Le recensioni della redazione QLibri
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Storia di un'ossessione
Avete presente il racconto "Morte di un impiegato" di Cechov? Ecco se vi capiterà di leggere "Kaddish.com" troverete in Larry (o Rab Shuli), lo sfortunato e ossesso impiegato. Per una cosa da nulla, pensate, uno starnuto! perseguita con insistenza una "Sua Altezza" per scusarsi di avergli bagnato/sputato involontariamente la testa calva con i droplet -passatemi il temine in auge- del proprio starnuto. Non contento dalle scuse accettate in fretta, con la brama russa di "spiegarsi meglio", l'impiegato finisce per assillare questa "Altezza" e mano a mano che le risposte diventano più scoccianti anche il suo impegno nel voler chiarire la cosa diventa sempre più ossessivo fino a causarli una morte di crepacuore. Per uno starnuto non esaustivamente spiegato e scusato dall'impiegato. Qui, abbiamo la stessa situazione paradossale che, più che kafkiana (nota presa dalla copertina) trovo sia per l'appunto, "cechoviana".
In "Kaddish.com" si ha la stessa situazione: Larry ragazzo trentenne e nonconformista, dovrebbe recitare il kaddish per l'anima di suo padre che viene a mancare, ossia una preghiera ebraica di lutto, più volte al giorno, per la durata di unici mesi, come primogenito maschio. Ma da ebreo non praticante non ci pensa minimamente a imbattersi in una tale impresa quindi delega un estraneo, sul sito Kaddish.com a farlo nel suo posto dietro pagamento. La situazione si complica e diventa paradossale quando, vent'anni dopo, Larry- ormai Rab Shuli fedele ebreo che vive una vita secondo tutte le regole e usi del caso, diametralmente cambiato, si rende conto dell'errore commesso e quindi cerca di rintracciare sul vecchio sito la persona che aveva pregato al posto suo, per riprendersi i propri diritti di primogenito per la sua serenità spirituale. E da qui parte l'aspetto "cechoviano" del libro: più cerca e più si inabissa nelle sabbie mobili, per una questione talmente da nulla, proprio come lo starnuto dell'impiegato. Certo, qualcuno dirà che non è proprio una cosetta da poco, per un fedele tenace rappresenta una cosa importante e sono d'accordo, ma il motivo perde in valore e importanza per via di tutte le trasgressioni morali e non solo, che Rab Shuli commette in questa sua ricerca. Fa cose ben peggiori per salvaguardare un ideale nel quale forse non crede nemmeno lui e che sta diventando solo un'ossessione compulsiva, fino a raggiungere un epilogo tragicomico nel finale, in cui la porta ad uno stato parossistico.
A mio parere l'autore è ancora acerbo, l'idea di base è carina ma il modo in cui è stata sviluppata non mi ha soddisfatto. Mi sono mancati i dettagli della sua evoluzione come personaggio principale: nella prima parte troviamo un Larry concupiscente e ateo per poi ritrovarlo nella seconda parte come Rab Shuli sposato con due figli e che segue scrupolosamente la sua fede ed è lontano da ogni mezzo elettronico senza dire molto sul perché di quella evoluzione o quanto meno con un minimo di introspezione. Con la stessa facilità lo ritroviamo nella terza parte smanettare sul PC e "sporcare" l'anima candida di un dodicenne che lo aiuta nella sua assurda ricerca. Nemmeno gli altri personaggi sono descritti meglio e domina anche una certa contraddizione per quanto li riguarda e se è stata voluta, non ha saputo però evidenziarla. I dettagli non sono ben curati, anche se su alcuni sì è impegnato di più a inserirli con un certo criterio e simmetria (vedi il numero delle anime servite su kaddish.com). La comicità è debole, la prosa non riesce a raggiungere l'ironia e la scioltezza necessaria a far scattare la risata come per esempio succede nel "Lamento di Portnoy"di Philip Roth, dove si ha a che fare sempre con un personaggio ebreo, giovane e ribelle come Larry, siamo lontani anni luce dalla prosa frizzante e brillante di Roth. Un'altra cosa che non mi è piaciuta è stata l'abbondanza di termini ebraici, troppi, tradotti nel glossario a fine libro e non a piè di pagina (questo però dipende dall'editore ovviamente ed è alquanto scomodo interrompere la lettura per andare a fine libro e cercare l'elenco alfabetico la parola). Volendo si può anche farne a meno perché non di rado vengono tradotte proprio nel testo e si può intuire ma altre volte no.
Per concludere, un libro curioso, molto "ebraico" sia per la terminologia utilizzata ma anche per le varie descrizioni, con una seconda parte decisamente più piacevole rispetto alla prima e anche con qualche spunto interessante sull'attualità, ma frutto di uno scrittore che, a mio avviso, ha ancora un po' di strada da fare.
"Per svelare i segreti della Torah occorre essere disciplinati. Occorre lavorare e pensare. Ma questo? Basta sapere come rivolgere la domanda, e tutto il sapere diventa pigramente tuo.(...)E qui in queste macchine si trova quella conoscenza esatta - perché i pubblicitari, i governi e quelli con buone e cattive intenzioni possono usarla come ritengono opportuno. E' tutto accessibile, necessità e sogni, peccati e segreti, tanto che Gavriel, battendo sulla tastiera, può scoprire dove si trova una persona in quell'istante, un'umile persona che non vuole farsi trovare."
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I luoghi a cui apparteniamo
Nel locale fumoso la notte si accompagna alle note di “I love you a thousand ways”.
Bellissima, i capelli scuri le cadono sul viso stirato in un sorriso assente e deciso, accavalla le gambe e si scoprono le ginocchia. Troppo pesante il trucco sugli occhi già grandi, la scollatura profonda di quell’abito rosso così stretto che pare strapparsi, le cuciture tese sull'ampio ventre al termine di una gravidanza.
La fanno ballare, la fanno saltare, la fanno girare su se stessa, le offrono un drink dopo l’altro mentre lei, dolcemente, acconsente ancora più pallida, più sudata che mai nel vestito logoro, sempre sorridente.
Non piange più, superata una certa soglia di dolore dicono che nemmeno le lacrime diano sollievo.
Se non con te, piangerò io per te, “I love you a thousand ways” non è una canzone d’amore stanotte, è l’urlo di guerra sanguinoso ed ignobile con cui ti condanneranno a risarcire i suoi peccati.
Dovrebbe essere un uomo il protagonista di questo romanzo di Haruf, eppure il legame più forte si è creato nei confronti di una donna.
Il suo personaggio carismatico, potente, coraggioso ci conduce nelle strade di Holt, dove giustizia non esiste. Non nei tribunali, che permettono ai colpevoli di imboccare la migliore via di fuga. Non nella gente, che pur di vendicarsi dei torti subiti e dell’inadeguatezza del sistema si accanisce sugli innocenti rivelandosi impietosa, cieca, vorace. Colpa ed espiazione sono un territorio sconosciuto per chi strafottente e perentorio si ripresenta per vincere di nuovo.
Scorrono veloci ed accattivanti le pagine in una cittadina agricola della provincia americana, i campi coltivati a mais nascondono punte di freccia perdute dai nativi nelle immense praterie. L’amarezza ed il peso di un destino ormai scritto si addensano in una nube di polvere che si appiccica addosso fino a lasciarci soffocare, ci verrà mai concesso un ultimo respiro?
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Macerie della Storia tra sentimenti e radici
Siamo tutti portatori d’acqua, sia essa quella con cui si riempie il secchio a una sorgente o la stessa linfa vitale che costituisce per la maggior parte il nostro organismo. Da tale considerazione, in apparenza scontata e banale, è forse possibile prendere le mosse per recensire questo romanzo di Atiq Rahimi che catapulta il lettore in una storia drammatica e affascinante tra Europa e Asia.
In verità, sono due, e ben distinte, le vicende narrate che procedono in parallelo all’indomani dell’11 marzo del 2001, data funesta che resterà marcata a fuoco negli annali della barbarie e dell’oscurantismo più incredibili. Chi non ricorda, infatti, l’abbattimento a suon di dinamite dei due Buddha, giganteschi e millenari, scolpiti nella roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, a opera del regime talebano all’epoca al potere?
A Kabul, ancor prima dell’aurora, Yussef inizia quella giornata come una delle tante della propria grama esistenza di fatiche. Curvo e ingrigito anzitempo, il pover’uomo fa il portatore d’acqua, mestiere che ha ereditato dal padre, al pari di un bastone di giunco e un otre di pelle di capro. Da quando è esplosa la siccità, e non nevica più nemmeno sulle montagne dell’Hindu Kush, il suo lavoro è stato rivalutato poiché solo lui, assurto a una sorta di ruolo di “salvatore degli assetati”, conosce la via sotterranea di un’antica sorgente avvolta nella leggenda e può così portare l’acqua alla moschea e alle famiglie del quartiere; persino il mullah, che impartisce ordini e sguinzaglia i soldati alla ricerca di fedeli da trascinare a forza alla preghiera dell’alba, dipende da lui per gli approvvigionamenti idrici. Della famiglia non gli resta più nessuno, se non la giovane e silenziosa cognata, Shirin, che suo fratello maggiore ha lasciato a casa partendo tempo addietro alla volta dell’Iran e sulla quale ora il portatore d’acqua ha in teoria diritto di vita e di morte. A una infinità di chilometri di distanza, a Parigi, un altro afghano, Tamim, si appresta ad alzarsi con il proposito di abbandonare moglie e figlia per trasferirsi ad Amsterdam, città dove si reca abitualmente per lavoro e ha una relazione extraconiugale con una misteriosa ragazza, Nuria, accanto alla quale desidera ora vivere. Da lunghi anni è soltanto “un afghano impagliato” che nell’esilio ha sepolto ricordi e nostalgia, pure il suo stesso nome, sostituito dal più occidentale Tom, per travestirsi da cittadino francese che, tuttavia, continua sempre a smarrirsi fra le due culture; la lingua persiana si ostina a dominarne pensieri ed emozioni, sebbene questi vengano poi espressi in quella francese. Una strana sensazione di déjà-vu, inoltre, scandisce la sua vita senza gettarlo però nell’inquietudine, facendolo anzi sentire padrone del tempo e conscio come di una vaga profezia dal sapore del sogno, mentre la propria perenne condizione di esiliato affiora non meno consapevole.
“[…] Scrivendo in persiano si rende però conto che le sue parole francesi, prese in prestito fresche fresche dai dizionari, non hanno mai vissuto dentro di lui. Sono estranee ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti… in esilio nella sua anima afghana, che lui vorrebbe tanto travestire da intelletto francese. Invano. […]”
Attraverso una prosa molto bella e di grande profondità, Rahimi, in asilo politico in Francia ben dal 1984, ci parla di sentimenti e radici, porgendo al lettore pagine intense in cui il suo Afghanistan emerge in tutta la miseria (non solo materiale) della propria storia recente, ma anche come luogo di memorie, e in un certo qual modo pure di rimpianti, smarrito in una lontananza ormai satura di macerie dell’anima insanabili e ridotte alla stregua di quelle lasciate dai maestosi Buddha di Bamiyan. L’intreccio delle vicende dei due protagonisti, nell’alternanza ben studiata dei capitoli, offre una lettura interessante da cui non si fa fatica a lasciarsi conquistare; in particolare, della storia di Tamim/Tom colpisce questa continua fuga dalle origini per trovare rifugio in menzogne, le proprie e altrui, alle quali è preferibile credere pur di non affrontare la fragilità del dubbio e d’improvviso viene naturale domandarsi se in questo personaggio tormentato non si debba vedere, magari limitatamente ad alcuni aspetti, un alter ego dello stesso autore, considerato il suo status di naturalizzato francese. Di certo, come portatore d’acqua, l’esiliato in Francia non può essere d’aiuto né a se stesso né agli altri poiché la sorgente della propria linfa vitale si è prosciugata, come infine qualcuno gli sentenzia, mentre in patria Yussef, abbandonatosi alla stanchezza e all’ossessione amorosa, rifiuta con un moto di ribellione di riempire ancora il vecchio otre. Sebbene sfuggenti e quasi invisibili fin dall’inizio del romanzo, entrambi i personaggi femminili di Shirin e Nuria risultano molto ben riusciti, così come anche quello del venditore indù Lala Bahari, suggellando una dimensione doppia, irreale, onirica che nella parte conclusiva disorienterà il lettore fino alle tre scarne notizie di cronaca riportate in chiusura.
Una bella novità editoriale, già pubblicata Oltralpe lo scorso anno, forse priva negli ultimi capitoli dello stesso incanto che caratterizza i primi, ma un’opera comunque più che meritevole di lettura che, oltretutto, ha il merito di riportare l’attenzione occidentale sul dramma, quello afghano, spesso dimenticato e, vista la forte instabilità dell’area, in verità mai concluso.
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Luna & Febo
«Giura che non mi dimenticherai. Giura su ogni scrigno di noce, e su ogni chicco di uva e grillo nascosto e stella del firmamento. Giura per il fiato che manca quando ci tuffiamo nella paglia, giù per dieci metri dal granaio, e dopo tanti voli siamo un po’ pesti ma felici.»
Protagonista di questo nuovo romanzo a firma Stefano Benni è Febo, adolescente di appena tredici anni che vive in un borgo sull’Appennino insieme ai nonni. All’ombra dei Castagni Gemelli tante leggende si susseguono, alcune paurosissime, altre di grande umanità e intensità. Tanti sono i personaggi che si susseguono che vanno da Slim e i sette fratelli di Carta a Zanza passando per Bue e il padre Chicco, ma tra tutti è lei ad essere la vera co-protagonista: Luna. Luna che vive con ‘Ca Strega, Luna che è selvaggia, Luna che è muta o forse muta non è ma dalla sua bocca non proferiscono mai parole, Luna che in uno di quei tanti lanci sulla paglia cade male e si ferisce alla schiena restando costretta su una sedia a rotelle. E anche se a poco a poco sente nuovamente i suoi piedi e anche se a poco a poco quella sensibilità arriva, non ne fa parola con l’amico di sempre. Poi, il mutamento, il rinnovamento, poi una profezia in un pomeriggio dei tanti su una mano di ferro. I destini che si separano, le strade che si allontanano per incroci e sentieri diversamente percorsi.
Luna si risveglia in un istituto di suore in cui potrà recuperare la voce grazie al dottor Mangiafuoco, Febo si ritrova in città dove porta avanti i suoi studi.
Passano gli anni, si susseguono gli avvenimenti. I due eroi sono separati eppure legati da un filo invisibile che li riporterà a ritrovarsi e riperdersi in un continuo di incontri preceduti da una separazione obbligata che mai risparmia, nemmeno quando, quell’unica volta, pensano di poter invece davvero restare insieme.
«Anche perché mi piaceva andare al fiume a pescare. E non è vero che è una cosa diversa, perché un amo in bocca fa male, e non è vero che i pesci non soffrono perché sono muti, come mi facevi capire tu Luna, quando ti mostravo le mie prede.»
Si ritrovano adulti, si rincontrano. Lei in quel del gelo nordico, lui in quel del caldo tropicale. Ancora una volta agli antipodi. Lui che ha fatto della passione per l’ecologia il suo lavoro e che adesso è padre, lei che ha fatto della sua assenza di voce la voce di altri dedicando la sua esistenza all’aiuto del prossimo, all’insegnare la lingua dei segni a chi non ha altri strumenti. Si ritroveranno per quell’ultima separazione che incombe e che non risparmia.
«Ma non scriverò più. Sognerò, piuttosto. Sogno e ti vedo mentre con aria di sfida mi dici “vedi, vado a testa alta, più in alto di tutti”. E il ramo cede e caschi dal fico. E io ragazza muta vengo a chiederti con i segni: ti sei fatto male? Poi ti aiuto a rialzarti, e ce ne andiamo. Dove? In quale pianeta? In nessun altro pianeta. Qui. È qui che siamo stati un po’ felici.»
Con “Giura” il lettore è partecipe di un romanzo in cui tutte le caratteristiche e tematiche tipiche dell’autore non vengono a mancare. Se già conoscete e amate la sua penna vi sentirete a casa. Non mancheranno luoghi e situazioni surreali avvalorati da quel giusto tocco di ironia e malinconicità, di brio e di nostalgia, di profezia e di fato, di destino e di vita. Il tutto in un caleidoscopio di personaggi che colorano le pagine con le loro variopinte sfumature e peculiarità. Il tutto in un mix di circostanze che, tra un tono leggero e l’altro, affrontano anche problematiche attuali e vicine a ogni uomo. Se al contrario non amate lo stile narrativo dello scrittore e non siete avvezzi a scritti caratterizzati da irreale e oniricità sarà un po’ più faticoso entrare nelle pagine, diventarne davvero partecipi, farle proprie.
Immaginario, visionario, fondato su quel filamento invisibile che unisce anime talvolta parallele.
«I due giganti erano felici di essere morti insieme. Ma anche se noi eravamo insieme e abbracciati, lo sapevamo. Ci avevano diviso, ancora una volta.»
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No = a chi non è avvezzo alle sue storie e alla suo stile.
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Dove sono le ossa?
Ho sempre associato Temperance Brennan alle ossa. In tutti i suoi romanzi mi hanno sempre divertito e intrigato le molte pagine passate in un laboratorio a esaminare ossa, ricostruire cadaveri, cogliere indizi e dare credito a intuizioni. Questo secondo me distingueva e dava un qualcosa in più ai gialli di Kathy Reichs rispetto a molti degli altri presenti sugli scaffali delle librerie. La Tempe di questo romanzo, invece entra ben poco in sala autopsie. Diciamo che non è più quella dei primi tempi. E' alle prese con un aneurisma che le provoca forti mal di testa e la rallenta, pur non riuscendo a fermarla. Si inimica il suo nuovo capo e finisce per essere cacciata dall'istituto di medicina legale, ma anche questo non la fa demordere. Le sue indagini assumono una connotazione un po' diversa. In questo romanzo diventa più un investigatore tradizionale che uno scienziato. Questa volta non sono le ossa a parlare e a sussurrarle i loro segreti, ma sono persone che ancora respirano.Si lanca in pedinamenti, interrogatori di testimoni, si improvvisa esperta del cyber spazio. Insomma un sacco di roba, anche gradevole da leggere, ma non la solita Brennan. La storia è piuttosto complessa. Partiamo del ritrovamento di un cadavere non identificabile a causa dello scempio che sul suo viso hanno fatto un gruppo di maiali. Convinta che l'uomo sia lo stesso che alcune sere prima la osservava nel buio e che sia anche la stessa persona che le ha inviato le foto di un bambino scomparso l'osteopatologa decide di indagare da sola. Affiancata da un poliziotto che stenta a starle dietro, così si lancia in quelli che all'inizio sono solo tentativi. Spara nel buio, finché riesce a mettere assieme una storia che per quanto incredibile si rivela essere parzialmente vera. La verità completa arriverà solo più tardi e sarà peggiore di quanto ipotizzava.
Nel complesso ho trovato questo giallo discreto: parti un po' faticose e pesanti si alternano ad altre pagine agili e piene di sorprese. Durante la lettura ho pensato più volte che ci fossero troppi argomenti diversi messi assieme. Pedofilia, truffe informatiche, traffici loschi, omicidi e chi più ne ha più ne metta. Prima di arrivare all'ultima pagina però tutto è stato spiegato: ogni pezzo è andato al suo posto, ogni incongruenza è stata spianata. il credibile è rimasto tale e l'incredibile è diventato per lo meno ipotizzabile.
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Come le stelle alpine
Il delicato compito, assolto egregiamente da Ilaria Tuti, di far conoscere il ruolo assunto dalle donne friulane durante la Grande Guerra, non era esente dal pericolo più strisciante e latente ovvero quello di non contribuire affatto a restituirne la memoria ma, al contrario, paradossalmente, di impoverirla ulteriormente con un racconto poco degno di nota. E invece, la scrittrice friulana, conosciuta e apprezzata da molti lettori per i suoi precedenti romanzi con protagonista, guarda a caso una donna, il commissario Teresa Battaglia, e la sua terra, il Friuli , riesce a restituire il vero senso della partecipazione femminile al conflitto e la misura di tale impegno, lasciando il lettore attonito rispetto al coraggio e alla generosità di queste donne. E in realtà, dietro la storia particolare legata agli anni del conflitto, vi è la storia millenaria della donna: “la nostra capacità di bastare a noi stesse non ci è riconosciuta, né concessa. L’abbiamo tessuta con la fatica e il sacrificio, nel silenzio e nel dolore, da madre in figlia … ”; ora l’occasione di essere audaci e coraggiose potrà essere palese agli occhi di tutti perché questa volta a chiamare è la guerra, compito solo maschile. È facile riconoscere l’importanza della donna, ma peggio la si dà per scontata, quando a lei è affidato un ruolo cristallizzato, la cura della casa , dei bambini, o ancora dei vecchi, la fatica del tirare avanti in assenza dell’uomo, diverso è invece riconoscerle pare dignità in un terreno mai sperimentato prima: quello delle trincee, dei camminamenti, dei sentieri esposti ai cecchini austriaci … Questo fanno le donne in questione, le Trogarinnen, le Portatrici. Munite solo della loro capiente gerla e degli scarpetz, scarpe fatte di stracci sovrapposti, aderenti alla dura roccia, camminano dal paese fino al fronte e trasportano viveri, medicinali, munizioni portando con sé il canto, la gioia e perfino la speranza. Sono mamme con il seno turgido e dolorante, lasciano i loro piccoli a casa dopo la poppata, sono figlie devote con il pensiero del malato che le attende a valle, sono giovani donne innamorate in attesa che la guerra restituisca loro il ragazzo, vivo. Fra tutte spicca Agata Primus, la sua voce narrante permette di focalizzare l’attenzione del lettore su una storia particolare, la sua, che ha il dono di essere l’emblema di tutte le restanti. Sullo sfondo le vite delle vere portatrici sulla scorta di un’ accurata ricostruzione storica che è stato possibile realizzare a partire proprio dai documenti che la memoria , questa volta maschile, ha voluto conservare e perpetrare. Libro bello, delicato e doloroso, necessario per conservare la memoria di una pagina importante della storia d’Italia, stavolta scritta dalle donne.
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Una Justine contemporanea
Joyce Carol Oates è una scrittrice di spicco nel panorama letterario americano, sia per la sua prolificità ma anche per la qualità della sua prosa. Questo romanzo è il secondo che leggo, dopo "Scomparsa" che mi era piaciuto molto, e le mie alte aspettative non sono state deluse. Caso vuole, sfortunatamente, che la sua uscita in Italia coincida con un periodo di intense proteste in America dovute all'uccisione di George Floyd e quindi la lettura di questo libro è stata ancor più sentita per quanto mi riguarda.
Cosi come in "Scomparsa", anche qui la protagonista è una ragazzina, Violet Rue, che rappresenta anche la voce narrante e che per buona parte del libro è quasi una Justine di De Sade. Una vittima della società, della sua famiglia, dell'ambiente che frequenta e infine del suo amante. Tutte le volte che sembra essere "al sicuro", il malvagio è dietro la porta. Allontanata dalla sua famiglia all'età di dodici anni, intraprende un percorso di sofferenze ma anche di crescita e quindi di nuove consapevolezze. Il romanzo è suddiviso in tre parti: nella prima viene descritta la situazione scatenante, la "deflagrazione della bomba", nella seconda le macerie e infine, nella terza, si cerca una ricostruzione di ciò che è rimasto.
Dopo un bellissimo incipit che presagisce il dramma, e che verrà poi ripreso nel finale con una struttura quindi circolare, Oates riesce a delineare perfettamente una società, una famiglia e infine un individuo. I temi trattati sono molti ma nonostante ciò non si ha mai l'impressione di "troppa carne sulla brace" perché si concatenano con armonia, come se fossero un "causa-effetto". La moglie sottomessa al marito, tradita e trascurata vista quasi come se fosse solo una fabbrica di figli nonché la serva della casa; la rigida educazione cattolica ma anche la sua ipocrisia che inevitabilmente spicca fuori; i pregiudizi dei bianchi verso le persone di colore o dei bianchi più ricchi di loro, per contro, i pregiudizi delle persone di colore dei confronti dei bianchi; gli abusi sessuali, l'amore che inizia a trasformarsi in odio, il disgusto e l'indifferenza verso la propria persona, l'autopunizione, il razzismo, l'utilità e i modi riformativi delle carceri; ma, nonostante tutto e tutti, il forte richiamo delle proprie radici.
I personaggi sono tutti ben delineati e dal carattere forte e determinato, come per esempio il padre di Violet, e se possiamo leggere soltanto la voce introspettiva di lei, attraverso i suoi occhi riusciamo a distinguere bene e a capire anche i personaggi circostanti. Con uno stile di scrittura fluido e accurato, carico di flash-black e di momenti di riflessione si rivela essere un romanzo corposo ma anche movimentato, con un colpo di scena finale che, se da un lato è inaspettato, dall'altro è un confronto atteso e temuto per l'intero romanzo.
Concludo con qualche frammento che mi è particolarmente piaciuto:
"Loro erano cattolici, i matrimoni duravano anche quando l'amore si consumava, si sfilacciava come un tessuto lavato mille volte dal quale le macchie non vanno più via. Finché morte non ci separi - cazzate come tutto ciò che riguarda la Chiesa eppure, lui e Lula stavano insieme. Ciò che li aveva tenuti insieme è stato il perdono di Lula. E ciò che permetteva a lei di perdonare era l'amore. Il punto debole della donna, l'amore a prescindere. L'amore senza dubbi. L'amore come ossigeno che aspireresti anche da una cannuccia sporca e rotta, per il quale ti metteresti in ginocchio nel fango, qualsiasi cosa pur di sopravvivere perché senza di lui non puoi vivere."
"Come sono silenziose le persone maltrattate. L'intimità del silenzio ti è naturale. Tu sai quanto possono essere aspre e abrasive le parole, per chi è ferito. Meglio restare in silenzio finché non verranno le parole giuste."
"Caldo precoce di maggio, un sole biancastro cade diritto sul mio viso, non ho ancora messo tende, veneziane. Fuori dalla finestra c'è un balcone, una ringhiera che proietta sbarre d'ombra contro i vetri, sul letto, sulla mia faccia mentre sono distesa a letto svegliata dal buffo cagnolino che vuole soltanto baciarmi."
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IL DIALOGO COME SALVEZZA PER LA COPPIA
L'invenzione di noi due è un libro ben scritto ma che purtroppo non riesce a coinvolgere il lettore.
Non si crea quell'empatia necessaria con i protagonisti della storia, Milo e Nadia, che regalano poche emozioni.
I temi sono un po' scontati e sicuramente già sentiti, già letti, nel corso del testo ci sono sicuramente moltissime citazioni sull'amore che potrebbero andare bene per un manuale ma non per un libro di narrativa.
Il protagonista si chiama Milo e ci racconta la sua storia d'amore con Nadia, sono sposati da 15 anni e alla soglia dei cinquant'anni d'età vivono una crisi di coppia molto forte, più delle precedenti che hanno avuto.
Quello che manca in questo matrimonio è il dialogo, mi sono chiesta perché Milo, per cercare di riconquistare Nadia, le abbia scritto fingendosi un altro uomo.
Perché non è andato a casa e l'ha affrontata?
E' stata la paura di perderla?
"E' triste, tragico persino, ma torniamo a occuparci delle cose quasi sempre quando sono finite."
Tra i due personaggi ci sono molte cose da risolvere, sia per quanto riguarda le loro aspirazioni personali sia per i loro progetti matrimoniali, su quello che vogliono fare nel loro futuro.
Milo vive di ricordi, dei momenti felici che lui e la moglie hanno trascorso assieme e dopo un po' questi continui capitoli che ci raccontano il passato, mi sono sembrati alquanti sdolcinati e stucchevoli.
Hai quarantasette anni e non venti perché non ci parli con tua moglie?
C'è un punto nel romanzo dove lui le fa trovare in frigo dei contenitori con dei piatti già pronti e lei non mangia nulla di quello che Milo le prepara e invece di chiederle come mai, fa passare un po' di tempo facendo mille ipotesi. Alla fine pensa che sia meglio affrontare la cosa. Capisco che Milo voglia prendersi cura della moglie e per lui questo semplice gesto di cucinare è un atto d'amore, ma agli occhi di Nadia potrebbe non essere visto come tale.
"Nadia ormai non mi amava più, ma sapeva che non mi avrebbe lasciato mai."
Milo è un personaggio che viene descritto come un uomo debole, senza coraggio, fragile e riservato mentre Nadia come una donna creativa, ma poco concreta; insegue il sogno di diventare scrittrice anche pesando sull'economia famigliare.
Credo che il raccontare la storia di una coppia normale, che vive una vita semplice e che nonostante i tanti problemi che hanno cerca di amarsi e di andare avanti, non sia sbagliata come idea, solo che la loro storia risulta da subito poco interessante e vuota.
Forse a me non è arrivato il messaggio che l'autore voleva trasmettere.
"Lo lessi una volta, da qualche parte: l'amore è un privilegio. Non è un elemento previsto dalla natura, ma un'invenzione umana."
Milo vuole capire cosa succede a Nadia, come mai loro non sono più la coppia di quindici anni fa, lui cerca anche di capire cosa ha sbagliato, cosa fare per rimediare, per migliorare le cose tra di loro, ma questo si traduce nella scelta di scriverle fingendosi un altro uomo.
Inoltre, il protagonista si perde in lunghe riflessioni con se stesso, su come mai sono arrivati a questo punto, su quello che sua moglie non gli ha mai detto e io continuavo a pensare che la cosa più brutta che possa capitare ad una coppia sia il silenzio, la mancanza di dialogo e di un confronto costruttivo.
Lo stile dell'autore è impeccabile, curato, con molte frasi ad effetto sull'amore che però a me non hanno lasciato nulla.
Come lettrice preferisco uno stile più semplice con una storia che mi sappia coinvolgere ed emozionare, rispetto a una scrittura più complessa e a una narrazione che non mi lascia nulla.
Mi sono chiesta quale sia lo scopo di questo libro? Il salvare un rapporto in crisi? Cercare di andare avanti ritrovando l'amore perduto di un tempo? Riaccendere la fiamma della passione? Oppure il cercare di resistere come coppia e non lasciarsi davanti agli ostacoli della vita?
Forse nessuno o magari tutti questi, io non l'ho capito.
Sicuramente l'autore crede molto nell'amore, che è un sentimento per lui indispensabile come lo è per Milo che non pensa a nessun altra se non alla moglie, che la trova bella anche nei suoi difetti e che nonostante tutto risposerebbe ancora.
Ma è giusto rimanere assieme non per amore, ma per paura di restare soli o per abitudine?
O forse il vero amore è anche lasciare andare l'altra persona, affinché possa trovare la sua felicità altrove? Che sia con un'altra persona oppure seguendo un proprio sogno?
Se Nadia non è felice della sua vita, se ha delle aspirazioni che Milo che non capisce, se il loro matrimonio non è più fatto d'amore ma di necessità, non è il caso di lasciarsi?
Credo di non riuscire a capire Bussola come autore, non riesco a trovare nelle sue storie un qualcosa che mi sappia emozionare, oppure come vissuto e come età, sono lontana dalla storia che ho letto in questo romanzo.
Resto dell'idea che a questo libro manchi qualcosa.
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Gli Snow si posano in cima
Lucy Gray Baird si sistema con una mano i riccioli intrecciati a fiori selvatici ormai appassiti, sale sul palco con quel vestito scolorito a balze multicolore, che apparteneva a sua madre. Si muove lasciando che l’abito fluttui al ritmo della voce, mentre il pubblico ascolta in estasi e le telecamere zoomano.
Lucy che è ballata dell’usignolo e del serpente si infila tra le labbra un petalo della rosa che lui le ha regalato e lo mastica, pensando a quanto abbia il sapore dell’infanzia. Poi, zigzagando tra la folla, estrae una serpe dalla tasca e la infila nell’abito di chi la sbeffeggiava.
Il tempo della mietitura è ormai finito.
Lucy Gray è il tributo femminile del lontano Distretto 12 alla decima sessione degli Hunger Games, assegnata al giovane mentore Coriolanus Snow.
Quarto volume della serie, si tratta di un prequel che anticipa di molti anni quanto abbiamo vissuto nella trilogia. Sebbene in sinossi si parli ampiamente dei giochi, mi preme sottolineare quanto il focus del romanzo sia un altro, ossia la provenienza di quello che diverrà il ben noto presidente Snow.
Se l’aspettativa sbagliata uccide il libro più di quanto ottenga il tridente sull’uomo disarmato, non approcciatevi al romanzo nella speranza di incontrare l’opulenta Capitol City, né tanto meno i bulimici effetti speciali delle precedenti arene.
Siamo situati in un tempo poco distante dalla guerra, anche le casate più nobili vivono in ristrettezza. L’arena e’ un luogo ricoperto di macerie ed abbandonato a se stesso, niente clamore nei colpi di scena, nessuna tecnologia sbalorditiva. Gli Hunger Games sono in questo volume una lunga, misera performance che vi accompagnerà per qualche centinaio di pagine noiose, non ritrovatevi - come me- gatto a nutrirsi di una lisca di pesce.
Ciò premesso, la scrittura della Collins scivola comunque come acqua fresca sulle mani sudate e la prima metà del libro scorrerà senza faville ma pure senza pene. Il racconto riprende poi vigore e piacevolezza, cucendo con un robusto filo di nylon la figura di Snow.
Strattonata la logora coperta che serve da sipario, canto io canti tu cantano loro e l’eco delle ghiandaie che ripetono nel bosco la stessa strofa: “Verrai, verrai, all’albero verrai, di corda una collana, insieme a dondolare?”
Coriolanus Snow ha mai amato, ha mai avuto un amico fraterno, è mai stato capace di sacrificare il suo ego e provare empatia per gli uomini e le donne dei Distretti?
Gli Snow si posano in cima.
Indicazioni utili
In amore si rimane coinvolti completamente
Si può talvolta storcere il naso di fronte a titoli che odorano di facile retorica e mieloso sentimentalismo. Però è vero -e bisogna ammetterlo- che:
“Tutte le storie parlano d’amore (...). Le grandi e le piccole, le belle e quelle meno belle, quelle che ci rendono tristi e quelle che ci dovrebbero consolare. (...).
Sia che le storie siano state inventate secoli o millenni fa in terre lontane e straniere, spiegò lui, o ieri sera in una piccola capanna sull’altra sponda del fiume, tutti i grandi racconti conoscono un unico argomento: lo struggimento del cuore per amore”.
Sono le parole dello zio U Ba rivolte al nipote dodicenne Bo Bo, nell’incipit del romanzo, già una dichiarazione di intenti da parte dello scrittore tedesco Jan Philipp Sendker che con questo ultimo lavoro chiude una trilogia iniziata con “L’arte di ascoltare i battiti del cuore” (Neri Pozza, 2009] e proseguita con “Gli accordi del cuore” (Neri Pozza, 2012).
Dico subito che non ho trovato necessario leggere i libri precedenti in quanto i fatti salienti riguardanti le vicende di Julia e dell’incontro con quello che diventerà suo marito, Thar Thar, vengono riportati sinteticamente e sapientemente amalgamati nel nuovo libro.
“La memoria del cuore” è la tormentata e toccante storia di un dodicenne, Bo Bo, che cerca di capire la ragione per cui non vive con i suoi genitori, come in una famiglia normale, ma con lo zio U Ba. Una volta all’anno viene a trovarlo per poco tempo suo padre, Thar Thar, mentre della madre, di cui sa che è afflitta da una strana malattia, non ha che ricordi lampo di “un sorriso che scalda il cuore” e una “voce cristallina”.
Bo Bo è dotato di un dono particolare, quello di capire le emozioni della gente:
“Per me gli occhi possono luccicare, scintillare o essere incandescenti come le braci ardenti nel fuoco. Possono brillare, fremere, essere ombrosi e un attimo dopo quasi trasparenti. Negli uomini possono essere vacui come quelli di un uccellino morto o scoppiare quasi di paura come quelli di un pollo al macello. Gli occhi possono essere torbidi come l’acqua di una pozzanghera fangosa o abbaglianti come la luce del sole. Ogni espressione ha infinite sfumature, e tutte hanno sempre un loro significato preciso”.
Questa dote lo aiuta a percepire quando dietro ad una bugia c’è un grande bisogno, quando le persone fanno finta di star bene, ma dentro soffrono. Un giorno costringerà lo zio a farsi raccontare la storia d’amore dei suoi genitori e da lì l’azione narrativa inizierà un lungo flashback interrotto da pochi ritorni al presente. Tutto il romanzo si svolge tra Stati Uniti, dove Julia Win, sua madre e sorella di U Ba, è nata e vissuta per ventotto anni, e la Birmania, dove invece Thar Thar, suo padre, manda avanti un monastero dove si prende cura di ragazzini disabili e deformi, rifiutati dalle loro famiglie.
Stati Uniti e Birmania, Occidente e Oriente, due luoghi che Sendker dimostra di conoscere molto bene dalle strade alla cultura culinaria: l’autore ha vissuto diversi anni in America e ha viaggiato come inviato in Birmania per oltre venticinque anni.
Mentalità diverse, ritmi di vita diversi che si riflettono sulla velocità dell’azione narrativa. Il romanzo si divide in tre parti: la prima parte è ambientata nella capanna dello zio U Ba a Kalaw, con le poche amicizie di Bo Bo e i tanti libri ammassati negli angoli; la seconda riporta il lungo racconto di U Ba sull’amore tormentato e infuocato tra Julia e Thar Thar, suoi genitori e si sposta a Manhattan; nella terza parte si torna al presente e l’azione si svolge di nuovo in Birmania, ma...non posso più dire altro, a voi la scoperta. Qual è la malattia di affligge Julia? Perché in tutti questi anni non ha fatto nulla per vedere il figlio? Come mai Bo Bo ha una cicatrice che parte dalla bocca ed arriva quasi all’orecchio?
Si tratta di un romanzo toccante, che si legge con grande piacere e regala momenti di tenerezza. La scrittura di Sendker è capace di notevole forza espressiva, sa caricare bene le immagini e le descrizioni dei pensieri dei personaggi al punto tale da toccare le corde del cuore di chi legge e far passare le emozioni direttamente su di lui. Sendker ti fa provare quelle emozioni, si fa ponte di empatia.
Una storia indimenticabile, che rimane.
Indicazioni utili
“L’arte di ascoltare i battiti del cuore”
“Gli accordi del cuore”
I titoli di coda più belli della vita in comune
Il protagonista di questo romanzo, l’ultimo appena edito di una serie che lo vede da tempo alla ribalta, l’avvocato Vincenzo Malinconico, è forse il personaggio meglio riuscito, e quello più noto, dello scrittore napoletano Diego De Silva.
Direi di più: tra tutti, questo è il racconto più bello, più umano, più appassionante della serie, certamente quello più romantico e delicato, non dico malinconico, che la battuta neanche è in linea con il personaggio.
L’avvocato non è, e non è mai stato, una persona mesta, triste o grigia, tutt’altro, è sempre stato invece ironico, dissacrante e divertente nel suo vivere e divenire, e in questo libro come non mai, è un vero “eroe” del normale quotidiano.
Eroe, a modo suo, perché ha inteso come il disincanto, il sarcasmo, il surreale e una buona dose di umorismo involontario, siano le uniche armi efficaci per affrontare con sufficiente serenità l’esistenza, spesso assurda e illogica, com’è effettivamente spesso irrazionale la vita di chiunque.
Malinconico è un vero mito quindi, per i suoi lettori ed estimatori, malgrado lui stesso tenda a sminuirsi ed a sottovalutarsi.
Un racconto letteralmente basato sui valori che contano, come da titolo, e poiché sono valori universalmente riconosciuti come eccelsi e supremi, Malinconico stesso, uomo satirico e beffardo, disilluso ma non afflitto, con i piedi ben piantati sul terreno, tende in modo sarcastico a ironizzare che siano valori effettivamente connaturati alla sua natura, è scettico che siano davvero nelle sue corde, per quanto si ritenga, in fondo, una persona onesta e leale, almeno con se stesso.
Tali valori sono quelli noti dell’amore, in primis, nonostante il suo rapporto caldo, conflittuale e controverso sia con l’attuale compagna Veronica, sia con le sue ex Nives e Alessandra Persiano, quindi la famiglia, i figli, Alfredo e Alagia e il pet d’ordinanza, il gatto Alfonso detto Alfonso Gatto, un felino evidentemente con movenze poetiche, la salute, gli amici e colleghi, tra tutti l’avvocato Beniamino “Benny” Lacalamita, e naturalmente i clienti: tutti insieme delizie e, talora, croce del nostro Avvocato Malinconico, da cui il sottotitolo in cui dichiara che, certe cose, talora, uno preferirebbe non scoprirle.
Un gran bel libro, mi è piaciuto molto, l’ho apprezzato come il migliore dello scrittore napoletano.
Intendiamoci, Diego de Silva è un signor scrittore e non da ieri, ha dato ampiamente prova di sé, della sua bravura, della sua abilità narrativa nel descrivere, intensamente e con ritmo ammaliante, i fatti della vita, per quanto insoliti e destabilizzanti, già dai suoi lontani, e subito fortunati esordi con “Certi bambini” e Voglio guardare”.
La serie di romanzi con Vincenzo Malinconico l’ha semplicemente consacrato autore popolare, noto al grande pubblico, in particolare perché nell’avvocato sui generis, e quanto mai reale, De Silva ha avuto modo di mostrare al meglio la sua vena sorniona e sarcastica, volutamente comica, ma quanto mai logica, e con un retrogusto filosofico che rende ragione oserei dire della palese napoletanità del nostro autore.
Davvero un bel libro, direi ottimo come qualità della storia, piacevolezza di lettura, significato recondito struggente e coinvolgente.
Con un linguaggio ironico, sarcastico, pungente, volutamente dissacrante, Diego De Silva ci offre lo spettacolo di “uno qualunque” che tanto qualunque non è, è un campione, un araldo, un emblema della quotidianità dell’esistenza e di come va ad affrontata: esattamente come fa Malinconico.
Con disincanto, certo, con un certo distacco, e però senza mai rinunciare, senza poter fare a meno nel modo più assoluto del calore umano, della condivisione dei sentimenti, della comunanza elettiva con i suoi simili, malgrado le loro colossali pecche: Vincenzo Malinconico è un uomo arguto e sornione, ma è intelligente, e come tale non rinuncia alle prerogative, e agli obblighi, non solo giuridici, del suo essere sociale.
Perciò quando un bel giorno si presenta all’improvviso alla porta di casa sua una ragazza seminuda, in fuga da una retata in una casa di appuntamenti di cui il nostro nemmeno sospetta l’esistenza nel condominio dove risiede, non esita a darle ospitalità, arrivando a coprirla e rendersi complice di reato nel mentire alle forze dell’ordine sguinzagliate alla sua ricerca.
Non lo fa per rivoluzionario spirito contraddittorio, nemmeno per simpatia nei confronti della ragazza, nemmeno tanto simpatica e riconoscente, tra l’altro, segue l’istinto, vale a dire il cuore, anziché la ragione, semplicemente perché è nella sua indole cortese, gentile, partecipe alle asperità dell’esistenza altrui.
Vincenzo Malinconico reagisce ai contrattempi e agli imprevisti con uno sberleffo, con una battuta, con sarcasmo, e mostra con spirito la sua filosofia di vivere, che contempla l’umana vicinanza con i suoi simili.
Naturalmente, il fato benigno lo ripaga come merita, complicandogli l’esistenza, specie se, per esempio, la ragazza in questione è la figlia del sindaco in carica.
Nulla di cui meravigliarsi, è la norma per Malinconico: ” …Le cose che succedono nelle nostre immediate vicinanze ci lasciano sempre increduli, specie quando nella vita ci succede poco.”.
A Malinconico succede invece parecchio, anche quando per esempio è impegnato nel suo normale lavoro di avvocato a difendere una signora, in una causa di separazione, e la stessa se ne esce rimarcando i suoi modi di dire: “…noi avvocati scriviamo i titoli di coda della vita in comune”, una frase che diventerà da quel momento in poi il tormentone del povero Malinconico tutte le volte che tratterrà di divorzi e separazioni nell’esercizio della professione.
Non demorde, però, il nostro avvocato: rivendica sempre il diritto di dire quello che non voleva. Vincenzo Malinconico è un avvocato…” più che di grido, direi di gemito”.
Questa frase gli calza a pennello.
Non è un matrimonialista, o un penalista, nemmeno ha uno studio suo o è associato ufficialmente allo studio Lacalamita. Sa fare tutto, come i mediocri. I bravi si specializzano.
Perciò è un precario, un provvisorio, un effimero, un incerto della vita.
Un intellettuale prestato all’avvocatura, e come tale portato alla riflessione più che al conflitto.
Come tutti noi, possiede poche e dubbiose certezze, e qualche sicura paura, senza tentennamenti.
La stessa paura che assale tutti noi quando, per esempio, ci ammaliamo.
Si ammala, Vincenzo Malinconico. Si spaventa, sebbene il medico lo esorti ad affrontare il problema come una cosa tra le altre: sa che, il limite di questa esortazione, è che nessuno ti spiega come si fa. Attende perciò come tutti noi, tremebondo, il risultato delle analisi cui si sottopone.
I risultati arrivano: “Avrebbe dovuto dirmelo, il dottore. Quando ti darò la notizia, non guardare il tramonto. Sentirai la mancanza di tutto.”.
Sono questi i momenti in cui ti sorreggono…i valori che contano.
Vincenzo Malinconico apprende che non è vero che l’esistenza deve necessariamente avere una veste…Addolorata. Afflitta. Affranta. Contrita. Angustiata.
Tutti sinonimi del suo rifiuto ostinato nel ricordare il nome della sua segreteria: non è un caso.
Lo sconforto, la sfiducia, la tristezza, seppure velati dal sarcasmo e dall’ironia, non hanno proprio motivo di essere se la tua donna, i tuoi figli, le tue tuoi ex, gli amici, i colleghi, i medici, i compagni di stanza, ti si stringono intorno, ti abbracciano, nel nome dei valori che contano.
“…vivere ogni giorno che ti viene regalato con intensità e riconoscenza, circondato dalle persone che ami e dagli amici (pochi e veri) che ti ritrovi accanto, fregandotene delle piccole, miserabili preoccupazioni con cui ti sei inutilmente intossicato l’esistenza…La vita…bisogna tenersela stretta.”
Tutto questo che dice l’avvocato Vincenzo Malinconico, ed è l’essenza stessa del romanzo, un romanzo che è bello, è bello scoprire, è bello scoprirlo.
Commuove, incanta, delizia.
Sarà sentimentale, smielata e struggente, ma è bellissima quest’idea:
“Mi piace l’idea che siamo in tanti nello stesso recinto, e che possiamo farcela.”.
Come personalmente direi che è bellissimo questo romanzo di Diego de Silva.
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VERO COME LA FINZIONE
“Ormai, Quichotte e io non siamo più due esseri diversi, uno creato e l’altro creatore. Ora io sono parte di lui, come lui è parte di me.”
“Don Chisciotte” è generalmente considerato il primo romanzo moderno della letteratura europea, un’opera quindi seminale come poche altre e che, nonostante la sua veneranda età, è periodicamente capace di uscire dai polverosi testi scolastici e di ritornare in auge, in una maniera che potrebbe essere considerata sorprendente, ma in realtà non lo è affatto, se solo si considera quanto il Seicento di Cervantes assomiglia per molti versi a quei periodi di crisi dei valori e di crollo degli ideali che hanno percorso con ricorrente frequenza l’Ottocento e il Novecento, per non parlare poi di quell’epoca di profondo turbamento morale e spirituale che è la nostra, dove molteplici espressioni di illusoria fuga dalla realtà tentano ogni giorno un grandissimo numero di persone le quali trovano probabilmente troppo gravoso portare sulle spalle l’angoscioso fardello del presente. Opera seminale, ed anche opera citata in innumerevoli occasioni, al punto che Pierre Menard, un personaggio del borgesiano “Finzioni”, si impegna addirittura, in un’operazione di infinita e vertiginosa difficoltà, a riscriverla (non semplicemente trascriverla e copiarla, si badi bene), componendo ex novo un “Chisciotte contemporaneo” fino a far coincidere mimeticamente il suo risultato, parola per parola, con il testo originario. Salman Rushdie, tre quarti di secolo dopo Borges, con intenti del tutto diversi ma con analogo spirito postmoderno, ha voluto riprendere in mano a modo suo la storia dell’hidalgo più celebre della storia, trasferendola dalla Mancia secentesca all’America contemporanea. Anziché i romanzi cavallereschi, a ottenebrare la mente del protagonista e a rendergli sempre più confuso il confine tra verità e menzogna c’è questa volta la televisione (“a volte si scopriva incapace di distinguere la realtà dal reality, e aveva cominciato a considerarsi cittadino naturalizzato di quel mondo immaginario al di là dello schermo a cui era così devoto […], come una Dorothy dei giorni nostri che mediti di trasferirsi in pianta stabile a Oz”), mentre la Dulcinea di cui egli si invaghisce e a cui dedica cavallerescamente la propria vita diventa una popolare conduttrice del piccolo schermo. A bordo di una comunissima Chevrolet, che sostituisce Ronzinante, e in compagnia di un Sancho prodigiosamente generato in una notte di stelle cadenti, con la sola forza del suo desiderio e con “la grazia del cosmo”, Quichotte parte alla conquista dell’amata, in una picaresca avventura “on the road” piena di incontri, sorprese e contrattempi, nel corso della quale gli Stati Uniti trumpiani, quelli a noi ahimè ben noti dell’”America first”, rivelano il loro volto più intollerante, facinoroso e razzista. Chi si aspetta una versione 2.0 del “Don Chisciotte” cervantesco rischia però di incorrere in una cocente delusione. Se l’organizzazione formale del romanzo di Rushdie omaggia sotto molti aspetti quella dell’opera originaria (ad esempio, le didascalie presenti all’inizio di ogni capitolo che riassumono in poche parole quello che il lettore andrà a leggere, la moltiplicazione dei narratori, in una struttura a matrioska, a scatole cinesi, comune peraltro a tanti altri romanzi del passato, come il “Manoscritto trovato a Saragozza” di Jan Potocki o il “Frankenstein” di Mary Shelley), man mano che esso procede la vicenda del “cavalier cortese” viene letteralmente soverchiata (e ciò non dovrebbe sorprendere affatto chi conosca un poco il genio fantastico e debordante dello scrittore di Bombay) da un’infinità di altre storie, suggestioni e citazioni. La stessa centralità di Quichotte viene messa in discussione già nel secondo capitolo, quando scopriamo che egli è un’invenzione di Sam Du Champ, alias Fratello, un mediocre scrittore di libri di spionaggio, che decide dopo tanti anni di letteratura commerciale, di scrivere un romanzo in cui riversare le proprie ossessioni e le proprie paranoie. Le storie si duplicano, si ramificano, si confondono come in un vertiginoso ed helzapoppiano gioco di specchi, e gradualmente accanto alla figura di Quichotte, che testardamente, maniacalmente persegue la sua irrealizzabile missione, incurante di ogni avversità, foss’anche l’imminente fine del mondo, fino al punto di sembrare al termine, paradossalmente, il più equilibrato e normale tra tutti, accanto alla sua figura – dicevo – altri personaggi, altri deuteragonisti, dalle molteplici e imprevedibili sfaccettature esistenziali, sgomitano nella testa del loro autore per prendere il sopravvento e catturare irresistibilmente (come in una moderna versione dei “Sei personaggi in cerca di autore” di Pirandello) l’attenzione del lettore. Personalmente sono rimasto affascinato dal personaggio di Sancho: nato come per partenogenesi dalla mente di Quichotte, tal quale Pinocchio dalle mani di Geppetto, tormentato dalla sua condizione di paria (inizialmente è addirittura un essere in bianco e nero, poco più di un ologramma), inevitabilmente incatenato al suo padre-creatore, sua ombra e suo clone (persino “i miei ricordi sono i suoi”), egli è terrorizzato dalla costante, paranoica percezione che ci sia qualcosa di pericolosamente sballato nel mondo (come un qualche errore nello spazio-tempo che fa sì che non si possa neppure essere sicuri di risvegliarsi nello stesso posto in cui ci si è coricati); la sua ostinata ricerca di autonomia e di indipendenza è quasi commovente nel suo adolescenziale candore, e ciò lo rende, pur essendo la più improbabile delle creature, il personaggio più umano e autentico dell’intero romanzo, se non addirittura la sua coscienza critica. Mentre si sforza caparbiamente di “umanizzarsi” (conquistando gradualmente il colore come i personaggi di un vecchio film della fine del secolo scorso, “Pleasantville”), laddove invece Quichotte vuole solo “angelicarsi”, Sancho riflette spesso su chi ci sia dietro il suo creatore, intuendo che dietro ogni autore c’è sempre un altro autore, dietro ogni dio c’è sempre un altro demiurgo; e così, senza darlo apparentemente troppo a vedere, Rushdie passa da Collodi a Borges (la nascita di Sancho e la scoperta della natura fittizia di Quichotte mi ha inevitabilmente richiamato alla mente il suo memorabile racconto “Le rovine circolari”) e di qui alla metafisica e alla teologia, sia pure in forma sarcastica (“Forse lui e io, Dio e io, potremmo capirci, potremmo discutere amabilmente, perché sì, insomma, siamo entrambi immaginari”).
Il pirotecnico virtuosismo stilistico di Rushdie alterna e intreccia ineludibilmente i piani del racconto, fino al punto di arrivare a sospettare che “a volte la storia raccontata la sapeva più lunga di chi la raccontava”. In un paradossale rovesciamento delle parti (alla “Rosa purpurea del Cairo”, per intenderci), il personaggio immaginario acquisisce uno status di realismo addirittura superiore a quello del suo creatore (“Lo stesso Quichotte, se avesse saputo dell’esistenza di Fratello, avrebbe potuto affermare che in realtà era la storia dello scrittore a essere una versione alterata della sua, invece che il contrario, e avrebbe potuto sostenere che la sua vita immaginaria era di certo la narrazione più autentica tra le due”). Nell’Era rushdiana del Tutto-può-succedere, dove un figlio può essere procreato per puro sforzo di volontà e un vecchio idealista un po’ tocco coltivare il sogno di far innamorare di sé l’inavvicinabile regina dei talk show, la fascinosa erede di Oprah Winfrey, i confini tra arte e vita, tra verità e finzione, vengono clamorosamente meno, e si può legittimamente essere posseduti “dalla stolta convinzione secondo cui le fantasie delle persone creative potevano traboccare dai confini delle opere stesse e avevano il potere di entrare nel mondo reale e trasformarlo”. Come nei romanzi di Murakami (ma va detto che Rushdie, nella mia personalissima opinione, sta a Murakami come Umberto Eco sta grosso modo a Dan Brown), al lettore è richiesta una notevole sospensione dell’incredulità. Il realismo “irreale” di Rushdie, con improbabili portali che permettono di accedere a universi paralleli, città “mammuttizzate”, statue e pistole che parlano, non è facilmente digeribile da un lettore che al massimo si aspetterebbe qualche strampalata battaglia di un vecchio pazzo contro l’equivalente moderno di un mulino a vento. No, qui è l’intero mondo a essere deragliato nella follia, il tempo stesso a essere shakespearianamente “uscito dai cardini”. Rushdie si comporta come uno spericolato giocatore d’azzardo, e quando non si accontenta di creare un parallelismo tra Sancho e Pinocchio, ma addirittura fa comparire inopinatamente in scena un grillo parlante italiano e una fata turchina grassa e malvestita, rischia di cadere nel ridicolo più grossolano. Confesso di essermi più volte aspettato da un momento all’altro il crollo rovinoso della pericolante costruzione da lui messa in piedi. Eppure, miracolosamente, alla fine tutto torna, il fantasy più sfrenato trova una sua plausibile quadratura, e le due storie che a lungo procedono parallele riescono alla fine, con un colpo di scena ispirato a un racconto poco noto di Katherine MacLean, a fondersi con inaspettata credibilità.
“Quichotte” è pieno di citazioni, dalla prima all’ultima pagina. L’ossessione del protagonista per Salma R. è paragonata a quella melvilliana di Achab per Moby Dick, l’apocalisse che avanza mentre la conclusione del libro si avvicina è ripresa dal racconto di Arthur C. Clarke “I nove miliardi di nomi di Dio”, il surreale soggiorno nella fantomatica cittadina di Berenger è ispirato a “Il rinoceronte” di Eugene Ionesco (tra l’altro il nome della città è uguale a quello del protagonista della pièce di Ionesco). Rushdie non è un autore spocchioso, che se la tira con il suo sapere enciclopedico. Le sue citazioni coinvolgono tanto la cultura alta quanto quella bassa e popolare, le grandi opere dell’antichità così come i format televisivi, i videogiochi, i film di animazione, e Giasone alla ricerca del Vello d’Oro può benissimo stare a fianco del principe Rama in cerca della sua sposa Sita, e Dante Alighieri accanto a Mario l’Idraulico. Inoltre i suoi innumerevoli riferimenti, che a volte sono dei veri e propri prestiti letterari, non vengono mai occultati cripticamente, ma sono spesso e volentieri svelati, magari in qualche capitolo successivo, a uso e consumo anche del lettore intellettualmente meno smaliziato (un po’ come nella Settimana Enigmistica la soluzione dei rebus e delle sciarade è riportata qualche pagina dopo, a beneficio di coloro che non sono in grado di risolverli con le proprie forze). Rushdie ironizza spesso sulla spazzatura culturale che frastorna i cervelli americani, facendone addirittura il suo bersaglio preferito, ma, proprio come il suo protagonista, che nel suo ascetico cammino di purificazione per rendersi degno dell’amata non disdegna di ispirarsi alle serie televisive più kitsch e corrive, così egli fa largo uso dell’immaginario di Google e di Wikipedia, riconoscendone la pervasiva ineluttabilità nel momento stesso in cui lo rende oggetto di critica.
Cos’è quindi “Quichotte”, alla fine dei conti? E’ sicuramente un’opera che denuncia la crescente disumanizzazione della società contemporanea (stiamo “perdendo la bussola morale per diventare creature uscite da un passato barbarico, preumano, violento e, al contempo, mostri capaci di tormentare il presente umano”), ma è anche un melodramma familiare, una storia d’amore, un romanzo di viaggio, un racconto di formazione, una satira di costume. E’ un romanzo che, mettendo il realismo molto, molto sullo sfondo, adotta i meccanismi narrativi della favola, del fantasy, della sci-fi e persino della spy story, in un pastiche assolutamente originale e sorprendente. In questa proliferazione di storie, “la vera storia è che non c’è più alcuna storia vera”. Allora, forse, il realismo “irreale” e fantasmagorico di Rushdie può diventare l’unico modo rimasto, ai nostri giorni, per riuscire a decifrare questa nostra realtà “disintegrata”, consapevoli che “il surreale e persino l’assurdo possono oggi come oggi offrire gli elementi più adatti a descrivere la vita reale”. Ho parlato di pastiche poc’anzi, e difatti “Quichotte” è un’opera annoverabile a pieno titolo nel postmodernismo. Come altri autori postmoderni prima di lui (penso soprattutto al Pynchon di “V”, con le sue didascalie all’inizio di ogni capitolo, e a quello di “Mason & Dixon”, con il suo uso dei sostantivi con la maiuscola, come nelle edizioni originali di Jonathan Swift), Rushdie adotta alcuni degli stilemi dei romanzi del ‘700 e dell’800, ma poi li rovescia con una visione fortemente meta-narrativa. “Quichotte” è infatti, nel suo già citato saltare da un piano all’altro della narrazione, una profonda riflessione sul lavoro dello scrittore e sul rapporto dell’autore con le sue creazioni. Per Fratello l’invenzione romanzesca è, sotto la sua superficie, un inconscio processo di espiazione delle colpe del passato, di elaborazione dei rimpianti e di sublimazione dei desideri inappagati, un modo per realizzare attraverso la fantasia i sogni impossibili e pacificare la propria coscienza. Non deve sorprendere pertanto che “il mondo che Fratello aveva inventato si era trasformato in realtà”, perché lui è Quichotte, lo era già prima di immaginarlo, e mentre con il procedere del romanzo si delinea pian piano il destino del personaggio e dell’universo che lo circonda, in modo speculare l’autore impara a decifrare se stesso (“Forse questa storia bizzarra era una versione trasfigurata della sua”). Rushdie fa coincidere la fine del mondo con la fine del suo libro (“Il mondo non ha altro scopo che la conclusione del tuo libro. Quando l’avrai finito, le stelle cominceranno a spegnersi”) e, narcisisticamente, si pone nella posizione di quei monaci che credono che l’universo avrà raggiunto il suo obiettivo e smetterà di esistere quando il supercomputer installato nel loro monastero avrà contato tutti i nove miliardi di nomi di Dio. La morte di Don Chisciotte di Cervantes (che è anche, e soprattutto, la morte delle illusioni e della capacità di nutrire nobili ideali) si trasforma così nella morte dell’autore moderno (e del sogno impossibile di Quichotte e di Salma). Potrebbe essere, per Salman Rushdie, un’opera-testamento perfetta con cui uscire di scena, anche se, egoisticamente, non ce lo auguriamo davvero. Trentotto anni dopo la dissoluzione di Saleem Sinai in una miriade di pezzi simboleggianti la nazione indiana, Rushdie chiude infatti alla perfezione il cerchio raccontando, con la sua solita vena sarcastica e grottesca, ma anche con un pessimismo inedito, la inarrestabile e sconvolgente disintegrazione del mondo, come se tutto ormai sia già stato detto o, il che è in fondo lo stesso, sia impossibile dirlo altrimenti, con parole nuove.
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"1Q84" di Haruki Murakami
Piacere di conoscerti, Manrico Spinori
Il Pubblico Ministero Manrico Spinori della Rocca, detto il “Contino” e per gli amici Rick, è un gentiluomo di origini nobiliari con tanti nomi quanti titoli, una madre con tendenza alla ludopatia e dai modi eleganti e affascinanti. Eccellente nel suo lavoro vede la sostituzione, dopo oltre vent’anni di indagini sui più svariati cittadini al di sotto di ogni sospetto, di Scognamiglio, aiutante, amico, confidente, fratello, a causa di una malattia celata a tutti ma di fatto inarrestabile con la Cianchetti, ispettrice dichiaratamente coatta, impaziente e irruenta. Deborah, un metro e ottanta di altezza accompagnati da tatuaggi etnici posizionati e sfoggiati sui poderosi bicipiti con i quali pratica pugilato e vincitrice della medaglia d’argento agli ultimi campionati interforze di tiro con la pistola libera, incurante della stagione invernale è solita indossare il chiodo di pelle nera su maglietta bianca e jeans strettissimi abbinati a un capello scuro a caschetto che ben si mixa con una bellezza che non può passare inosservata, non vede di buon occhio quel PM con quei modi gentili e altolocati. Che non la sottovaluti, eh! Che lei non è la prima venuta, è in gamba. Poi, un giorno come un altro una morte si palesa innanzi al rinnovato duo: Mario Brans, nome d’arte dello Stefano Diotallevi, in passato Ciuffo d’oro, idolo delle masse popolari degli anni ’60 e ’70, perisce in un incidente stradale mentre era a bordo con il suo autista Mangili. Omicidio stradale? Incidente? Errore fortuito? Oppure si tratta di un delitto bello e buono stante la manomissione dei freni della vettura sulla quale erano a bordo?
Per Rick e la Cianchetti, e per tutta la squadra investigativa rigorosamente al femminile del PM, si apre un’indagine affatto scontata e dai ritmi rapidi e ben cadenzati.
«Il dolore ha così tante manifestazioni, e così diverse fra loro. Non sarebbe mai riuscito ad adattarsi.»
Con “Io sono il castigo”, Giancarlo De Cataldo torna in libreria con il suo primo personaggio seriale. Suo rinnovato protagonista non è altro che un funzionario di giustizia di alto rango sociale e di origini dal sangue blu, dai modi che conquistano e dalla spalla magistralmente costruita e atta a smorzare toni e situazioni con il suo essere spigliata e diretta senza freni e/o riserve. Il risultato è quello di un buon giallo, un giallo ben articolato e ben costruito che ricorda alla lontana l’impostazione Carofigliana (per ruolo del protagonista e/o per tipico giallo con tonalità giudiziaria) ma che se ne distanzia per molteplici aspetti concentrandosi in quella che è l’attività di polizia di cui è titolare il pubblico ministero.
Stilisticamente De Cataldo si spoglia delle precedenti penne che lo hanno caratterizzato e ne abbraccia una più erudita, in conformità del suo eroe principale, ma al contempo anche più gretta nel caso di Deborah, una penna quindi che ben si confà a ogni voce narrante con massima versatilità ma che nel complesso è musicale e armonica tanto che accompagna passo passo il lettore.
In conclusione, un piacevole primo capitolo di una serie da scoprire e a cui appassionarsi episodio dopo episodio.
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Pensavo fosse amore invece era un calesse
Il romanzo ci racconta attraverso i ricordi di vari personaggi la storia di un gruppo di amici, che vivono in un posto dell’Ohio dimenticato dal progresso (ma a quanto pare non da Dio), e che sognano di andarsene altrove. Bill fa coppia con Lisa, il suo migliore amico Rick sta invece con Kaylyn, poi c’è Hailey che sta con Dan e Stacey con Ben Harrington, infine 56 sta ( si fa per dire) con Tina. Ovviamente uomini e donne sono tutti bellissimi, i più begli esemplari della scuola. Dan e Rick, i bravi ragazzi, partiranno per l’Iraq mentre Bill andrà al college. Dan e Lisa sono molto amici, dall’infanzia, accomunati dall’amore per i libri. Ora, anche se le coppie sono quelle che ho detto, alcuni di loro hanno amori trasversali. Per esempio, Bill ama la fidanzata del suo migliore amico Rick, Kaylyn , mentre Lisa, la fidanzata di Bill, ama Stacey e così via. Il romanzo è scritto in modo fluido e scorrevole, con uno stile buono anche se non particolarmente interessante. La storia è divisa in capitoli che sono scritti come memorie partendo da personaggi diversi, per esempio Bill, oppure Stacey o Dan eccetera, che ricordano e raccontano la stessa storia ma ognuno vi aggiunge il suo tassello come se si stesse componendo un Puzzle morboso-sentimentale, un sentimentalismo intriso di sesso, in cui sentimento e istinto si confondono . Le prime pagine del libro sono le più promettenti, nel senso che i primi malumori tra Bill e Rick sembrerebbero dovuti a una diversa visione del mondo. Rick è di educazione cattolica, un bravo ragazzo un po’ coglione, mentre Bill si dichiara di mente molto più aperta. L’11 settembre con la caduta delle torri gemelle porta a galla i malumori. All’inizio sembra che davvero Bill aspiri a una comprensione del mondo più ampia e si interessi dell’opinione altrui, anche quando l’altro è un terrorista. In realtà, si capisce presto che Bill se ne frega di tutti, degli amici prima che dei terroristi, dato che i terroristi stanno chissà dove e gli amici sono invece suoi vicini di casa. La sua apertura mentale, diventa una (anacronistica?) filippica contro la morale cattolica. Sembra che tutti i cattolici del mondo siano traslocati in Ohio e si interessino di impedire agli amici di scopare. In realtà gli amici fanno tutto quello che vogliono a partire da sesso e droga, che sembrano solo l’innesco di una forte pulsione mortifera che pervade tutto il romanzo. Ma anche questa pulsione ha una connotazione nel romanzo più commerciale che esistenziale. La grande apertura mentale di Bill consiste nel diritto di avere una relazioni anche con la ragazza del suo migliore amico senza dovergli spiegazioni, e nel consumare/spacciare droghe di ogni tipo possibilmente in combinazione con farmaci e alcool. Molte pagine sono dedicate agli effetti delle droghe spesso in miscela. I personaggi galleggiano fin dall’inizio nella nebbia dell’ipocrisia, non quella dei loro genitori, ma proprio la loro. Sono incapaci di parlarsi con sincerità, di avere rapporti umani disinteressati, di amicizia. Il finale è il trionfo dell’ipocrisia quando Bill e Stacey si confrontano e Bill ascolta le ragionevoli ma allarmanti supposizioni dell’amica, si tiene per sé la sua parte di verità, pronuncia persino la sua frase memorabile che chiude il libro: Continua a indagare Moore, eccetera. Non ho provato simpatia per molti personaggi.
Lo stile del romanzo è buono, c’è una buona capacità narrativa, ma si incontra una limitatezza di interessi che rendono la narrazione angusta. Non c’è una vera ricerca né il tentativo di mettere a nudo la pochezza delle relazioni né l’ambiente soffocante né il malessere esistenziale. A me sembra che l’interesse dell’autore non vada al di là della scopata e questo per 530 pagine è snervante. Gli ultimi due capitoli secondo me sono i peggiori, con la deriva pulp che accende il fuoco d’artificio di sesso e violenza del finale. Il libro è chiaramente un libro commerciale, ha gli ingredienti giusti per farsi leggere anche da chi non ama leggere, è scorrevole e parla di intrecci sentimentali erotici con abbondanza di dettagli morbosi per chi ama il genere.
Non lo consiglio a chi cerca qualcosa di bello da punto di vista letterario.
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Il poeta gaglioffo e la lampada misteriosa
Parigi 1463, François Villon sta contando le ore che lo separano dalla forca alla quale è stato condannato per recidiva di reati. Educato alla vita pia, alle lettere e alla cultura dal padre adottivo, Guillaume de Villon, canonico di Saint-Benôit, François è stato attratto, sin da giovane, dall’esistenza fellona e godereccia trascorsa ai margini della società e della legalità. Adesso dovrà scontare tutte in una volta le sue innumerevoli bravate. Inaspettatamente, però, quando ormai ha abbandonato ogni speranza di cavarsela per l’ennesima volta, gli viene comunicato che gli e stato concesso il condono della pena. Ma le condizioni alle quali gli viene restituita la libertà sono pesantissime: il bando da Parigi per dieci anni e, soprattutto, l’obbligo di recarsi in Borgogna a rintracciare il "re del Coquillard", Nicolas Dambourg, bandito gentiluomo che Villon considera come un secondo padre, assieme al canonico. Questo vincolo gli è stato imposto da un misterioso individuo incappucciato da un manto grigio e di aspetto minacciosissimo. Forse, nonostante tutto, lo spirito ribelle di François lo spingerebbe a eludere questa imposizione che sa tanto di tradimento. Tuttavia una tragica scia di sangue, che il misterioso incappucciato semina tra le persone che gli sono più care, lo costringe, suo malgrado, a portar a termine la missione che rischia di perdere il suo caro amico.
Scoprirà che i motivi, per i quali alcuni potenti individui stanno dando la caccia all’ormai anziano Dambourg, sono connessi a una serie di losche malversazioni commesse in passato da costoro ai danni dei reduci della Guerra dei Cent’anni; appropriazioni che il vecchio brigante vorrebbe smascherare. Sopra tutti vi è implicato pure Jacques de Villiers attuale prevosto di Parigi, la spietata mano della giustizia francese in nome di re Luigi XI e, guarda caso, proprio colui che ha graziato Villon. Intrecciata con questa vicenda ve n’è una ancor più oscura connessa a una misteriosa ampullae diaboli che vedrebbe coinvolto, addirittura, Pedro Zacosta, Gran Maestro dei Cavalieri Ospitalieri.
Vaso di coccio in mezzo a questa miriade di agguerritissimi vasi di ferro, François Villon dovrà dar fondo a tutta la sua inventiva e cercare l’appoggio delle poche amicizie che gli sono rimaste per districarsi dagli impicci e far salva la vita.
Avevo conosciuto la prosa di Marcello Simoni con il suo primo e più noto libro (Il Mercante dei Libri Maledetti) e non ne ero restato particolarmente convinto, perché ritenevo che le tante promesse inizialmente fatte dal romanzo fossero state solo parzialmente esaudite nello svolgimento.
In questa nuova fatica l’A. affronta il non facile compito di inserire una vicenda, fatta di intrighi e duelli e del tutto inventata, in un contesto rigidamente storico, per di più scegliendo come protagonista il più noto dei poeti tardo medievali della letteratura francese e per comprimari molti personaggi realmente vissuti all’epoca. Giunto alla parola fine debbo dire che la scommessa è stata vinta.
La storia furbescamente è fatta partire proprio nel momento in cui Villon, ottenuta la grazia e bandito da Parigi, fa perdere le tracce ai suoi biografi. Dal 1463 in poi nessuno sa più cosa accadde davvero al poeta maledetto né quando sia morto. L’A., quindi, ha buon gioco nell’inventarsi una vicenda alla Robin Hood in cui questo affascinante letterato si trasforma in vendicatore delle ingiustizie commesse dai potenti e difensore del popolo angariato. Lo stile non è esente da mende, ma la prosa scorre rapida e fluida. Non c’è tempo, quindi, per soffermarsi su eventuali imprecisioni, falsi storici o furbesche strizzatine d’occhi al lettore moderno.
L’intreccio, poi, è davvero accattivante, mozzafiato e, tutto sommato, verisimile (la corruzione è vecchia come il Mondo). Con abilità veniamo condotti per le strade di una Parigi medievale che ricorda tanto quella di Hugo, ma che qui le descrizioni rendono così vivida da illuderci di essere davvero tra i tortuosi vicoli, nelle fumose bettole, nei postriboli o entro i cupi palazzi del potere. Sfruttando abilmente le stesse ballate di Villon come fonte di ispirazione e notizie, le atmosfere sono rese vivide e credibili.
In conclusione il libro è godibilissimo e fonte di piacevoli scoperte, anche storiche e letterarie, giacché lo stesso Villon si autocita spesso parlando con i versi che lo hanno reso famoso.
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Ben fatto, vecchio mio
“Ratto”, ovvero l’ultimo racconto di questa raccolta, mi ha lasciato l'impressione che le difficoltà del protagonista a concludere un romanzo nascondano una paura o un’effettiva difficoltà del King recente. Un po’ come le paure espresse in “Misery”. Infatti, sebbene “L’istituto” e soprattutto “The Outsider” siano dei buoni lavori, avevano dei cedimenti che lasciavano in bocca il sapore della stanchezza, dell’indolenza, dell’incapacità di concentrarsi e trovare espedienti narrativi davvero soddisfacenti. Questo li rende, seppur siano godibili, ben lontani dai vecchi capolavori del Re. Per quanto riguarda i racconti, il discorso pare molto diverso: questi ultimi infatti si dimostrano solidi e mantengono tutte le peculiarità che ci hanno portato ad amare King nel corso di tutti questi anni.
Si, “Se scorre il sangue" è davvero un ottimo lavoro.
Ovviamente, l’attenzione di chi si appresta alla lettura è focalizzata sul racconto (o romanzo breve) che dà il nome alla raccolta, che ha come protagonista Holly Gibney e appartiene al filone degli “Outsider”. Questo suggerirebbe che gli altri tre racconti, come accaduto in passato, siano stati buttati lì per rimpolpare un tomo altrimenti troppo sottile: pescati nella massa di inediti scritti dall’autore e buttati lì a caso. E invece sapete una cosa? sono forse ancora più belli del racconto “principe”, ed è davvero difficile decidere quale io abbia preferito; forse quello meno orrorifico e più letterario della raccolta: “La vita di Chuck”.
Variegate eppure estremamente kinghiane, ognuna di queste storie mi ha colpito in modo diverso: “Il telefono del signor Morrigan" mi ha impressionato e spinto a lasciare la luce accesa un po' in più; “La vita di Chuck" ha stimolato riflessioni e pensieri, lasciando il segno con la sua narrazione “invertita”; "Se scorre il sangue" ha placato la sete thrilleristica dell'autore (che fossi in lui abbandonerei; ma se proprio non ce la fa, molto meglio col contesto "Outsider”), fornendo comunque un discreto intrattenimento; "Ratto" mi ha coinvolto nelle difficoltà e nelle paranoie del protagonista scrittore, per il quale non potevo non provare almeno un pizzico di empatia.
Nonostante l'età che avanza, oltretutto, è bello vedere come King si stia adattando ai nostri tempi e spingendosi verso contesti e temi attuali come l’ascesa della tecnologia e il problema cambiamento climatico: cose che è stato molto abile a trattare e integrare soprattutto nei primi due racconti.
Per concludere, se nel caso delle mie ultime recensioni dell'autore ero un po' restio nel consigliare o meno la lettura della nuova uscita di turno, in questo caso non ho alcun dubbio: promosso a pieni voti. Leggetelo.
"Il cervello umano è per sua natura finito - non è altro che una massa di tessuto spugnoso racchiusa in una gabbia di ossa -, ma la mente che vi dimora è infinita. Le sue possibilità sono illimitate, e la sua forza immaginativa va ben oltre ogni nostra capacità di comprensione. Per come la vedo io, quando un uomo o una donna muoiono va in rovina un mondo intero, il mondo che quella persona conosceva, e nel quale credeva. Pensaci, Brian: ci sono miliardi di esseri umani sulla terra, e ognuno di loro ha un mondo intero dentro. Il pianeta come è stato concepito dalla sua mente."
Dal racconto "La vita di Chuck"
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Per appassionati
Ultima conversazione pubblica di Romain Gary , realizzata da Jean Faucher per Radio Canada, poco tempo prima che l’autore ponesse fine alla sua vita, uscendo di scena in modo plateale, stile che gli era consono anche in vita. Sicuramente personaggio eccentrico, poliedrico, noto a posteriori per il suo impossibile doppio Goncourt del quale naturalmente tace anche in questa sede, avendo reso a tutti nota la paternità de “La vita davanti a sé” con una lettera postuma. Un uomo che si svela, ormai sessantacinquenne, cercando di smentire i falsi miti circolanti intorno alla sua persona, sfrondando il personaggio, spesso cucitogli addosso in modo posticcio da altri, per restituirci la persona. Il suo affabulare però è sempre di matrice picaresca e allora il racconto della sua vita, perché questo è in sostanza l’oggetto della conversazione, restituisce ancora nuovi particolari e nuovi miti. Colpisce senz’altro il ruolo rivestito dalla madre nella sua educazione, donna che lo ha portato a contatti con culture diverse, quella russa della nascita a Vilnius, la polacca, e per finire quella francese alla quale, da buona russa di fine Ottocento, maggiormente ambiva: “ il suo unico sogno è stato fare di me un francese”; avrebbe voluto addirittura partorirlo in Francia ma le doglie la sorpresero in viaggio, obbligandola a partorire a Vilnius. Raggiunta la Francia, Nizza per la precisione, quando Gary è in età da liceo, lavora sodo, lasciando la sua vecchia professione per fargli studiare legge, e lui stesso si mantiene con mille mestieri mentre già scrive. Nel 1938 va sotto le armi e tra alterne vicende, poiché non ancora naturalizzato francese, pur avendo frequentato la scuola da aviatore, non diventa ufficiale fermandosi al grado di caporalmaggiore, per non deludere la madre inventa uno scandalo sessuale di cui si sarebbe reso protagonista negli ambienti. Molto spesso traspare, durante la conversazione, un atteggiamento protettivo nei confronti della figura materna, e un rapporto speciale che inverosimilmente si mantiene attivo anche dopo la morte della donna. Niente di trascendentale, tranquilli, ma ancora una volta una situazione che fa somigliare la vita dello scrittore a un vero e proprio romanzo… lascio ai lettori la scoperta. Vero è comunque che questa conversazione, in termini di fatti, probabilmente non aggiunge molto alla sua prima autobiografia “La promessa dell’alba”, risalente a vent’anni prima, se non chiarire la stretta relazione esistente tra vita e pubblicazioni dei suoi innumerevoli romanzi, aggiungendo aneddoti e curiosità. Vengono quindi ripercorsi gli anni che , dopo la pubblicazione di “Educazione europea”, giudicato da Sartre il miglior testo sulla resistenza francese, lo portano a vivere una rocambolesca attività in campo diplomatico, rigettando infine tutto quel mondo che gli appare attraversato solo da ipocrisie e menzogne, in bilico tra ideali personali e politica coloniale che non condivide ma che si trova, suo malgrado, a difendere. La parte più intensa della conversazione è certamente quella finale, anticipata dalla leggerezza dei ricordi hollywoodiani e da una mini dissertazione sull’umorismo di Groucho Marx, ad avvallare la tesi che “l ’umorismo è l’arma bianca delle persone disarmate” , vi è inoltre una breve ma interessante rassegna sulla letteratura ebraica della scuola letteraria newyorkese. È la parte decadente, la finale, quella del campo che si restringe, dello sguardo volto più al passato che al futuro pur senza far affatto presagire la sua imminente e drammatica morte; una decadenza legata piuttosto a un sentimento della vita che si accompagna alla consapevolezza di non averla vissuta ma di esserne stati vissuti.
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Elementare Kindaichi, elementare
Marzo 1947, il Giappone dopo la disfatta bellica sta lentamente tornando alla normalità. Nelle città satelliti di Tokio però, cominciano a sorgere quartieri malfamati. Tra stradine strette e buie e antichi templi testimoni di un passato più ordinato, spuntano come funghi case di appuntamenti e taverne di dubbia moralità. Proprio in una di esse, la Locanda del Gatto Nero, è rinvenuto un cadavere di donna, malamente sepolto nel cortiletto sul retro dell’edificio. Il corpo, completamente nudo, è in stato di avanzata decomposizione. Soprattutto il viso è irriconoscibile, orrendamente corroso e divorato dai vermi, al punto da rendere impossibile ogni identificazione. La locanda, sino a pochi giorni prima, era gestita da Itojima Daigo e dalla consorte Oshige. Costoro, però, l’hanno ceduta a fine febbraio e ora è in ristrutturazione. Dunque, di chi è quel corpo? I vecchi proprietari sembrano scomparsi nel nulla, ma, stranamente, anche nelle settimane precedenti alla vendita Oshige era praticamente irreperibile, ufficialmente malata, ma celata alla vista pure delle tre inservienti che lavoravano nella locanda. La polizia comincia a temere che il corpo rinvenuto sia quello di Kuwano Ayuko, amante del proprietario, che sarebbe stata uccisa da Oshige in un impeto di gelosia. Quest’ultima, poi, si sarebbe celata al pubblico nel timore di tradirsi. Pochi giorni dopo, però, con un ribaltamento repentino di valutazione, gli inquirenti giungono all’ipotesi che la vittima sia la stessa Oshige mentre, ora, sia Ayuko a spacciarsi per la defunta.
Solo lo strampalato detective privato Kindaichi K?suke, assoldato da Kazama Shunroku, ex amante di Oshige, riuscirà a sciogliere il mistero con un colpo di scena finale.
In questo secondo romanzo che vede come abile risolutore del caso il detective Kindaichi, Yokomizo tenta di affrontare, dopo l’enigma della camera chiusa, un altro classico della letteratura poliziesca: il mistero del cadavere senza volto. Lo scrittore giapponese, come spiega lui stesso nelle premesse, si cimenta col tema tentando una strada innovativa. Quasi si fosse imposto il compito di risolvere un’equazione matematica particolarmente complessa e voglia evitare la soluzione classica, quella nella quale l’omicida si fa passare per vittima, si inventa un piano diabolico che fa attuare al suo assassino.
L’aspetto più negativo del romanzo consiste proprio nell’approccio utilizzato: il rigido meccanicismo del racconto e l’asettica esposizione di un’ipotesi da laboratorio, più che la drammatizzazione di un evento appassionante, lo rendono freddo e poco coinvolgente. Come già nel precedente romanzo (Il detective Kindaichi) anche qui lo svolgimento è tutto teso unicamente a intessere una credibile ipotesi criminosa che smentisca e scardini l’approccio tradizionale. Non una parola è sprecata per una ricostruzione che cali il lettore sulla scena ove si svolge l’azione. Tutto è finalizzato a voler solo dimostrare “scientificamente” che il gioco omicida-vittima possa essere declinato in modi diversi da quelli già utilizzati in passato nella letteratura di genere.
La prima parte del libro, quindi, è dedicata unicamente a fornire gli elementi di indagine senza consentire alcuna partecipazione emotiva del lettore. La narrazione non indulge nella descrizione dei personaggi o delle loro emozioni. I contesti sono descritti solo in funzione dell’enigma che si vuole proporre. Per altro, anche in questo compito l’A. vìola uno dei principi fondamentali del giallo classico: fornire a chi legge tutte le notizie utili in modo da consentirgli, se ne è capace, di anticipare la soluzione finale. Al contrario molti particolari sono tenuti celati e rivelati da Kindaichi non prima della lunghissima spiegazione finale. È lo stesso Yokomizo che, per giustificarsi, ammette che in questa tipologia di enigmi il narratore deve celare la verità all’ascoltatore per avere la possibilità di sconfiggerlo. Opinione rispettabile anche se non necessariamente condivisibile.
Una volta intessuta la trama la seconda parte del romanzo è integralmente destinata alla elaborata spiegazione di come sia concepibile il macchinosissimo (e decisamente artificioso) stratagemma utilizzato dall'omicida. Insomma la costruzione della storia è tutta molto cerebrale e sembra intenzionata soprattutto a mostrare come l’allievo (giapponese) abbia imparato la lezione dai maestri e modelli (occidentali) e abbia saputo superarli in inventiva e fantasiosità. Ritengo che sia un po’ poco perché l’opera risulti completa in ogni sua componente.
Come per il libro che l’ha preceduto, anche in questo, quindi, è il contenitore, inteso come quel soffuso profumo orientale che trasuda dalle righe della narrazione, ad attrarre e dar piacere al lettore, più del contenuto, cioè dell’intreccio poliziesco in sé. Fanno sorridere le reazioni improvvise ed esagerate dei protagonisti a ogni evento inatteso, ma ricordano tanto quegli stupori e quegli scatti bruschi a cui ci hanno abituato la cinematografia e, ancor di più, gli “anime”, nipponici e suscitano simpatia. Le atmosfere, appena accennate, perché date per note al lettore nipponico, sono piacevoli ed esotiche. Quindi, nonostante tutto, si fa presto a calarsi in un Giappone che ormai non è più e assaporarne gli aromi.
In definitiva si tratta di un libro abbastanza gradevole. Tuttavia il lettore smaliziato viene messo sull’avviso: se tutti i romanzi di Yokomizo si dovessero risolvere in una specie di diligente compitino nel quale il romanziere tenta soltanto di riprodurre i temi classici del poliziesco occidentale elaborandoli in salsa wasabi, l’aroma di loto e mandorli in fiore non sarà più sufficiente in futuro a tener vivo l’interesse di chi li legge dall’altra parte del globo.
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L’ULTIMA ISPIRAZIONE
“Che perisse ogni sua speranza. Che se ne stesse solo con la sua gloria, a scrivere per i morti. Avrebbe avuto i suoi posteri, sì, il destino non poteva o non voleva impedirlo: li avrebbe avuti, per secoli. Posterità! Una catena che rotola sulla carrucola: ciascun anello appare per pochi istanti alla luce e subito risprofonda nel buio del pozzo. I posteri non sono che una illusione, lampi che si accendono muti nell’oscurità della storia” (p.99-100).
Un racconto lungo su cui Marco Santagata, nome arcinoto tra gli studiosi di Dante e Petrarca, è tornato più volte per apporre modifiche e varianti: nel 2000 e poi nel 2007 questo libro era stato edito dalla casa editrice palermitana Sellerio. Quest’anno “Il copista” è riedito in versione definitiva da Guanda.
Il protagonista è un Petrarca ormai anziano, amareggiato e ferito dai terribili lutti che lo hanno colpito e tormentato dagli acciacchi dell’età, specialmente dall’ulcera allo stomaco (e l’autore indugia, soprattutto nelle prime pagine, nel descrivere con pochi chiari tratti i particolari del decadimento fisico del poeta).
La perdita del caro figlio Giovanni e del nipote Francesco, periti per mano della peste del ‘61, per non parlare di quella dell’amata Laura, morta tempo addietro anch’essa per la pestilenza, nel 1348, hanno segnato per sempre la vita del sommo. L’evento recente che però lo tormenta forse più di tutti è l’abbandono dell’amato copista: Giovanni Malpaghini, detto anche Giovanni da Ravenna.
Sappiamo infatti che, nella realtà, questo giovane aveva copiato per lui numerosi componimenti del celebre Canzoniere e delle epistole Ad familiares, però ad un certo punto si era rifiutato di proseguire nel lavoro ed aveva abbandonato Petrarca che lo aveva amato quanto un figlio suo.
In questo libro Santagata immagina le motivazioni (inventate, lo dice nella postfazione) dell’allontanamento del giovane.
Santagata immagina un venerdì degli ultimi istanti di vita del poeta fiorentino, in una giornata uggiosa nella triste città di Padova, in cui preso dai ricordi e dalle recenti vicissitudini della sua vita, riesce a concludere una canzone che aveva promesso all’amico Giovanni Boccaccio: la canzone numero 323 del De Rerum Vulgarium Fragmenta, ossia il Canzoniere. Tale componimento è un tributo all’amico dal momento che contiene chiari riferimenti al Decameron, in particolare alle novella di Nastagio degli Onesti ( “la repente tempesta oriental...” è la peste del 1348 di origine asiatica, i cani da caccia che inseguono una fiera dal volto di donna).
Il Petrarca che conosciamo in queste pagine è un uomo distrutto, ancora tormentato dal dissidio interiore tra il desiderio di una spiritualità intima e consolatoria e quello della gloria e del suo ricordo presso i posteri.
Anche se all’epoca in cui era morta, Laura era diventata una “botte da vino” (p.59). ingrossata ed invecchiata dalle troppe gravidanze, continuerà ancora ad ispirare Petrarca, perché il ricordo della sua bellezza rimarrà intatto del suo cuore e nella sua memoria.
“Laura era giovane e bella. Non importava che in quell’aprile lontano fosse morta una donna obesa e invecchiata. Era giovane, perché con lei morivano tutti i giovani. Anzi, tutti gli uomini. Anche i vecchi muoiono giovani rispetto all’eternità. Giovani e belli, perché la vita, unico bene che possediamo, è bella” (pag. 111).
Ed ecco la penna del Santagata ritrarre quei tormentati momenti, riprodurre quei nessi “tra biografia ed ispirazione” di un uomo solo ed abbandonato, ormai stanco nel corpo e nello spirito, stanco di credere nell’al di là, che trova ancora dei fulminei barlumi di autentico slancio artistico per terminare la sua canzone dedicata a Laura.
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Selma Falck
«[…] Sapeva che nella vita esistevano grandi momenti. E momenti piccoli. L’esistenza era una catena formata da elementi forti e deboli, positivi e negativi, istanti di totale apatia e attimi storici, insomma da tutto ciò che avveniva tra la nascita e la morte. La catena era lunga e quel momento, quella situazione assurda andava vissuta e superata.»
Classe 1966, Selma Falck, di anni cinquantuno (siamo a cavallo tra il 2017 e il 2018), è una ex campionessa della nazionale norvegese di fama mondiale insieme all’amica di vecchia data Vanja e al tempo stesso uno degli avvocati migliori sulla piazza. Tuttavia Selma ha un piccolo ma devastante vizio, un problema di ludopatia che la porta a perdere tutto e a ritrovarsi senza un lavoro, senza un marito e i figli, senza una casa, senza denaro e con un appartamento di modeste dimensioni e dubbia igiene a causa della presenza di topi e scarafaggi quale rifugio e un gatto quale unica proprietà. E proprio adesso che ha toccato il fondo ed è certa che per lei non ci sia un futuro, ecco che il passato torna a bussare alla sua porta: il suo ex capo, Jan Morell, padre di Hege Chin Morell, ha bisogno di lei ma non nelle vesti di legale quanto in quelle di investigatrice. Perché? Perché la figlia, campionessa di sci di fondo norvegese, rischia la squalifica dalle Olimpiadi di PyeonChang in quanto risultata positiva alla valutazione antidoping. Il padre è certo di un sabotaggio e per questo chiede l’aiuto, a determinate condizioni, della collega; ella è la migliore e l’unica in grado di poter provare l’innocenza della sportiva. Ad avvalorare la tesi di Jan vi è la successiva morte di Haakoon Holm-Vegge, campione della nazionale di sciatori di fondo, deceduto misteriosamente all’età di ventisette anni durante uno dei tanti allenamenti. A confermare i sospetti di un sabotaggio dei due migliori sciatori della nazionale norvegese vi è un denominatore comune: il clostebol. Entrambi parrebbero aver assunto la sostanza proibita, lo steroide anabolizzante. Che i due casi siano tra loro collegati? Che sia in atto un complotto? Che i due atleti si siano davvero dopati? Nulla è come appare eppure tutto fa parte di un disegno più grande che trova la sua origine nel passato, in una volontà di vendetta radicata e sedimentata per quasi quarant’anni. Riuscirà Selma a trovare le risposte alle tante domande irrisolte?
«Anche se credi di conoscere la risposta. Non devi costruire prima il tetto della casa, ma scavare per gettare le fondamenta.»
“La pista. La prima indagine di Selma Falck” è un buon giallo, un testo con un intreccio narrativo interessante e ben sviluppato, asciutto e scorrevole, fluido e rapido nella lettura. I personaggi sono ben caratterizzati e le vicende incuriosiscono anche il lettore meno avvezzo alla conoscenza dello sport presentato. L’opera si sviluppa in modo lineare e conduce per mano il lettore sino ad un epilogo che offre una buona risoluzione dell’enigma. Forse un poco acerbo essendo il primo episodio di quello che si presume essere una nuova saga. In ogni caso una lettura godibile, piacevole, immediata con cui trascorrere ore lievi.
«La paura riempiva la stanza. Era annidata in ogni angolo. Si celava dietro le tende tese e chiare che, spinto da un istinto quasi irrefrenabile, avrebbe voluto tirare. Persino al di là di quelle finestre ridicolmente enormi, tra gli abeti cupi che si stagliavano lungo il parcheggio, aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di indefinito e grigio che minacciava di penetrare attraverso il vetro e ghermirlo.»
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Ricostruire il palazzo di Cnosso
Profondo, introspettivo e ben scritto. Riassumerei il libro in queste tre parole: profondo perché ha come tema centrale il complesso rapporto genitore-figlio, introspettivo perché rappresenta un percorso interiore a ritroso nel tempo attraverso stralci di memoria sui fatti e soprattutto sulle emozioni provate e su come il passare del tempo le ha cambiate, ben scritto perché oltre a una prosa arricchita di belle metafore e profonda essa è pregna anche di un bagaglio culturale non indifferente.
Dostoevskij, in "I fratelli Karamazov" sostiene che ognuno di noi è colpevole nel confronto degli altri, la colpa è la nostra ombra: non ce ne possiamo liberare mai. "I colpevoli" - meraviglioso titolo più che mai rappresentativo di questa opera - ha come personaggi due colpevoli: un padre e un figlio che dopo un periodo di silenzio durato trentasette anni, iniziano a costruire un rapporto padre-figlio che non hanno mai avuto. O meglio, il rapporto c'è sempre stato perché se le relazioni sono basate sulla presenza, nel bene o nel male, l'assenza associata al rancore rappresenta un rapporto ancor più forte. L'odio e l'amore hanno la stessa forza d'attrazione.
Si inizia quindi un percorso introspettivo del figlio che va a setacciare il passato scoprendo e analizzando colpe reciproche ma anche diritti di libertà, un percorso introspettivo sorretto anche dalla letteratura, infatti sono frequenti i riferimenti letterari come per esempio a Kafka e "Lettera al padre" oppure a Leopardi che invia una dura lettera a suo padre, persino la Bibbia viene chiamata in causa, in un bellissimo passo che personalmente ho molto apprezzato:
"A ogni modo la storia e la letteratura ci dicono che non c'è peccato peggiore del tradimento di un figlio nei confronti del padre. Eppure a me sembra peggiore il tradimento del padre nei confronti del figlio, mi sembra più interessante il silenzio di Dio nei confronti di Gesù che muore sulla croce. E se la storia e la letteratura non sostengono che il peccato peggiore è il tradimento di un padre nei confronti del figlio è solo perché la dottrina cattolica non ammette che Dio sia additato come il sommo traditore. Tutto ciò che siamo culturalmente deriva da questa incapacità di porre Dio sul banco degli imputati."
I riferimenti letterali e culturali sono numerosi come dicevo prima: ho avuto l'immenso piacere di imbattermi anche in Thomas Bernhard, autore tra l'altro rinnegato dal padre e sempre accusatorio verso i genitori nelle sue opere, viene citato Dante, Tolstoj e Kant, la "Pala di Brera" di Piero della Francesca ma anche alcuni musicisti che denota probabilmente la passione per la musica dell'autore, riferimenti sempre ben citati e correlati alla narrazione in modo armonioso.
Andrea Pomella si mette a nudo in questo libro dalle forti tinte autobiografiche, ma leggendolo si scopre che a nudo non è tanto il suo personale rapporto con il genitore quanto il rapporto universale tra genitore e figlio in questa delicata situazione in cui la famiglia si disfa e che per un figlio rappresenta un dramma, un peso da portare nel tempo e a volte anche una colpa ingiusta, soprattutto quando il padre diventa una perenne assenza. L'autore parte quindi da un fatto personale e lo allarga mano a mano nel libro dandogli il carattere di universalità, offrendo quindi al lettore la lente d'ingrandimento che permette di vedere ciò che magari sente ma non sa dargli voce.
"L'origine stessa della discordia deriva da questa insopportabile lontananza che corre tra mia madre e te. Non potevate essere un famiglia, generare figli capaci di tollerare il mondo in perfetto equilibrio fra le vostre due posizioni. Oggi me ne rendo conto più che mai. Il conflitto eterno entro cui mi dibatto deriva da questo. Tu ti sei preso un poco di vita, mia madre e io la vita l'abbiamo lasciata lì. E io, scrivendo, cerco di comprendere, o meglio di allontanarmi dalle scintille del vostro conflitto. Scrivendo, cerco di salvarmi, come un delfino imprigionato tra le chiglie di due navi in perpetua collisione."
E' anche un libro sul perdono in senso lato, moto ben illustrato e caratterizzato: il vero perdono è laddove si perdona l'imperdonabile, tutto il resto sono atti di pietà dettati dalla compassione. Un libro davvero prezioso per quanto mi riguarda e che aiuta ad allargare gli orizzonti, a vedere oltre, a comprendere, un libro attraverso il quale l'autore da voce a ciò che rimarrà muto nel nuovo rapporto padre-figlio, affinché "la vecchia vita non intacchi la nuova".
"Abbiamo attraversato molte età, abbiamo affrontato gioie e dolori, ciò che ora siamo è il risultato di questa distanza: tu e io siamo un cumulo di circostanze che non riusciremo mai a riepilogare, neppure se un dio benevolo ci concedesse altri trentasette anni da trascorrere insieme."
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Ancora tu. Ma non dovevamo vederci più?
Ancora lei, Olive Kitteridge. Burbera, spietata, a tratti feroce. Ma anche sincera, vulnerabile, compassionevole. Cosa è cambiato, allora? Cosa aggiunge questo romanzo a quanto già sapevamo sul villaggio di Crosby nel Maine e su questa eccentrica donna, che ci siamo ritrovati in qualche modo ad amare più di dieci anni fa? Il tempo.
Lo sguardo che permea questi racconti è infatti quello di chi è arrivato alla fine del proprio viaggio e inevitabilmente si volta indietro, ai miliardi di albe e tramonti che ci hanno regalato lampi di emozione, ma anche agli errori, ai segreti, alle persone allontanate che ora si vorrebbe poter riavere con sé. E ci si aspetterebbe che, osservato all’indietro, il percorso ci mostri chiaramente il suo senso, plasmato sull’incrollabile verità di ciò che siamo, invece molto di quel che abbiamo vissuto appare infine come qualcosa di accettato, modellato dal caso o dalle circostanze. E ci si sente allora come un pezzo di corteccia a galla sul fiume, in balia dell'acqua, inconsapevolmente in corsa verso la cascata. Oltre la cascata, una solitudine che si colora di paura. Paura di non avere più occasioni o di concedersi di sperare ancora. Di essere traditi dal proprio corpo o dalla propria mente. Di morire.
“E capì che non bisognava mai prenderla alla leggera, la profonda solitudine della gente, che le scelte fatte per arginare quella voragine di buio esigevano molto rispetto”.
È con straordinario rispetto e delicata sensibilità che Elizabeth Strout ci presenta ancora una volta fette di vita quotidiana composte di piccoli gesti, mettendoci di fronte a personaggi sempre in bilico tra l’ordinario e il luminoso, ciascuno con il proprio bagaglio di debolezze, indegnità, rimpianti, ricordi. Senza ergersi a giudice, ma con tenera accoglienza. Ancor più in questo ultimo lavoro, che si avvolge intorno allo stadio della vita forse più fragile e colpito dalla sofferenza. Le pagine si animano di una soffusa malinconia. Le parole appaiono così candidamente limpide e schiette da brillare di poesia. L’emozione del nudo dolore e delle sue inattese consolazioni arriva dritta al cuore. Ricordandoci infine che è proprio nel saper tendere l’orecchio, nel chiedere agli altri qualcosa di sé, nell’empatia, che si può trovare un conforto a quell’abisso che è la solitudine.
“Non ho la minima idea di chi sono stata. Dico sul serio, non ci capisco niente”.
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L'alchimista del thriller
La coppia Ballard-Bosch è ormai super affiatata, e promette di tenerci compagnia ancora per un bel po'. Devo dire che, probabilmente, è proprio la capacità che Connelly mostra nel tratteggiare personaggi carismatici e molto vari a garantirgli il successo che ha, e probabilmente avrà ancora per un bel po' di tempo. Penso, oltre ai protagonisti, anche alla forza che ha un personaggio come l'avvocato Haller, che riesce a dare ai romanzi dell'autore quella sfumatura "legal" che rende il tutto più variegato. L’autore si è costruito un contesto super-dinamico, che non annoia mai e non risulta mai ripetitivo.
Connelly ha trovato la formula perfetta per sfornare un romanzo godibile dopo l'altro.
Attenzione però, perché forse è proprio in questo che sta anche il maggior difetto dei suoi romanzi. Sì, perché si percepisce che è un romanzo prodotto secondo una formula; seguendo uno schema che è sempre molto simile pur variando nei contenuti. Cosa implica questa osservazione? Che Connelly potrà sfornare tanti romanzi godibilissimi, ma sarà molto difficile che sforni un romanzo "capolavoro”; sempre restando nei limiti del genere.
“La fiamma nel buio", infatti, segue due o tre linee narrative come tutte le opere di intrattenimento moderne: vuole tenerti incollato a spingerti ad andare avanti, e ci riesce egregiamente. Tuttavia, nella corsa adrenalinica verso la risoluzione dei casi, il lettore non prova più l’ebrezza del coinvolgimento cognitivo, peculiare dei gialli classici; non gli è più possibile fare le sue supposizioni, e dunque deve solo lasciarsi trascinare dagli eventi e dai personaggi. C'era un tempo in cui i thriller provavano a mantenere un minimo di questa peculiarità giallistica: penso a "Il collezionista di ossa" di Jeffery Deaver, tanto per fare un nome. Ma a quanto pare il genere ha ormai preso questa direzione, e quantomeno posso dire che Connelly si è adattato a questa realtà meglio di altri.
Dunque, se cercate una lettura adrenalinica, veloce e coinvolgente, potete tranquillamente leggere “La fiamma nel buio". Seguirete Ballard e Bosch nella risoluzione di ben tre casi: l'omicidio di un giudice, di un vagabondo e di un ragazzo morto ormai da trent'anni.
Buon divertimento.
“Se prendi ogni caso sul personale, ti arrabbi. La rabbia è un fuoco che ti dà la forza di andare fino in fondo ogni volta.”
UNA STORIA A CUI MANCA QUALCOSA
Il protagonista di questo libro è Alberto, un uomo di mezza età, che scopre di avere una malattia incurabile e che per combattere la paura, il senso di smarrimento e l'ansia per la sua condizione, decide di fingersi cieco.
Ogni giorno si reca in un parco e si siede sulla stessa panchina respirando e guardando la vita attorno a sé.
E' proprio il parco il centro della storia, in questo luogo avviene quasi tutta la vicenda, anche se l'autore scopre i vari tasselli del puzzle poco a poco, creando un meccanismo di attesa, utilizzando per di più frasi molto brevi.
"Sapevo fin troppo bene cosa sarebbe successo. Niente. Il tempo avrebbe fatto il suo lavoro inesorabile e il male giorno dopo giorno si sarebbe mangiato parte di me. Era semplice"
Un giorno, accanto a lui si siede Flavia, giovane donna che inizia a raccontare ad Alberto la sua vita difficile, la sua voglia di scappare da un matrimonio sbagliato e da un marito ossessivo. Flavia è in una vera e propria crisi e sta mettendo in discussione la sua vita e le scelte che ha fatto nel suo passato.
Nonostante la sua condizione Alberto cerca di non vivere nell'angoscia e di non lasciarmi sopraffare dalla tristezza, ma è l'incontro con Flavia che gli darà, anche se per poco tempo, ancora la voglia di vivere.
"Ho cercato di non pensare. Non pensare, mi ripetevo. Tu non devi più pensare, nè al passato, nè al presente, tanto meno al futuro. Devi solo lasciarti vivere."
Ma da un momento all'altro Flavia non tornerà più al parco e ad Alberto non resterà che scrivere "la loro storia" in una sorta diario, sperando che almeno quelle parole possano arrivare alla donna e come ci dice il titolo, "le parole lo sanno dove andare."
La struttura del romanzo è una sorta di libro nel libro, il primo capitolo ci descrive la figura di un uomo che trova il diario su una panchina, è una sorta di "messaggero neutrale" che ci introduce alla narrazione vera e propria.
Infatti, il suo compito è solo quello di accompagnare il lettore ad un livello successivo, portandolo a leggere quello che ha scritto Alberto.
Dopo questa prima parte sono andata un po' in confusione perché lo stile di scrittura è molto descrittivo e specifico, volto a spiegare "passo-passo" quello che faceva il protagonista o il personaggio della scena, a lungo andare annoia e sembra quasi un elenco; tipo : mi alzo, ho chiuso la porta alle mie spalle o sono uscita in strada.
Personalmente, questo tipo di narrazione non mi entusiasma quasi mai, preferisco un testo che " premia" l'utilizzo dei dialoghi che avrebbero alimentato un po' il ritmo della storia.
Il lettore fatica a conoscere il protagonista, fino a pagina quarantatré non né conosce neanche il nome.
Ho trovato interessante e molto vivida la descrizione dell'ambientazione, che è il luogo d'incontro di Alberto e Flavia, il parco. Luogo dove, in un certo senso, inizia e finisce il romanzo.
Quello che mi ha lasciato perplessa più di ogni altra cosa è stata la costruzione della trama che ho trovato poco verosimile.
Mi sembra molto forzato che una persona si sieda in una panchina e racconti ad uno sconosciuto, come se non fosse nulla, i propri problemi personali. Anche perché stiamo parlando di una donna che in teoria sta subendo della violenza domestica.
Molte donne non ne parlano con nessuno e Flavia lo dice al primo che incontra? Ad una persona che conosce appena? Non pensa che visto che il marito la controlla, possa scoprire che ogni giorno incontri un uomo al parco?
Chi è veramente Flavia? Io non ho capito se sia una vittima inconsapevole o una carnefice e se le sue siano solo paranoie, inoltre penso che lei avesse capito fin dal principio, che Alberto non era cieco.
Io sono sempre dalla parte delle donne, ma in questo caso mi vengono dei campanelli di allarme, probabilmente l'autore doveva sviluppare maggiormente la storia per farci capire qualcosa in più su di lei.
Il lettore è comunque invogliato alla lettura, vuole capire cosa succede perché Flavia da un giorno all'altro sparisce, cosa le è successo?
**INIZIO SPOILER**
Il finale non soddisferà tutti i nostri punti interrogativi, anzi, rimane sospeso e non c'è nessun colpo di scena eclatante. Un finale che non possiamo definire tale.
**FINE SPOILER**
Non mi sento di dire nulla sul tema delicato della malattia, anche se ho letto altri libri su questo argomento, non riesco ad apprezzare o meno la scelta di parlare di un argomento così particolare.
Mentre la violenza sulle donne è un tema molto attuale e anch'esso complesso, qui viene trattato con molta superficialità, sembra quasi per fare "effetto" sull'emotività del lettore, a mio avviso non doveva essere inserito nel testo in questo modo.
Sicuramente l'autore sa scrivere e anche bene, molte frasi sarebbero da inserire come citazioni, starebbero bene nei social, ma la bella scrittura non si è sposata ad una trama altrettanto magnifica; l'intreccio inizialmente sembra avvincente ma poi scoppia come un palloncino non lasciandoci nulla.
Secondo me, il libro doveva essere sicuramente più lungo, per spiegare meglio alcune cose, alcuni passaggi e le scelte dei due personaggi principali.
Nella sovraccoperta l'editore ci descrive il libro come una possibile storia d'amore e un romanzo d'azione, due paroloni che magari possono passare inosservati ad un lettore "occasionale" ma non a me.
La storia d'amore tra Alberto e Flavia non la definirei tale, perché è un sentimento negativo che porta alla distruzione, all'allontanamento e anche ad altro che non svelo e non trovo azione sinceramente, perché manca quel qualcosa in più che l'autore non ha scritto e che noi ci aspettavamo.
Visto la recente riduzione dello sconto sui libri, non mi sento di consigliare questo libro perché l'autore con la sua storia e i suoi personaggi non è riuscito a trasmettermi nulla, ha trattato alcuni argomenti con leggerezza, senza un approfondimento psicologico e senza la dovuta profondità.
E' un vero peccato, perché all'inizio il romanzo mi stava piacendo.
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Filippo, Ruggero, Walter.
Nel 1983 la famiglia Addamo è composta da quattro persone: il padre Paolo venticinquenne, camionista trasportatore, la madre Rosa ventunenne casalinga, la piccola Eleonora di cinque anni e Filippo Addamo, di tre, nonché il primo protagonista di questa prima storia narrata da Walter Siti. Filippo è un bambino coccolato dalla madre anche un po’ viziato, se vogliamo. È un giovane che studia fino alle scuole medie, che vede nascere altri fratelli e sorelle e che decide di smetterla con quella perdita di tempo che è lo studiare perché i soldi sono più importanti e redditizi. E così dopo una licenza media senza infamia e senza lode comincia con i primi lavoretti al bar, comincia con le prime sigarette, le prime sbagliate compagnie, le prime visite alle “buttane”, le prime sniffate di coca. Dal lavoro al bar passa al lavoro al mercato, alle serate in discoteca e a piccoli reati che lo vedono sempre più parte di traffici loschi e sempre più vicini ad organizzazioni criminali. Non arriva ancora ai sedici anni eppure il suo percorso è già quello di un uomo vissuto e sotto certi aspetti bruciato. Il rapporto con la madre resta morboso, un cordone ombelicale che non viene mai tagliato davvero e che lo porta a non tollerare un gesto di lei. Un tradimento che merita una punizione, una punizione che arriva senza ammissione di sconti di pena anche se i suoi genitori sono ormai separati: la morte. Filippo, quasi vent’enne, la uccide e viene condannato. È un matricida e quel marchio non lo abbandonerà mai, nemmeno dopo la condanna definitiva e la conseguente detenzione carceraria.
Suo coprotagonista è Ruggero Freddi, l’arrampicatore sessuale. Colui che proviene da una famiglia, al contrario, facoltosa ma che vuole di più e per raggiungere quel qualcosa in più è disposto a tutto. La strada che sceglie lo conduce a dover prendere decisioni drastiche, quali il trasferirsi prima in Canada e poi a New York ed anche ad interrogarsi sul se prostituirsi o meno. Diventa uno dei pornoattori omosessuali più noti e conosciuti.
«Gli uomini hanno sempre tenuto di fronte alla Natura un atteggiamento duplice: da una parte la considerano il ventre da cui sono nati (Madre Natura, atavica e provvidenziale nutritrice con cibi bio) e quindi la loro giustificatrice suprema, dall’altra la combattono come una nemica (la Natura Selvaggia) che dev’essere contenuta e domata mediante la cultura. Il rapporto tra i due atteggiamenti è mutato a seconda dei luoghi e dei tempi Nei tempi (e nei luoghi) in cui la Natura prevaleva con l’esuberanza delle foreste, la vastità dei fiumi, l’inaccessibilità dei monti, gli uomini si confondevano per resisterle e la cultura era una forma di solidarietà difensiva. Man mano che la Natura è stata sconfitta dalla tecnica, fiore supremo della cultura inventata dagli uomini, ed è sembrato che nella guerra ingaggiata dagli uomini contro la Natura fosse quest’ultima a uscirne perdente e schiava, gli uomini hanno cominciato a trattarla sottogamba, a sentirsi trionfatori, a inorgoglirsi della cultura che li aveva trasformati nei re della Terra. La cultura è diventata una bandiera d’aggressione, uno stendardo competitivo per le élite, una lotta a chi poteva vantare i think tank più integrati e gli ordigni più performanti. Ma il difetto della cultura è che inevitabilmente si degrada diffondendosi dalle élite alle masse, e soprattutto che non può essere trasmessa come patrimonio genetico.» pp. 166-167
Due volti molto diversi sono quelli narrati in questa doppia storia e doppia biografia (perché di questo si parla, i fatti narrati attengono a circostanze davvero accadute e rendicontate direttamente dai due interpreti delle vicende) ma tra loro molto vicini. Seppur l’uno proveniente da una famiglia economicamente più debole e culturalmente radicata e l’altro proveniente da un ceto sociale più alto, entrambi gli uomini sono accomunati da un desiderio di fama e successo ma anche dal desiderio di divorare la propria vita, di avere un riscatto, di giungere a un dove e un perché. Sono altresì i volti di un tempo scomparso, sono due voci di un tempo passato, di un secolo concluso e rarefatto nella memoria di alcuni, sconosciuto nella mente di altri, che ha lasciato il posto a un secolo fatto di telecomunicazioni, social network, guerre polverizzate, etc per portarci ad una nuova freddezza naturale nei confronti della realtà circostante a discapito di empatia e sensibilità. E anche la scelta delle due storie da narrare non è stata casuale. Perché se da un lato è vero che queste sono capitate tra le mani di Siti quasi per caso e su richiesta di una narrazione da parte dei primi attori è anche vero che il narratore ha deciso di dargli sostanza e forma in questo romanzo per un motivo ben preciso che viene spiegato nella parte conclusiva dell’opera e che non vi anticipo per ovvie ragioni.
La narrazione procede alternando i due fatti e riportandoli con quanta più fedeltà e giusto artifizio narrativo possibile. È un testo che solletica la curiosità del lettore ma che sa essere anche molto provocatorio per le riflessioni sottese che solleva nonché per le problematiche inerenti che possono essere più o meno apprezzate e che riguardano prevalentemente l’uomo degli anni duemila. Il risultato è quello di un elaborato che scuote, che si propone come una fotografia di una fase storica e di una società culturale in continua evoluzione con tutte le sue criticità e le sue crepe.
Un libro che non arriva subito e che si articola su molteplici domande che vengono alle mente durante la lettura e che trovano risposta, in alcuni casi parziale, soltanto nella sua conclusione. Adatto a chi ama biografie e temi di attualità su cui meditare.
«Forse perché la vita cominci davvero, serve un fatto esterno che la invada e la inquini come il casuale granello di sabbia invade il cuore dell’ostrica – ogni giorno ovviamente si reagisce a fatti esterni, ma di solito li si incamera nella bolla che ci siamo costruiti e che siamo avvezzi a considerare il nostro “io”. A un istante decisivo, invece, uno di questi fatti lievita, diventa sproporzionato rispetto al resto; quel fatto anomalo e mutante, nella maggior parte dei casi, contiene un’azione che abbiamo contemporaneamente voluto e disvoluto: proprio per questa sua natura ibrida noi permettiamo che percorra senza ostacoli un buon tratto di quella strada che esisteva dentro di noi e che non conoscevamo»
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No: a chi non ama il genere.
Conti in sospeso
Tarcisio Ghezzi non si aspettava quella visita. Non si aspettava di rivederla dopo trent’anni. Lei, di professione prostituta, la Franca, era ed è la donna di Salina Pietro, il suo primo arresto, di anni trentasei all’epoca dei fatti, di mestiere ladro. È sparito. Da oltre una settimana del rapinatore si sono perse completamente le tracce. La compagna è disperata, non può che chiedere aiuto al suo “vecchio amico”. Al contempo Gregori, vicequestore, vuole capire cosa sta combinando Carella. Carella che ha oltre duecento giorni di ferie accumulate, che non ne ha mai chieste, che gli sono sempre state imposte e che sono sempre state da lui utilizzate per risolvere qualche caso in proprio, Carella che gli ha chiesto dei giorni di vacanza. Lui che chiede dei giorni per stare a casa? Questa cosa proprio non torna soprattutto se a questa atipica richiesta si aggiunge anche il fatto che è stato avvistato da dei colleghi sotto copertura in ambienti poco leciti, in atteggiamenti ancora meno che legali, a bordo di auto extralusso come Maserati, Suv e affini, con compagnie ben note della mala, in una bisca al Giambellino, e a tavoli da gioco intento a sperperare denaro. Cosa cavolo sta combinando Carella? Gregori è convinto che dietro ci sia qualcosa e chiede al sovrintendente di indagare sull’affezionato di vecchia data. Qualcuno sostiene che l’agente possa non essere così “pulito” come potevasi pensare ma Ghezzi non ha dubbi: se ha chiesto quei giorni è perché ha deciso di lavorare in proprio e deve risolvere un caso. Conoscendo però il collega, questo potrebbe essere molto più pericoloso e molto più rischioso del previsto.
E non ha torto. Perché Carella non dà retta, non sente, combatte una guerra sua, non ascolta gli altri soldati, passa in mezzo al fuoco e non si brucia perché l’obiettivo che deve raggiungere è sopra a tutto. Sono diversi, loro. Ghezzi è uno che li prende, i criminali, se c’è da prenderli. È uno che li porta dal magistrato e dopo, affari loro, ma Carella no. Carella è uno che fa la guerra. Chi cerca Carella? Cerca Alessio Vinciguerra, che è uscito dal gabbio. Grosso, biondo di un biondo bianchiccio, occhiali a goccia, la giacca di una misura inferiore alla sua, scarpe lucide. Trentanove anni. Ne aveva trentaquattro e mezzo quando è entrato, adesso però è di nuovo libero. Ed ancora lei, la Marazzini. In coma, pare per overdose da eroina. Tuttavia, la ragazza era pulita da oltre due anni. Aveva capito di aver fatto una cavolata ed era uscita dal giro. Uscita per davvero. Uscita per ricominciare e andare avanti. Qual è il suo ruolo nel caso? E perché Carella le fa visita? Che ruolo ha nelle vicende?
Con “I cerchi nell’acqua” tornano in libreria Tarcisio Ghezzi e Carella, i due poliziotti creati dalla penna di Alessandro Robecchi e che sono protagonisti, questa volta, di due racconti apparentemente spezzati fra loro, di fatto, convergenti in un centro più grande che non delude le aspettative e che anzi soddisfa i palati dei lettori. I due casi non ufficiali, intervallati con la quotidianità dell’ufficialità e della vita ordinaria degli agenti, conquistano sin dalle prime pagine e trattengono il lettore con naturalezza sino alla sua conclusione. E non puoi staccarti. Lo leggi con l’appetito di chi vuol sapere e non riesci a smettere. Quelle 394 pagine, semplicemente, le divori. Non c’è Monterossi, che assiste da lontano, incredulo e disarmato, niente Oreste, niente lustrini, niente fronzoli. Ci sono soltanto loro due, i casi da risolvere provenienti da un passato tornato presente e Milano, la mala di Scerbanenco. Ad aggiungersi a questo poliziesco ricco di colpi di scena e dai tratti del noir americano vi è la moralità e un giusto pizzico di ironia. Quest’ultima, mixata a personaggi solidi, ad una trama credibili e ad uno stile accattivante rende il titolo imperdibile.
Godibilissimo, pantagruelico, luculliano.
«Il delitto, qualunque delitto, dalle botte al furto in casa, fino all’omicidio, crea una scia di dolore che non è possibile calcolare. Il sassolino nell’acqua ferma produce un cerchio, poi un altro, poi un altro, i cerchi si allargano. Il morto è morto, cazzi suoi, ma il dolore per la sua morte si contagia come una brutta scabbia. I parenti, le mogli vedove, i mariti affranti, i figli, i genitori, gli amici. Tutti quei cerchi di privazione, di lutto, potevano essere infiniti, e chi ci restava dentro era segnato, forse per sempre. Era un’altra vittima.» p. 68
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Del niente e altre storie
Un libricino che si legge velocemente, anche in un pomeriggio volendo, e che contiene sette racconti in cui la protagonista è una donna. Donne di facili costumi come Levia, altre dedite completamente alla famiglia come Catarina, mezze streghe che preparano pozioni velenose come Giovanna Bonanno, altre donne indipendenti come Francisca o intellettuali come Ignazia, artiste come Annarcangela e badesse animaliste, tutte storie vere di donne realmente esistite tra seicento e settecento e che l'autrice rielabora riportandole alla luce della memoria. Donne che a loro tempo sono state "sopra le righe" e in un modo o un altro, ci lasciano la pelle. Siamo anche nel periodo dell'Inquisizione quindi vuoi per accusa dello stato o semplicemente perché esistono in un periodo che non consente spazio allo sbocco della propria indole (come ad esempio nel caso di Ignazia), quasi tutte e sette trovano la loro fine o bruciate sul rogo oppure affogate nella propria depressione. Solo Francisca sembra salvarsi, "masculu fora e fimmina intra", donna di grande tenacia.
Con una citazione di Marguerite Yourcenar che da inizio ai giochi (grandissima scrittrice che mi ha subito riportato in mente la bellezza e la vividezza di "L'opera al nero" ambientata anche essa in un remoto passato) è stata per me una lettura non gradevole per vari motivi. Innanzitutto la dimensione: molto brevi, il che non è un difetto, ho letto racconti di Kafka ad esempio brevissimi ma di una intensità e poesia che stordisce. Certo nomino una eccellenza quindi non incolpo l'autrice di non riuscire a toccare certe vette, MA, considerando che queste storie sono realmente esistite e quindi prese da vecchi documenti, mi aspettavo che il lavoro di elaborazione fosse più impegnativo e quindi un po' più ampio, che valesse insomma la pena di ridare vita a questi personaggi. A me invece, in questi racconti molti dei quali davvero brevi eppure suddivisi in prefazioni, parti, mini capitoli, movimenti, postfazioni ed epiloghi, è sembrato che sia stato aggiunto ben poco. Per non parlare del fatto che in un racconto spesso viene descritta tutta la vita del personaggio nonché nominati alcuni eventi storici, come per esempio il terremoto in Sicilia del 1693, ma rapportando l'ampiezza del testo alla quantità di informazioni fornite, alla fine il risultato è un mero resoconto che non appaga e non lascia nulla al lettore. Avrei preferito la descrizione di un'ora significativa della vita dei personaggi (come ad esempio l'interrogazione di Francisca davanti al giudice con la descrizione dei luoghi e delle sensazioni provate) piuttosto che quella della loro intera vita, sorvolando quindi su tutto. Secondo la mia modesta opinione di lettore, il racconto è lo squarcio su una scena, la descrizione minuziosa un fatto curioso, un tuffo nell'intimo dei personaggi, altrimenti leggo un romanzo. Non ho riscontrato nulla di tutto ciò e nessun personaggio mi è rimasto impresso proprio perché non è stato personificato, inoltre per la scarsità di dettagli nemmeno nell'ambientazione sono riuscita a penetrare.
Oltre alla dimensione e alla struttura, neanche la prosa lascia il segno. Sicuramente l'impegno ci sarà stato perché un leggero sforzo l'ho avvertito tra le righe, ma non ho avuto la sensazione di una prosa fluida e armoniosa perché l'introduzione di termini datati, allora in uso, stonano con l'utilizzo di altri moderni, di oggi (tipo "pub" o "discoteche" ma poi le donne "sgravano" o usa termini come "Coriosità", "hominigno", "bresbigio"). La parola è molto elastica, in un testo si può mettere di tutto e l'ho visto fare in molti libri, ma secondo una ricetta, una logica, altrimenti l'insieme non è piacevole.
Infine la morale della storia, che è debole pure essa. Certo si parla di altri tempi e bisogna contestualizzare il tutto perché le situazioni presentate non sono più attuali. Ci unisce a quei tempi la forza delle donne e la volontà di combattere ma è debole come messaggio se unito a quello che ho descritto sopra.
Concludo con una nota positiva, una delle due frasi che mi sono piaciute nel libro e che ho sottolineato:
"La vita- ripeteva alle donne che maliziosamente gli chiedevano quando si sarebbe deciso- è bella solo se raccontata. Dentro le parole non c'è freddo, né carestia, né paura: Gli uomini possono soffrire senza dolore, mangiare senza pane, morire senza morte." (tratto dal racconto "Correva l'anno 1698...")
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Bologna nera
"Blu notte". “L’inverno più nero". È chiaro che a Carlo Lucarelli piacciano le tonalità scure, e scure sono anche le vicende e l'ambientazione di questo suo ultimo romanzo, che ha come protagonista il commissario De Luca.
Ma partiamo dall'ambientazione, che secondo me è l'aspetto più interessante e riuscito del romanzo: una Bologna del 1944 in piena occupazione tedesca; dilaniata dalle bombe; pregna del terrore perpetrato dalle truppe naziste e dai fascisti; soggetta a coprifuoco e a spaventose limitazioni della libertà individuale, sia essa di espressione o di semplice movimento. È in questo contesto che si muove il nostro De Luca, che pur essendo un commissario di polizia viene continuamente bloccato per controlli, guardato con sospetto, intralciato nelle sue funzioni o costretto a far cose che vanno oltre ogni etica o morale .
Le vicende in cui De Luca si trova coinvolto sono ben tre: omicidi a danno di persone piuttosto diverse tra loro: un ingegnere, un professore universitario e, udite udite, un componente delle SS. Forse sta qui il punto debole del romanzo: troppa carne a cuocere; si finisce per perdersi e confondersi tra un caso e l'altro, dando oltretutto l'impressione di non averli approfonditi abbastanza da renderli interessanti. Certo, la bella sensazione che si ha quando tutti i tasselli vanno al proprio posto è comunque presente, ma un po' sfumata dall'impressione che tutto si sia risolto in maniera un po' semplicistica, senza indagini troppo approfondite o colpi di genio veri e propri. Forse De Luca è uno di quei commissari che fanno dell'istinto il proprio cavallo di battaglia a discapito dell'intuizione, ma è chiaro che risulti più interessante un investigatore chi arrivi alle soluzione del proprio caso tramite logiche deduzioni, piuttosto che perché "se lo sente". Certo, non in tutti i casi è così, per De Luca: anche lui fa le sue deduzioni, ma queste non sono mai dei veri e propri colpi di bravura, bensì vengono fuori da semplici interrogatori o indizi piuttosto chiari.
Di contro, devo dire che i personaggi descritti da Carlo Lucarelli, seppure siano troppi in conseguenza dei troppi e diversi eventi raccontati, sono comunque ben caratterizzati. Ammetto che, infatti, gli eventi tragici che travolgono alcuni dei nostri protagonisti e comprimari mi hanno colpito e coinvolto, facendomi capire che tra me e loro s'era comunque creata una connessione empatica.
In conclusione, direi che se Lucarelli avesse limitato gli archi narrativi ne sarebbe risultata una lettura ancor più godibile. Il mio giudizio resta comunque positivo, seppur più concentrato su ambientazione e personaggi e non sulla storia che comunque, in romanzi di questo genere, dovrebbe essere un aspetto fondamentale.
“Ci sono freddi diversi, anche in inverno. Ci sono quelli che fanno male alle ossa, quelli che strizzano la testa e ci sono quelli che bruciano la gola e i polmoni. Ma il suo era un altro, perché non era entrato con l'aria ghiacciata della stagione, e neanche con quella umida di quella stanza gelida e nuda. Veniva da dentro il freddo che gli stringeva lo stomaco e il cuore. Era il freddo della paura.”
In vetrina da Macy's
La scrittura di Yates a me piace moltissimo. E' leggera, ironica, sincera sembra naturale e non artificiosa. Non è mai ricercata, elaborata, intellettuale. Per dare l’idea, ricorda un po’ il modo di raccontare del Giovane Holden o di Fante in Chiedi alla polvere. I dialoghi sono brillanti, il testo scorrevole. Spesso le cose che narra sono in parte autobiografiche o comunque prende abbondantemente spunto dalla sua vita. C’è anche la consapevolezza che a fare gli scrittori così si finisce in una vetrina con le mutande calate in bella mostra davanti agli occhi curiosi di persone più o meno bendisposte. C’è quindi il senso del ridicolo da affrontare e la paura che non ne valga la pena nascosta tra le righe. Una esigenza di riservatezza, ma anche l’idea che l’Arte sia su un altare, superiore a ogni altra cosa, compreso il denaro. All’arte è dedicata la vita non solo del protagonista ma di ogni personaggio. Il protagonista e i suoi amici sono tutti artisti e le donne amano non tanto o non solo il bel ragazzo ma spesso l’artista presente o futuro e l’amore è legato alla fiducia nel valore artistico più che umano. Questo causa delle frustrazioni, delle paure, rende difficile affrontare la vita senza la compagna o senza il sostegno di una compagna. Chi non è artista, ad esempio Lucy, cerca di diventare artista di qualche arte provandone diverse. C’è anche una buona dose di ironia nella descrizione delle scuole di scrittura, insegnanti e allievi. Anzi è una delle descrizioni più divertenti e anche interessanti che mi è capitato di leggere. In America credo che ci sia un certo tipo di insegnante – scrittore e un grande mercato legato a questo tipo di scuola, come anche alle scuole di pittura.
Nel libro spigliato e divertente come tutti i libri di Yates manca il finale giusto. Nelle ultime pagine ci sono molte descrizioni delle relazioni del protagonista con qualunque ragazza carina e in genere le ragazze non si fanno molto pregare con lui, ma manca un finale incisivo alla Yates che faccia vedere qualcosa che squarci la realtà delle relazioni. Ho trovato l’ultima parte un po’ ripetitiva con tutta una serie di relazioni simili che aggiungono ben poco al racconto. E anche il cambiamento di Lucy che mette in discussione il suo vecchio modo di guardare il mondo con l’Arte sull’altare della Vita e la Ricchezza e il Successo subito dopo, cade un po’ troppo dall’alto invece che nascere da dentro. Manca un finale che sia vero per l’autore, come c’è in Revolutionary Road, ma il libro è comunque molto bello e merita un’attenta lettura.
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“La vita te ciancica e poi te sputa”
“La vita te ciancica e poi te sputa” è la frase che il grattacheccaro rivolge a lui, al protagonista di “Gli estivi”, il secondo romanzo della quadrilogia di Luca Ricci, al protagonista – scrittore di mezza età, in crisi creativa e esistenziale, che vede avanzare minacciosa una vecchiaia alla quale non sa rassegnarsi. E l’amore, come nostalgia della giovinezza e difficoltà di rinnovarsi con il passare del tempo, diviene ossessione. Quindici estati si susseguono nel gioco estenuante e frustrante di riuscire a possedere quell’oggetto del desiderio di nome Teresa, giovanissima e bella, provocante e provocatrice. La frustrazione d’amore si accompagna a una spietata analisi del mondo dell’editoria, della funzione della scrittura, delle illusioni e delle delusioni che ne scaturiscono.
Come la classicità si era occupata dell’amore esaltandolo nelle figure di Ulisse e Penelope, di Paolo e Francesca o Renzo e Lucia e il mondo moderno ha cantato il disamore con Charles e Emma Bovary o Leopold e Molly Bloom, così i nostri tempi hanno visto deteriorarsi l’ambiente artistico, frammentando la figura dello scrittore, come quello del critico per crearne generi diversi e renderli più facilmente appetibili al mercato editoriale.
“La dissoluzione dell’amore in letteratura è un fatto vistoso quanto poco indagato”, è questo un concetto che tradisce una visione pessimistica dei rapporti umani, che stenta a spostare l’attenzione dalla passione e dal sesso alla sfera affettiva, ben più solida e duratura.
Un romanzo ben ambientato nella spietata luce e nel caldo rovente e ustionante del mese di agosto.
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Cosa stava succedendo?
«Non rispose. Si sentiva affranto. Cosa le poteva dire? Di finirla con quella farsa? Per riprendere quel dialogo tra sordi? Cosa stava succedendo?»
Tutto ha inizio come un capriccio: come Agnès ha diritto di cambiare acconciatura con una cadenza tanto frequente da non consentirgli di abituarsi all’uno o all’altro taglio o colore, così lui può tagliarsi i baffi. Già si pregusta il viso della donna e degli amici, già si immagina la gioia che proverà di fronte a questo scherzo così ben riuscito che ha messo in atto. È un pomeriggio come tanti, siamo in una Parigi degli anni ’80 quando, dopo aver oziosamente chiesto alla moglie il suo parere in merito a questa iniziativa che collide con quella barba che non sopporta così come non sopporta la ricrescita azzurrina dei peli sul viso, procede al taglio. Sposati da cinque anni, ella non lo ha mai visto senza baffi. Minimizza, esce. Rientra, sembra non accorgersi di quella rasatura appena effettuata. Poco dopo segue una cena con gli amici di sempre; Serge e Véronique. Anche loro non si accorgono di nulla. O almeno, fanno finta di non accorgersene. Che scherzo è mai questo? Si chiede. Eppure, dopo tanti anni che porta i baffi tutti si sarebbero dovuti rendere conto di questa novità. Molta la rabbia, la beffa che si era prefigurato essere divertentissima non è poi stata così spassosa e piacevole. Al rientro dalla cena l’uomo non resiste più e rinfaccia alla compagna quanto accaduto. Tuttavia, questa, smentisce asserendo che lui non ha mai portato i baffi e che la congiura a lui avversa, il contro-scherzo che a suo dire sarebbe stato ideato a suo danno, non è altro che frutto della sua fervida fantasia. Cosa sta succedendo? Perché proprio a lui?
Classe 1986, “I baffi” (al tempo solo “Baffi”, riedito da Adelphi) è la storia di un uomo qualsiasi che a seguito di un evento banale, ordinario, che poteva capitare a tutti, si vede costretto ad affrontare un viaggio dentro se stesso e attorno al mondo. È un incubo ad occhi aperti che mixa in perfetta armonia realtà e finzione. Il risultato è tale che ad un certo punto il lettore è così confuso da non riuscire a distinguere quale sia la verità e quale sia, al contrario, il frutto dell’artifizio letterario.
Ha inizio una vera e propria ricerca da parte del protagonista di quei peli tagliati nella spazzatura, quasi come se fossero una prova, quasi come se fossero l’unico appiglio a cui egli possa affidarsi per confermare la veridicità delle proprie affermazioni. I baffi diventano così un simbolismo che da apologo sull’identità trasformano il volume in un noir psicologico all’interno del quale è impossibile non chiedersi se veramente sia in atto un complotto o se semplicemente non si tratti di uno scherzo di cattivo giusto. Il tutto per giungere alla verità, alla ragione. Anche se forse, una verità chiara e conoscibile non esiste. Anche se forse, una verità chiara e univoca non può esistere perché tutto ruota e dipende dal punto di vista, dalla prospettiva, dal punto di osservazione con il quale ci avviciniamo alla vicenda.
Un testo molto diverso dai Carrère che hanno consacrato il successo dell’autore. È un libro all’interno del quale a far da padrona è l’introspezione. Il francese focalizza la sua attenzione sui pezzi perduti, sui cumuli di quelle macerie che portano alla dissoluzione di se stesso come singolo ma anche in funzione del rapporto con l’altro; un rapporto che va in distruzione per un effetto causa-conseguenza. L’uomo resta dunque solo. Nel dubbio, nelle scelte. Nel vivere quotidiano.
È un elaborato che mi ha ricordato tanto le opere pirandelliane, che parte con rapidità ma che nondimeno subisce una battuta d’arresto attorno alla metà e che fatica a riprendersi, a giungere con vigore alla sua conclusione. Il contenuto c’è, il messaggio arriva, la riflessione non manca ma resta un sapore agrodolce di incompletezza, di insoddisfazione. Una lettura interessante ma non indimenticabile.
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Per i vivi e per i morti, salvezza.
"Maria ho perso l'anima!
Aiutami Madonnina mia!"
E' questo il ritornello di questo libro, che è un canto che implora salvezza, dalla prima all'ultima pagina. Un canto in prosa, pervaso di poesia e di tanta umanità e pietà e che si propone di lanciare dei forti ma semplici messaggi soprattutto ai giovani. Daniele, il narratore di questa storia, rappresenta una grande fetta di adolescenti di oggi: a vent'anni è già depresso, con accessi di rabbia, che già da qualche anno fa uso di stupefacenti, incompreso dai genitori e in generale dalla società. A seguito di un episodio di una forte manifestazione della sua furia interiore, viene ricoverato in un istituto per un trattamento sanitario obbligatorio per una settimana. E' da lì che questo canto ci arriva e rappresenta la sostanza del libro: viviamo assieme a Daniele per sette giorni la sua esperienza, chiusi in una stanza assieme ad altri cinque pazienti che condividono un destino e fanno comunità, l'unica via della salvezza o quanto meno quella che li fa stare meglio e li aiuta ad aiutarsi, perché in fondo chi ha perso l'anima non sono i pazzi, ma i sani.
Innanzitutto ho visto una leggera critica dell'autore alla superficialità con la quale un adolescente viene subito catalogato come depresso, non appena lui si pone delle domande un po' più profonde come sul senso della vita o su Dio, ciò mette subito in allerta genitori e/o docenti e quindi di corsa dagli psicologi, aumentando in questo modo probabilmente il disagio del giovane. Oggi ci si aspetta che ogni adolescente sia felice per il semplice fatto che lui abbia vent'anni, ma ciò non basta. A vent'anni si è anche sensibili nonché abbastanza intelligenti per capire cose più profonde, soprattutto nella società di oggi in cui siamo avanti in tutto:
"(…) un ragazzo de vent'anni dovrebbe esse felice, tu invece vai avanti a tristezza, non sapemo più che fa' pe' lavattela de dosso.(…) Io vorrei vedette felice".(…)
"Ma io non so infelice, non se tratta de felicità, me sembra d'esse l'unico a rendese conto che semo tutti equilibristi, che da un momento a un altro uno smette de respira' e l'infilano dentro 'na bara, come niente fosse, che er tempo me sembra come n'insulto, a te, a papa', e me ce incazza. Ma io in certi momenti potrei accendere le lampadine co' tutta la felicità che c'ho dentro, veramente, nessuno sa che significa la felicità come lo so io." (pag.22)
"Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché?(…) Perché un uomo che s'interroga sulla vita non è più un uomo produttivo, magari inizia a sospettare che l'ultimo paio di scarpe alla moda che tanto desidera non gli toglierà quel malessere, quell'insoddisfazione che lo scava da dentro. Un uomo che contempla i limii della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo." (pag.106)
Daniele ci porta per mano in un mondo fragile, ma non per questo meno umano, un mondo che è vittima non solo del proprio destino ma un po' anche dal sistema: corpo sanitario distaccato e freddo e a volte anche genitori colpevoli, come nel caso di Valentina o Gianluca. L'unica possibilità di sollievo in quel ambiente crudo è fare comunità, legare umanamente con gli altri pazienti, gli unici in grado di capirsi a vicenda e di poter discutere tra loro ciò che con i medici era impossibile.
So che questo libro è stato proposto per il premio Strega 2020, non so se vincerà ma l'ho trovato molto istruttivo oltre che ben scritto, pertanto spero che avrà una buona possibilità perché se lo merita .Deliziosa la parte dialettale con la quale vengono costruiti tutti i dialoghi e profonda e poetica la penna dell'autore che non a caso, prima ancora di essere uno scrittore è un poeta.
Un libro che consiglio soprattutto ai giovani ma anche agli adulti perché fa da ponte tra loro. Insegna di come sia importante nei nostri giorni social ma pieni di solitudine fare gruppo "fisico" e sostenersi a vicenda, parlandone. Insegna ad apprezzare la propria realtà che non è così atroce come si presenta e che probabilmente ci sono delle altre ancor più crudeli per cui ci si può ritenere fortunati. C'è un bellissimo episodio che insegna un'altra importantissima lezione: prestiamo attenzione a ogni nostro gesto e mai, dico mai fare del male per scherzo, anche innocentemente, perché le ripercussioni possono essere più gravi di quello che immaginiamo. Questo soprattutto per i giovani ma non solo. Un libro che a mio avviso rende più consapevoli sulla vita, scritto in modo impeccabile e con molti affondi di approfondimento sulle tematiche.
"Oggi so che non sono io a vedere grandi le cose, ma sono loro a esserlo, io mi limito a guardarle nella loro reale dimensione. Ogni singola giornata è costellata di azioni, visioni, degne di un'epopea straordinaria." (pag.167)
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Il regno della noia
Una tremenda tempesta seppellisce il Quèbec sotto una coltre di neve e ghiaccio.
Mentre qualcuno sfugge al vento gelido nel tepore di casa, tra biscotti al burro di arachidi e la stufa a legna, il capitano Gamache e’ convocato in una fattoria decadente al cospetto di un notaio, che lo informerà di essere stato nominato esecutore testamentario di una sconosciuta e stramba baronessa.
Tre sono le vicende principali che si intersecano nel romanzo, ma se la treccia è flaccida prima o poi si scioglie.
Salvo il salvabile e lo faccio con lo stesso spirito che avrebbe un imprenditore fallito di fronte all’ennesimo tragico bilancio consuntivo, tra le infinite voci purpuree ne stano giusto un paio in attivo.
L’incipit è veramente buono e la trama potenzialmente interessante, purtroppo lo sviluppo e’ misero, di mistery io non trovo nemmeno l’ombra in una giornata di nuvole.
Lungo e logorroico, acquoso e confusionario si perde in personaggi scialbi, chiacchieroni e privi di un marcato taglio psicologico.
Le mosse che districano la matassa si rivelano banali, ma carenza è ovunque. Capita spesso in queste serie che il protagonista sia il fulcro del racconto e sappia catalizzare l’attenzione a prescindere dalla trama. Ci si affeziona ad un detective per il suo carisma, il fascino, l’intelligenza, l’avvenenza o la simpatia… Questo Gamache – nel presente capitolo- e’ l’apoteosi del nulla, mai incontrato in decenni di gialli e thriller un soggetto cardine tanto trasparente.
Quindici euro, uno spaghetto senza sale e pure scondito.
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Speriamo bene...
Ipocondria. Una fobia che toglie il fiato ogni giorno a tante, tantissime persone. Come vincere un qualcosa che è capace di entrarti dentro, sotto la pelle, al punto tale da vincolarti in ogni tua scelta, in ogni tua decisione, in ogni attimo della giornata tanto da riuscire a limitarti nel vivere più comune? Non è semplice e forse un vero e proprio rimedio non esiste. Certamente, però, parlarne può essere un grande aiuto e questo perché condividere le paure può servire a destabilizzarle così come fare gruppo può essere fondamentale per sconfiggere un nemico unico.
L’ipocondria non è un qualcosa di momentaneo, non conosce questo termine, non gli è proprio, non è concepito nel suo vocabolario. Un ipocondriaco non è una persona che deve uscire da un periodo difficile, da una fase dell’esistenza con una fase ciclica che ha un inizio e una fine. Per un ipocondriaco il periodo difficile è la vita stessa. Per un ipocondriaco la paura è una costante, un sibilo persistente, un rumore ininterrotto e onnipresente. Un qualcosa che deve essere per quanto possibile gestito per se stessi, per i propri cari.
È con grande coraggio che Lorenzo Marone in “Inventario di un cuore in allarme” ci racconta delle sue paure, delle sue debolezze, delle sue preoccupazioni. Ansie che giornalmente cerca di combattere con la speranza di riuscire a non trasmetterle al figlio.
Protagonista dunque di questo testo non è tanto una storia fatta di tante voci e tanti personaggi con una narrazione caratterizzata da un filo conduttore in evoluzione e/o uno scritto poetico dove a regnare sono le caratteristiche comuni e proprie dei libri dell’autore, in questo caso a far da protagonista e padrona, è la persona con tutta la sua fragilità, con tutte le sue contraddizioni, con tutta la sua umanità.
Quello di Lorenzo Marone è uno scritto ricco di spunti di riflessione, che invita a guardarsi dentro e che invoglia a cercare conforto nell’altro perché esternandole, quelle paure, è possibile vivere meglio, è possibile stare meglio. Non è un libro per tutti. Per leggere “Inventario di un cuore in allarme” occorre non solo una grande predisposizione d’animo ma anche una ricerca, la ricerca di una cura, la ricerca di un qualcosa che sentiamo mancarci.
Un volume eterogeneo che si fa leggere con rapidità, dai toni meditativi e ironici al contempo, che ci parla di malattia, di timore, di insicurezza, di fobie ma che apre anche uno spiraglio sulla speranza e sul vivere.
«Ma fino a quando non si spegneranno le luci, lo spettacolo andrà avanti. E noi continueremo a fare la nostra minuscola parte su questo assurdo e magnifico palco.»
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Scelte difficili
Emma è una donna di mezza età, è sposata con Fausto ed ha una figlia adolescente che non comprende. É una donna molto insoddisfatta, Emma, per le scelte che ha compiuto e che sembra aver subito più che aver veramente voluto, una donna molto sola, che non si sente amata dalla figlia e che non appare provare forti sentimenti per nessuno e niente. Non ama il suo lavoro, un lavoro che le è piovuto addosso per ripiego, non sembra provare granché nemmeno per il marito, arrivato in un momento difficilissimo della sua vita e che appare tollerato per puro ripiego.
Emma infatti, quando frequentava l'università, è rimasta incinta: ciò ha condizionato pesantemente la sua vita, rendendola una serie di situazioni non scelte ma accettate in nome del senso di responsabilità, un insieme di seconde possibilità che si sono rivelate in tutta la loro tristezza proprio per quello che sono: seconde possibilità, ripieghi, realtà a cui Emma è arrivata per mancanza di meglio.
In questa vita scialba e grigia si aggiunge l'incapacità della donna di comprendere la figlia, che le è sempre sembrata lontana e inaccessibile ma che, con l'adolescenza, ha alzato un vero e proprio muro di incomunicabilità nei suoi confronti. Fino ad arrivare al giorno in cui Matilde, la figlia inaccessibile, comunica ai genitori di essere incinta, a soli diciotto anni. L'evento imprevisto non avvicina affatto le due figure femminili, anzi, se possibile le allontana ancora di più. Matilde va a cercare l'aiuto di una vecchia amica della madre, Irene, che è diventata una suora di clausura. L'inaspettato (e un po' inverosimile) avvicinamento di Matilde alla vecchia amica materna renderà possibile un chiarimento fra Irene ed Emma, che non si erano più viste né parlate da diciotto anni.
“Insegnami la tempesta” è un romanzo sull'incomprensione e sull'incomunicabilità insita nei rapporti umani, che certamente non risparmia le relazioni genitori-figli. La vita, la letteratura, la psicoanalisi, ci insegnano anzi che il legame madre-figlia o padre-figlio è spesso difficile ed in alcuni casi profondamente problematico: siamo quindi di fronte ad un tema interessante e coinvolgente. Purtroppo, non credo che l'autrice sia pienamente riuscita a costruire su questa avvincente tematica un altrettanto appassionante romanzo. La narrazione è costruita facendo intuire al lettore la centralità e l'importanza di alcuni momenti e personaggi, mentre invece quei momenti e personaggi scorrono quasi senza lasciare traccia...
In conclusione, un romanzo che si fa leggere, che riesce anche ad aprire spiragli di riflessione personale, ma che sicuramente non può dirsi indimenticabile o imprescindibile.
«Che figlio è quello immune dal bisogno? Le creature che hanno urgenza di noi non sono mai quelle che scegliamo. Ne vorremmo altre, che invece sfuggono come se traessero energia dalla nostra volontà di renderci insostituibili. Il bisogno è una dinamica squilibrata.»
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La via crucis del marito tradito
Il signor Cardinaud è un libro interessante come argomento e come punto di vista. Un marito abbandonato dalla moglie con due bambini piccoli decide di rintracciarla e di riportarla a casa. La donna tra l’altro sparisce senza un biglietto di spiegazione con i soldi del mutuo, lasciandolo nei guai con il pagamento, con l’organizzazione della casa e costringendolo a chiedere notizie in giro facendoci la figura del fesso. Il fatto di dover chiedere prestiti, ferie, di subire gli sguardi curiosi e le battute della gente sono visti come una sua via crucis personale. Il punto di vista è interessante, come è interessante il suo desiderio di riprendere la moglie senza rancore e senza nemmeno desiderio di vendetta. Però ho trovato la scrittura troppo povera.
Il protagonista non suscita particolare simpatia. Il rapporto con la moglie ha delle ombre. Il suo amore per lei sembra come quello che uno può avere per un soprammobile che vuole assolutamente avere in casa costi quel che costi. Ma non ci vedo comprensione, anzi ci vedo la volontà di non comprendere e di non parlare per non sapere e per evitare di guardare le cose in faccia dando loro un nome. Perciò il rapporto con la donna è fatto di silenzi e di abitudini, di cibo preparato in un certo modo, di bambini educati in un certo modo.
Mi sarebbe piaciuto che l’autore indagasse più a fondo sulla psicologia di lui e di lei e sul loro matrimonio. La figura di lei è inanimata, pare un oggetto sia per il marito che per l’amante e anche per il lettore, priva di volontà e di sentimenti nei confronti dei figli, del marito e dell’amante: una figura grigia, vuota come una bambola. E poi l’amante mi sarebbe piaciuto conoscerlo meglio. Troppo facile dire che è il peggiore uomo del mondo. La lotta tra il bene e il male ha qualcosa che non va quando il male è tutto da una parte e il bene solo dall’altra. Insomma, Simenon è un autore dallo stile cristallino, netto, efficace, sintetico. Ma, la lettura di questo scrittore di gialli, mi ha lasciato tante curiosità insoddisfatte, per cui mi è sembrato di avere letto un giallo senza una soluzione. Credo che l’autore per le sue caratteristiche sia più tagliato per il romanzo di genere.
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una forza antica e senza tempo
Il nuovo lavoro di Giorgio Montefoschi, critico letterario e Premio Strega nel 1994 è edito da “La nave di Teseo”, collana Oceani.
Un titolo coraggioso, perché potrebbe far pensare ad una storia d’amore melensa e ritrita. Invece è veramente un bel libro, intenso e nostalgico.
“Il desiderio non conosce tempo” leggiamo nella quarta di copertina e nella storia è così. Matteo Gennari, il protagonista, è sempre stato innamorato di Livia Ceriani, da che erano ventenni, studenti all’Università di Roma.
La storia è divisa in tre parti: nella prima parte, la passione che Matteo prova per Livia seppur ancora giovane, impacciato è già struggente desiderio, una fiamma che avvampa forte, da sconquassargli il petto. Nella seconda Matteo è diventato giornalista, è sposato, ha due figli, ma l’improvvisa apparizione di Livia che torna dopo vent’anni di assenza, annulla tutta la vita intercorsa in questi anni, azzera le distanze, il matrimonio con Anna, i figli avuti con lei. Tutto. Al desiderio tutto soggiace. Ma è un desiderio ricambiato solo in parte. Livia, sfuggente giovinetta e poi donna indipendente, lascia ogni volta l’amaro in bocca al protagonista, un uomo nei confronti del quale ho provato sentimenti altalenanti, dalla simpatia alla rabbia.
Uno stile delicato, che sa dipingere immagini di leggerezza e di fuoco, il fuoco del desiderio, una calamita irresistibile, un richiamo che non si può ignorare, quella che fa tornare ogni volta Matteo dalla donna che, ancora a distanza di quarant’anni, entra nei suoi sogni, col suo sorriso da ragazzina, gli occhi scuri, i capelli al vento insieme alle atmosfere di quando nelle estati lontane andavano in vespa.
Roma non è sullo sfondo, Roma è protagonista in questo romanzo, con i nomi delle vie da Viale Bruno Buozzi ai Parioli, a Villa Borghese, d’estate, d’autunno, d’inverno coi suoi colori ed i suoi profumi: la stessa Livia dopo vent’anni in Inghilterra sente il richiamo della sua città e forse anche dell’amore che dice di non provare, “Io non amo nessuno”. Ma...sono solo parole?
Nella storia intervengono vari personaggi, familiari e soprattutto amici di gioventù che si incontrano a distanza di tempo, ognuno cambiato, segnato. Nella vita si cambia, ma il desiderio persiste. Matteo nel cuore sembra sempre lo stesso giovane che si legge all’inizio del libro: sempre smanioso, taciturno, sempre innamorato della stessa donna.
La predominanza della forma dialogata su quella narrativa ha un grande pregio di cui mi sono accorta solo più tardi: entrando nei dialoghi non solo il narratore si eclissa quasi del tutto, ma lo stesso lettore si annulla, diventa egli stesso partecipe di una storia in divenire, è spettatore dei discorsi. Il lettore rischia di dimenticarsi che sta leggendo.
Una lettura che coinvolge, la storia di due amanti, che come sostiene la Sgarbi nella seconda di copertina , si ameranno e si cercheranno anche reincarnati in nuove vite. Un libro struggente, tenero.
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Storie di legami
Questo libro mi ha lasciato molte perplessità, dovute al fatto che non l'ho trovato affatto caratterizzato dagli aggettivi che gli vengono addossati: "scrittura audace, delizioso umorismo, declinazioni dell'amore, saggio, astuto, etc", mi chiedo se ho letto lo stesso libro! Escluso questo dubbio e tenendo presente che c'è un'inevitabile dose di soggezione nell'interpretazione di qualsiasi cosa, libri inclusi, cercherò di esporre la mia di impressione.
Il libro parta di legami affettivi (o che si presumono tali), da quello coniugale a quello fraterno o genitoriale e si propone di approfondirli attraverso i personaggi e le varie situazioni che Elisabeth J. Howard crea.
Premesso che il libro è uscito nel 1969 e che l'autrice ha avuto un'infanzia traumatica oserei dire e una vita in seguito burrascosa, mi sarei aspettata da lei una profondità e saggezza maggiore rispetto a quello che ho incontrato in questo romanzo, pieno di cliché. Certo, qualche perla di saggezza si intravede qua e là e guadagna la fiducia del lettore, ma non possono, da sole, reggere a lungo l'intero romanzo.
"Elisabeth per parte sua scoprì in quel momento che si arriva presto a un punto in cui ogni cosa che si fa o si prova acquista un che di falso; ti sembra di abbracciare o accarezzare un albero anziché una persona; ogni cosa che dici sembra denunciare che non hai capito il problema oppure che non te ne importa."
I personaggi femminili presentano una debole personalità, spesso lasciandosi vittime delle circostanze o sfuggile passando dalla padella alla brace, i personaggi maschili invece, tranne due sui quali ho qualche riserva (Oliver e John) sono meschini, misogini e subdoli. Le situazioni invece che delineano la trama del libro le ho trovate in gran parte inverosimili e con alcuni cliché molto scivolosi, il che da un tocco di futilità e noia al tutto.
Anche la prosa non è delle più brillanti e la cosa che più mi ha lasciato in bianco sono stati i dialoghi mancati. Mi spiego: i dialoghi ci sono e in alcuni spunta fuori anche una leggera, ma molto leggera battuta di spirito, ma quando le cose sembrano prendere una piega interessante e profonda, il dialogo cessa facendo largo a una narrazione riassuntiva in terza persona che elenca gli argomenti (interessanti) successivamente trattati nel dialogo. Un po' una delusione, quasi come una pigrizia dell'autrice a impegnarsi nella costruzione del dialogo, oppure, brutto a dirlo, magari anche incompetenza. A questo punto meglio evitare di andare a toccare certi tasti se poi rimangono lì fini a sé stessi, noi lettori siamo piuttosto attenti ai dettagli. Oltre a questo sono rimasta un po' insoddisfatta anche da come le storie sono state riunite tra loro: mi è mancata una certa armonia e ho avuto l'impressione di leggere un libro abbastanza frammentato. Anche la sfumatura noir della parte finale la si capisce molto prima e l'effetto sorpresa finale viene un po' a scemare. C'è però una scena nelle ultime pagine che ho trovato grottesca e che nella sua "tragicità" diventa quasi comica.
I legami di questo libro sono per lo più legami tossici, sbagliati, se ne salvano solo due: il legame fraterno tra Oliver ed Elisabeth, che si dimostra tenero e costruttivo seppur ha le sue imperfezioni e quello del "vero amore" tra John ed Elisabeth (metto le virgolette a quest'ultimo perché lo considero inverosimile). Tutti gli altri sono legami malati in cui i personaggi si legano a persone chiaramente sbagliate nella speranza di sfuggire la loro condizione insoddisfacente, ma immancabilmente nessuno garantisce loro la salvezza e meno che mai una persona che già in partenza si dimostra inappropriata, così non si fa altro che appesantirsi ancor di più l'esistenza.
Nel complesso è un libro che si fa leggere ma non bisogna avere moltissime aspettative, intrattiene in maniera delicata e anche gradevole ma senza lasciare particolari impronte nel lettore, prevalentemente un libro dal tono triste.
--"Una soluzione provvisoria. E' questo che possiamo essere gli uni per gli altri." E siccome Elisabeth parve ricominciare a piangere, si corresse: "Questo non vale per le persone che si amano davvero."--
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- sì
- no
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Milano, i Navigli e il commissario
Luca Crovi, profondo conoscitore del genere giallo, dopo aver pubblicato L'ombra del campione, torna in libreria con L'ultima canzone del Naviglio. Protagonista indiscussa la città di Milano negli anni Venti e il commissario Carlo De Vincenzi, creatura presa a prestito da Augusto De Angelis.
Siamo a gennaio del 1929, il fascismo sta prendendo sempre più piede, e sta acquisendo un potere basato più sulla malvagità e l'intimidazione che altro, ed è ovvio che il clima in generale sia di paura e di sgomento. Ecco l'autore cerca di esprimere proprio questo, con una tecnica narrativa innovativa e di gran fascino. Infatti il libro è strutturato da tanti capitoli, ognuno dei quali descrive una storia che inizia e si conclude lì. Di per sè sono vicende che si autoconcludono, formando così un quadro illuminante costituito da tante piccole pennellate messe lì ad arte. Ne consegue una pletora di personaggi e di trame che si incastrano una nell'altra e che costituiscono nell'insieme un unicum di grande spessore narrativo. C è il maestro Arturo Toscanini che pur intimidito dalle brutali camicie nere continua a rifiutarsi di suonare l'inno nazionale, c'è il Generale Inverno che con una malia speciale paralizza la città milanese e non solo:
"Il Generale Inverno sferzava con la sua frusta il territorio che aveva invaso."
Su tutti gli argomenti svetta la personalità del "commissario poeta" De Vincenzi, un signore a tutti gli effetti, trasportato in una realtà in continua evoluzione e peggioramento.
I racconti descrivono con il fascino indiscusso del tempo che fu, differente dall'attuale, ma qui descritta con precisione e sapienza di chi conosce a menadito l'argomento. Una bella lettura che nel bene come nel male, trasporta in altri tempi, conducendo per mano il lettore in una trama di grande spessore narrativo, che colpisce e che si ricorda nel tempo.
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“A volte basta un filo a cambiare la trama.”
Che nascere donna non sia mai stato facile in qualsiasi tempo e luogo è risaputo. Nemmeno l’Inghilterra ancora dell’epoca imperiale sembra aver risparmiato niente alle suddite di sua maestà britannica, alle quali si è continuato a chiedere di scegliere tra famiglia e lavoro, tra matrimonio e un nubilato maldestramente etichettato come una sprezzante condanna senz’appello.
Giunta alla bella età di trentotto anni, Violet Speedwell è una di quelle donne non sposate a cui la bigotta e ipocrita società inglese degli anni Trenta del secolo scorso richiede unicamente di votarsi alla cura dei genitori e di tenere un comportamento moralmente non riprovevole. Anche lei, al pari di tante, fa parte suo malgrado del poco invidiato club di “donne in eccedenza”, come vengono additate le nubili rimaste tali anzitutto a causa della penuria di giovani uomini imputabile alla grande guerra che si è conclusa da meno di tre lustri; sui campi di battaglia del vecchio continente sono caduti anche un fratello e il fidanzato, perdite incolmabili che bruciano come ferite sempre aperte nella sua esistenza scandita dalla routine familiare e i ritmi del lavoro da dattilografa. L’improvviso trasferimento da Southampton a Winchester da lei richiesto la sottrae, per fortuna, al caratteraccio di una madre che, più che sostenerla, pare annichilirla, mentre la nuova città, dove si accosta al mondo delle ricamatrici legate all’antica Cattedrale, finisce per affrancarla aprendole nuovi, imprevedibili e insperabili orizzonti. Dopo lutti e amarezze varie, la vita sorriderà ancora a Violet? E, soprattutto, Violet saprà sorridere di nuovo alla vita?
Con una storia bellissima e intensa che conquista a poco a poco il lettore, ritorna in libreria Tracy Chevalier, già autrice de “La ragazza con l’orecchino di perla” (Neri Pozza, 2000), nonché di altri grandi successi internazionali. Anche quest’ultimo romanzo, grazie alla trama coinvolgente e alla scrittura resa particolarmente scorrevole dall’abile stile narrativo, ha tutte le carte in regola per diventare un nuovo successo letterario di questa autrice nata nel 1962 negli Stati Uniti, ma trasferitasi in Inghilterra fin dagli anni Ottanta. Tra queste pagine, infatti, emerge una sensibilità tutta femminile che si addentra nell’intimo della protagonista, facendone un ritratto perfetto che mette a nudo sentimenti, emozioni, timori e, nonostante tutto, il desiderio di amare ed essere amata ancora una volta. Violet, però, non è l’unica a testimoniare quanto sia difficile per una donna farsi strada e affrontare una società che, per quanto civile e “moderna”, si arrocca in un umiliante e opprimente maschilismo, spesso alimentato, paradossalmente, dal medesimo gentil sesso.
Se, da un lato, aveva rivendicato un tempo la propria libertà sessuale ripiegando tristemente su quelli che chiama gli uomini dello sherry, la cui compagnia poteva andar bene giusto per una notte, Violet stessa all’inizio si dimostra a disagio di fronte alla scoperta della relazione saffica tra due colleghe ricamatrici su cui gravano maldicenze e riprovazione sociale. Gilda, Dorothy e anche la non più giovane signorina Louisa Pesel emergono nel corso della narrazione come figure molto più intelligenti e autorevoli di qualsiasi uomo, illuminando d’un tratto con una luce nuova il mondo di Violet. Quello dell’emancipazione femminile, che passa attraverso la realizzazione professionale e il coraggio di disporre di se stesse senza condizionamenti né imposizioni, è il tema intorno al quale ruota indiscutibilmente questo romanzo che, oltretutto, rivela un prezioso lavoro di ricerca e documentazione storica, dal momento che la Pesel e i ricami della Cattedrale di Winchester, come si apprende da una nota finale, non sono fantasie della penna della Chevalier. E, non a caso, l’arte del ricamo finisce qui per svestirsi di quella semplicistica parvenza di passatempo da zitelle (per riprendere l’impietosa definizione data dalla madre della protagonista), divenendo ben presto quel qualcosa di cui si ha profondamente bisogno – come afferma invece il campanaro Arthur – per liberarci da noi stessi.
“[…] Violet scoprì che ricamare non era poi così diverso da battere a macchina, però dava più soddisfazione. Una volta che ci avevi preso la mano, diventava perfino rilassante e potevi dimenticare ogni altro pensiero, concentrandoti unicamente su ciò che avevi davanti. La vita allora si riduceva a una sfilza di punti blu che s’intrecciavano sul canovaccio, uno sprazzo di rosso che pian piano diventava un fiore. Invece di redigere documenti per persone che non avrebbe mai conosciuto, Violet vedeva nascere sotto le sue dita figure dai colori vivaci. […]”
Così, fra gli intrecci di quei colori e le meravigliose composizioni dei cuscini della cattedrale, Violet è capace di far proprio quel coraggio che è sempre difficile afferrare se non si è disposti a pagarne il prezzo, scoprendo infine che, talvolta, basta davvero un filo diverso per cambiare del tutto la misteriosa trama dell’esistenza.
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Nel cuore degli uomini
Wisconsin, nel Midwest, nel cuore della regione dei Grandi Laghi, un piccolo paese del Wisconsin in realtà, spopolato, abitato solo da vecchi, gente semplice, lavoratori in pensione, mariti e mogli con alle spalle solide unioni matrimoniali o amari fallimenti. Un luogo piccolo, dove tutti si conoscono, dove la comunità intreccia il proprio vissuto con le gioie o i dolori degli altri. Un luogo fatto di piccoli semplici gesti, sguardi schietti, rare le espressioni più vive d’affetto, arrivano solo quando è veramente necessario. Lyle, il sessantenne protagonista, vive qui con la moglie Peg e da poco, i due coniugi, ospitano la figlia adottiva e il suo bambino, Isaac, gioia pura per il nonno che aveva perso il suo unico figlio maschio di nove mesi. Pochi amici, ma veri e preziosi. Un lavoro per tenersi vivo, la cura di un frutteto di un’anziana coppia cui presta il lavoro non tanto per la retribuzione quanto per l’amore per i meli che vi abbondano, fragili e delicati nel fiore e nel frutto: una varietà unica e preziosa. Le vicende personali della figlia Shiloh portano nel cuore della famiglia le ombre dell’incomprensione, le distanze dell’ insicurezza, aprono ferite che un tempo si erano rimarginate; sono decisioni adulte, percorsi individuali, quelli che un genitore, pur disapprovando, non può contrastare perché correrebbe il rischio di allontanare per sempre l’amore di un figlio trascinando in questa deriva anche gli altri affetti, la moglie, il nipote. È dunque il romanzo di Lyle, personaggio davvero ben tratteggiato, irrisolto nella sua fede, contrastato dalle certezze altrui, capace però di ponderare sempre il suo dubbio, di mettersi in discussione, di tentare di capire anche quando è evidente che ciò che accade è pura follia. Shiloh è vittima di un manipolatore che la mette in pericolo e soprattutto mette a rischio la vita del piccolo Isaac, ritenuto dal predicatore, di cui si è innamorata, un guaritore. Ispirato ad un fatto di cronaca, il romanzo non risente per niente della matrice cronachistica e non è nemmeno affidato ai toni melodrammatici o alla suspense che avrebbero potuto farlo scadere al rango di uno scritto scontato e prevedibile. Il dramma è sempre sullo sfondo, allontanato, dilatato, irrisolto; più importante è invece perdere lo sguardo nei rapporti interpersonali, scandire i fatti con il susseguirsi delle stagioni, avere il tempo di respirare la natura, la vita, le sue gioie e i suoi dolori. Convincente.
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Non c’è viaggio senza meta
Roberto Costantini, nato a Tripoli nel 1952, è un autore interessante e capace di trasmettere nelle sue opere la stessa vivacità e dinamicità che contraddistingue la sua carriera lavorativa. Studente a Stanford, ingegnere, consulente aziendale, dirigente della Luiss di Roma dove insegna “Business Administration”, nonché autore della celebre e fortunata serie avente per protagonista il tormentato commissario Balistreri.
Dopo sei romanzi incentrati su tale figura, stavolta Costantini si è cimentato in una storia che ha per protagonista una donna di nome Aba Abate.
Madre di due adolescenti, Francesco e Cristina. E sposata con Paolo, che considera il suo uomo ideale. Colto ma non noioso, romantico ma mai melenso, presente e allo stesso tempo mai soffocante. Paolo sogna da anni di fare lo scrittore ed è l’incarnazione vivente del “vivi e lascia vivere”. Il perfetto contraltare di una donna estremamente meticolosa, efficiente ed organizzata come Aba.
Tutti, familiari compresi, credono che Aba sia un’impiegata amministrativa del ministero degli Interni, quando in realtà lavora sotto copertura, e con il nome in codice Ice, per i servizi segreti italiani. Coordina una rete di infiltrati nelle moschee situate in Italia. Una vera e propria seconda vita.
E proprio attraverso uno dei suoi infiltrati più affidabili, scopre che un pericoloso terrorista, dall’identità sconosciuta, sta per imbarcarsi dalla Libia. Pronto a raggiungere l’Italia per farsi esplodere in un imprecisato luogo affollato.
Il romanzo trae quindi spunto dall’attualità, affondando le radici in tematiche quali gli sbarchi, l’immigrazione, l’integrazione tra culture differenti, il terrorismo di matrice islamista, e le questioni economiche che si celano dietro questi aspetti.
E non mancano interessanti spunti di riflessione su quanto oggi sia difficile conciliare la vita familiare con un’attività lavorativa impegnativa e stressante.
Aba si divide infatti tra colleghi pieni di segreti e con punti di vista e interessi non sempre perfettamente collimanti, funzionari e mercenari libici che agiscono con procedure ed etiche del tutto diverse da quelle occidentali, e la cosa a cui tiene di più in assoluto. La famiglia. Ma mantenere un equilibrio sarà sempre più difficile, in una caccia all’uomo ansiogena e accentuata dalla suddivisione in capitoli secondo i giorni della settimana.
Incuriosisce lo stile narrativo scelto dall’autore. La storia si dipana infatti su tre piani, con differenti tipi di narrazione. La vicenda è narrata da Aba in prima persona quando si trova a casa o comunque in compagnia dei familiari. La narrazione si svolge invece in terza persona quando il focus si sposta sull’ambito lavorativo. Quasi come un simbolo della doppia vita della donna. Gli affetti e la complicità emotiva da una parte, e il necessario distacco dall’altra per svolgere bene il proprio mestiere. E infine il corsivo, che esprime i pensieri della protagonista, un mezzo utile per creare affinità con il lettore.
“Una donna normale” mette le basi per una probabile nuova serie. A mio avviso il confronto con i precedenti lavori del bravo Costantini è tuttavia a svantaggio di questo ultimo romanzo, che pur essendo un buon testo, non raggiunge i livelli di intrattenimento, maturità, carisma, profondità e introspezione psicologica dei personaggi che erano il punto forte delle travagliate indagini del commissario Balistreri.
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Dora e i predatori più pericolosi
Dora è una ragazzina di 13 anni, porta le trecce come Greta Thunberg, sua eroina, e adora Dian Fossey, il mito a cui vorrebbe ispirarsi. Dora ha saputo da suo padre, componente del Soccorso alpino di San Candido, che c’è un nido di linci, lassù in val Fiscalina, proprio dove dovrà essere costruita una stazione di risalita. Quella mamma lince dovrà essere catturata, messa in gabbia e spostata altrove. Dora non ci sta: gli animali non debbono finire in gabbia. Dora prepara lo zaino e scappa di casa per andare a salvare la lince. Pensa di farsi aiutare da Gert, suo amico di chat line. Gert dice di appartenere alla Resistenza che lotta contro la distruzione dell’ambiente da parte dell’Uomo. Ma Gert, in effetti, dipendente di uno parco-zoo austriaco, è un schizofrenico omicida. Forse è stato proprio lui a uccidere il collega Hannes Baumgartner, omicidio sul quale sta indagando il capitano Orlandi della locale stazione dei Carabinieri.
Si scatena una disperata ricerca su un territorio enorme, aspro e impervio, con il duplice obiettivo di trovare e salvare Dora e di catturare Gert. Sono coinvolti gli abitanti del luogo, quelli del Soccorso alpino, i Freiwillige (i Volontari). Tutti sono pervicacemente animati dall'ancestrale istinto di difesa del territorio e dei suoi abitanti contro le aggressioni. Però alcuni hanno buone intenzioni, altri meno. Molto meno.
Oltre a questo difficile problema di gestione delle forze, Orlandi deve affrontarne un altro, interno. È stato distaccato presso il suo comando il capitano Viktor Martini, una scheggia impazzita, in attesa della condanna definitiva della commissione disciplinare e del congedato coattivo, è stato confinato nell'ufficio S: l’ufficio scartoffie. Viktor, infatti, dopo aver risolto l’atroce indagine dello Squartatore del Testaccio, ha “dato di matto”. Adesso preferisce seppellirsi nelle pratiche, nei verbali, piuttosto che impugnare nuovamente una pistola. Però sarà proprio Viktor, compulsando documenti, rileggendo deposizioni, mettendo a nudo le sue ferite psicologiche anche con gli indagati, a individuare gli indizi giusti che instraderanno le ricerche.
“L’animale più pericoloso” è un romanzo uscito a puntate sul quotidiano La Repubblica e ora è stato ripubblicato da Einaudi in forma integrale. In quest’opera, che è quasi un istant book, D’Andrea affronta tutti i temi di maggiore attualità del momento: la difesa dell’ambiente, la violenza sulle donne, lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, le intolleranze, etc.
In teoria sarebbe tanta carne al fuoco, forse addirittura troppa. Fortunatamente gli accenni a questa o quella problematica sono solo funzionali allo svolgersi della storia che, sostanzialmente, è una frenetica corsa contro il tempo per il salvataggio della ragazzina e per la cattura dei colpevoli.
La storia parte un po’ zoppicando, a causa di una certa frammentarietà nel modo in cui i vari contesti sono introdotti. Poi, però, una volta ricomposto il mosaico generale che fa da sfondo al racconto, la narrazione procede spedita e tiene col fiato sospeso il lettore sino alla fine, senza mai svelare troppo, senza eccessivi colpi di scena, ma con un realismo e una credibilità delle situazioni da far supporre quasi che si tratti del resoconto romanzato di fatti realmente accaduti, con l’unica esclusione, forse, del finale, abbastanza inattendibile ed eccessivamente convulso.
Lo stile è agile e scorrevole e si legge con piacere, anche se ho sentito un po’ la mancanza di una più accurata descrizione ambientale. La regione in cui si svolge la vicenda è stupefacente (le Dolomiti, le abetaie incuneate nelle strette valli alpine, la Croda Rossa, i pianori da cui spaziare con lo sguardo). Purtroppo chi non conosce la Val Pusteria può solo immaginarseli quei luoghi, e l’A. (altoatesino) si concentra solo sull'azione e sui personaggi, dandi i paesaggi per scontati.
Quanto ai personaggi, ben caratterizzati Dora, Gert e Viktor, mentre gli altri, che non solo comprimari di contorno, avrebbero meritato una maggiore cura descrittiva.
Detto questo “L’animale più pericoloso” è un bel romanzo da leggere tutto d’un fiato, ma anche da meditare, perché sotto la vicenda fittizia covano tanti problemi concreti, irrisolti e di estrema attualità, perché, come dice Gert, “c’è di peggio che la morte”, com'è vero che “l’animale più pericoloso è quello ferito”.
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Devo fare una postilla per la pagina del pignolo: nel 2020 è inaccettabile che un libro abbia tanti refusi. Una tiratina d’orecchi a Einaudi e al suo editor!
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“E' la vita che è una solenne fregatura”
Ci sono romanzi di evasione, che leggiamo per dimenticare almeno per qualche ora il lato oscuro del mondo, immergendoci in una favola d’amore, tanto bella quanto irreale, o in una serratissima indagine, in cui alla fine i cattivi vengono sempre smascherati e puniti. E poi ci sono romanzi come questo, che nascono invece con il chiaro intento di farci ricordare.
Che il mondo non è abitato solo da principi e principesse, ma da personaggi ammaccati, fragili e controversi. Marginali o emarginati. E decidere chi è buono e chi è cattivo non è sempre così facile.
Che la vita sa essere spietata e si accanisce proprio su chi è più vulnerabile. Perché non importa quanto provi a nasconderti e camuffarti, la lama affilata e impietosa dell’intolleranza ti raggiungerà ovunque.
Che la giustizia a volte è davvero ingiusta. E non ci sono processi per chi non soddisfa i criteri di accettazione condivisi: la società ha già emesso la sua inappellabile condanna mediatica, di accuse, minacce e insulti social. A volte, non serve nemmeno la galera per sentirsi in prigione.
Un attore porno a fine carriera, un’assassina da prima pagina, un vecchio travestito: ecco i protagonisti di questa storia. Le loro vite si toccano solo marginalmente finché una sciagurata concatenazione di eventi ed effetti collaterali li travolgerà, in un rocambolesco percorso di sopravvivenza.
“Ogni giornalista si innamorerebbe di voi, i personaggi perfetti di quelle vicende di cronaca nera che si trascinano negli anni. E in questa società basata sullo sberleffo feroce diventereste il motore infinito di battute e fotomontaggi condite con tante faccine che si sganasciano.”
Un classico noir, dunque. Invece no, quest’etichetta sembra non calzare a pennello. Latitano le atmosfere cupe e tormentate. La denuncia sociale vira su note umoristiche, con punte di comicità. La trama perde univocità per moltiplicarsi in un caleidoscopio di visioni, storie e personaggi. Si scopre così che i veri protagonisti di questo racconto sono i sentimenti. Sentimenti semplici, banali, quotidiani. La paura della solitudine di un vecchio in veletta e tubino è la stessa del nonnino in pantofole. Il bisogno di sentirsi accuditi di un quarantenne che ha venduto il proprio corpo, rifuggendo obblighi e legami, è lo stesso del giovane impiegato delle poste che si scopre all’improvviso malato. La richiesta d’amore di una donna che ha vissuto la galera e l’ingiustizia, è la stessa di ogni creatura sfortunata e indurita, che però vuole ancora credere alla speranza, nonostante tutto.
Massimo Carlotto si è divertito a sparigliare le carte, miscelando aspra critica sociale a semplicità di sentimento, parole affilate e volgari a note soffuse e malinconiche, profonde riflessioni a commedia grottesca. Un lavoro nel complesso scorrevole e godibile, a tratti forse un po’ superficiale nell’intreccio e soprattutto nella definizione emotiva dei personaggi, ma che ci trasmette un forte messaggio chiedendoci di guardare alla realtà senza pregiudizi, senza affidarci a facili verità, ma con dubbio, comprensione e umanità.
“In un delitto tutti guardano al carnefice e alla vittima. Ma intorno a loro c’è un mondo di persone che reagiscono in modo diverso, travolte dal dolore o dalla rabbia che modificano per sempre la loro esistenza”.
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tabula rasa
1812, Paradise, colonia inglese, Giamaica.
La notte e’ calda e afosa, dagli alloggi degli schiavi una bimba mulatta striscia sull’erba verde e fresca vicino al fiume.
Osserva silenziosa la grande casa padronale dietro lo zuccherificio, illuminata dal tremolio delle candele l’ombra della Signora che si prepara per la notte di candido lino. Ha solo sette anni e sta per essere chiamata a prestare servizio in casa, la schiavitù è reale e brutale e legale.
1826, tribunale di Old Bailey, Londra.
La sala e’ gremita, la spada e’ incisa sul muro alle spalle del giudice. Il fruscio delle toghe e’ coperto dalle ingiurie del pubblico che le grida: Assassina! Le catene alle mani, il viso chinato, gli sputi su di lei.
Vogliono vedere impiccata la mulatta criminale, sul banco le prove dell’omicidio dei suoi padroni, accanto al coltello un vaso contenente un feto umano.
Frances leggeva Milton un tempo, lui diceva che la mente e’ il proprio luogo che puo’ fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo. Rammentando o dimenticando.
Non ricordo risponde l’assassina, non ricordo. Io l’amavo, non lo avrei mai fatto, non ricordo. Non ricordo.
Bellissima e ricca la trama e buona la ricostruzione storica, per la maggior parte del romanzo mi successe quel che di rado mi accade. Nulla, zero, indifferenza. Apatia e privazione totale da ogni stimolo emozionale, positivo o negativo che esso fosse.
La passione non mi bruciava priva come era delle sue membra scarlatte e roventi, la violenza non mi feriva colpendomi col profondo nero di una verga sulla tenera pelle nuda. Il dolore non era intriso del denso viola di una ferita inferta e sanguinante, la menzogna era sbiadita e non mi imbrogliava col suo giallo fluorescente e beffardo, nemmeno un pugno di bianco nella tenerezza che avrebbe dovuto mondarmi. Discreta era la narrazione, senza pero’ che l’autrice riuscisse a donare la vita ai suoi personaggi.
Poi nelle ultime cento pagine la Collins ritrova il vigore e torna tra noi. La smette di incartare tonnellate di idee, ora diventa madre delle sue creature. Ora esse respirano, si disperano, palpitano.
Il tribunale si popola di uomini e donne vere, infervorati e crudeli, le grida ed i silenzi. Gli avvocati procedono con le loro accorate arringhe, l’imputata freme, urla e si dibatte.
Eccoli i colori, eccola Frances, la schiava la bambina la donna l’assassina quando soffriva, amava, leggeva, ubbidiva, quando veniva vessata e punita. Finalmente, finalmente.
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Il colore dei segreti e delle paure
Percival Everett, scrittore americano eclettico, prolifico e caratterialmente schivo, non ama parlare di sè nè dei suoi libri. Vanta un passato da musicista jazz e da allevatore di cavalli.
Ecco il suo nuovo lavoro, edito dalla Nave di Teseo, collana Oceani.
Nella seconda di copertina si legge che l’autore ha qui raggiunto il traguardo del romanzo perfetto. Everett è sicuramente uno degli scrittori americani contemporanei più interessanti, mai monotono, sempre alla ricerca di contenuti diversi.
“Quanto blu” è un romanzo che appassiona, ben costruito, e che nonostante i continui salti temporali non stanca, mantiene sempre desta l’attenzione del lettore.
La storia segue tre fili che si intrecciano e vanno a risolversi nel finale, ognuno di essi è riconoscibile grazie al titolo. Come un puzzle, ogni tessera trova man mano il suo posto e ricompone la storia di Kevin Pace, il protagonista che è anche narratore.
Kevin è un artista, un pittore nero, di cinquantasei anni, sposato con Linda, dalla quale ha avuto due figli, April e Will, di 16 e 12 anni.
Il protagonista si presenta nelle prime pagine e ci fa subito immergere nel suo passato: la narrazione è l’alternarsi di due lunghi flashback, uno che si inserisce nel 1979 (il titolo di ogni capitolo contenente questo flashback è infatti “1979”) ambientato nel Salvador a ridosso della guerra civile, ove ha vissuto eventi traumatici che lo hanno segnato per sempre e un altro, intitolato semplicemente “Parigi”, che narra la “sbandata” avuta con una giovanissima acquerellista, Victoire, dieci anni prima, mai confessata alla moglie.
La cornice in cui si inseriscono i due principali flashback si intitola “Casa” e racchiude non solo gli eventi del presente del protagonista, ma anche del passato legati però alla presenza di Linda, dalla richiesta di volerlo sposare agli eventi del finale.
La presentazione editoriale vuole attirare l’attenzione sulla storia di un quadro che Kevin tiene nascosto a tutti, anche al suo miglior amico, alla famiglia, perché racchiude il suo segreto più grande che verrà svelato alla fine. In realtà il quadro è solo lo specchietto delle allodole per attirare il lettore fino alla fine, perché si parla veramente poco della sua realizzazione. Un colore e le sue sfumature per rappresentare tutto l’inconfessabile di una vita intera.
“Lo dicevano spesso, che io evitavo il blu. Ed era vero. Quel colore mi metteva in crisi. Non riuscivo a controllarlo. C’era quasi sempre come una base di calore nella mano di fondo, ma in superficie non si vedeva mai, non era mai più che un’idea in nessun quadro. E sebbene il blu sia tanto piacevole (...) non lo potevo usare. Il colore della fedeltà, della lealtà, l’argomento dei filosofi, il nome di una forma musicale... ma il blu non era mio”.
Ciò che va riconosciuto all’autore è la varietà. Varietà nell’ambientezione, varietà nell’azione (in particolare nei capitoli in cui si narra l’avventura salvadoregna), varietà nei registri linguistici unite ad una certa profondità di scavo psicologico, intimo, che arriva alla confessione finale solo alla fine, in quanto tutta la storia lascia sempre qualcosa di sospeso, di insoddisfatto nella curiosità del lettore.
Everett cerca di distrarre chi legge rivelando man mano dei particolari che possano fargli pensare al finale, ma... non ve lo dico.
Complessivamente un romanzo piacevole, ben costruito, ma che non mi fa pensare certo ad un capolavoro, in quanto il finale, che non posso rivelare, non mi ha convinto, mi ha lasciata perplessa e insoddisfatta.
Ultima osservazione: ho trovato nell’edizione tre refusi, di cui due veramente importanti per la comprensione della storia. Ho segnalato alla casa editrice, sperando che si siano accorti prima di me.
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Ado, dove sei?
Pietro Gerber è uno psicologo infantile: usa l'ipnosi per curare i traumi dei suoi piccoli pazienti, per insegnare loro a mettere ordine in una memoria resa fragile dal dolore in modo che possano imparare a distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è.
In un piovoso giorno di fine inverno riceve una misteriosa telefonata: una collega lo contatta dalla lontanissima Australia e gli parla di una sua paziente, Hanna Hall, che probabilmente soffre di amnesia selettiva. La dottoressa Walker la sta curando con l'ipnosi e, durante una seduta, Hanna ha ricordato un evento violento avvenuto proprio in Toscana, dove viveva quando era bambina. Hanna sta arrivando a Firenze e Theresa Walker chiede a Gerber di occuparsi di lei: anche se lui cura solitamente minori, potrà rivolgersi alla bambina che è ancora dentro Hanna.
Fin dal primo incontro, Gerber ed Hanna manifestano una strana attrazione l'uno verso l'altra. La giovane donna, attraverso le sedute di ipnosi, riporta alla luce della sua memoria una storia molto particolare ed inquietante. Da bambina si spostava in continuazione con i genitori, conducendo un'esistenza molto singolare: vivevano in luoghi isolati e occulti al resto del genere umano, gli estranei erano un pericolo grandissimo da evitare in ogni modo. Perché Hanna e i genitori rifuggivano ogni contatto sociale? Cosa nascondevano? Perché avere tanta paura degli altri? E, soprattutto, cosa c'era veramente dentro una piccola cassa di legno sigillata con la pece, che la famigliola si portava sempre dietro, che veniva di solito sepolta sottoterra in prossimità dell'abitazione in cui i tre si trovavano? Cosa vuole Hanna da Gerber? É veramente una paziente che ha bisogno d'aiuto oppure è una pericolosa criminale?
Naturalmente il lettore potrà avere delle risposte a tutti questi interrogativi, una volta ultimata la lettura di questo nuovo thriller di Donato Carrisi. Purtroppo, rispetto ai precedenti romanzi dell'autore, ho trovato quest'ultima opera un po' sottotono. Mi spiego meglio: ricordo che quando leggevo “L'uomo del labirinto” di sera non riuscivo a staccarmi dalla lettura e, quando decidevo finalmente di smettere, ero turbata e non riuscivo a prendere sonno facilmente. Stavolta invece mi capitava di addormentarmi sulla pagina. Certo, è anche vero che questo è un romanzo che segue il filone de “La ragazza della nebbia”, non quello del “Suggeritore” o del “Tribunale delle anime”. É un thriller più realistico, senza sequenze troppo violente, eccessivamente angoscianti e sconvolgenti. Però... Alla fine la storia non mi è sembrata così intrigante e il finale, non è un tipico finale alla Carrisi, che di solito, invece di sciogliere le tensioni le accresce.
In conclusione, si tratta di un thriller che si legge volentieri, ma che non brilla per originalità e che non suscita particolare coinvolgimento.
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Sergio Stokar un'esistenza "diversa"
Tullio Avoledo pubblica con la casa editrice Marsilio il suo primo noir dal titolo Nero come la notte, un romanzo duro, cupo, violento, il cui tema principale, di grande attualità, è sicuramente la diversità, ovvero la presa di coscienza dell’esistenza di “un differente”, per poi scoprire che ciò non è poi tale nella realtà.
Si narra la storia di Sergio Stokar e del suo vissuto,
“nero come la notte”.
In una vita “altra” è stato un poliziotto dalle simpatie filo naziste, testimoniate anche dallo strano anello che era solito indossare;
“un tempo in cui ero potente e rispettato, il primo della classe, l’uomo dell’anno. Anzi, di tutti gli anni. Passati, presenti e futuri. Ci fosse stato un Nobel per i poliziotti l’avrei vinto a mani basse. (…) La mia vita era tutta una recita, una serie di performance applauditissime. “
Un passato in cui lui, personalità bordeline, aveva una moglie che lo ha abbandonato, dopo averlo dissanguato economicamente, dopo essere andata a convivere con il suo stesso avvocato,affascinante principe del foro. Un’epoca differente che:
“Era, nella magica Milano da bere, e poi nella Roma dei potenti, al seguito del mio Magistrato Onesto diventato Onorevole, ero un cavaliere senza macchia, e senza paura. Mi piaceva, mostrargli agli altri. Pieno di idee su come andava il mondo, e su come avrebbe dovuto andare. Soprattutto su come avrebbe dovuto andare. Io e le mie grandi utopie. Tutti mi adoravano. Tutti non aspettavano altro che vedermi cadere.”
Infatti un giorno cade, trascinando in un mare nero la propria esistenza. Si risveglia, dopo una massiccia assunzione di ogni tipo di droghe, in uno strano posto chiamato “Le Zattere”. Un luogo che:
“non si può nemmeno chiamare quartiere è una terra di nessuno in cui città e campagna competono per il primo premio allo squallore assoluto. Brutte fabbriche, quasi tutte chiuse, s’intervallano a campi spogli, a viadotti incompiuti, a residui di un ostinato mondo contadino. “.
Lì viene salvato da uno strano dottore indiano e da sua moglie. Il Consiglio, che amministra con pugno di ferro un tale “ecomostro” ai confini della realtà, gli offre l’occasione di redimersi e di superare le difficoltà della vita. Deve scoprire la verità sulla morte, orribile e tragica, di tre ragazze che abitavano proprio alle Zattere. Riuscirà a superare le sue paure, e a tornare in quel mondo esterno ricco di brutture e di limitazioni, che tanto lo aveva segnato? Riuscirà ad individuare la verità dietro a tanta violenza?
Una lettura che trascina in un vortice oscuro e nero come la pece. Ambientato una città del Nord-Est mai nominata, ma facilmente identificabile, un luogo dove la crisi economica ha inciso in maniera esponenziale, dove ancora oggi la si vede e la si respira in quelle lunghe file di capannoni dismessi, testimoni muti di una ricchezza che non è più. Un romanzo che alterna con efficacia atmosfere violente e crude all’Arancia Meccanica di Kubrick, espressamente citato, a momenti di cupa malinconia, di rimpianto per un passato vissuto che tuttavia ferisce ancora. Una testo che avvince e trascina il lettore
“nei recessi più oscuri di una società rabbiosa e corrotta.”
Di grande attualità, scritto con una prosa schietta e priva di fronzoli, il testo racconta con sapienza narrativa una storia dei giorni nostri, con un finale che non può che stupire anche il lettore più smaliziato.
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Quello che non si dice
Opera del 2004, già edita in Italia e riproposta ora da Feltrinelli nella collana “I Narratori”, interessante prodotto di uno scrittore colombiano, Juan Gabriel Vásquez, che riesce a catturare l’interesse dell’editoria internazionale e viene acclamato come una delle voci più innovative della recente letteratura sudamericana. Non delude le aspettative.
Il romanzo è innanzitutto un libro nel libro, racconta infatti le conseguenze accorse alla voce narrante in seguito alla pubblicazione del suo primo libro e viene siglato da un post scriptum che inserisce ulteriori sviluppi alla vicenda confinata in questo suo secondo libro intitolato appunto “Gli informatori”. La struttura narrativa è perciò complessa, originale, capace di determinare un andamento vivace alla scrittura che si avvale, giocoforza, di ampie analessi oltre che di inserti narrativi dal respiro documentario.
Nei primissimi anni ’90 del secolo scorso, Gabriel Santoro è richiamato dal padre, di cui porta lo stesso nome, perché l’anziano genitore che solo tre anni fa aveva bocciato in maniera del tutto inaspettata e feroce il suo libro con una recensione impeccabile, determinando quindi il loro allontanamento, deve subire un importante intervento chirurgico. Questo evento iniziale genera a cascata tutti gli sviluppi successivi: il parziale riavvicinamento dei due e la svolta imprevista del decesso del padre, eventi che a loro volta generano, a spirale, il riemergere di un passato celato che Gabriel tenterà di decodificare al di là della cortina di mistificazione che il sapiente genitore, docente di retorica, ha innalzato.
È la storia della Colombia, terra di arrivo per molti profughi tedeschi durante i feroci anni del nazismo, terra che ospita inizialmente e poi rigetta, in seguito agli sviluppi della II guerra mondiale, i pericolosi tedeschi, tutti, a prescindere dalla loro ideologia, è dato per scontato che siano tutti nazisti. Si tratta spesso di tedeschi perfettamente integrati nel tessuto sociale colombiano, ne hanno sposato le donne, hanno da loro figli che parlano spagnolo e sono cattolici. Un centinaio vengono internati nell’ Hotel Sabaneta di Fusagasugá, a sud di Bogotà, questo libro parla anche di loro e di come ci siano finiti.
Tutto ruota intorno al valore della parola e come declama lo stesso Santoro nella sua aula universitaria qui si parla “di quello che non si dice, di ciò che sta oltre il racconto, il computo, il riferimento”. Spesso la verità è impossibile da ricercare. Buona lettura.
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L'ho sopravvalutato?
Ho recensito più di una nuova uscita di Joe R. Lansdale nel recente periodo, e nella mia testa ha preso a formarsi un interrogativo: avrò sopravvalutato l'autore, o questo è un periodo in cui è semplicemente svogliato? Immagino che potrò capirlo soltanto leggendo altre delle sue opere più apprezzate, scritte tempo fa. Forse così potrò capire se Lansdale è un autore di semplice intrattenimento con qualche guizzo felice (come "Paradise Sky"), o se come Stephen King sta puntando sulla quantità e meno sulla qualità, quantomeno di recente.
Dico questo perche' “Caldo in inverno" non è altro che un modo per passare una piacevole giornata di lettura, ma ben lontano dalla letteratura; così come i film Marvel sono film adatti a passare un piacevole paio d'ore, ma ben lontani dal grande cinema.
È curiosa, oltretutto, la scelta di inserire questo libro nella collana "Gialli Mondadori", mancando in esso quelli che sono le fondamenta del giallo: detective, indagini, ricerca dell'assassino da parte dei protagonisti e del lettore, che collabora pur essendo inascoltato. “Caldo in inverno” è un'opera carica di testosterone, sparatorie e Dixie Mafia, cosi come piace a Lansdale ultimamente, anche nel recentissimo "Elefante a sorpresa". Niente mistero, dunque, solo tensione e adrenalina. Non c’è molto da aggiungere sulla trama, considerato che è tutta ben descritta nella quarta di copertina. Questa storia procede per la sua strada, senza colpi di scena di sorta, seguendo le gesta di personaggi (di cui alcuni anche interessanti) che sarebbero perfetti per un film d’azione.
Certo, questi sono romanzi piacevoli da leggere, ma in passato se volevo leggere qualcosa di simile mi "rivolgevo” ad altri autori, perché ero convinto che Lansdale appartenesse a un’altra categoria, una spanna sopra di loro; che fosse capace di ben altro.
Mi sbagliavo? Ve lo farò sapere, perché credo che la mia prossima lettura di Lansdale sarà rivolta a qualcuna delle sue opere più conosciute.
“All’epoca, ero certo di essere io l’eroe e di poter trionfare sempre. Dopo l’esperienza nell’esercito e dopo essere stato in guerra, non mi ero mai più sentito un eroe. Di certo, non mi sentivo un dannato eroe in quel momento.”
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