i delitti avvenuti nella tenuta sono più numerosi di quanto credeva, muore più volte, quasi si innamora e alla notte segue sempre la stessa mattinata piovigginosa. Regole del gioco ferree, concorrenti che non sempre sono corretti rendono il tutto ancora più complicato.
La struttura di questo libro è indubbiamente molto complessa. I protagonisti sono molti e nettamente diversificati l'uno dall'altro. Noi in realtà non consociamo mai il vero Aiden pechè lui stesso si è dimenticato il suo passato. Conosciamo, invece un personaggio che ogni giorno è totalmente diverso: si approccia in modo differente sia alle indagini che ai comprimari che lo circondano. Una scelta da parte dell'autore che avrebbe potuto trasformarsi in un pastrocchio. L'abilità di Turton, invece è tale di spianarci davanti in modo semplice e lineare un'infinità di informazioni. Ogni dettaglio ha un suo perché e anche se alla sua comparsa ci sembra una bizzarria dell'autore e prima o poi lo rincontreremo e capiremo i motivo della sua comparsa. Tenendo conto che si potrebbe definire un fantasy. giallo, trovo le indagini realistiche e ben congeniate. Interessante il finale, perfettamente a tono col resto del romanzo e capace di lasciare quella puntina di fame non ancora soddisfatta. Le ambientazioni sono quelle cupe e misteriose delle vecchie magioni sparse nella campagna inglese. Ambienti apparentemente abitati da personaggio snob e un po' decadenti, ma comunque di classe. In realtà, scavando anche solo con la punta di un'unghia si intravedono brutture di ogni genere.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Mag, 2019
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IL CANTO DEI VIVI E DEI MORTI

“A casa, a casa”, le ultime parole di “Canta, spirito, canta”, ricordano curiosamente l’invocazione “A Mosca, a Mosca” con cui si chiude il secondo atto de “Le tre sorelle di Anton Cechov. Non è però a Cechov che bisogna rivolgersi per cercare i numi tutelari di Jesmyn Ward, bensì a due mostri sacri della letteratura americana del Novecento, Toni Morrison e William Faulkner. Dalla Morrison la Ward, anche lei afroamericana, riprende certe soluzioni narrative (come non pensare al fantasma della bambina di “Amatissima”?), ma soprattutto il tema razziale, l’accorato ritratto della condizione delle persone di colore nelle varie, dolorose fasi della storia degli Stati Uniti d’America. A Faulkner l’accomuna invece non solo la stessa area geografica d’appartenenza (il Mississippi), ma anche una spiccata affinità tematica, già emersa in “Salvare le ossa”. Nel folgorante primo capitolo della trilogia di Bois Sauvage la Ward omaggiava il celebre autore di “Assalonne, Assalonne!” in più di un’occasione: la ragazza incinta in una famiglia di soli maschi e l’uragano in arrivo possono essere considerati delle vere e proprie citazioni di “Mentre morivo”. In “Canta, spirito, canta” la somiglianza tra i due scrittori va ancora oltre e si fa addirittura stilistica. Come ne “L’urlo e il furore” e in “Mentre morivo” la storia viene infatti raccontata da una pluralità di narratori. Il primo – e più importante – è Jojo, un ragazzino tredicenne costretto a vivere senza l’affetto dei genitori e ad entrare prima del tempo nel mondo dei grandi (diventando persino un surrogato materno per la piccola sorellina Kayla, che gli è sempre avvinghiata al collo, un po' come Junior con il fratello maggiore Randall nel romanzo precedente). La seconda voce narrante è proprio quella di Leonie, la madre assente, che vorrebbe prendersi cura dei propri figli ma è assolutamente priva di istinto materno, chiusa com’è nella sua egoistica e autodistruttiva sfera personale, gelosa addirittura del ruolo assunto da Jojo nei confronti di Kayla che la mette crudelmente di fronte al suo fallimento genitoriale. Il terzo narratore è il più sorprendente, quello che porta Jesmyn Ward alle soglie di un inaspettato realismo magico: Richie infatti è un fantasma, lo spettro tormentato di un ragazzino morto di morte violenta più di mezzo secolo prima, che vaga da allora alla disperata ricerca di una problematica pacificazione. Richie non è comunque l’unico spirito che si aggira tra le pagine del romanzo, anzi a tratti al lettore sembra di trovarsi immerso nell’universo fantasmatico e soprannaturale di “Pedro Paramo” o di “Spoon River”. Il mondo descritto dalla Ward è infatti pervaso da forze ed energie che trascendono ad ogni istante la prosaica quotidianità: Mama, la nonna di Jojo, confinata nel suo letto da un male incurabile, recita preghiere hoodoo, mentre Pop, il nonno, vagheggia una filosofia dell’equilibrio cosmico secondo la quale è possibile acquisire un po’ della forza del cinghiale o dell’abilità del picchio portandosi appresso un pezzo di zanna dell’uno o una piuma dell’altro (“non più di quella che posso usare, però. Il cinghiale non può spartirne più di tanta con me, e io più di tanta non ne prendo. […] Il troppo, da una parte o dall’altra, rompe l’equilibrio”). Quello di “Canta, spirito, canta” è un universo magico, animistico, in cui lo spirito pervade ogni cosa e la saggezza risiede nella capacità di vedere i morti, di sentire le cose o più semplicemente di costruire amuleti per scacciare la cattiva sorte od usare le erbe selvatiche per curare le malattie. Non sorprende più di tanto quindi che i personaggi del romanzo vivano in una sorta di costante sospensione dell’incredulità, che fa loro accettare le apparizioni (un po' alla stregua di quanto accadeva ne “La casa degli spiriti di Isabel Allende) come un qualsiasi altro aspetto dell’esistenza. Esistenza che, peraltro, non si rivela affatto facile e tranquilla, impregnata com’è dalla presenza costante e opprimente della morte. “Io lo so cos’è la morte, almeno credo”, afferma Jojo all’inizio del libro, e la scena truculenta dell’uccisione della capra (che fa il pari con la sequenza del parto della cagna di Skeetah in “Salvare le ossa”) fissa fin da subito le coordinate su cui si svilupperà la storia. Il mondo di “Canta, spirito, canta” è connotato da violenza, razzismo, povertà, droga, fatica di vivere. Frasi come “Non c’è felicità qui”, “Il mondo non ti dà quello che ti serve, non importa quanto lo cerchi”, “E’ un mondo che si prende gioco dei vivi”, punteggiano tutto il romanzo, e perfino il clima e la natura risultano opprimenti (“Il gelo ristagna come acqua in una vasca otturata”; il cielo è “basso come un colabrodo di ferro troppo pieno”). L’unica possibilità è imparare a lasciarsi trasportare dalla corrente, senza cercare di opporsi ad essa, come insegna al nipote il vecchio Pop, una delle figure più belle ed icastiche del romanzo, con la sua schiena dritta come una tavola, le spalle larghe come un attaccapanni e le mani che sembrano le radici di un albero, simbolo della fierezza e dell’integrità morale, ma anche portatore di un terribile, inconfessabile segreto proveniente dal passato.
La prosa di Jesmyn Ward si adatta alla perfezione a questa densa e complessa atmosfera narrativa: le sue parole sono materiche, carnali, in esse si può percepire agevolmente la fatica, il malessere, il sudore perfino, di un'umanità alle prese con la quotidiana lotta per la sopravvivenza. Rispetto a “Salvare le ossa” la scrittrice di DeLisle sacrifica un po' della straordinaria tensione, dell'irresistibile suspense garantita dall'avvicinarsi dell'uragano Katrina. In compenso con “Canta, spirito, canta” la Ward alza notevolmente il tiro delle sue ambizioni, per affrontare in maniera originale e problematica il tema a lei caro del razzismo. Anche se il romanzo è ambientato ai nostri giorni (il padre di Jojo e Kayla ha perfino lavorato, prima di finire in carcere, sulla Deepwater Horizon, la piattaforma petrolifera passata tristemente alla storia per essere stata distrutta da un catastrofico incidente nel 2010), il razzismo ha segnato duramente la famiglia di Jojo, giacché lo zio Given è stato ucciso a sangue freddo con un fucile in quello che è stato frettolosamente derubricato dalle autorità come un semplice incidente di caccia, e il nonno Pop ha trascorso in gioventù alcuni anni nella prigione di Parchman, dove se si era di colore si poteva venire imprigionati a dodici anni per aver rubato un po' di carne salata e dove i lavori forzati erano una forma aggiornata e legale di schiavitù. Linciaggi, stupri e violenze, l'odiosa, secolare oppressione dei bianchi nei confronti dei neri, costellano il romanzo con una frequenza sconvolgente. La scelta della Ward di fare di Richie uno dei protagonisti del romanzo appare quindi come una sorta di risarcimento, un modo per restituire la voce a coloro che la storia ha costretto al silenzio e a una vergognosa, ingiustificabile rimozione collettiva. Non solo, con il suo stile inconfondibilmente lirico e visionario la Ward è riuscita a fare delle vicende individuali di Jojo, di Kayla e di Pop una potente metafora della questione razziale in America. Richie, Given e gli altri spettri che, come degli stalker, assillano i vivi con la loro silenziosa e impalpabile presenza, non sono in grado di trovare la pace neppure dopo la fine delle loro sofferenze terrene, in quanto hanno bisogno di qualcuno che racconti la loro storia e che riporti in superficie quel nucleo di tremenda disperazione vergognosamente seppellito e condannato all'oblio insieme alle loro misere spoglie mortali. L'atto di raccontare diventa così centrale nell'economia del romanzo (“Quando racconta – dice Jojo riferendosi a Pop – la sua voce è come una mano tesa che mi accarezza la schiena”): è per i personaggi del libro una sorta di catarsi, di comunione d'anima, di disinteressata manifestazione di affetto, e a un secondo livello – metanarrativo si potrebbe dire – simboleggia quella che è l'autentica missione dello scrittore, ossia far emergere a tutti i costi la verità storica, per quanto scomoda e imbarazzante possa essere, sottraendola alla dimenticanza e alla rimozione. In questo senso Jojo e Kayla sono i veri e propri alter ego dell'autrice, capaci – pur non avendo vissuto gli eventi narrati (così come la Ward, nata nel 1977, non ha vissuto gli anni bui della schiavitù e della segregazione) – di farsi garanti, con la loro rabdomantica sensibilità e la loro innocenza, della memoria delle sofferenze di un popolo. Il romanzo, crudo, sconvolgente, tragico, ma anche punteggiato di momenti di grazia e di tenerezza (Kayla che, coi suoi cinque anni avidi di affetto, stropiccia le orecchie di Jojo, mentre lui la tiene per le braccia “come se volesse avvolgersi intorno a lei, fare del proprio scheletro e della propria carne un edificio per proteggerla dagli adulti”; ancora Jojo che abbraccia Pop, affranto dal dolore e dal rimorso per aver finalmente tirato fuori dai recessi della memoria ciò che per tanti anni non aveva mai avuto il coraggio di raccontare), non vuole del tutto chiudere ogni spiraglio alla speranza. Se è vero che, citando Kafka, “abbiamo bisogno di libri che abbiano su di noi l'effetto di una sventura, che ci diano molto dolore” e che “un libro deve essere come una scure piantata nel mare di ghiaccio che è dentro di noi” - ed indiscutibilmente “Canta, spirito, canta” è uno di quei libri – è altrettanto vero che Jesmyn Ward non rinuncia a lanciare, anche a dispetto di ogni evidenza contraria, un messaggio di fede in valori come la solidarietà e la famiglia. All'inizio del romanzo, assaggiando una torta scadente comprata a poco prezzo per il compleanno del figlio, Leonie trova che è tanto dolce da sembrare amara. Ebbene, “Canta, spirito, canta” è esattamente il contrario: è tanto amaro che, alla fine, risulta quasi dolce.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    17 Mag, 2019
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Lena e i demoni interiori

Alessia Gazzola, dopo aver firmato il ciclo della dottoressa Alice Allevi, torna in libreria con Lena e la tempesta. Un libro inusuale, profondo, molto intimo ed intimistiche. Uno scavo dettagliato e colto all'interno dell'animo femminile, descritto con rispetto ed ottima sapienza narrativa.
La protagonista, Lena appunto, figlia di un noto e capace intellettuale, è rosa intimamente da un segreto, per cui ha:
"Quella cimice carnivora che alloggia in un atrio del mio cuore, e lo divora dall'interno, incessantemente".
Da ragazzina, la sera del 14 agosto, mentre fuori imperversano i fuochi d'artificio per la prossima festa, nella casa di vacanza, Lena viene molestata e poi violentata da un caro amico ospite dei genitori. Lei in preda ad una ferita violenta e brutale, tace per ben quindici anni. Non riesce a superare la tragedia, il suo corpo:
"Lo ascolto, ma avevo paura di ciò che mi diceva ed è per questo che ho iniziato a dissociato dalla mia mente. Farei di tutto x avete un coinvolgimento emotivo e sentirmi libera di vivere come gli altri."
Per affrontare e superare le paure ataviche torna sulla isola di Levura, lì dove tutto ha avuto inizio. Lei si sente impotente, non riesce a.trovare un suo equilibrio. Lo cerca nel lavoro di illustratrice, per cui:
"Disegnare è un modo diretto x esprimermi. Un disegno parla a chiunque voglia ascoltare."
Ma l'isola è popolata da troppi fantasmi e ferite, non soltanto per lei. Un luogo che:
"Ci mette di fronte ai nostri fantasmi e non ci resta che affrontarli. "
Il traguardo è difficile ed impervio. Riuscirà Lena nel suo intento?
Un libro molto intenso, sulle fragilità e sulle ferite. Una discesa negli inferi che paralizza, ma anche una lenta risalita, un lungo percorso. Un romanzo che:
"Ha il profumo del mare, la delicatezza della sabbia tra le dita, la forza Delle onde in tempesta."
Un romanzo magico sui segreti, sui misteri e sui demoni dell'esistenza . Scritto con un buon linguaggio poetico, una lettura che conduce il lettore all'interno della anima umana con soavità espressiva lungimirante e perigliosa. Davvero un bel testo e una bella storia, che conduce alla riflessione profonda del sé e del mistero di vita di ognuno di noi.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    16 Mag, 2019
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Valzer dei contrasti

"Ad ogni progresso essa (la vita) lega un regresso e ad ogni forza una debolezza; non dà a nessuno un diritto che non sia tolto ad un altro, non risolve un imbroglio senza creare un nuovo disordine e sembra addirittura produrre il sublime solo per ammucchiare alla prima occasione sul volgare gli onori che al sublime spetterebbero.”( Musil, L'uomo senza qualità).

Vorrei iniziare a parlare di questo libro partendo da questo citato di Musil che trovo particolarmente calzante. Che cos'è il giusto se non il torto dell'altro? o il bene se non il male dell'altro? Questo libro mette appunto uno di fronte all'altra il testa e croce di una moneta, moneta intesa qui come la colonizzazione. Da un lato c'è il Portogallo e i bianchi ricchi che sfruttano un territorio estraneo dall'altro c'è Angola e i suo popolo, cioè i sfruttati senza un passato e senza un futuro. Il libro narra il declino del colonialismo portoghese in Angola fino alla sua scomparsa attraverso le voci alternate di tre generazioni di coloni portoghesi: nonni- genitori- figli, percorrendo quindi non solo i fatti storici ma anche quelli personali, al punto tale da essere considerato anche una sorta di saga familiare, ma secondo me questo è l'ultimo piano di lettura sul quale concentrarsi. Troveremo uno splendore del Portogallo in Angola sbiadito, ricordato, posto sempre in contrasto con lo squallore e la miseria attuale che sembra avergli preso posto, e troveremo dei personaggi smarriti tra le rovine, su una terra che non è la loro e non li accetta riversando ormai su di essi proprio questi onori ormai ceduti dal sublime al volgare, come appunto si esprime Musil. E non hanno nemmeno una terra di origine, il Portogallo europeo, dove "ci guardavano come essere primitivi e violenti che accettavano l'esilio in Angola per scontare oscure condanne lontano dalla famiglia, da un qualche paese allo sprofondo da cui provenivamo, abitando in mezzo ai negri e alquanto simili a loro" è altrettanto ostile nel loro confronti.

Suddiviso in tre parti, esse vengono narrate attraverso la voce dei tre fratelli, uno alla volta a testimoniare la sua realtà, voci che vanno ad alternarsi con quella della madre presente lungo l'intero libro e che fa da eco anche ai nonni, la madre rappresentando una sorta di ponte tra il presente e il passato e che aiuta a fonderli e a capire l'intero quadro che il lettore ha il compito di comporre per trarre poi le proprie conclusioni.

Prima ho detto che concentrarsi solo sulla saga familiare è un peccato, eh si perché i fatti esposti sono narrati in esplosioni di flussi di coscienza, alternati nel tempo e nello spazio, ognuno di essi dando il suo contributo al quadro finale, completando una lacuna oppure bilanciando un contrasto, dando il proprio punto di vista che spesso è opposto a quello degli altri. E' una tecnica narrativa non amatissima dai più perché serve concentrazione e impegno da parte del lettore, che ha quindi una parte attiva nel mettere insieme i pensieri ma qui non serve allarmarsi perché Antonio Lobo a quanto pare ci vuole bene e ci viene incontro: quando durante la frase cambia la persona o il contesto, cambia anche la forma del testo o attraverso corsivo iniziando un altro paragrafo o attraverso parentesi, è sempre visivamente presente il cambio marcia, come mi piace chiamarlo. (I lettori di Ulisse di James Joyce troverà questa prosa di Antonio Lobo quasi uno scherzetto se paragonata al flusso di coscienza di Stephan Dedalus, per citare uno tra i più contorti del libro). Ovviamente l'attenzione serve sempre, anche solo per poter portare avanti i piani di lettura perché in ogni capitolo, la narrazione è "ballerina" saltando dal presente al passato, amalgamati armoniosamente con qualche leitmotiv che si ripete e si trasforma. E' davvero impressionante la penna di Antonio Lobo dove ogni parola non è a caso e ogni frase o metafora oppure espressione che lì per lì possa sembrare strana, state certi che ritornerà con più carica espressiva tra le pagine, nulla viene lasciato al caso e tutto si fonde alla perfezione in un ordine precisissimo nonostante il caos apparente. Una parola in particolare si ripete spesso: lo specchio, elemento carico di simbolismo nella letteratura e che va a rafforzare ancor di più questa danza dei contrasti e illusioni che è presente nel libro: nello specchio ogni cosa viene riflessa per il suo inverso, rappresenta l'altro lato della moneta di cui parlavo metaforicamente all'inizio.

L'autore ha visto con i propri occhi gli orrori denunciati in questo libro pertanto a mio avviso sono da prendere come reali testimonianze, vi riporto un brano molto forte e brutale e che riassume anche ciò che ho detto in merito alla sua tecnica narrativa. Non è un brano corto perché Antonio Lobo è un "diesel" della scrittura nel senso che il meglio di sé lo da su lunghe "tratte", parte lentamente per poi portarci sempre e sempre più lontano in un crescendo di espressività, tensione e rabbia:

"Avrei dovuto avere il sospetto che per me l'Angola era finita quando ammazzarono quelli che abitavano due fazendas a nord della nostra, l'uomo riverso a testa in giù sui gradini, cioè inchiodato ai gradini con un bastone da tenda infilzato nella pancia, la donna nuda bocconi nella cucina sottosopra, ben più nuda che se fosse stata viva, senza mani, senza lingua, senza seno, senza cappelli, tagliuzzata con i trinciapolli e un collo di bottiglia che le spuntava fra le gambe, la testa del figlio più grande che ci fissava da un ramo, il corpo che la sega elettrica aveva ridotto a fette sparpagliato nell'aiuola, quello più giovane nel retro
(dove il pomeriggio prendevamo il tè insieme a loro, mangiando biscottini e rinfrescandoci con ventagli di rafia)
con le budella mescolate a quelle del cane, ditate di sangue sulle pareti, i mobili ribaltati, le cornici a pezzi, le tende delle finestre spalancate che spazzavano via il silenzio e l'odore delle viscere (...)
io che avrei dovuto avere il sospetto che l'Angola per me era finita e avrei dovuto andarmene il giorno in cui il ragazzino bailundo di otto o nove anni con un sacco di fagioli rubato sottobraccio, accostato al granaio sotto il fucile del caporale, mentre mio padre, con la fondina sganciata, attenuava l'odore dei cadaveri affondando il viso nel fazzoletto e diceva al caporale
-No
il giorno in cui il ragazzino bailundo ammazzò decine e decine di bianchi (...) non masnade di selvaggi ubriachi, non gruppi organizzati dai comunisti russi o ungheresi o rumeni o iugoslavi o bulgari, mica una lega, un movimento, un partito che volesse comandare in Angola, decidere dell'Angola, sostituirsi alle compagnie, negli uffici pubblici, negli studi, impossessarsi di case e fattorie, ammucchiarci sui moli abbracciati a schifezze senza valore, cacciarci, non l'odio o la vendetta
(perché santo Dio, vendetta perché?)
o l'impotenza o la rivolta contro di noi ma solo un ragazzino bailundo di otto o nove anni con un sacco di fagioli sottobraccio, un semplice ragazzino con la chioma scolorita nascosto nella foresta come un tasso, un cucciolo di donnola, un riccio, un semplice ragazzino sotto il fucile del caporale, mio padre con il fazzoletto sul viso
-No
lì a garantirci che l'Angola per me era finita, non soltanto la Baixa do Cassanje, il nostro cotone, il nostro riso, il nostro granturco, l'Angola,l'Angola intera (...) il ragazzino bailundo lì a rovesciarci i divanetti, le angoliere, le poltrone, l'orologio, la terrina giapponese nella credenza a vetri che solo mia madre, con premure da orefice, si permetteva di pulire, il ragazzino bailundo con la chioma scolorita e la pancia dilatata dalla fame, un sacco di fagioli rubato sottobraccio, che si avvicinava a mia madre con un collo di bottiglia, le strappava il vestito, la spogliava, la rendeva più nuda che se fosse stata viva, nuda in maniera svergognata, oscena, con il caporale che tirava la culatta del fucile e io lì a bloccarlo
-No
non mio padre con il fazzoletto sul viso desideroso di sedersi, di fuggire, (...) il ragazzino che mi ha ammazzato, mi ha rincorso per ammazzarmi e ha mescolato le mie budella con le budella del cane, il ragazzino bailundo accostato al granaio a ciò che restava del granaio con il sacco di fagioli rubato sottobraccio lì a fissarmi come se accettasse
no, non come se accettasse, accettando
senza una parola un cenno un tentativo di fuga che io estraessi la pistola dalla fondina di mio padre, sganciassi la sicura
tic
puntassi
tic
ritraessi l'indice
tic
il ragazzino di otto o nove anni che continuò a fissarmi mentre scivolava lentamente contro il granaio come scivola una goccia di cera o di resina, come scivola una lacrima fino ad ammucchiarsi per terra."

...eh, che vi avevo detto? Tosto, molto tosto e questo è solo un piccolo frammento che comunque tolto dall'insieme perde molte sfaccettature, come ad esempio la parola onomatopeica "tic", oltre ad avere il significato eloquente e forte qui nel finale del capitolo, all'inizio è presentato come il rumore dell'apertura e della chiusura a perline della borsetta della madre della voce narrante, rumore confortante che la figlioletta amava particolarmente, in netto contrasto con la valenza finale.

E' un libro che ha dentro tutto: storia, una bella prosa poetica e originale, spunti riflessivi, una forma originale e intelligente che non serve solo a rendere diverso un testo ma lo accelera e rallenta, lo fortifica e rende fragile, una forma insomma che segue la sostanza e ne detta i ritmi, come ogni canzone che ha una melodia che valorizza il testo stessa cosa succede con la forma di un romanzo. Ci sono sentimenti, intrighi, c'è una nonna tradita e frivola che assieme al marito educa male la figlia che a sua volta si dimostra essere un fallimento sia come mamma ma anche come moglie, tra l'altro moglie di un alcolizzato, dei figli di cui uno illegittimo, uno epilettico e l'altra di facili costumi, con problemi caratteriali sicuramente determinati da genitori assenti che vivono nei loro drammi spesso in apatia e si nutrono di ricordi, troveremmo infine una colonia portoghese che cerca di arricchirsi sfruttando un paese debole e di nessuno, colonia che a sua volta viene sfruttata e schifata dal Portogallo europeo. Non ho trovato nessun colpevole oggettivo, identificabile ma solo vittime di un effetto domino che una colpa universale e sconosciuta ha avviato, magari un Dio vecchio come si esprime l'autore nel libro:

"il nostro male
spiegava mio padre
è che siamo nati da un Dio vecchio come altri nascono da genitori vecchi, che siamo nati quando Dio era ormai troppo anziano, egoista e stanco per preoccuparsi di noi, un Dio che ascoltava i propri organi con dolente attenzione, l'autunno dello stomaco, i lamenti del fegato, la cipolla o il crisantemo di lacrime concentriche del cuore, un Dio del tutto dimentico di se stesso e di noi che ci considerava dalla sua poltrona di ammalato con stupore sgomento
spiegava mio padre".

La lettura mi ha lasciato un senso di sconforto e tristezza e pena per i personaggi ma anche una pena generale in quanto situazioni simili esistono realmente nella vita, da "comuni" incomprensioni tra padri e figli fino ai crimini di guerra e si vorrebbe tornare il tempo indietro, ritrovare una felicità persa o aggiustare le mancanze o le colpe ma non si può, e allora come fare?

Pubblicato per la prima volta nel 1997, è un prezioso libro di un autore che è considerato dalla maggioranza il più importante scrittore portoghese in vita, più volte candidato al premio Nobel, amico di José Saramago ma non particolarmente influenzato dalla sua prosa. Questo è il mio primo libro che leggo di Antonio Lobo e da subito ho notato la similitudine con William Faulkner e in particolare con "L'urlo e il furore", utilizzando volutamente o non lo stesso stile e la stessa coralità di voci, però in maniera più semplificata, Faulkner essendo (forse) più impegnativo. In una intervista del 2014, Antonio Lobo afferma che «Il libro non è qualcosa che deve essere letto, è un oggetto che ascolta. Siamo noi lettori che parliamo con lui. Il libro è qualcosa che mettiamo contro un orecchio per udire il rumore del mondo». 

Il titolo, "Lo splendore del Portogallo" è un verso dell'inno nazionale del Portogallo, infatti prima dell'incipit ne viene riportata la prima parte che lo include; che Antonio Lobo abbia voluto che questo libro sia altrettanto un inno?!... dedicato magari alle vittime e quindi al prezzo pagato per un pezzettino di storia e di gloria portoghese? Certo è il fatto che ho letto un grande libro e scoperto un nuovo e valoroso autore che meriterebbe più attenzione in Italia.

Ultima precisazione con la quale desidero concludere è che trovo meravigliosa la scelta della copertina di questa edizione! Molto bravi gli editori. Non abbiamo il Portogallo colorito di Pessoa o di Tabucchi ma un Portogallo bianco e nero, sembra una foto ricordo di tanto tempo fa o una cartolina vecchia e impolverata, dove un rinoceronte (che nel libro compare come ninnolo-ricordo in un appartamento a Lisbona) e posto faccia a faccia a un tram (anch'esso descritto brevemente nel libro), altro bellissimo contrasto a sottolineare che qualcosa o qualcuno è fuori posto.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    12 Mag, 2019
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Le cose cambiano

Quinto capitolo di avventure per la ghostwriter Vani Sarca.
Enrico Fuschi, antipatico ed insopportabile editore capo delle prestigiose Edizioni l'Erica, è scomparso. Vani, il commissario Berganza, Riccardo, la storica segretaria di Enrico, Antonia, e l'improbabile redattrice ancora in fase di stage, Olga, sono preoccupati da morire. Vani, in particolare, è scossa dal senso di colpa. Enrico si sarà suicidato? Ma dove sarà andato a finire? Fra una falsa pista ed un'intuizione geniale, Vani e Berganza intraprenderanno una informale ma serratissima caccia alla persona scomparsa, che li porterà fino a Londra e poi nelle Langhe, ma soprattutto li condurrà a scoprire le motivazioni passate che hanno spinto Enrico a diventare quello che è, ossia una persona estremamente antipatica ed insopportabile ma capace di compiere gesti di generosità e bontà.
Alice Basso costruisce quest'ultimo romanzo della serie facendo funzionare magistralmente il meccanismo che combina ironia e suspense, che è stato alla base di tutta la serie con protagonista la ghostwriter Vani Sarca. Mentre però leggendo il romanzo precedente, “La scrittrice del mistero”, avevo avuto qualche perplessità rispetto al modo in cui nella storia principale veniva ad essere inserito il giallo, stavolta mi è sembrato che tutto si incastrasse in modo perfetto. Quest'ultimo romanzo mi ha convinta pienamente, l'enigma da risolvere invoglia la lettura e nello stesso tempo fa un affondo significativo nella vita di uno dei personaggi principali della narrazione. Il lettore è coinvolto, è tenuto col fiato sospeso, vuole sapere come andrà a finire e intanto si lascia intrattenere dalla prosa brillante e squisitamente ironica di Alice Basso. Se siete alla ricerca di un thriller o di un giallo intricato e dalle atmosfere noir però tenetevene alla larga, perché una delle caratteristiche principali di questo romanzo è l'umorismo.
Ormai Vani non è più quella di un tempo, quella che si lasciava scivolare tutto addosso, l'asociale alla quale non importava (almeno apparentemente) di niente e di nessuno. L'abbiamo seguita nel corso di questi romanzi e l'abbiamo vista intessere relazioni importanti. Ha trovato il vero amore dopo una brutta delusione, ha trovato dei veri amici. Ha formato ciò che può essere chiamato “famiglia”, anche se non con i suoi consanguinei – eccetto sua sorella Lara, con la quale ha ritrovato un certo legame. Adesso è il momento di cambiare, di evolvere: nella vita, come nei romanzi d'avventura, le cose cambiano. A volte il cambiamento fa soffrire, non ci piace, ci mette a terra, ma bisogna imparare ad accettarlo e affrontarlo senza eccessiva paura, cavalcando l'onda e non facendocene sommergere, soltanto così la trasformazione può essere positiva e portarsi dietro bellissime novità.
Un romanzo da leggere tutto d'un fiato, capace di far trascorrere delle ore piacevolissime fra risate e una genuina voglia di sapere come si concluderà la vicenda. A impreziosirlo agli occhi di un appassionato di letteratura, il fatto che sia anche un libro che parla di libri in modo colto, brillante e divertente. Ci mancherai, Vani Sarca!

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A chi ha letto i precedenti romanzi della serie.
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    03 Mag, 2019
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Alba Doria

Giancarlo De Cataldo pubblica Alba nera, una storia particolare di gente un po' sui generis, ovvero:
"Una storia di gente determinata, potente, senza scrupoli.".
Qui una nuova figura di commissario si affaccia sulla scena letteraria. Si chiama Alba Doria. Una donna in specie, afflitta da un grave disturbo della personalità, ovvero da ciò che è denominata come "la Triade Oscura":
"La sua silenziosa compagna di vita:il disturbo della personalità da cui ha scoperto di essere afflitta. (...) La Triade è un cocktail di narcisismo, sociopatia, e capacità manipolatori a. Colpisce indifferentemente i vincenti e i naufraghi del vivere. La Triade può spingerti al trionfo o all'inferno. Chi ha la Triade è un predestinato."
Lei è in cura da uno psichiatra con scarso successo, quando il cadavere di una donna, orribilmente mutilato, la riporta indietro nel tempo, in un "altro" passato con altri colleghi:
"In ogni caso c 'e il passato. Il passato di tutti e tre. Il passato, nel quale, forse, hanno commesso un errore che non si può cancellare."
I colleghi del passato sono: il Biondo, un poliziotto oltre che compagno di allora, e il dottor Sax, funzionario dei Servizi Segreti. Il caso di cui. Si occuparono fu denominato : "il caso della Sirenetta". Per via del tatuaggio che la vittima presentava su di un braccio. Fu individuato un colpevole, che ora ci si accorge essere sbagliato, visto l'attuale replica. Tocca ad Alba affrontare una indagine tanto complessa e complicata quanto sfuggente perché manipolata da oscuri individui.
Un libro che affronta con sapienza narrati i pericoli del presente, della quotidianità: il ruolo potente e manipolatori dei servizi segreti, atti a nascondere ed occultare gli episodi più cupi, uomini che odiano le donne senza pietà alcuna, modi estremi e sadici di fare sesso depravato e degenerate. Un quadro tenebroso, dove si spera in un'alba chiarificatrice, che torni ad illuminare un cielo cupo ed angosciante. Una buona lettura, solo un po' troppo nera e violenta per i miei personali gusti. Un libro che , come sostiene lì stesso autore, nasce da una idea condivisa con Massimo Carlotta e Carlo Lucarelli. La raffigurazione di una donna poliziotta affetta da gravi patologie , dotata di scarso sentimento, che, tuttavia, risolve gli enigmi. Anche qui una nuova figura, ma troppo violenta a scapito dell'indagine e dell'introspezione, che personalmente amo molto in un giallo.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    29 Aprile, 2019
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Anni di piombo

Ha ragione lo scrittore statunitense Joe R. Lansdale quando scrive che Giorgio Scianna “è un maestro nel raccontare storie”. Anche a me, che ancora non conoscevo questo autore di Pavia, sono state sufficienti poche pagine per lasciarmi catturare dalla sua prosa e comprendere di trovarmi di fronte a un grande talento letterario dei nostri giorni.
Prosa decisamente scorrevole e molto accattivante, quella attraverso la quale Scianna dà vita a una trama che ha il merito di catturare il lettore già subito dopo l’incipit. Una scrittura che coinvolge facendo entrare a poco a poco in scena personaggi ottimamente caratterizzati e a cui, come ci si rende conto alla fine del libro, si finisce in un certo qual modo per affezionarsi. A partire da Marghe, la giovane protagonista di queste pagine, sulla cui testa sono cadute all’improvviso cose più grandi di lei, così come, di conseguenza, su tutta la sua famiglia.
Sullo sfondo della Milano dei primi anni Ottanta, città con tante ferite ancora aperte, si svolge la vicenda di Margherita Carpani, “una ragazzina che faceva cose da grandi”, che a diciotto anni ha già precisi ideali e uno sguardo ben attento alla realtà sociale attorno a sé e riflette sul fatto che il numero dei senza tetto per strada sia forse pari a quello delle case sfitte in città; padre medico e madre avvocato, un fratello adolescente, una sorella più grande e una vita come tante nel quartiere San Siro.

“Voleva solo comprendere come si potesse vivere in uno Stato dove lo Stato stesso metteva le bombe, come aveva fatto a Piazza Fontana, e che faceva le cariche contro gli operai delle fabbriche. Se c’era una lotta in corso non prenderne parte era sbagliato, vigliacco e sbagliato.”

Sono ancora i sanguinosi e laceranti anni di piombo, quando la guerra delle Brigate Rosse contro lo Stato viene intaccata dalla legge sui pentiti approvata dal Parlamento e dagli sconti di pena concessi pertanto ai brigatisti collaboratori che, agli occhi degli ex compagni di lotta, diventano senz’appello traditori infami. E tale etichetta, quella di “infame”, appunto, non sarà risparmiata nemmeno alla stessa Marghe dopo la scarcerazione da San Vittore e la riduzione della condanna agli arresti domiciliari ottenuta dissociandosi dal gruppo di appartenenza e fornendo relative informazioni. Era stata arrestata qualche mese prima davanti all’università con l’accusa di favoreggiamento ad attività terroristiche; la partecipazione a una decina di riunioni clandestine nei garage, la stampa di qualche volantino col ciclostile, l’essere sempre stata tenuta all’oscuro delle decisioni dei vertici e nessuna azione violenta compiuta in prima persona danno al suo “curriculum” da brigatista il valore del due di picche, sebbene pure per i fiancheggiatori siano previste pene detentive non certo di lieve entità. Il sofferto percorso interiore della ragazza, prima in carcere e poi tra le quattro mura del piccolo appartamento che il padre ha preso in affitto e predisposto per i suoi arresti domiciliari, è qualcosa di molto complesso e profondo che l’autore è riuscito a far emergere con grande maestria, rendendo nel contempo il personaggio di Marghe, a mio parere, davvero straordinario e indimenticabile. Perché sarà proprio questo suo percorso a indurla a maturare ulteriormente e a farsi carico di responsabilità che, soprattutto alla luce di un fatto improvviso e pericoloso, non potrà eludere.
Straordinaria anche la figura paterna, a tratti quasi commovente, che si prodiga per questa figlia che non si rassegna a perdere in nessun modo e che spesso si mostra fragile ed emotiva, a differenza di quella della moglie che riesce invece a mantenere un atteggiamento più razionale sconfinante in una apparente indifferenza; ma anche quest’ultima, infine, saprà rivelarsi profondamente umana nei propri sentimenti di madre. Particolarmente ben riuscito pure il personaggio di Martino, il fratello minore molto legato a Marghe, che, suo malgrado, da un certo momento in poi si ritroverà al centro di qualcosa capace di tenere il lettore per davvero col fiato sospeso.
Un bellissimo romanzo, un libro che, con delicatezza e coraggio, affronta sia il tema di quella fase di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta sia quello del terrorismo, mostrando come la violenza non sia mai la strada giusta da percorrere per combattere ingiustizie e realizzare grandi ideali, nemmeno negli anni più rivoluzionari della vita.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    29 Aprile, 2019
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Il braccio brutale della legge

28 agosto 1963, mentre a Washington M.L. King pronuncia il suo celebre discorso “I have a dream”, a New York due ragazze vengono brutalmente assassinate nel loro appartamento in centro a Manhattan. La polizia si mette subito alla ricerca dell’assassino spiegando un numero crescente di uomini in indagini, interrogatori, perquisizioni e cacce all'uomo. Quando, dopo mesi di inutili ricerche, alcuni flebili indizi parrebbero indicare come colpevole per una serie di delitti a sfondo sessuale il nero George Whitmore Jr., gli inquirenti non ci pensano un attimo ad incastrarlo anche per l’omicidio delle due “ragazze in carriera” di New York. Tutto sembra ormai preordinato perché, pur sulla base di prove meramente indiziarie quando non artefatte, il ragazzo sia condannato alla pena di morte. Poi, per sua fortuna, qualcosa fa aprire gli occhi a tutti e indirizza i sospetti su un altro giovane nero, inizialmente scagionato da alibi poi rivelatisi estremamente fragili. L'unico lato positivo della vicenda è che lo Stato di New York, sull'onda emotiva di questi fatti, abolirà la pena di morte.

12 febbraio 1976 viene trovato cadavere in un vicolo di West Hollywood l’attore Sal Mineo, che era stato uno dei co-protagonisti del film “Gioventù bruciata” con James Dean. Lo scalpore mediatico dell’uccisione metterà alla frusta gli investigatori di Los Angeles che, inizialmente, indagheranno negli ambienti omosessuali frequentati dall'attore. Solo dopo anni e grazie ad una soffiata si arriverà alla conclusione che Mineo era stato ucciso per il solo motivo di essersi trovato nel luogo sbagliato al momento sbagliato, cioè quando un ladro d’appartamenti stava cercando di penetrare nel palazzo.

Questi due crimini di gran clamore e di portata storica ci vengono narrati da James Ellroy nel suo caratteristico “stile” sgangherato e sbilenco, con fasi acefale, suoni onomatopeici, volgarità assai poco politicamente corrette, espressioni grezze e crude, salti temporali e costruzioni da illetterato.
Proprio per tale ragione ho messo tra virgolette il termine stile: non so neppure se sia corretto definirlo come tale. Qual è il contrario di stile in questa accezione? Grossolanità? Approccio triviale? Il linguaggio di Ellroy è sgradevole, smozzicato e ansimante. È pure difficile seguire il filo narrativo che, pur appoggiandosi pedissequamente ai documenti d’indagine, spesso è frammentario e convulso, quando non diviene addirittura caotico. Eppure, spiace dirlo per rispetto degli scrittori che faticano per costruire un discorso elegante e gradevole, alla fine tutto è terribilmente efficace e incisivo. Quelle due storie, narrate in forma raffinata forse avrebbero perso la loro concreta brutalità e concretezza. Così, invece, l’A. riesce a condurci per mano in un mondo dove tutti sono brutti, sporchi e cattivi, anche coloro che dovrebbero rappresentare e far rispettare la legge. E ce lo fa toccare con mano.
Anche le conclusioni delle due indagini ci lasciano con l’amaro in bocca e tanti, troppi dubbi sulle loro risultanze. Ma è giusto così, poiché, a differenza dei gialli letterari in cui ogni pezzo del puzzle si incastra alla perfezione a formare un quadro assolutamente leggibile, nella realtà tutto è raffazzonato e opinabile e raramente ci è concessa la benedizione di una certezza inoppugnabile. Per usare l’approccio di Ellroy, si potrebbe sintetizzare il tutto con: “questa è la vita, baby: merda! TILT!”.
In conclusione un libro sgradevole e fastidioso, ma che ci racconta in un modo terribilmente efficace due cupi episodi di cronaca nera ove la giustizia umana mostra tutti i suoi limiti. Quindi, nonostante tutto, da leggere e meditare.

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... a che ama la prosa di Ellroy e, in genere, a chi vuol documentarsi su due storie vere di importanza storica, raccontate in modo assai coinvolgente, anche se brutale.
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    26 Aprile, 2019
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Una struttura inefficace

La domanda che ho cominciato a farmi a più o meno metà del libro è stata: “dove vuole andare a parare l’autrice?” Niente, non ne sono venuto a capo neanche adesso. “Mars Room” è un libro particolare, che credo possa appartenere alla schiera “o ti piace molto, o non ti piace per niente”. Appartengo decisamente alla seconda fazione, anche se non me la sento di stroncarlo completamente. Perché? Perché in fondo è ben scritto e l’autrice ha uno stile particolare e forte, che difficilmente assoceresti a una donna. Non sono sessista, badate, semplicemente non avevo ancora avuto modo di affrontare autori di sesso femminile che descrivessero scene di cruda violenza e che non si fanno scrupolo nello scendere in particolari scabrosi anche nell’ambito sessuale. C’è da dire che l’autrice non poteva certo evitare di farlo, considerato che in “Mars room” ci racconta la storia di una detenuta al carcere femminile di Stanville: spogliarellista che si trasforma in assassina e che lascia nel mondo un bimbo piccolo, Jackson.
La struttura narrativa è la cosa che probabilmente mi ha lasciato più perplesso: il narratore cambia di continuo e si sposta su diverse linee temporali, che partono dal presente per fare capolino nel passato, per poi tornare nel presente e così via. Questo rende tutto piuttosto frammentato; certo, è chiaro l’intento dell’autrice di chiarire come si siano arrivati a verificare determinati eventi, ma spesso si ha la sensazione che di questi chiarimenti si possa fare tranquillamente a meno. Conoscere poi come la nostra protagonista sia arrivata a fare quello che ha fatto soltanto nel penultimo capitolo… non mi ha convinto. L’unica spiegazione che mi sono dato per quest’ultima scelta è stato una volontà di chiarire, soltanto alla fine, quanto la nostra protagonista sia meno innocente di quanto sembri; su questa volontà, tuttavia, non sono pronto a mettere la mano sul fuoco. Oltretutto, ci sono alcune scene scritte con un carattere (font) differente, raccontate da in personaggio sconosciuto e della cui utilità non sono riuscito a venire a capo. Un’idea ce l’ho, certo, ma l’autrice non è molto chiara e se la finalità è quella che penso, non c’era bisogno di aggiungere queste scene; bastava aggiungere un breve paragrafo e avrebbe raggiunto il medesimo obiettivo. Dunque, scelte narrative che mi hanno lasciato con un grosso punto interrogativo, pagine probabilmente superflue e dalla dubbia utilità mi hanno accompagnato in un percorso che non è riuscito a colpirmi. Ci sarebbero stati i presupposti per raccontare una realtà difficile, che ti offre la possibilità di scatenare innumerevoli riflessioni… ma purtroppo Rachel Kushner, almeno con me, ha fallito.

Romy Hall è una spogliarellista del Mars Room, un locale di San Francisco. Come spesso capita a persone che fanno questo mestiere, si ritroverà faccia a faccia con diversi tipi di persone, che per la maggior parte non sono esattamente raccomandabili. Ha un figlio che vede pochissime ore al giorno, un figlio avuto in un rapporto occasionale con un dipendente di un altro locale simile al Mars Room.
Quasi ogni spogliarellista ha il suo “cliente fisso”, e quello di Romy alias Vanessa è Kurt Kennedy, reduce del Vietnam che si affezionerà a Romy in un modo praticamente ossessivo, al punto da costringerla a scappare; al punto da spingerla a ucciderlo nel momento in cui lui scoprirà dove si è nascosta. Tranquilli, non è uno spoiler, perché questo lo saprete fin dal principio. Alla fine dubiterete un po’ di tutto ma, ripeto, non so se questa fosse una precisa intenzione dell’autrice. Dunque Romy verrà rinchiusa nel carcere femminile di Stanville, nel quale verremo a conoscenza delle dinamiche che regolano quella che in fondo è una comunità di donne che, colpevoli o meno, conservano intatta la loro fragilità e soffrono, come ogni essere umano.

“Almeno in prigione lo sai come vanno le cose. Cioè, non lo sai per davvero. È imprevedibile. Ma in un modo noioso. Non è che può succedere qualcosa di tragico e tremendo. Cioè, può succedere, come no. Può succedere eccome. Solo che in prigione non puoi perdere tutto, perché l’hai già perso.”

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    22 Aprile, 2019
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Ventoteneide

A coloro che pensano che la Letteratura italiana contemporanea di qualità sia finita e che per questo leggono soltanto classici o autori stranieri, vorrei consigliare questo libro. Soprattutto a chi apprezza il romanzo storico.
Siamo a Ventotene, isola in cui, durante il fascismo, venivano confinati gli oppositori al regime. C'erano socialisti, comunisti, sostenitori di Giustizia e Libertà, anarchici... Centinaia e centinaia di persone confinate in una piccola isoletta circondata dal mare, private della libertà perché avevano osato mettere in dubbio in qualche modo il fascismo, perché avevano, in una maniera o in un'altra, continuato a pensare con la loro testa e non si erano fatti zittire e piegare dalla dittatura. Una situazione certamente difficile da sopportare. Eppure la concentrazione di tante menti pensanti, di tante persone coraggiose pronte ad affrontare prove durissime pur di opporsi al fascismo generò comunque qualcosa di positivo: l'opportunità di confrontare idee, di farsi animare da miti personali e da fantasie, che contribuirono sicuramente alla rinascita di un'Italia e di un'Europa diverse.

«Alle proibizioni del libretto rosso se ne aggiungevano altre, in base al capriccio dei militi o del direttore. […]
Eppure, si pensava e si creava. Pasta-e-fagioli aveva concentrato lì molte tra le menti migliori nate nei primi vent'anni del secolo. Il regime non poteva pretendere che quei cervelli smettessero di funzionare. Nonostante le restrizioni, la censura, le angherie, quelle menti si influenzavano a vicenda.
E così, a Ventotene c'era più libertà di pensiero che nel resto d'Italia.
Tanta che poteva dare alla testa. »

Il narratore e protagonista della vicenda è un giovane originario di Ferrara, Erminio Squarzanti,
che non è riuscito a laurearsi in Lettere proprio a causa delle sue idee antifasciste. Erminio aveva già pensato alla tesi, “I mari Adriatico, Ionio e Tirreno e gli arcipelaghi d'Italia nei miti greci”, ma le sue argomentazioni, pur riguardando la Letteratura greca, erano troppo lontane dalle idee che potevano risultare gradite ai fascisti. E così, invece di laurearsi, era giunto sull'isola di Ventotene come confinato politico. Lì conosce molti antifascisti, alcuni, come Sandro Pertini, diventano per il giovane punti di riferimento. Occorreva infatti continuare a sperare e non abbattersi, perché il momento in cui sarebbero stati rilasciati e avrebbero potuto dare il loro contributo attivo ad un'Italia non più fascista, sarebbe arrivato presto.
Una mattina del novembre 1939 arrivò sull'isola un fisico romano, Giacomo Pontecorboli. Spossato dall'infelice condizione di confinato, Giacomo aveva attirato fin da subito l'attenzione di Erminio, che vi aveva riconosciuto alcuni tratti della sua stessa personalità. Quando Giacomo, dopo qualche tempo, racconta una storia del tutto assurda che sembra uscire dal romanzo di Wells, “La macchina del tempo”, Erminio e gli altri compagni non gli credono, ma poi... Forse la storia di Giacomo, al pari della storia di Erminio, non deve essere creduta, ma solo interpretata.

«Immaginarla era una cosa: l'essere umano può immaginare l'irreale, vedere il mai avvenuto, è questo a distinguerlo dagli altri animali. Non solo questo, certamente, ma anche. Ascolti una favola e vedi il lupo che parla con l'agnello, la rana invidiosa del bue, la sfida tra la lepre e la tartaruga. Leggi un romanzo e vedi i personaggi mai vissuti amarsi, combattere, tradirsi, morire. Leggi l'Odissea e vedi Atena assumere le sembianze di Mente, di Mentore, di Telemaco...
Immaginarla era una cosa. Ma crederla vera, quella scena con la macchina del tempo, era un altro paio di maniche.»

Non ha importanza se le storie di Giacomo e di Erminio siano reali o soltanto immaginate: sono delle metafore del pensiero dei dissidenti, di chi non voleva conformarsi al regime. A Ventotene il tempo scorreva davvero più velocemente perché le idee di chi non voleva arrendersi al fascismo e voleva costruire un futuro diverso aprivano il tempo stesso a nuove possibilità.

«Noi siamo come Pirra e Deucalione. Trascorremmo anni su un'arca nel Tirreno, mentre un diluvio sommergeva il vecchio mondo. Quando fu il momento di scendere, venne ad accoglierci Atena, dea delle guerre per giusta causa. Le chiedemmo nuovi compagni e compagne, per riprendere la lotta. Lei ci fece gettare in aria una pietra dopo l'altra, e le colpì col suo scudo.
Dopo il diluvio, la Resistenza.
Ogni pietra un partigiano. »

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    18 Aprile, 2019
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Homo Homini Lupus...

Steven Stelfox è un discografico, per la precisione lavora come talent scout per una major discografica e in una città come Londra durante gli anni 90 il suo lavoro è simile a quello dei primi cercatori di oro o petrolio in America: basta trovare la riserva giusta, la band giusta, e la tua vita cambia radicalmente, stenti, povertà, debiti e frustrazione diventeranno solo un brutto ricordo sepolto sotto milioni e milioni di sterline, annullato dalla luce abbagliante del successo e del potere.
Cosa serve? Fortuna? Sì, certamente, perchè è come cercare un ago in un pagliaio: la musica in quegli anni è diventata per tanti giovani uno specchietto per allodole, sulla scia del rapido exploit di personaggi come Madonna, le Spice Girls, Bono, Kilie Minogue e molti altri, chiunque - musicista o presunto tale - cerca quell'opportunità di successo. E proliferando la paglia nel granaio tanto più arduo diventa per un discografico trovare l'ago, quell'unico ago capace di scalare le classifiche nazionali ed internazionali nel giro di poche settimane, di stazionare giorni e giorni nei programmi radiofonici principali sino alla conquista degli agognati dischi di platino. E la fortuna conta più dell'esperienza e della cultura musicale nel lavoro del talent scout: perchè un disco di successo non è necessariamente un disco di buona musica, è fondamentalmente un disco che vende, solo un disco che entra nella testa e nella vita della gente può alimentare le tasche di chi lo sponsorizza e lo produce, e se la massa vuole spazzatura il disco sarà spazzatura. E in un mare di immondizia rimane a galla ciò che ha più ambizione, più tenacia e spregiudicatezza:
'Certe volte, quando gente che non capisce una mazza dell'industria discografica cerca di capire il mio mestiere, butta lì: "Ah, quindi cercate talenti?" E' inaccurato. Madonna, Bono, le Spice Girls, Noel Gallagher, Kylie Minogue.. credete davvero che qualcuno di loro sia talentuoso? Non fatemi ridere, cazzo. Sono ambiziosi, ecco cosa sono. E' lì che si trovano i soldi. In culo al talento.'

E se l'ambizione fa la differenza tra chi diventa star e chi rimane nell'anonimato più assoluto, tra i discografici vince invece la superbia, l'opportunismo, il doppio gioco, l'arrivismo, il cinismo più feroce, mors tua vita mea, se non sbrani gli altri sarai sbranato tu stesso. Steven lo sa benissimo, nel suo campo ha esperienza da vendere, squalo tra gli squali: ed è proprio quando la situazione diventa critica che emerge la sua indole più brutale e spregiudicata:
'Frugo nella valigia, tiro fuori la copia tutta sottolineata di Scatena il mostro che è in te di Hauptman e la scorro finchè non trovo il passaggio che cercavo: "In ogni impresa difficile e meritevole arriverà un momento in cui la più facile forma di azione sarà rinunciare al movimento in avanti, lasciarsi conquistare dall'inerzia e ritornare allo status quo. Solo l'uomo forte e coraggioso, riconoscendo quel momento, si opporrà all'inerzia e si farà strada sino alla fase successiva. Costi quel che costi. Chiamo tale frangente il momento critico della volontà.'

'Uccidi i tuoi amici' è il primo romanzo di John Niven (risale al 2008) sebbene sia stato pubblicato in Italia solo quest'anno; tuttavia, l'autore non ha certo bisogno di presentazioni considerato il successo a livello mondiale conseguito qualche anno fa con 'A volte ritorno', ironico ed irriverente romanzo con protagonista Gesù richiamato per la seconda volta da Dio sulla Terra per rimettere un pò d'ordine. E non a caso ci torna nei panni di un musicista chitarrista, perchè Niven prima del folgorante successo come scrittore ha lavorato per svariati anni nel mondo della musica prestando il suo servizio a diverse etichette musicali ed è forse questo, a mio parere, l'aspetto più terrificante di questo suo libro: quanto di ciò che racconta è vero e quanto frutto del tentativo dell'autore di descrivere le ferocia di quel mondo e dell'umanità che la popola esasperandola all'ennesima potenza? Perchè pur estremizzando l'atteggiamento cinico e camaleontico dei vari personaggi, essi rimangono comunque .. realistici, credibili. Detto in altri termini, per quanto assurda possa sembrare la vita di Steven, un'alternanza perenne di sesso, droga, alcol e per quanto disumano possa sembrare lo stesso Steven, non si fatica a credere che possa essere proprio così.
Avete presente The Wolf of Wall Street, il film di Scorsese con Di Caprio nei panni del broker spregiudicato e consumatore cronico di droghe di ogni tipo? Ecco, immaginate quell'uomo, quel lupo avido di potere e denaro, privo del seppur minimo freno inibitore, sia etico sia morale, trasferitelo dal mondo della finanza a quello della musica ed ecco 'Uccidi i tuoi amici'. Tutto nel testo è portato agli eccessi, non solo a livello di contenuti ma anche nello stile che si avvale spesso di un linguaggio volgare ed osceno. Il libro è stato osannato dalla critica, soprattutto in virtù della sua vena satirica ed umoristica. "Divertente da star male", scrive addirittura The Times. Ora, pur conscio del mio carattere tendenzialmente mesto e malinconico, non ricordo durante la lettura di questo libro un solo periodo, dico uno, che mi abbia indotto ad abbozzare un cenno di sorriso. E sono anche consapevole che lo humour inglese tendenzialmente offre il meglio di sè nei contesti più tragici cercando proprio di sminuire la drammaticità della situazione; il fatto è che... non ho trovato proprio niente da ridere!!
Pertanto: vi è piaciuto The Wolf of Wall Street? Vi piacciono gli eccessi, le vite spericolate e spregiudicate? Gli uomini senza cuore e senza scrupoli? Siete curiosi di sapere come nasceva una star della musica negli anni '90 e come ruotava intorno ad essa la macchina discografica? Volete farvi un'idea del limite a cui possa giungere la perversione umana o conoscere più di 20 modi diversi per dire cocaina? Bene, allora Uccidi i tuoi amici fa al caso vostro. Altrimenti desistete!

"Il mondo discografico è una trincea crudele e superficiale, avida di soldi: un ambiente fasullo dove ladri e papponi scorazzano a piacimento e i buoni schiattano come cani. Fin qui il lato positivo."
(Hunter Thompson)

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Aprile, 2019
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Psicanalisi con omicidio

Alicia Berenson era una affermata pittrice. Era innamoratissima del marito Gabriel, noto fotografo di moda. Era ricca. Viveva in una bella casa a Londra. La sua vita sembrava perfetta. Ma un 25 agosto la polizia fece irruzione a casa sua e trovò Gabriel morto, con il volto sfigurato da cinque colpi di pistola. Alicia, impietrita in piedi davanti a lui, aveva le vene dei polsi tagliate. Sopravvisse, ma da quel giorno smise di parlare, sia pure per difendersi dall'accusa di omicidio.
È stata rinchiusa in un manicomio criminale e lì è restata a languire per sei lunghi anni sino quando lo psicologo forense Theo Faber, ammaliato dalle sue opere, soprattutto dall'ultima, “L'Alcesti”, dipinta dopo i tragici eventi, decide di far di tutto per riportare in superficie quello spirito dolente e riportarlo alla vita. Si instaura, così, un complicato rapporto psicanalitico a doppio senso. Mentre Theo cerca di far breccia nella dura scorza di mutismo e indifferenza di Alicia, al tempo stesso è costretto a riesaminare i propri traumi infantili, causati dal padre violento ed arrogante, e di adulto con moglie adorata, ma infedele.

“La paziente silenziosa” è un romanzo insolito, ma decisamente intrigante. La tensione emotiva, il thrilling, è palpabile, ma si nasconde in modo insidioso nelle pieghe pigre e morbide di una narrazione lenta come possono esserlo i resoconti quotidiani di un diario; quello scritto da Alicia e quello solamente narrato da Theo. Le vicende si susseguono quasi torpide, senza scosse. Ci mostrano prima gli iniziali insuccessi di Theo come psicologo (che non riesce a far reagire la donna) e come uomo (prima frustrato dall'arroganza paterna e, poi, umiliato dall'infedeltà della moglie). Da medico lo vediamo tramutarsi in investigatore accanito che cerca di ricostruire il passato della paziente e, contemporaneamente, di dare un volto all'amante della moglie. Infine, in un climax da tragedia greca (proprio come l'Alcesti) le vicende accelerano sino al drammatico ed inaspettato finale.
La parte più coinvolgente è proprio questo doppio flusso narrativo che ci mostra Theo sia nelle vesti di medico che in quelle di “paziente” di sé stesso. Probabilmente le due vicende raccontate separatamente non avrebbero avuto il medesimo impatto emotivo, ma questo alternarsi di fronti angoscia ed affascina nel contempo. La bellezza di questo avvicendarsi di storie è tale che pure in assenza dello sconvolgente finale il romanzo sarebbe stato ugualmente godibile. Il coup de theatre conclusivo giunge come un violento ceffone in faccia al lettore che rimane totalmente spiazzato, attonito ed incredulo. Ma anche ipotizzando una conclusione più pacata e composta sarebbe difficile non partecipare delle vicende di Alicia e Theo.
Una piccolissima postilla che non vuol essere uno spoiler, ma un riconoscimento alla genialità dell’A.: come i più grandi registi di film gialli ci mette davanti agli occhi immediatamente gli indizi per la soluzione dell’enigma poliziesco (il titolo del quadro ed il nome dello psicologo), ma solo nelle ultime pagine è possibile comprendere il furbo ammiccamento in essi contenuto. Bravo, davvero bravo!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    14 Aprile, 2019
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Donne parecchio arrabbiate...

Dopo “Donne che non perdonano” Camilla Lackberg, tra le autrici scandinave più lette al mondo e con oltre ventitré milioni di copie in sessanta paesi, imprenditrice di successo, fondatrice di Invest in Her, società che investe nell’imprenditoria al femminile, impegnata in prima linea per l’abbattimento delle disparità tra uomo e donna in particolare in ambito salariale, torna in libreria con “La gabbia dorata”, romanzo che ci presenta per la prima volta Faye una protagonista letteralmente imprigionata in una vita di lusso e apparenze.
Facciamo un salto nel passato. È il 2001 e Matilda ha appena lasciato Fjällbacka, un luogo fatto di vuoto e di brutti ricordi, di una vita dolorosa e capace di condizionarla in ogni aspetto, di circostanze devastanti e deleterie fatte di violenza e morte. È una giovane donna ambiziosa che dopo tanta fatica e tanti sforzi è riuscita ad entrare all’università e ad intraprendere quel sentiero per il futuro così bramato e per quel riscatto tanto cercato. È proprio per tutti questi sforzi che abbandona il suo vecchio essere, rinuncia al suo primo nome e adotta ufficialmente il secondo, Faye. È qui che conosce Chris, compagna di scorribande ma amica brillante e intraprendente che non la abbandonerà nemmeno nei momenti di bisogno. Ed è sempre qui che incontra Jack Adelheim, nobile e benestante uomo, fondatore della Compare e socio di Henrik, di cui non può che innamorarsi follemente.
Torniamo nel presente. Faye è una donna sposata, madre di Julienne, la bambina di cinque anni nata dall’amore con Jack. Per lui ha rinunciato al suo sogno, ha interrotto i suoi studi nonostante il suo talento e la sua indiscussa intelligenza e arguzia per gli affari e si è confinata ad interpretare il ruolo di compagna perfetta, attenta ad ogni esigenza del marito, sottomessa e comprensiva. Tuttavia, qualcosa non va nel loro rapporto. All’inizio pensa che ciò possa essere determinato dal suo mutamento di fisico essendo passata, dopo la gravidanza, da una taglia xs/s ad una m, oppure, ancora, ipotizza che questa freddezza, lontananza e distanza possa essere dettata dai tanti impegni che costantemente l’imprenditore ha per reggere l’imponenza della società di cui è a capo.
È prigioniera Faye, di un mondo frivolo e fatto di superficialità, di un castello di carte che da un momento all’altro potrebbe crollare. E di fatto, basta una piccolezza affinché questo venga meno: il tradimento da parte di Jack, la sua volontà di divorziare ad ogni costo, il trovarsi letteralmente sulla strada della nostra eroina a causa di una convenzione matrimoniale precedentemente firmata che la esclude da ogni bene, da ogni forma di sostentamento anche minimo. Che fare? Come ripartire? Ma soprattutto, come vendicarsi? Perché a un primo momento di sgomento, di pianto, di disperazione per quell’esistenza che si è vista portare via, per lei non esiste altro che la vendetta, un piatto che va servito freddo ma che quando arriva non manca di mostrarsi in tutta la sua devastante brutalità.
Quello di Camilla Läckberg è un romanzo che ha molte tematiche in comune con il precedente “Donne che non perdonano” e che da esso non riesce a distanziarsi totalmente. È un elaborato che si legge rapidamente, che non impegna, che mantiene una linea costante che segue senza troppi colpi di scena dall’inizio alla fine, che parla di donne vendicative e arrabbiate, pronte a tutto pur di raggiungere gli obiettivi prefissati. È anche uno scritto “sporco”, con molto sesso e scene di sesso, alcol, sigarette, droga e libertà di costumi che sono spinti fino ai massimi livelli. La protagonista si evolve, muta, passando dall’essere asservita al compagno a ritrovare il suo vecchio essere in una versione più rinnovata.
Ad ogni modo, nonostante questa rapidità di lettura questa trama lineare, qualcosa manca a questo, e a questi ultimi testi, a firma Läckberg, libri che si distanziano dai suoi precedenti lavori ma che al contempo seguono tutti il medesimo filone. Il risultato è che, o questa tematica si ama, o al contrario si finisce con il restare sdubbiati e col chiedersi se dietro questo atteggiamento non vi sia qualche motivazione personale. Bello e apprezzabile il proposito di parlare di donne, di diritti, di parità di sessi, bello e apprezzabile ancora il messaggio di invitare le donne vittime, plagiate o sottomesse a ribellarsi alla propria gabbia dorata, ma a mio modesto parere ci sono tanti modi per farlo, modi che esulano e prescindono dalla vendetta personale.
In ogni caso, un libro parzialmente piacevole, non indimenticabile, non eccelso, che si esaurisce in breve tempo, adatto agli amanti del genere e a chi cerca contenuti di questo tipo. Per chi ama componimenti più eruditi, il suddetto certamente non risulterà essere adatto.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Aprile, 2019
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Volare è il sogno segreto dell’uomo.

In questa raccolta di sedici testi, Jonathan Franzen tratta con lucidità ed obiettività del pericolo concreto che l’umanità tutta sta correndo di estinguersi nella sua irrazionale e mal programmata corsa verso un progresso irresponsabile. Non si tratta di una posizione retriva nei confronti del giusto progredire della scienza, che sarebbe follia fermare ad un pregiudizievole stallo, quanto piuttosto di una disamina di quanto possa essere dannoso non considerare i reali rischi di una programmazione superficiale ed egoistica. Non c’è dubbio, sostiene Franzen, che molti, troppi danni sono già stati inflitti alla natura e in generale al mondo che ci circonda. Le stime statistiche sono persino indulgenti rispetto a quella che è la realtà. “Lo scienziato che prevede con sicurezza un riscaldamento di cinque gradi entro la fine del secolo, potrà magari dirvi, in privato, davanti a una birra, che in realtà se ne aspetta nove.”
Il discorso di Franzen parte da una considerazione puramente letteraria per poi affrontare l’argomento da una posizione più specificamente naturalista.
Consideriamo, egli dice, quanto si sia diffuso l’uso del tweet, conciso, rapido ed efficace nel comunicare opinioni, idee, considerazioni. La velocità del tweet entra certamente in competizione con la lunghezza dell’articolo o del saggio, tuttavia non permette l’approfondimento del tema, lascia ogni argomento ad un livello di superficialità che non è di aiuto né alla cultura né tanto meno alla politica. Che alcuni capi di stato affidino le considerazioni e le decisioni del proprio agire ai 280 caratteri ammessi dalla piattaforma twitter sembra essere persino poco rispettoso nei confronti di coloro che li hanno delegati a operare per gli interessi delle nazioni che rappresentano.
Dal punto di vista più specificamente naturalistico, Franzen affronta l’argomento da birdwatcher, da appassionato ambientalista che ha potuto constatare nei suoi frequenti e ricorrenti viaggi la scomparsa di numerose varietà di uccelli, vuoi per le conseguenze del riscaldamento del globo terrestre, assai più serio di quanto si dica, vuoi per quella indiscriminata e folle passione per la caccia. Basta prendere atto di quella realtà che ha portato all’estinzione di molte specie di uccelli nell’Europa dell’est, meta di turismo venatorio. “Oltre ai considerevoli danni immediati che provocano, i turisti della caccia italiani hanno introdotto il principio del massacro indiscriminato e nuovi metodi per conseguirlo, in particolare l’uso dei richiami registrati, catastroficamente efficaci nell’attirare gli uccelli. […..] Questa nuova sofisticatezza [..…] ha trasformato l’Albania in un gigantesco buco nero per le correnti migratorie dell’Europa Orientale: milioni di uccelli vi entrano e pochissimi ne escono vivi.”
Nella sua ansia di girare il mondo per constatare di persona le condizioni in cui versa il nostro pianeta, Franzen si spinge fino alla fine della fine della terra, col desiderio di vedere il pinguino imperatore. Si, gli uccelli per Franzen sono importanti e dovrebbero esserlo per ciascun essere umano perché a loro è concesso ciò che l’uomo ha sempre desiderato fare ma che riesce a realizzare solo in sogno: volare.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Aprile, 2019
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"Attilio contro tutti" in esilio volontario a Rocc

Il suo nome è Attilio Campi, ha quarantotto anni, vive a Roccapane, fittizia località ove le vicende sono ambientate, e coltiva zafferano. Indossa un vecchio giaccone, una pazzesca giacca con i revers sciallati, assolutamente inadatta a uno statista ed è l’autore di una legge, avente ad oggetto un’uniforme obbligatoria, nelle scuole di ogni ordine e grado, che avrebbe cambiato in meglio questo paese ma che è stata brutalmente bocciata. Perfino dai membri del suo stesso partito, che sono stati i primi a non comprenderne il senso, a non apprezzarne i risvolti.
Ha una sorella di nome Lucrezia che vede, quando va bene, un paio di volte l’anno e che vive a Londra con il terzo marito e due figli di cui uno drogato e, attualmente, a fargli compagnia tra i campi e la natura, vi sono una Bulgara, che ha risolto la faccenda del canapè di zia Vanda, e un ex tossico, Severino, che puzza di capra e che gli sta facendo un corso accelerato di redenzione. Ad aggiungersi a questo caleidoscopio di personaggi, Gavanin Saverio, in arte Beppe Carradine, con i suoi sermoni e filosofeggia-menti contrastati dall’enunciazione del nome di ogni albero esistente da parte dell’eclettico protagonista e il pastore Federico Pozzi che dovrà vedersela, per ragioni che non preannuncio, con le nuove leggi sull’immigrazione.

«Come se mi avesse toccato l’angelo della quiete. Tutto si allenta e mi torna in mente quando, molti mesi fa, in piedi accanto al bosco, nel mezzo della notte, guarii dall’ansia di avere ragione uscendo per sempre, con un clic dolcissimo, dalla chat “Attilio contro tutti”»

Ma chi è Attilio Campi e perché ha lasciato tutto per emigrare nella quiete e noia di Roccapane? Attilio Campi era un politico, un politico che avrebbe potuto diventare Ministro o Capo del Governo, era un nemico da odiare ma anche un modello da imitare, un uomo che si è spogliato della sua veste e che adesso è soltanto uno sconosciuto come tanti. La sua colpa è stata quella di aver, una volta nominato presidente della Commissione Educazione e Cultura, presentato una proposta di legge giudicata anacronista e inopportuna da quello stesso partito (come anzidetto) di appartenenza per poi essere cassata senza nemmeno essere discussa in Parlamento. E dire che se Attilio aveva proposto l’uniforme per gli studenti era proprio per rimediare a quella subdola banalità che è l’anticonformismo: «mettiti addosso questa, ragazzo, così per un po’ non devi più perdere tempo a distinguerti a tutti i costi. Puoi pensare veramente a chi sei e a chi vorresti diventare, non a quale felpa metterti» p. 25
Dal rifiuto di questa proposta ha avuto luogo una vera e propria battaglia social, una guerra di tweet, post, commenti e controcommenti a cui Campi non poteva fare a meno di rispondere, sia che il soggetto fosse in grado di modulare un pensiero concreto, sia che fosse uno rozzo e poco addestrato nemico avvezzo a linciaggi e risse quasi come se esserne munito potesse in un qualche modo rappresentare e costituire un talento.
In questo esilio rappresentato da Roccapane, il protagonista inizia una lotta senza eguali contro il passato, contro i ricordi che sono un peso insondabile e inesorabile. Gli oggetti fisici finiscono con l’essere per lui il massimo del deleterio: libri, lettere, fotografie, mobili, cianfrusaglie e molto altro ancora sono un male da estirpare a qualunque costo. Da qui ha inizio la progettazione dei roghi che avrebbero avuto lo scopo di eliminare tutto, di ridurre in cenere quei lasciti di vite altrui. Peccato però che, nel sognare questa vita tranquilla e dal passo spedito, bruci proprio l’unica cosa che non avrebbe dovuto bruciare, un qualcosa che è l’emblema delle sue radici e che avrebbe potuto modificare, o nuovamente collocarlo, nel mondo.
Un eroe attaccabrighe e insofferente è il nuovo personaggio proposto da Michele Serra ne “Le cose che bruciano”, un romanzo stratificato, scritto con una penna intelligente, forbita e ironica che racchiude al suo interno molteplici spunti di riflessione. Perché in quella che può apparire come una semplice storia di redenzione e fuga da un mondo che non ci vuole e che ci rifiuta, un mondo bislacco fatto di frivolezze e apparenze e dove è data voce anche a chi voce non dovrebbe avere, in realtà vi è molto di più. E nulla e nessuno è risparmiato in questo scritto. Quella che emerge dall’analisi dell’opera è una radiografia magro-amara dell’Italia di oggi sia dal punto di vista politico che sociale che dei valori. Dai social si passa all’impoverimento culturale ed emotivo per giungere al degrado delle istituzioni e dei rappresentati di queste.
Una valutazione pungente che si esaurisce in brevissimo tempo, che richiede una seconda e terza rilettura per cogliere anche quegli aspetti e quelle sfumature che ad una prima analisi possono essere sfuggite, ma che lascia il segno tanto da ritornare a più riprese a distanza di tempo.

«”Stai rivoltando la frittata, Atti.”
“Ho fatto politica per qualche anno”»

«Devo scaricargliela addosso, la differenza, oppure devo portarmela dentro senza dire niente, visto che sono stata io a fabbricarla quella differenza?»

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    11 Aprile, 2019
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Una ragazza ferita. Una rinascita duplice.

Valeria Parrella, è nata nel 1974, e vive a Napoli. Ha esordito con la raccolta di Racconti Mosca più balena. E poi ha pubblicato: Lo spazio bianco, Tre terzi, Lettera di dimissioni, Tempo di imparare, Ma quale amore, Troppa importanza all’amore, e Enciclopedia della donna. Aggiornamento. Ora pubblica con la casa editrice Einaudi: Almarina. Un romanzo intenso e profondo, toccante, che parla di dolore e di rinascita, del risorgere dopo grandi momenti difficili e traumatici. E di come questa risalita stessa sia sempre e comunque irta di ulteriori difficoltà ed ostacoli.
La protagonista di questa storia si chiama Elisabetta Maiorano, ha cinquanta anni, ed è una insegnante di matematica. Ma svolge il suo lavoro in un luogo particolare: nel carcere minorile di Nisida, un’isola del Mediterraneo:
“Nisida è un carcere minorile, le avessi scavate con le mie mani le strade di tufo che fanno arrampicare su la macchina. Come se mi stessero facendo un favore.”
Un luogo dove vigono leggi ferree che lo differenziano dalla normale comunità, per cui:
“Per oltrepassare il cancello grande si deve bussare a un campanello, il campanello sta a dieci passi piccoli dalla guardia che mi ha controllato i documenti. (…) C’è, in questa prassi, tra il casotto delle guardie e quel cancello, un’atmosfera diversa di ossigeno rarefatto. “
Gli abitanti di questo carcere sono giovani adolescenti minorenni, con vita e trascorsi passati che li hanno segnati in profondità, e che cercano affannosamente di costruirsi una vita. Magari differente da quella vissuta finora. Ma il percorso è lungo, e irto di impedimenti. Gli insegnanti, inoltre, devono porsi nei loro confronti con un certo distacco, per non farsi travolgere e perdere di obiettività. Un giorno, però, giunge ospite una giovane persona di nome Almarina:
“Oggi a lezione c’è una ragazza nuova. (…) Ci dice che ha sedici anni, che è una rumena (o quello che ne resta, dopo che il padre la violentò e la rovinò di mazzate). Non riesce a farsi capace che quella vita che ricorda sia la stessa che mena ora: la morte della madre, la perdita del fratello, non vedere mai più i boschi neri, la neve. (…) Almarina sa che quello che non è presente alla vista non esiste più.”
Per la vedova cinquantenne Elisabetta, Almarina, appare come una figlia mancata e il suo futuro tutto da costruire. Insieme. Ma….
Un libro ricco di poesia, che racconta, con uno stile ricco di fascino, e molto colto, una quasi “storia di amore”. Una storia di vuoti, di perdite, di cadute, e di tanto tanto dolore, ma anche di rinascita e di superamento. Una lettura che travolge e coinvolge in un turbinio di emozioni e di sentimento, con rara maestria e capacità. Notevolmente coinvolgente, ricco di sensibilità e di introspezione.

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Consigliato a chi ha amato: Ottessa Moshfegh, Eileen.
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    04 Aprile, 2019
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Il crollo delle illusioni

Jostein Gaarder, autore di quel capolavoro che è stato Il mondo di Sofia, libro indimenticabile e che ha fatto la storia della letteratura e non solo, torna in libreria con Semplicemente perfetto. Un libro, come è nello stile dell’autore, colto, dotto, inframezzato da precise riflessioni filosofiche, che si divora in un baleno.
Nella vita del protagonista del racconto, Albert, da tempo, tutto è:
“semplicemente perfetto”.
Una moglie, Eirin, conosciuta a diciannove anni, e mai più lasciata. Sposata, con lei concepisce un figlio, fino a diventare nonno. Prima di lei, una fidanzata sola: Marianne, con cui intrattiene da sempre degli ottimi rapporti, al punto da diventare il loro medico di famiglia. Tutto per lui percorre binari lineari, a parte un periodo di crisi e un fugace ritorno con Marianne, presto interrotto, divenuto solo più un ricordo. Ora, dopo trentasette anni di vita comune, Eirin è in Australia ad un congresso di biologia marina, per presentare la sua scoperta destinata a sconvolgere il mondo accademico di cui lei fa parte da tanti anni. In questo contesto Albert riceve una notizia destinata a mutare radicalmente. Infatti nella sua vita fa irruzione, prepotente e malefico, lo spettro della malattia. Quella che non perdona, che non lascia scampo. Albert è disorientato, ha bisogno di solitudine per riflettere e prendere eventuali decisioni. Non può che recarsi là dove tutto ha avuto inizio: la Casa delle fiabe. Lì ripensa alla vita, per cui:
“La vita di un uomo si riassume semplicemente così: C’era una volta…. E venne una notte. Adesso è arrivata la notte.”
E durante questa notte cupa e dolorosa il suo pensiero non può non andare a “Riccioli d’oro”:
“Ogni tanto chiamo Eirin “Riccioli d’oro”. Ma in tutti questi anni il motivo per cui le ho dato questo nomignolo è stato il nostro segreto. Era un fatto legato più al porridge che al colore dei suoi capelli.”
Lei può essere d’ora innanzi il suo scopo di vita? Perché vivere? E perché far soffrire i propri familiari? Coloro i quali ti amano indiscriminatamente, senza sé, senza ma? Riflettere sulla finitezza umana è giocoforza per il nostro protagonista:
“Per quasi tutta la vita siamo condannati a vivere con la consapevolezza che tutto il meraviglioso spettacolo che abbiamo vissuto – una terra dalle incredibili forme di vita, un oceano con una miriade di esseri diversi e un cielo stellato sopra di noi, lontano miliardi di luce, tanto che possiamo solo sognare di scoprire cosa contenga-, tutto questo, dopo pochi anni siamo condannati a lasciarlo, e per me il momento si sta avvicinando.”
Un racconto lungo, poco più di cento pagine, dove vengono affrontati svariati temi legati all’esistenza umana, trattati con capacità e particolare sapienza narrativa. Uno stile “perfetto”, di fascino, profondo dove si colgono gli aspetti bivalenti dell’essere umano: la sua profondità, la sua sapienza, ma anche la sua miseria, il suo essere finito, la malattia, la decadenza, la morte e l’eros. Un romanzo che trascina e che offre una visione del mondo, nonostante tutto, positiva e rasserenante. Perché la vita va sempre e comunque vissuta fino in fondo. Un motivo determinante e fondamentale per proseguire nel cammino umano lo si trova sempre, anche nel buio più profondo e tragico. Un messaggio di speranza, un inno alla vita profondo e totale in cui immergersi con impegno.

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    30 Marzo, 2019
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Mobilitare il coraggio contro la retorica della pa

Paolo Rumiz racconta, in questo libro di non fiction, un itinerario dell'anima: un pellegrinaggio interiore che l'ha portato sulla via dei monasteri benedettini per riscoprire le radici autentiche dell'Europa.
Un giorno di qualche anno fa infatti, mentre sta compiendo un cammino nei luoghi del terremoto appenninico, arrivando a Norcia vede, tra le rovine, la statua di San Benedetto. É incredibilmente intatta tra le macerie e porta la scritta «San Benedettino. Patrono d'Europa». Per Rumiz è una specie di folgorazione, un segno da cogliere: in un'Europa tartassata dai nazionalismi di ritorno, che si sta chiudendo in se stessa e rifiuta l'accoglienza degli Ultimi, in un'Europa xenofoba e razzista dominata dalla paura, che fine ha fatto il messaggio di San Benedetto? Quel messaggio che mette al centro l'ascolto, l'accoglienza, il lavoro e lo studio che hanno come fine quello di celebrare lo splendido Creato e quindi Dio, l'operosità buona che riesce a cogliere i doni dall'ambiente senza distruggerlo, la letizia che nasce in un'esistenza che non nega la spiritualità ma anzi la comprende e la vive appieno?

«Un vento profumato penetrava le rovine e io sentivo che nel mio mondo parole chiave come silenzio, dedizione, spirito di sacrificio erano state liquidate o avevano smarrito il loro senso. La stessa parola “Europa” si era perduta. I fondamenti della cultura cristiana – compassione e solidarietà- erano diventati un reato. Sulla pelle dei disperati, un'intera classe politica faceva le prove generali di una spietatezza che sicuramente sarebbe ricaduta sui nostri figli, ma noi eravamo incapaci di accorgercene.»

Rumiz pensa quindi di andare di persona a visitare diversi monasteri benedettini, in Italia, Francia, Germania, Svizzera, Belgio, Ungheria, per ritrovare lo spirito che ha guidato il monachesimo e comprendere quanto da quello spirito possiamo ancora oggi trarre insegnamento e ispirazione per muoverci in un presente piuttosto fosco.
Anche i primi monaci benedettini vissero in un'epoca molto difficile: l'impero romano d'Occidente era caduto e i territori italici erano circondati ed attaccati da popolazioni violente e bellicose. Ebbene, che cosa hanno fatto i benedettini in questa situazione? Si sono aperti all'altro, l'hanno ascoltato e accolto: hanno praticato la solidarietà, il lavoro manuale, lo studio e la lettura, la carità. In questo modo hanno conquistato i conquistatori, li hanno convinti a diventare cristiani ed a far parte del loro mondo. In questo modo è nata l'Europa.
Il destino dell'Europa, secondo Rumiz, non può essere altro che questo: accoglienza, integrazione, solidarietà e democrazia. Il destino dell'Europa è scritto nella sua posizione geografica, una penisola che dall'Asia si protende verso l'Oceano Atlantico: nella storia è sempre stata il punto d'arrivo di migrazioni di popoli che, non potendo attraversare il mare, si sono stanziati qui.
L'Europa è un'anomalia democratica stretta fra giganti che vorrebbero toglierla di mezzo. La salvezza dell'Europa non può che essere rappresentata dall'unione e non certo dal riaffiorare di sterili nazionalismi.

« “[...] Basta guardare le mappe per capire che in tanti vorrebbero toglierci di mezzo. Sono riuscito a spiegarlo persino ai bambini delle elementari. Ho disegnato per loro l'Europa alla lavagna con intorno i pericoli che la minacciano. A nord, le lusinghe di Putin. A est, il focolaio mai spento dei Balcani e dell'Ucraina, i reticolati, i nazionalismi etnici, le mire della Cina. A ovest, i dazi di Trump, l'autolesionismo di Brexit, la Catalogna. A sud, il mare dei naufraghi, l'islamismo violento, le dittature, la guerra, le bombe sui civili. Mai nella storia abbiamo avuto tanti problemi in comune, ho detto ai piccoli scolari. Poi ho chiesto: 'In mezzo a tutto questo, voi cosa fate? Restate uniti o vi dividete?'. 'Uniti, uniti!' hanno gridato. Lo capiscono anche i bambini. L'Europa delle nazioni invece, anziché compattarsi litiga, alza reticolati, abbatte regole di garanzia, mette in discussione le conquiste democratiche. Rinnega le radici cristiane. Dimentica Benedetto...” »

É necessario quindi mobilitare il coraggio contro la retorica della paura: comprendere e smontare i meccanismi che ci stanno portando all'autodistruzione.
Rumiz scrive un testo luminoso ed illuminante che si muove tra racconto di viaggio, percorso spirituale, lucida analisi della situazione europea attuale. Quasi su ogni pagina mi sono soffermata, ho letto e riletto alcuni passaggi, ammirando la prosa elegante ed efficace, le riflessioni amare ma necessarie, la speranza ferita ma mai abbandonata di un intellettuale che ci costringe ad interrogarci sul presente riscoprendo le nostre radici storiche in modo serio ed appassionato.

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Romanzi storici
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    29 Marzo, 2019
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Nelle mani del fato

Dopo aver letto non molto tempo fa “La variante di Lüneburg” dello stesso autore, mi accingo a recensire quella che è la sua più recente uscita. Da entrambe le letture si evince che, oltre a essere un profondo conoscitore del mondo degli scacchi, Paolo Maurensig ne è davvero un amante appassionato, che accosta questo gioco a qualcosa di quasi divino. Come suggerisce il titolo di questo libro, dopotutto.
Devo dire che lo stile di Maurensig si è confermato di buona fattura: chiaro, scorrevole, capace di emozionare nei momenti giusti; soprattutto nel finale mi è sembrato capace di smuovere qualche corda del mio animo. Anche “Il gioco degli dèi", dunque, si è rivelata una bella lettura, che ci rende partecipi di una storia che, oltre a essere un piacere da leggere, ci regala anche qualche momento di sana riflessione. Certo, Maurensig dovrà essere bravo in futuro nel continuare a variare molto le sue storie, se vuole mantenere come cardini gli scacchi (e anche qualche altro elemento, come la guerra), ma mi sembra che finora ci sia riuscito bene.
Il realismo di Maurensig non concederà tuttavia molte soddisfazioni al lettore amante dei risvolti sempre positivi degli eventi; per quanto mi riguarda questo è un punto a favore dello scrittore, che riesce a dipingere la vita in maniera autentica e senza forzare la mano per “accontentarci”.
Tuttavia, c’è sempre spazio per la speranza.

In questo libro diventiamo spettatori di quella che è stata la vita di Malik Mir Sultan Khan, indiano di umili origini che si ritrova un dono: è un vero e proprio campione del chaturanga, ovvero l’antenato del gioco che noi chiamiamo scacchi. Da ragazzino, nel suo villaggio, farà la sua comparsa una tigre che lo priverà di entrambi i genitori, lasciandolo completamente solo. In soccorso dei suoi servitori arriverà il principe Sir Umar Khan. Il nobile Khan, conosciuto per essere un uomo buono che si preoccupa dei suoi sudditi, allestirà un accampamento e, nelle pause che ci saranno tra una battuta di caccia alla tigre e l’altra, ascolterà le richieste di aiuto degli abitanti del suo villaggio. Tra questi il piccolo Malik, che gli farà una richiesta insolita: vuole diventare un campione di chaturanga.
Da qui si scateneranno una serie di eventi che porteranno Malik a confrontarsi con i più grandi campioni di scacchi; ad affrontare e sconfiggere il più grande giocatore del mondo: Capablanca; a vincere più di una volta il titolo di campione di scacchi britannico. Tuttavia, come al solito, la guerra verrà a sconvolgere la vita e il futuro di Malik, che si ritroverà trascinato in una serie di eventi che gli segneranno la vita, in certi casi episodi piuttosto amari.
Una volta chiuso il libro lo riporremo con la consapevolezza di aver appreso una storia che valeva la pena di essere raccontata.

“Essere supportati dagli dèi non è poi quella gran cosa che tutti credono; non è un merito muoversi appesi alle loro fila, diventare una loro pedina. È appena poco più dici che fa un servo nell’obbedire ai desideri e ai comandi del proprio padrone.”

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La variante di Lüneburg
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Romanzi autobiografici
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    29 Marzo, 2019
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La realtà attraverso gli occhi di uno che corre...



Difficile dire di cosa parli questo libro...un po' romanzo, un po' autofiction, un po' cronaca, un po' saggio filosofico.
Covacich si mette a nudo e diventa protagonista di se stesso...o forse solo "veicolo" per parlarci di altro.

Lui corre, nonostante la scoperta di un problema cardiaco, non riesce a rinunciare ai suoi chilometri, alle sue scarpe da corsa, al piacevole contatto con il tessuto tecnico dell'abbigliamento sportivo, e se pur con un'andatura più tranquilla, ci porta con sé per le strade di Roma Nord e nei suoi pensieri, nei suoi ragionamenti.
Troviamo i senzatetto che si stordiscono nel vino a buon mercato per arrivare a sera, gli spritz e i lupini consumati in un bar del Villaggio Olimpico, gli zingari con i loro accampamenti, i lavavetri e i loro modus operandi, i topi, gli alberi, le donne...
Covacich prende la sua vita e ne estrapola momenti, donandoci riflessioni, storie, appunti, domande.
Perché il ragazzino in gita scolastica precipita dal balcone dell'albergo?
E perché lui riesce a percepirne quasi il sollievo?
Il cane legato alla catena, soffre? Oppure si sente padrone assoluto e soddisfatto del suo mondo che finisce esattamente dove lui riesce ad arrivare?
Siamo davvero come alberi, piantati a caso uno accanto all'altro?
Siamo davvero così soli?
Sarà vero che la morte arriva solo quando la vita decide di lasciarle un po' di spazio?

Ma, soprattutto, chi è quell'uomo che di notte fuma in casa sua e che vede soltanto lui?
L'alter ego dell'autore si materializza in una sorta di Zuckerman grasso, nudo e osceno.

Un libro che si assapora piano.
A volte spietato, ma anche dolce e ironico.
Reale e realistico, ma ricco di iperboli mentali.
Una lettura che non presenta nessun cedimento, nessun momento noioso, che ci fa guardare la realtà circostante attraverso un filtro nuovo, attraverso occhi attenti e indagatori.
Covacich si conferma, per me, un acuto osservatore del nostro vivere quotidiano, un uomo che non ha timore di ammettere le proprie debolezze, i propri limiti e in grado di trasformare qualcosa di molto intimo in qualcosa di molto universale.

Un libro senza una storia, ma pieno di storie.




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kafka62 Opinione inserita da kafka62    29 Marzo, 2019
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IO, VAGABONDO CHE SON IO

“Fluidità, mobilità e illusione: questo vuol dire essere civilizzati. I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie.”

Marc Augé coniò alla fine del secolo scorso un bizzarro neologismo, il “nonluogo”, per designare quegli spazi, come i centri commerciali, le sale d’aspetto e soprattutto gli aeroporti, i quali hanno in comune la prerogativa di non creare relazioni tra la moltitudine di persone che in essi quotidianamente si incrociano. Tali luoghi per l’antropologo francese possiedono una connotazione eminentemente negativa, in quanto sono caratterizzati dall’individualismo, dall’anonimato e dalla provvisorietà. Leggendo “I vagabondi” non sono così sicuro che Olga Tokarczuk condivida fino in fondo la critica della “surmodernità” insita negli studi di Augé. Molte pagine del suo libro sono infatti ambientate proprio negli aeroporti o nelle stazioni della metropolitana, e in questi luoghi, simboli del fascino, per non dire addirittura dell’ossessione, per gli spostamenti e i viaggi, così come nelle impersonali camere d’albergo delle città straniere, la scrittrice polacca si trova perfettamente a proprio agio. Quello della Tokarczuk è una sorta di atipico “invito al viaggio”, inteso non nel senso turistico del termine, bensì in una connotazione esistenziale, wendersiana (mi riferisco a film come “Alice nelle città” o “Nel corso del tempo”), come necessità di muoversi, spostarsi, non mettere radici in nessun posto, in una coazione che non ha come oggetto una meta particolare, una destinazione specifica, ma il movimento stesso, il passaggio cioè da uno stato di inerzia, di stasi a uno stato di continuo cambiamento, gravido di opportunità latenti. In uno dei capitoli più paradigmatici del libro, una adepta di una fantomatica setta di nomadi espone con queste parole la sua filosofia di vita: “Dondola, continua, muoviti. E’ l’unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte. […] Perché tutto ciò che ha un posto fisso su questa terra, ogni nazione, chiesa, governo umano, tutto ciò che ha conservato una forma in questo inferno si mette al suo servizio. Come tutto ciò che è definito, che va da qui a là, che rientra in uno schema, che è inscritto in un registro, numerato, evidenziato, sottoposto a giuramento; tutto ciò che è raccolto, messo in vista, etichettato. Tutto ciò che blocca: case, poltrone, letti, famiglie […] Cresci i tuoi figli, dal momento che li hai partoriti inavvertitamente, e poi parti; seppellisci i genitori, che ti hanno imprudentemente chiamato a esistere, e vai. […] Beato è colui che parte.” La narratrice ricorda un episodio della sua infanzia, quando si era trovata per la prima volta davanti al fiume Oder e, di fronte allo spettacolo di questo gigantesco nastro mobile che scorreva oltre la cornice, fuori del mondo, aveva desiderato di trasformarsi da grande in una delle barche che vedeva navigare sotto i suoi occhi affascinati. Consequenzialmente alla sua fantasia infantile, la Tokarczuk ha scritto un libro che celebra in ogni sua pagina l’instabilità, la precarietà, l’imprevedibilità, fedele all’idea che “è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo”, che “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”. Si snoda così in caotica successione una serie di frenetici e irrequieti spostamenti della protagonista alla volta di luoghi di cui a volte non viene citato neppure il nome. Non sono affatto reportage di viaggio, niente che possa un giorno rientrare in una guida turistica, dal momento che “descrivere significa distruggere”. Le stesse mappe che fanno capolino di quando in quando tra le pagine del libro sembrano piuttosto degli enigmi che degli strumenti per raccapezzarsi, sembrano costruite più per perdersi che per orientarsi, nella convinzione che la salvezza è forse quella di non riconoscere mai il posto in cui ci si trova, per non affezionarsi e scoraggiare così la tentazione di fermarsi e mettere radici.
Anche i racconti che interrompono le riflessioni e gli aneddoti della voce narrante sono caratterizzati da una simile irrequietezza. La moglie che sparisce misteriosamente col figlioletto nell’isola croata dove è in vacanza col marito (in una sorta di versione contemporanea e prosaica di “Picnic a Hanging Rock”), la madre di famiglia che fugge per qualche giorno dalle responsabilità domestiche per sperimentare l’inusuale e inaspettatamente consolante condizione di senza tetto, la figlia del famoso anatomista olandese del Settecento Frederik Ruysch la quale, dopo la vendita della collezione anatomica del padre allo zar di Russia (con quei feti conservati nei barattoli che erano diventati per lei come dei figli), sogna di travestirsi da uomo per imbarcarsi come marinaio e partire alla volta di mari lontani, la sorella di Chopin che porta da Parigi, nascosto sotto la gonna, il cuore del fratello per seppellirlo nella natia Polonia, sono tutti personaggi che, nell’arco di poche, memorabili pagine, esprimono un sottile e misterioso male di vivere, una sorta di degenerazione, di disintegrazione dell’io che forse solo la partenza verso l’ignoto, il precario, il transitorio può aiutare a guarire.
I viaggi raccontati da Olga Tokarczuk non sono solo quelli fisici, da un luogo a un altro, ma sono anche quelli nella memoria (“con l’età la memoria comincia piano piano ad aprire i propri precipizi olografici, tirandone fuori ogni giorno, uno dopo l’altro come nodi su una corda, e poi ogni ora e ogni minuto […] - è come l’estrazione di scheletri antichi dalla sabbia: all’inizio si vede solo un osso, ma il pennello presto ne scoprirà altri, finché verrà portata alla luce un’intera struttura complessa: giunture e articolazioni che sorreggono il corpo del tempo”) e nella mente (le conferenze sulla psicologia di viaggio organizzate negli aeroporti, che ci fanno conoscere stravaganti e inverosimili specializzazioni come la psicoanalisi topografica e la psicoteologia di viaggio), i viaggi nell’aldilà (quieti e sommessi trapassi, come quello del vecchio professore in crociera nelle isole greche) e, soprattutto, i viaggi all’interno del corpo umano. Quest’ultima è forse la parte più curiosa e avvincente de “I vagabondi”. Partendo dalla similitudine tra il corpo umano e il mondo esterno (“come se si stesse risalendo un fiume alla ricerca della fonte, allo stesso modo con il bisturi si sale lungo i vasi sanguigni per trovarne l’inizio”), l’autrice, affascinata dall’anatomia al punto da preferire i musei scientifici, e addirittura le cosiddette “stanze delle meraviglie” e le collezioni di curiosità, ai musei artistici, ci parla di imbalsamazioni, di plastinazioni, di soluzioni chimiche per conservare i preparati organici, di lezioni anatomiche che sembrano uscite da un quadro di Rembrandt. Personaggi inventati, come il dottor Blau (che sogna la plastinazione di tutti gli uomini, perché ogni corpo umano merita di sopravvivere), e personaggi realmente esistiti, come il già citato Frederik Ruysch o Philip Verheyen, lo scopritore del tendine d’Achille (il quale, ossessionato dal dolore “fantasma” che lo affligge inspiegabilmente là dove una volta c’era la sua gamba, amputatagli anni prima per un’infezione, si ostina fino alla sua morte a dissezionare il suo arto, alla ricerca di una verità che non troverà mai), sono tra le figure meglio tratteggiate del romanzo.
“I vagabondi” è un testo strano, eterogeneo, difficile da classificare. E’ un libro di viaggi senza geografia, una sorta di spazio mentale in cui contano le persone più dei luoghi (“la meta dei miei pellegrinaggi è sempre un pellegrino”), in cui aneddoti, meditazioni, curiosità si affastellano in modo apparentemente caotico e anarchicheggiante (in linea con la personalità dell’autrice, che per natura si definisce attratta dall’imperfetto, dall’incompleto e dal difettoso). Non si capisce bene se sia più un romanzo, un diario, una autobiografia, una raccolta di racconti o un saggio. Sarebbe probabilmente piaciuto molto a Calvino per la prospettiva anticonvenzionale, fantasiosa e straordinariamente “leggera” con cui tratta i suoi svariati, apparentemente inconciliabili argomenti (dai racconti alla “Mille e una notte” alle scritte sugli assorbenti igienici, dai programmi televisivi notturni visti nella camera di un hotel ai pellegrinaggi per visitare le sante reliquie). Non nascondo che l’approccio per il lettore, stordito dall’eterogeneità e dalla dispersività di questo ponderoso volume, può essere respingente. Eppure, se si ha la pazienza di arrivare alla fine, si scopre che tutto possiede un suo ordine rigoroso, che tutto segue un coerente filo logico. E’ un po’ come quel gioco enigmistico in cui nella pagina vediamo all’inizio un incomprensibile guazzabuglio di puntini numerati, ma quando poi uniamo questi puntini tra loro viene fuori finalmente un disegno intelligibile di cui prima non riuscivamo neppure a sospettare l’esistenza. Proteiforme e poliedrico, fluido e instabile, “I vagabondi” è anche un libro a suo modo necessario, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui gli spostamenti di milioni di persone da una parte all’altra del pianeta mettono quotidianamente, disperatamente in discussione il concetto stesso di società e di convivenza civile.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    28 Marzo, 2019
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… Cambieremo il caso in destino.

«Chi aveva detto che le storie, se non si raccontano si disseccano a poco a poco, si sbriciolano e scompaiono nel nulla? L’unico modo per preservarle è raccontarle. Chi lo aveva detto?» p. 22

Due uomini di diversa età e con due diversi punti di vista sulla vita che si incontrano per caso, sono i nuovi protagonisti nati dalla penna precisa e curata di Gianrico Carofiglio e contenuti ne “La versione di Fenoglio”. Il primo è il Maresciallo dei Carabinieri Pietro Fenoglio, ex studente di Lettere presso la facoltà di Torino, che a sedici mesi dalla pensione a causa di una severa artrosi all’anca, con decorso quasi fulmineo, si vede costretto prima ad operarsi e poi a sottoporsi ad una serie di sedute di riabilitazione, il secondo non è altro che Giulio Crollalanza, reduce da un incidente stradale a sua volta operato per l’inserimento di una protesi all’anca, di anni ventitré, studente di giurisprudenza prossimo alla laurea (due esami e la tesi), figlio d’arte e con un futuro già spianato, un futuro che tuttavia non vuol intraprendere perché come comprendere cosa voler fare della propria vita, come comprendere quale strada sia giusta e quale sbagliata per noi?

«Ma sai, per quanto pensiamo di essere superiori a certi meccanismi, questi ci condizionano. Possiamo essere abbastanza lucidi da osservarli in noi stessi eppure incapaci di contrastarli davvero» p. 9

«Mi ha molto incuriosito. A volte mi domando in che modo la gente scopra la propria strada, perché io temo di non riuscire a trovare la mia. Ammesso che esista una mia strada. […] Non sono sicuro che il paragone funzioni. Si può giocare bene a calcio senza averlo visto in televisione. Non si può scrivere – credo – senza aver letto molto. Non ricordo chi ha detto che ogni vero scrittore è seduto su una catasta di libri altrui. Diciamo che la lettura è un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per scrivere qualsiasi cosa» p. 16-17

Come poter crescere? Come acquisire quella postura morale che significa accettare la responsabilità di essere vivi? È un qualcosa che ha a che fare con la dignità di essere donne e uomini di fronte al caos dell’universo, di essere sconvolti dai fatti che quotidianamente ci accadono, di essere preda di dubbi e incertezze che sembrano minare tutte le nostre sicurezze per incrementare quelle crepe che ci portiamo dentro e contro cui lottiamo. E forse, nessuno ha una vera risposta per tutti questi quesiti, oppure, più semplicemente, una risposta non c’è perché viene da sola o non arriva mai. Sta di fatto che tra una seduta di riabilitazione e l’altra, sotto la vigile e attenta sorveglianza di Bruna e in una Bari tra le retrovie, tra i due nasce un rapporto di complicità, una voglia di raccontare e di ascoltare, uno scambio sincero che in modo diverso arricchisce entrambe portando ad una personalissima crescita.
Perché se Giulio è in quella fase in cui non ha certezze sul futuro e su se stesso, non riscontra in sé qualità degne di nota o pregi di alcun genere, è schiacciato dalla famiglia e dalla volontà di un padre autoritario e di una madre accondiscendente e sua volta dura, Fenoglio è attanagliato dalle paure di un’età che sembra essere arrivata troppo presto e che sembra avere il sapore di una conclusione amara. Non si sente più un uomo appetibile, ha un matrimonio alle spalle finito male, ha tanti timori per quei giorni in cui non sarà più in servizio e per quei tentativi con cui cercherà di riempire il tempo e così, narra. Parla al ragazzo di come ha cominciato, del perché ha cominciato, del come si investiga, del com’è entrato nel nucleo investigativo, di quali sono i stati i casi più salienti della sua carriera, di quali sono gli stratagemmi per riconoscere un bugiardo da una persona che sta dicendo la verità, di come condurre un interrogatorio, dell’importanza dell’osservare e del non rifuggire, degli incontri, della casualità o non casualità di questi, dell'importanza delle storie e di come queste debbano essere raccontate per non essere perdute e molto altro ancora.
“La versione di Fenoglio” è un romanzo rapido e di facile lettura che si esaurisce in poche ore ma che lascia il segno. In questo è possibile ritrovare il Carofiglio delle investigazioni e della procedura penale che tanto affascina con i suoi gialli e le sue inchieste ma anche un Carofiglio più introspettivo che si interroga sulla vita, sul tempo che passa, sul destino, sulle insicurezze, sull’esperienza e tanto tanto altro. Aspetto quest’ultimo, che per mio gusto personale, ho particolarmente apprezzato.
Un perfetto mix tra le due essenze di uno scrittore che sa farsi apprezzare ogni volta con semplice genuinità.

«… Cambieremo il caso in destino.» p. 167

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Marzo, 2019
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Giallo al km 123

Un cellulare spento destinatario di messaggi d’amore disperati, un incidente al km 123 di via Aurelia da Grosseto verso Roma, un uomo, Giulio Davoli, gravemente ferito. Un sinistro che fa pensare ad un incidente, un testimone, il signor Corradini ex collaudatore con molta pratica e esperienza alla guida, che afferma con assoluta certezza che si è trattato senza ombra di dubbio di un tamponamento volontario, "non una sbandata bensì una correzione di sterzo calcolata al millimetro". Il conducente ha cioè preso l’altra macchina non centrandola per aver la certezza di spingerla in avanti in modo da farla ruotare su se stessa e farla finire nella scarpata. Una moglie dal temperamento freddo che non esita ad attuare la sua vendetta nel momento meno aspettato tanto da destare persino qualche sospetto su un possibile coinvolgimento nel tentato omicidio del coniuge. Nondimeno, altri fatti misteriosi di minacce e altre morti, si susseguono. Che sia lei l’artefice di tutto? Qual è il vero ruolo della ventottenne Ester? Che sia stata soltanto “amante” del cinquantacinquenne Davoli oppure il suo atteggiamento apparentemente leggero, frivolo, preda degli stati emozionali più eterogenei (dalla gelosia all’amore, alla frustrazione), non aveva altro che lo scopo di celare astiose e implacabili intenzioni?
Un giallo perfettamente architettato questo breve romanzo di appena 138 pagine e interamente articolato attorno all’infedeltà coniugale e a quel circolo vizioso che ruota ininterrotto attorno al km 123. Un testo di breve lettura dove gli elementi propri di Andrea Camilleri si fondano con perfetta armonia e si ritrovano tutti. Una storia, ancora, rapida e di facile scorrimento che purtroppo si esaurisce in appena un’ora e mezzo ma che ha la capacità di invogliare alla lettura il conoscitore dall’inizio alla fine. Quest’ultimo è infatti curioso di apprendere dell’arcano, della sussistenza o meno di una serie di omicidi concomitanti, di chi è effettivamente l’artefice del piano che ha portato alla rovina del Davoli e alla “libertà” di altri.
Non certamente il miglior Camilleri ma comunque un elaborato piacevole, godibilissimo e dove alcunché è come appare.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    22 Marzo, 2019
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La gentilezza dello sguardo rivolto alla vita

«La risposta l’avrebbe trovata presto, probabilmente. E forse, crescendo, l’avrebbe trovata anche per le altre domande. Domande di ogni tipo. Quale mazza usare? Esisteva davvero un museo del panino? Perché ai tuoi ebrei non piaceva giocare a golf? Il padre aveva avuto paura o era solo concentrato a bordo del De Havilland? E Mussolini, come sapeva il fatto suo? Perché il cibo usciva così diverso dall’altra parte del corpo? Come si evitava di far cadere la cenere da una sigaretta accesa? Il Paradiso era in cima al camino come sospettava? Come mai il visone era così ostinatamente attaccato alla vita?» p. 18

Jean Serjeant nasce quando la Prima Guerra Mondiale è conclusa e i primi rudimenti per la Seconda iniziano a fiorire, cresce con il mito dello zio Leslie, imbonitore che la trascina nei suoi peregrinaggi, durante le partite di golf o che ancora le insegna il rito segreto per non far cadere la cenere della sigaretta, conosce Thomas – Alba Due – Prosser, sergente-pilota di Hurricane IIB che in quella notte del giugno del 1941 sui cieli francesi volgendosi a est per guardare la Manica, si accorse di quell’arancia del sole viscosa e già spuntata all’orizzonte, per poi lasciarsi rovinare in una discesa di qualche migliaio di piedi per esser risorpreso sempre da quel miracolo circolare che per la seconda volta si levava dallo stesso punto dello stesso mare per regalargli un’altra alba, una seconda, a pochi minuti dalla prima, dimostrando che sì, tutto era possibile, e conferendogli quel soprannome di battaglia che sempre lo ha accompagnato, si sposa con un uomo che crede di amare quando alla fine di sentimenti d’amore alcunché comprende, e dopo vent’anni di matrimonio, all’età di trentotto anni, resta finalmente incinta di Gregory, circostanza, che la porta a distaccarsi da quell’unione fine a se stessa e a crescere il figlio da sola.
Jean è una donna ordinaria. Il suo è un aspetto normale, avvalorato da un carattere silente che non trabocca mai di emozioni e che lascia scorrere gli eventi per quel che sono, eppure, ella è anche una donna che volge al mondo uno sguardo diverso, un occhio fatto di curiosità. E tutto ha inizio proprio in quegli anni giovanili in cui tanti erano i quesiti e ben poche le risposte, tanti erano gli interrogativi di cui la maggior parte privi di rilevanza. Questa ingenuità e questa fame di sapere le fanno da bussola nella vita adulta, un’esistenza incolore e comune fatta di fallimenti, insoddisfazioni, momenti sfumati, attimi trascorsi, e tentativi di comprendere quell’universo maschile così anomalo e incomprensibile anche con avvicinamenti alla sfera femminile diametralmente opposta. La sua è una vita lunga, che mentalmente può essere suddivisa in tre sezioni che proprio nell’ultima confluirà in una saggezza ricercata e tuttavia inaspettata, in un coraggio imprevisto rivolto al cercar di dar risposta, con quel suo percorso su questa terra, a domande mai esplicitamente formulate quali: come fa la gente comune che conduce un vivere anonimo e mesto a proteggersi dal tedio? Come può, se ne è capace, render unica questa nostra presenza in questo mondo? Com’è riuscito in questa impresa così sorprendente il sergente-pilota Thomas Prosser? Com’è riuscito a renderla eccezionale? Che la risposta ad ogni quesito sia imparare a scorgere lo straordinario nell’ordinario, il magico nel quotidiano?
Con uno scritto avvalorato da una penna pregiata, curata in ogni minimo dettaglio e capace di costruire personaggi solidi e vividi nella mente del lettore, Julian Barnes ci propone un testo apparentemente di facile e veloce lettura ma, la cui essenza e l’insita morale, sopraggiunge con tutta la sua forza soltanto a distanza di tempo dalla sua conclusione. Non stupisce pertanto, nel proseguire del componimento, il ritrovarsi più volte a chiedersi dove effettivamente egli voglia arrivare, quale forza abbia questa donna così curiosa e così eclettica che tanto desidera sapere, che tanto si è chiesta, che tanto si è risposta e che soltanto alla fine è arrivata a porsi quelle che ritiene essere le domande dal giusto significato, dal corretto epilogo, quale sia, ancora, il lascito di questa vita incolore ma ciò nonostante ricca di colore, non stupisce, dunque, coglierne le vere sfumature a giorni di distanza, quando la mente, confusa e stordita, torna a riproporsi quegli stessi dubbi e quelle stesse questioni che quegli occhi rivolti al cielo solevano proporsi.

«In passato credevo di conoscere le risposte – disse Jean. – Ecco perché me ne sono andata. So cosa fare, pensavo. Forse devi convincerti di conoscerle le risposte, altrimenti non combini mai niente. Pensavo di conoscerle quando mi sono sposata; o meglio, credevo che sarei stata capace di trovarle. Pensavo di conoscerle quando me ne sono andata. Adesso non ne sono più tanto certa. O meglio, adesso so quali sono le risposte a domande diverse. E magari va così: sappiamo solo le risposte a un certo numero di cose a seconda del momento» p. 145

«- Oh, ricordarle tutte, adesso è una parola! Per esempio, volevo sapere se esisteva un museo del panino e, se sì, dove si trovava. E perché agli ebrei non piaceva giocare a golf. E come sapeva il fatto suo Mussolini. E se il paradiso era in cima al camino E perché il visone è così ostinatamente attaccato alla vita.
- E sei riuscita a trovare qualche risposta?
- Non ne sono sicura. Non ricordo più bene come sia andata: se abbia trovato le risposte o abbia perso interesse nelle domande. Suppongo, che crescendo, mi sia resa conto che l’idea che un museo conservasse il panino uova e crescione della regina Vittoria fosse una vera stupidaggine, e poi ho scoperto che agli ebrei il golf non piaceva, ma erano i golfisti che non sopportavano gli ebrei. Quanto al paradiso in cima al camino: forse a un certo punto ho imparato che ci sono domande che devono essere formulate diversamente per ottenere una risposta. E non ho mai scoperto perché il visone è così ostinatamente attaccato alla vita» p. 176

In conclusione “Guardando il sole” di Julian Barnes è un elaborato che nasconde al suo interno tanti quesiti filosofici, che richiede una lettura centellinata, che arriva “a distanza” di tempo, che suggerisce di vedere e di chiedersi. Vedere perché talvolta basta schermarsi gli occhi con le mani che perfino il sole può diventare un oggetto di osservazione tra gli interstizi delle dita schiuse, chiedersi, magari anche errando, ma pur sempre curiosando perché la vita è così effimera, labile, imprevedibile, lieve e dolorosa al contempo, che richiede di essere vissuta, assaporata con gli occhi genuini di un bambino.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    21 Marzo, 2019
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un rifugio devastante

Il cuore e la tenebra è l’ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia. Un romanzo del tutto differente dai suoi precedenti. Un testo corposo, che induce alla riflessione intrinsecamente difficile e complicata. Apre scenari e domande di grande spessore narrativo. Penso che nulla renda meglio l’idea di questo testo, se non le parole stesse dell’autore in una nota a calce:
“Il cuore e la tenebra è la storia di un uomo che, non tollerando più il suo presente e non vedendo più alcun futuro, sceglie di rifugiarsi nel passato. Ma non in un passato per così dire di comodo. (…) no: lui sceglie il cuore di tenebra dell’Europa. Da artista e uomo di spettacolo, resta affascinato dallo “spettacolo”messo in scena da Hitler. Vedi Joseph Conrad in Cuore di tenebra. (…) Incapace di liberarsi dal senso di colpa che lo attanaglia dopo aver distrutto la sua famiglia, Federico Rallo si fa carico di una colpa ancora più grande. E’ il suo modo di chiedere perdono.”.
Dunque la storia di un figlio, Giulio, che apprende della morte del proprio padre a Berlino. Il suo non è un padre qualsiasi: famoso direttore d’orchestra, dopo aver vissuto per molti anni a Milano, si trasferisce a Berlino, in seguito alla nomina di direttore della Filarmonica. Ossessionato, però, da una perfetta idea di esecuzione della Nona Sinfonia diretta da Furtwangler nel 1942 per il compleanno di Hitler, costringe gli orchestrali a prove indicibili per ripeterla identica. Fino a quando la successiva rivolta lo costringe al licenziamento. Da lì in poi la rivalutazione del nazismo diventa, per lui, una:
“non tanto come dottrina ma come …. Concezione dell’esistenza.”
Per Giulio un travaglio incomprensibile, una dispersione nel nulla che non comprende e che lo sconvolge. Si rende conto di non aver mai conosciuto a fondo il proprio padre E’ smarrito e quando apre il suo computer si trova davanti a file terribili:
“Apro il Mac .Lo schermo si illumina. Sullo schermo, tutto nero, leggo una frase: WIR KAPITULIEREN NICHT, NIEMALS. Noi non capitoleremo, mai. Poi ai quattro angoli dello schermo, quattro cartelle. La prima è intitolata NAZI. La seconda WORK. La terza FUN. La quarta KINDER. Ovvero …. BAMBINI. Oh mio dio. Vengo attraversato da un pensiero terribile”.
Una discesa negli inferi per comprendere. O forse no. Infatti:
“Fu quello l’istante in cui l’incanto del mondo si spezzò. (…) E come se continuando a leggere ciò che hai scritto mi inoltrassi nel tuo cuore di tenebra.”
Un romanzo che narra di una fuga. Una fuga:
“Da una realtà che non sopportavi più. Ti sei, cioè, ti eri come rifugiato nel Terzo Reich. Aggrappandoti al nazismo. Santo cielo. Per aggrapparsi al nazismo uno deve stare male, molto male.”
Un libro che mi è molto piaciuto. Non è il solito, ironico, Culicchia a cui siamo abituati, ha una profondità di essere e di esistenza al di fuori del comune. Una lettura per certi versi sconvolgenti per il suo intrinseco contenuto, una prosa diretta e colta. Un testo che affronta con sapienza narrativa svariati temi importanti: quali la disgregazione della famiglia,l’amore per i figli, la morte e il distacco, ma anche:
“l’impossibilità di fare davvero i conti con la nostra finitezza, l’egoismo insito nella nostra stessa natura, il ritorno vero o presunto di ideologie che hanno segnato il Novecento, la linea d’ombra che separa il Bene dal Male.”
Un romanzo emozionante, che riflette sulle grandi ideologie, appunto, sul “trionfo della volontà” sull’essere cittadini del mondo. Un mondo infinito per un uomo finito e forse anche miserabile, ma dotato di una essenza unica e totalizzante: il cuore.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Marzo, 2019
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“Ogni parola ha una sua indipendenza e una sua vit

Soffermarsi sul significato di una parola, studiarne le sue origini, approfondirne l’uso che se ne è fatto nel tempo significa effettuare una ricerca storica che ne evidenzi la capacità di cambiare in un vitale processo dinamico.
È attraverso l’esame dell’etimo di dieci parole, tra le più significative nell’uso quotidiano, che, con il suo saggio “Le parole sono importanti”, Marco Balzano riesce a dimostrare come ognuna di esse abbia una storia che muta con il passare del tempo, come si adegui alle esigenze della vita contemporanea, pur mantenendo spesso intatta l’origine e il significato primario. Come ogni individuo conserva in sé l’imprinting della sua origine, pur mutando nel corso della vita con l’accumularsi delle esperienze, divenendo talvolta una persona assai diversa da quella che era in principio, così la parola si evolve e assume vari significati secondo l’uso che se ne fa, o secondo l’ambiente a cui si riferisce. La parola non è solo dunque una convenzione, è un contenitore che accoglie sfumature diverse: la parola dell’agorà non può essere la stessa della piattaforma del web. Essa dunque ci dice molto sui tempi vissuti come su quelli presenti, ha una voce e racconta storie che fanno la Storia.
“Le parole sono importanti” è un bellissimo studio che si addentra nel campo letterario, filosofico e sociologico con grande competenza e che si sofferma su considerazioni di tipo politico, come quando affronta il tema della democrazia e del dialogo o il significato del termine resistenza.
Un’opera breve consigliatissima non solo agli studiosi di filologia, ma anche al lettore che ami conoscere meglio il mondo che lo circonda e trovare risposte a molteplici interrogativi.

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