Le recensioni della redazione QLibri
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Le rane di Mo Yan (premio Nobel 2012)
“Le rane” di Mo Yan è un’opera di grande spessore, sia come contenuto che come struttura. Da un punto di vista strettamente letterario, l’autore fonde il romanzo epistolare con la narrazione in prima persona - dove l’io narrante è personaggio e testimone dei fatti narrati - con l’esperimento del dramma in nove atti.
La storia che vede protagonista la ginecologa Wan Xin, di cui ora si esalta la nobile missione di favorire le nascite nella fase iniziale della sua attività, e poi si condanna piuttosto palesemente la fanatica adesione ai principi del partito che le impongono di effettuare aborti e vasectomie allo scopo di realizzare uno scrupoloso controllo delle nascite, è il mezzo per portare avanti una critica sentita nei confronti di quei regimi totalitari che all’educazione preferiscono la repressione, più rapida e più semplice da mettere in atto.
Un romanzo il cui tema della vita si alterna con quello della morte. Eppure in regimi in cui diventa reato il diritto di avere un’opinione diversa da quella della classe dirigente, talvolta l’individuo riesce a conservare e rivelare una coscienza e a manifestarla in una forma più o meno efficace di obiezione e ribellione alla massificazione intellettuale: ciò, tuttavia, spesso a prezzo della vita, come nel caso di Wang Remnei e di Wang Dan.
Con il passare del tempo, anche la coscienza di Wan Xin, la zia ginecologa, si risveglia e si dibatte tra incubi e visioni di rane gracidanti, che rappresentano le migliaia di aborti che non hanno potuto vedere la luce e il cui vagito è simile al verso degli anfibi. Questo diviene una sorta di coro sinistro che accompagna la vita dell’anziana donna. La scelta della rana non è casuale, poiché essa è simile nella struttura fisica alla donna e perché il girino, da cui essa nasce è del tutto somigliante allo spermatozoo. Da qui la scelta del soprannome della voce narrante Girino, che diviene quasi il simbolo della procreazione.
Non sono pochi i riferimenti ai classici antichi e alle grandi opere più moderne che si riscontrano in questo romanzo. Lo stesso titolo “Le rane” ricorda, sia pure con le evidenti differenze, l’omonima commedia di Aristofane in cui l’autore esprime una critica ai vizi e ai mali della società, creando una vera opera politica.
Nell’epistola d’inizio, inoltre, il narratore dichiara apertamente d’avere l’ambizione di scrivere un’opera grande come quella di Sartre e cita “Le mosche”, il cui tema verte sulla libertà come responsabilità e impegno e “Le mani sporche”, in cui si denuncia il conflitto tra idealismo e realismo in politica.
Alla luce di queste considerazioni, l’ultima parte del romanzo è costruita in forma di dramma, in cui si riassume tutta la vicenda, con una scenografia teatrale e il dialogo tra i personaggi. La conclusione, tuttavia, non vede il trionfo della verità, ma il prosieguo della mistificazione, quasi un pessimistico presagio per il mondo di domani.
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Un romanzo sull'anticonformismo
A colpirmi sin dalle prime pagine è stata l'incoerenza del protagonista, palese soprattutto quando dichiara la propria avversione nei confronti di chi lo giudica superficialmente per poi sparare a zero un po' su tutti, in una continua contrapposizione me/gli altri; questi ultimi, poi, raggruppati in categorie (le assistenti sociali sono in un certo modo; chi va in discoteca anche; chi sta su Facebook; etc). Ad esempio, Cristiano detesta chi lo giudica per il suo abbigliamento. Giustissimo. Peccato, però, che subito dopo definisca "ridicoli" gli uomini che indossano il pinocchietto. O ancora: rimprovera gli psicologi di ridurre tutto al binomio cibo/sesso per poi, in occasione dell'amplesso con Veronica, fare lo stesso. Tendenzialmente misantropo e propenso alle generalizzazioni, Cristiano si è guadagnato la mia iniziale antipatia. Iniziale, preciso, perché l'autore, devo dire, sa scrivere bene (un solo scivolone: "più infimo"). E salva il romanzo nel migliore dei modi. Colli, infatti, ha una dote alquanto rara nella narrativa italiana: cura con sapienza lo stile, affronta temi non banali, riesce a mantenere desta l'attenzione del lettore, calibra bene il ritmo della scrittura allo scorrere degli eventi e sa davvero far "vivere" la filosofia tra le pagine di un romanzo, a differenza di altri autori osannati che imbastiscono i loro lavori su nozioni "filosofiche" facilmente rintracciabili sui bigliettini dei Baci Perugina.
Altro merito dell'autore è quello di aver disegnato un personaggio davvero fuori dagli schemi con l'anticonformista Emma, emblema degli emarginati che cercano un riscatto in questo romanzo, una donna ribelle che affronta le avversità della vita con un mix di dignità, candore e orgoglio.
Insomma, una lettura insolita, che affronta temi su cui dovremmo riflettere tutti; in primis, quello della non laicità dello Stato italiano, una questione ben sviscerata da Colli attraverso un Cristiano particolarmente ispirato.
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La delicata poesia del primo amore...
L'autrice ci propone una storia romantica che scorre sopesa tra passato e presente, fra poesie che segnano ogni capitolo...e che hanno riportato alla mia memoria i ricordi struggenti del mio primo amore...una storia che purtroppo, pur essendo iniziata sotto i migliori auspici non ha avuto una conclusione felice...
La storia di questo libro, in fondo è simile alla mia, tranne qualche insignificante particolare ed è per questa personale identificazione che ho amato questa storia..
Silvia, una giovane studentessa si reca al mare con le sue amiche e lì fa la conoscenza con Riccardo,
un raggazzo che con cui intreccerà un romantico rapportto estivo; nell'inizio di questo idillio sbocciato nel sole e nella gioiosa natura marina, l'amore sembra aver colpito entrambi...con una freccia...ardente: i battiti del cuore si accellerano, i corpi si uniscono...e pare sia nato un sentimento che con la sua univoca intensità è un ponte per l'immortalità "io sono immortale, perchè ti amerò per sempre", scrive Silvia nel suo diario, che diviene il testimone di tutti i suoi pensieri, delle sue sensazioni...e in seguito anche dei dubbi...derivati dalle prime scaramucce dei due innamorati.
La panchina sul mare diviene il luogo privilegiato in cui si incontrano i due ragazzi, suggellando le loro promesse; ma la vita non è una favola e spesso ci riporta bruscamente alla dura realtà.
Il sogno di Silvia si infrange quando ella comincia a dubitare di essere in grado di amare o di ricambiare quell'amore che Riccardo le offre, spingendolo così nelle braccia di un'altra ragazza.
Generalmente il primo amore non è quasi mai...l'amore vero, quello stabile o definitivo, ma si tratta del primo "fuoco di paglia" la cui esperienza serve per gettare le basi verso l'amore vero, che verrà più tardi, quando la consapevolezza matura dell'individuo avrà raggiunto....il suo culmine..
Tuttavia questi "fuochi di paglia" possono scottare e provocare ustioni o ferite dolorose nell'animo di coloro che hanno creduto in essi.
Si pensa di morire, di non sopravvivere e spesso la nostra maturazione, così come la maturazione di Silvia passa sotto il crogiolo di queste amare, tormentate esperienze...
In fondo questo libro è la cronaca della maturazione di una ragazza, che lotta contro l'insicurezza
e un muro di immaginarie complicazioni...
Il primo amore che, pur non uccidendoci lascia sempre dentro di noi gli strascichi di immotivata, triste nostalgia, che si vorrebbe spengere, ma che rimane ancorata energicamente negli occulti meandri della nostra memoria.
Consigliato.
Saluti.
Ginseng666
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Generazione call center
Non è solo di giovani “choosy” che si parla in questi cinque racconti, sebbene ampio spazio sia dedicato a quelle generazioni defraudate del loro futuro e accusate di inerzia proprio da chi a quell'inerzia le ha condannate.
Ciò che spicca è il grigiore e la mediocrità del quotidiano, le delusioni che i protagonisti di queste storie finiscono per accettare passivamente come dati di fatto.
Il racconto di apertura, ritratto di una famiglia moderna, è il meno riuscito, per una generale banalità di contenuti che non riesce a coinvolgere il lettore.
Un po' meglio il secondo, grazie ad alcuni passaggi di una certa efficacia: l'atteso pasto serale ad alto tasso alcolico dell'impiegata di un call center, la “luce inutile” di una giornata di sole, l'attimo di gratificazione che le regala la parola gentile di uno sconosciuto, materiale con cui imbastirà i suoi sterili sogni.
Stravagante e provocatoria, nel terzo racconto, l'idea di una Casa di Lavoro per quarantenni precari con alle spalle una lunga sfilza di curricula ignorati e colloqui falliti. Si tratta di un alloggio alternativo garantito dalla società a quei giovani non più tanto giovani che non hanno ancora lasciato casa e non trovano un lavoro stabile, una via di mezzo tra un regime carcerario con libertà condizionata ed un ospizio (c'è anche il parlatorio per le visite settimanali dei genitori).
Non può mancare, poi, il perdente per antonomasia, sbeffeggiato al lavoro, tradito e disprezzato dalla moglie, figlio di serie B che conserva come un tesoro “il ricordo tiepido” della madre che lo aspettava sveglia di notte quando era ragazzo. Lui, “patetica, insulsa marionetta”, di colpo consapevole di esserlo, con una sofferenza che è “contrazione al cuore”.
L'ultima storia ha il tono struggente di un dolore ingestibile come l'afa di un giorno d'estate, di un ritorno al paese d'origine tra facce sudate e senza sorriso, di un amore perduto insieme a tutte le certezze, e di un rancore mai sopito: “Forse è proprio per questo che non piove da tanto. A pregare dev'essere solo gente come mio padre”.
Lasciano senza dubbio qualcosa questi spaccati di vita, con pagine più riuscite di altre che rivelano talento e idee. Ma l'autrice avrebbe dovuto osare di più, approfondire i passaggi più intensi, affondare senza esitazione il dito nella piaga e, soprattutto, non sottovalutare la forza corrosiva dell'ironia.
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INFERNO
INFERNO di Dan Brown aspira a diventare anch'esso un mega seller come i suoi predecessori ma questa volta qualcosa è cambiato, sarà perchè il nostro autore forse un po' frettolosamente ha lanciato quest'opera i cui contenuti, l'Inferno del sommo Dante Alighieri, avrebbero attirato i curiosi di tutto il mondo, motivi editoriali?
La trama è la solita una vera e propria caccia al tesoro con annessa una caccia all'uomo, indovinate chi? Ma come no, Robert Langdon ed anche in questo caso le sorti del mondo sono in bilico.
Questa avventura del protagonista ormai stranoto per Il Codice da Vinci, Angeli e Demoni ed Il simbolo perduto manca un po' di mordente.
L'inizio è sfolgorante, mi sono detto: "caspita che thriller dai ritmi incalzanti" ma poi la storia si arrampica un po' sugli specchi, tranquilli anche in questo caso Dan ci fornisce le sue soluzioni.
I capitoli sono brevi e come nello stile dell'autore ad ogni chiusura ci lascia col fiato sospeso.
Incredibili ed affascinanti le descrizioni di alcune delle città più belle del mondo e più ricche dal punto di vista artistico, Firenze su tutte ma non vi rivelerò altro altrimenti che gusto vi lascerei???
L'arte, la letteratura e la genetica fanno da sfondo ad una trama di un romanzo che alla fine forse lascia un po' l'amaro in bocca.
Inutile dire che la Divina Commedia attrae sempre la curiosità del lettore, soprattutto nella parte riguardante le cantiche dell'Inferno appunto, ci affascinano i peccati ma soprattutto inconsciamente siamo attratti sadicamente dalle punizioni...alla fine della lettura posso solo dire che il peccato più grave potrebbe essere l'immobilismo e l'indifferenza, quanto ci importa del futuro?
Voglio lasciarvi con un piccolo rimando musicale...che inserirò nei commenti.
Buona lettura a tutti.
Syd
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In apnea
Di solito,quando si parla di poesia,siamo soliti immaginare un componimento che abbia una razionalità,un’eleganza di metrica,arricchito di figure retoriche pronte a spezzarci il cuore o aprirci l’infinito.
E allora ci immaginiamo il poeta:una persona sicuramente introversa,che nasconde un mondo in quel corpo umano che stenta a farsi ammirare per quello che effettivamente è:un oceano di emozioni.
Leggendo queste poesie ho immaginato così l’autore:sospeso in un oceano con la testa sott’acqua,in apnea.
Titolo azzeccato dunque,anche se non nego che forse è stato proprio questo titolo a darmi un’immagine simile.
Parliamo di poesia,parliamo di metrica,di figure retoriche,di immagini che si accavallano alle sensazioni:il lato bello della parola che riesce a creare forme che spesso nemmeno la più alta fantasia,delle persone comuni,è in grado di esprimere.
Un percorso interiore,un ragazzo che scava dentro di sé fino al midollo.
L’età indubbiamente si sente:in ogni parola,in ogni verso.
Si sente il colore cupo dei dubbi dell’esistenza,il dubbio sul perché la nebbia resti sempre nel nostro raggio d’azione.
Forse,se volessi trovare un limite a questi testi,è questo:soggettivi,molto soggettivi,ma in fondo entriamo in un altro campo:perché scriviamo?
“…attende una mano/la mia/per chiudere il vento e trovarlo nuovo/e sorride la stanza/attende/quella mano/la mia/che scrive…”.
Scrivere,per molti,anche per me in passato,è un metodo catartico,ti libera dalla tensioni,ti rilassa,ti rende libero.
Così,le delusioni,gli amori persi,qualche amico che non c’è più,ti portano a chiuderti in te stesso.
Da qui molto spesso nascono immagini che prendono forma con parole dal suono amico,immagini che alcuni, quelli che le nascondono anche ai loro occhi chiudendole in un cassetto,chiamano pensieri, altri,invece,che decidono di esporle al mondo,al giudizio di chi non potrà mai capirle del tutto,le chiamano poesie.
“Saranno mine/saranno dita con le spade,gesti/saranno nebbie come nuovi universi/le seguirò/attenderò che si voltino/per guardarmi negli occhi…”.
Concludo augurando all’autore un grande in bocca al lupo per il futuro,magari con qualche raggio di sole e un pizzico di arcobaleno a dar colore.
Un abbraccio da un poeta sconfitto.
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Chick Lit tutta italiana!
ATTENZIONE SPOILER
3 cuori e un bebè di Silvia Mango, della collana Chick Cult della ARPANet è il primo romanzo di genere chick lit che leggo. Silvia Mango utilizza un linguaggio fresco, moderno che rende le circa 400 pagine scorrevoli e ci racconta una vicenda che, com'è tipico della letteratura per "chick", mescola amore, romanticismo, ironia, amicizia, paranoie, cucina, moda, arte.
La prima persona narrante permette di calarsi immediatamente nei panni di Giada, quasi trent’anni, fidanzata con Sandro, ma incinta di Paolo: una situazione assurda, un po’ da “telefilm”, come ammette più volte la stessa Giada.
Giada fa un lavoro fichissimo (che non la soddisfa), lavora in una galleria d’arte, ma purtroppo il suo datore di lavoro è un vero bastardo (e la figlia non è da meno, ovvio): devo dire che mi sono riconosciuta in questa situazione, poiché ho lavorato anch’io in una galleria d’arte e la gallerista era una vecchia stronzissima. Vabbè, autoreferenzialità a parte: i siparietti comici, il linguaggio semplice, veloce, rendono il romanzo gradevole. Questo tipo di letteratura non ha grandi pretese e infatti l’autrice scrive divertendosi (si vede, a volte anche troppo! Alcune scene sono quasi da cartone animato giapponese) e per divertire (ci riesce).
Qualche nota stonata nella caratterizzazione dei personaggi, caricaturali e stereotipati, ma suppongo sia comune in questo tipo di letteratura.
Giada è la versione sfigata di Bridget Jones, non ho mai amato Bridget Jones ma posso dire con certezza di aver odiato Giada dalla prima pagina. Rompiscatole, lagnosa e uterina (è incinta, va bene!, ma a tutto c’è un limite), con le sue paranoie e i suoi attacchi isterici è la Sindrome Premestruale Personificata. Sinceramente non ci si spiega perché sia l’oggetto del contendere di due uomini belli, ricchi e intelligenti.
Gli scompensi ormonali di Giada possono in parte essere giustificati dalla massa di gente assurda che la circonda, fra cui la più normale è proprio l’amica del cuore “new age” che appare e scompare come un’entità soprannaturale.
Giada non ha mai conosciuto suo padre ed è cresciuta con una madre ficcanaso che, a tratti, assume sembianze luciferine, tanto è crudele nei suoi giudizi, ma che si rivelerà saggia e affettuosa.
Sandro è il classico fidanzato perfetto: innamoratissimo, comprensivo, gentile e... pallosissimo. Paolo è l’”altro”, strafigo, in carriera, “stropicciato” e radical chic, somiglia pure a Ewan McGregor... insomma non c’è partita. Peccato che ad un certo punto diventi smielato quanto Sandro (magari avrò il cuore arido, ma ogni volta che uno dei due si è rivolto a Giada chiamandola “piccolina” a me si sono cariati tre denti per l’eccesso di zucchero).
Profondo Rosso e Suspiria (padrone della galleria e figlia) sono, in pratica, due emanazioni del maligno, peccato che alla fine del romanzo diventino una specie di Frate Sole/Sorella Luna, con Profondo Rosso penitente e gentile e Suspiria pentita e in miseria (non vi svelo altro).
Tra supermodelle bionde e secche, dall’aria snob ma dal cuore d’oro che soffrono come tutte noi (e ingrassano come tutte noi!), chef internazionali anticipaticissimi che di colpo diventano mecenati e amiconi, nonché datori di lavoro (il lavoro della vita, ovviamente!), fra ex che tornano come se niente fosse accaduto e amanti/padri che si rivelano per ciò che sono realmente (cioè Mefistofele in persona, senza mezze misure, insomma), fra madri che trovano l’amore e si guadagnano il titolo di madre dell’anno, si giunge al classico lieto fine con una nemesi che neanche nelle tragedie greche: tutti i cattivi vengono licenziati e faranno, si capisce, una fine pessima, tutti i buoni trovano il lavoro della vita, l’amore, il successo.
Insomma, se vi piace il genere, leggete Silvia Mango, perché non ha nulla da invidiare alle colleghe straniere!
Piccola nota sull'edizione della ARPANet: il formato tascabile è carinissimo, il progetto grafico è semplice e si addice benissimo alla freschezza del contenuto, unica nota stonata la formattazione interna, a capo sbagliati, refusi e testi non giustificati (può capitare, lo so, ma visivamente, in un'edizione che sembra così curata, stona!).
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Un conte di Montecristo sfortunato
L’inizio della storia farebbe pensare a un nuovo conte di Montecristo. Un povero diavolo, che non ha mezza idea sul mondo in cui vive, viene perseguitato per quasi tutta la vita dalla PIDE (polizia del regime dittatoriale portoghese). E’ strappato alla sua vita felice e alla donna che ama, torturato, inseguito e riacciuffato ogni volta nel corso degli anni come il peggiore dei sovversivi, perseguitato con un’attenzione maniacale, così maniacale da far risultare la ricostruzione dei fatti che fa a distanza di anni poco credibile.
Quest’uomo identifica il suo antagonista non nel regime o nel sistema politico che sicuramente ha prodotto di tali storture, ma in un uomo in particolare, il sarto, colui che ha preso il suo posto al fianco della donna amata, la spia del regime. Ogni volta che, nella sua lunga vita, si avvicina alla casa del sarto, inizia per lui qualche nuova sofferenza. Come non pensare che sia il sarto il grande cospiratore, il Nemico onnipotente?
Le storie di questo “conte di Montecristo” sfortunato sono raccolte dal nipote, un adolescente difficile e molto solo, con una vita sentimentale ombrosa come quella del nonno. Il ragazzo infatti è innamorato della vicina di casa anoressica che ha un rapporto travagliato con l’amore e con il sesso( oltre che con il cibo).
Le storie di nonno e nipote si intrecciano anche se la vita del nipote è solo accennata, tutta proiettata com'è sulla non-vita del nonno e sul suo desiderio di vendetta che ormai ha fatto proprio. Il ragazzo prenderà la decisione di andare lui stesso a parlare a Graca dos Penedo, la promessa sposa del nonno visto che lui non sembra decidersi a farlo. E anche quella di uccidere il sarto.
Un lettore italiano si potrebbe aspettare che la vicenda punti con decisione sull’aspetto sentimentale o sulla vendetta, i due aspetti più intriganti. In realtà il libro è per buona parte il tentativo di ricostruire con estrema esattezza tutta la storia del vecchio, con la pignoleria dello storico, malgrado la mancanza di testimoni e conferme, da cui il titolo del libro: le pietre sono gli unici spettatori rimasti. Non ci sono dati di fatto, carte, archivi. Un così è se vi pare portoghese, per cui il centro della vicenda diventa il racconto del nonno e la sua attendibilità.
Certo che la grande tensione alla verità storica che caratterizza il libro, la descrizione puntuale delle torture una per una e della prigionia o l’elenco ( a tratti troppo lungo) delle menzogne/ verità dette sulla vicenda tradisce una sensibilità tutta portoghese e un’attenzione di chi è ancora legato in qualche modo ai ricordi della recente e, credo, terribile dittatura. Il lettore italiano è molto lontano da tale sensibilità nonostante i segnali allarmanti che ci arrivano sempre più fitti.
A parte la lunga ricostruzione storica della vicenda del nonno, il libro ha delle parti, tra cui sicuramente il finale, la storia del nipote e i suoi dialoghi con i genitori, molto belle. Credo che la conclusione sia perfetta.
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Deus Vult
“Giuro di servire fedelmente, lealmente e
onorevolmente il Sommo Pontefice e i suoi
legittimi successori, come pure di dedicarmi
a loro con tutte le forze, sacrificando, ove
occorra, anche la vita per la loro difesa. […]”
Questo che ho appena citato è il giuramento che le nuove Guardie Svizzere, il 6 di maggio di ogni anno, devono fare prima di entrare a far parte dell’”esercito” del Vaticano.
Non sempre però chi entra a far parte di questo Corpo si comporta come dovrebbe e da qui nasce questo romanzo.
La storia si apre su un omicidio-suicidio di due di queste guardie, in un primo momento si pensa si tratti di un atto disperato fatto per motivi passionali.
Successivamente però, la storia si sposta a Torino, precisamente nella Cappella del Guarini, per qualche strano motivo è andata in fiamme.
All’interno di essa veniva custodita la Sacra Sindone, il lenzuolo funerario di lino dove venne riposto il Cristo dopo la crocefissione, il quale è andato distrutto.
Questo terribile fatto fa scuotere le basi della Chiesa e fa arrabbiare i credenti.
Sicuramente si tratta di un atto terroristico legato ai fatti accaduti nel 2001, ma nessuno sa di chi è veramente la colpa.
Non si conosce il perché di questo tremendo gesto e chi siano gli Illuminati.
Si tratta di un thriller sul genere di Dan Brown.
Alcuni tratti che lo caratterizzano come: il tipo di scrittura ed il modo di sviluppare la storia mi hanno fatto tornare in mente proprio lo stile di quello scrittore.
Lo stile è molto semplice in questo modo la lettura risulta veloce grazie anche alla suddivisione in capitoli più o meno brevi.
I personaggi nel complesso però non mi hanno particolarmente colpito e devo dire che anche nel finale la storia mi ha lasciata un po’ perplessa.
Mi aspettavo qualcosa in più, ma non per questo mi sento di denigrare questo libro che nel complesso mi sembra buono.
Che altro aggiungere?
Se amate il genere mi sento di consigliarvelo!
Buona lettura!
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E L'ARROCCO DELLA TORRE
Specchio.. specchio delle mie brame,
Némirovsky,chi è che gioca nel tuo rame?
Per chi ha avuto modo d’incontrare questa scrittrice sembra quasi inutile il riaffermare il suo grande stile:lieve,penetrante,coinciso dell’umanità lisergica nel più antico metallo,con quella sua conducibilità elettrica e termica elevata.
Ascende e discende nelle piaghe del meccanismo umano come la più grande ladra ascoltatrice,non ci sono giudizi ma solo sentimenti che si muovono tra il bianco e il nero e grandi occhi e grandi mani stetoscopiche e grandi orecchie che afferrano.
In questo racconto il protagonista è il rame che si ossida,diventa lattiginoso ,una materia che in realtà non ha movenza ne risoluzione ma un'apatia vacua,diciamo pure..é quanto di più fastidioso e snervante si possa incontrare.
James Bohun,capo di un’azienda di rilevanza internazionale produttrice di acciaio,definito come Attila (“dove passa lui crescono solo rovina e guerra”) che verrà schiacciato dalla grande crisi degli anni 30,travolto dal crollo della borsa e dalle sue terribili conseguenze per tutta l’economia,riesce comunque,seppur senza grandi prospettive per la situazione disastrosa ,ad assicurare un posto da dipendente al figlio Christophe nell’azienda di famiglia che per ragioni finanziarie ha dovuto cedere al suo assetato socio Beryl.
Ed é proprio Christophe ,rinchiuso in questo ruolo da semplice impiegato che svolgerà come un automa,reiterandosi nel totale nichilismo ed assenza di ambizioni o sogni,la pedina del racconto.
Si limita a sopravvivere tra le pieghe della sua famiglia,che subisce come fosse un estraneo,una moglie che sembra ritrovarsi nella sua vita e per cui prova avversione,dimenticando prima delle necessità del tetto famigliare,la scintilla che li ha uniti,un figlio che non sopporta e Murielle la cugina da sempre innamorata di lui.Appare a sprazzi in questo meccanismo degenerativo la lucidità che la vita è oltre l’abitudine ma l’unico rimedio che subisce invece che cercare,è il dio denaro,la chiave che percepisce come la via di salvezza immaginaria ma che in termini pratici non prova nemmeno a raggiungere.
Circondato dall’ibernazione sulla visione futura ne diventa lui stesso l’emblema assoluto,scarno di ogni forma di reazione,spogliato di energie positive e lungimiranti che scavalchino il suo piccolo io assettico,prigione in cui sembra crogiolarsi e compatirsi
Alla morte del padre,però,trova nel cassetto dei documenti che potrebbe utilizzare per ribaltare completamente la sua situazione… cosa farà?
Vorresti scuoterlo,strangolarlo con le sue stesse mani ma in fondo è proprio questo che la scrittrice vuole,capire quanta lucidità può avere la totale incombenza nel pensare che tutto non ha un senso con gli occhi privi di pupille.
E’ questo che desidera:reagire mentre tu osservi
Nonostante l’allure pessimista sfogliando l’ultima pagina hai voglia di fondere quel rame con la consapevolezza che l’oro è proprio lì vicino,senza soluzioni preconfezionate,degne di una magistrale penna tinta di maestria alchemica che porta il nome di Némirovsky.
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Gli instancabili cercatori di senso
La guerra vista con gli occhi del bambino, filtrata da un immaginario differente e meno consapevole, è qualcosa che è già stato presentato ai vasti pubblici in varie e numerose vesti. Un tentativo di reinterpretazione di questo genere di lettura non mi sembra al momento un affare da poco. Mi pare addirittura un tentativo che mostra molto coraggio, visto il panorama già ricco di esempi. E credo di poter gioiosamente affermare che Andrea Molesini, con “La primavera del lupo”, abbia fatto centro, senza riserve. Ne sono veramente contento, così come lo sono di aver avuto la possibilità di leggere questo delizioso libretto. Ad essere così “deliziosa” non è certo la parte più meramente contenutistica del romanzo, ovvero quella più strettamente legata alla guerra nelle sue fasi del tramonto, con le sue ben note crudezze. Ciò che invece colpisce positivamente, ciò che incanta, è la straordinaria bravura dell’autore nell’imitare così accuratamente il modo di pensare, parlare, agire proprio dei bambini decenni, con i loro ragionamenti in alcuni casi sorprendentemente ineccepibili, per quanto balzani e teneramente puerili agli occhi raziocinanti del lettore adulto. Ragionamenti che nella loro sbagliata illogicità fanno sorridere e al contempo possiedono una potenza evocativa straordinaria, tipica piuttosto di linguaggi poetici molto più astratti e complessi. Le immagini che il protagonista, Pietro, di dieci anni, evoca inconsciamente si caricano di un lirismo raffinato, con quella nota di magico/surreale che determinate situazioni e determinati oggetti sembrano racchiudere agli occhi di un bambino. Ed è proprio la voce di Pietro che ci guida nella fuga dai nazifascisti, raccontata dal suo punto di vista sgrammaticato, sebbene sicuro, pungente, ironico, pimpante e meravigliosamente conscio, a suo modo, di una realtà circostante portatrice di paura. Pietro è assieme al coetaneo Dario, “quello che sa i numeri”, e a una eterogenea comitiva in cui troviamo suor Elvira, seconda ed ultima voce narrante della vicenda, frate Ernesto, le attempate sorelle Maurizia e Ada, quelle che quando camminano insieme, di cui una col bastone, sembrano un mostro con cinque gambe chiamato, per praticità, “Mauriziada”. Altri personaggi si aggiungeranno alla comitiva, mentre altri cadranno nelle imboscate del destino, lo stesso che accompagna la rocambolesca fuga da un monastero di un’isola della laguna veneta fino a luoghi in cui cercare rifugio dalle persecuzioni ben note perpetrate nei confronti degli ebrei. Una trama dinamica che si abbina a una narrazione altrettanto dinamica, che merita un’ultima osservazione per mettere in luce un merito da non dare per scontato. Quello dell’equilibrio. Equilibrio stilistico che ha permesso all’autore di non cadere mai, nell’imitazione di un linguaggio infantile, nel lezioso e nella forzata ricerca di ispirare tenerezza. Egli resta sempre su un piano sinestetico di infantilismo che tenta a tutti i costi di apparire adulto. Allo stesso modo della sveglia personalità di Pietro, nel tentativo di dimostrare in ogni occasione la sua maturità, o quello che egli considera tale. E’ tramite lui che abbiamo la possibilità di trarne il lampante messaggio: i bambini capiscono molte più cose di quanto credano gli adulti e di quanto loro stessi diano a vedere. Comprendono anche le situazioni peggiori, nonostante siano così fortunati da avere dei filtri potenti, capaci di addolcire, travisare, proteggere, per quanto possibile, da un mondo che avrà tempo e modo, ainoi, di ferirli in un secondo tempo. Colui che svolge questa funzione, per Pietro, è un lupo immaginario. Forte, mansueto, misterioso, sicuro nella sua figura di garante e protettore della vita e dell’innocenza di quell’infanzia da preservare a tutti i costi. In definitiva, per quanto gli si voglia preservare, per quante precauzioni si prendano per mascherare le peggiori verità, i bambini capiscono, sono vigili, danno spiegazioni e, come dice la stessa suor Elvira, sono “infaticabili cercatori di senso”. Un senso che magari a noi fa sorridere, intenerire, rimembrare, ma che per loro è una certezza in cui credere e con cui spiegarsi quello che accade intorno a loro, come a tutti è capitato di fare da piccoli, come al sottoscritto, che credeva che le cose scure lasciate sotto il sole si scaldassero di più perché il sole stesso, credendole ombre, mettesse maggior luce nei propri raggi per illuminarle.
Sono cose in cui si crede, fino a che non si cresce e tutto sfuma in una consapevolezza più grande, e un po’ meno colorata. Ma questo è.
Leggetelo, sarà un bel viaggio in voi stessi.
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Un borgo ed i suoi segreti
In un piccolo borgo sul lago Maggiore gli anziani gemelli Paolo e Bruno Brovelli vengono rinvenuti cadaveri, morti contemporaneamente per arresto cardiaco nella casetta del bosco.
Gia' questo sarebbe un evento sufficiente a scuotere una cosi' piccola comunita', non fosse che il quadro si completa con l'arresto della prorompente e chiacchierata Teresa, focosa moglie del medico del paese.
Teresa dai lunghi capelli rossi che fluttuano nel vento incorniciando la pelle candida, che tra le altre cose si scopre essere ricchissima...prende e porta a casa Teresa; che i gemelli siano stati uccisi ?
Gli eventi non possono che spianare la strada ad un romanzo pacatamente giallo, che della ricerca del movente e della soluzione al tragico evento non fa cardine ma spunto. Spunto per dilettarsi in un genere diverso, dove tra flash back e confessioni scopriremo misteri , amori e segreti degli abitanti di Bregulio.
Seduti al tavolo di una grande e storica dimora, un buon numero di personaggi ivi radunati dal cavalier Tenconi ci intratterra' , tra veleno e Champagne, per svelarci non solo quello cui ambivamo, ma molto di piu'.
Un buon intermezzo narrativo, un romanzo fluido ed intrigante, semplice e divertente la cui trama si suddivide in piccoli e profondi affluenti a nutrire il corso del fiume che sostiene la storia : una morte misteriosa, mille pettegolezzi, romanticismo e nostalgia.
Buona lettura.
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QUALCHE PAGINA IN PIU', MAGARI...
Questo romanzo intreccia a doppio filo la fantasia narrativa con la Storia. Salite a bordo e verrete traghettati dagli ultimi anni della seconda guerra mondiale fino all’anno 1977. Se si manterrà una velocità di crociera di circa 50 pagine all’ora, raggiungerete la destinazione in poco più di 7 ore.
E quale sarà il paesaggio che vi ritroverete intorno?
Questo romanzo ci narra la “vita” del clan dei Marsigliesi, una banda criminale operante in Italia dal 1973 circa al 1977 circa. La particolarità però è che il tutto ci viene narrato ripercorrendo la vita di un membro appartenente al clan, Brando.
Il libro si apre con il racconto di una crimine di guerra di cui Brando e la propria famiglia furono vittime: il massacro che il 14 Maggio 1944 una truppa francese di soldati di origine nordafricana(goumiers) compì a Montecassino.
I soldati di questa truppa seviziarono, violentarono e uccisero gli abitanti di questa città in maniera brutale ed animalesca . Vittima di tale cieca violenza fu anche Brando, all’epoca di soli 8 anni e la sua famiglia.
Non stò ovviamente a svelarne i dettagli per non rischiare di “spoilerare” , ma basti dire che questa vicenda segnerà per sempre Brando, fin nel più profondo dell’animo. Questa esperienza sveglierà in lui un tale odio e un tale rancore che nulla ad eccezione di questi sentimenti, lo faranno sentire “vivo”.
Il romanzo poi ripercorre varie tappe della sua vita fino al momento in cui si ritroverà membro del clan dei marsigliesi. Lo scrittore in questo tratto ha “trascurato” la vicenda personale di Brando per narrarci come questo clan si sia formato e sviluppato nell’Italia degli anni ’70. Il clima politico dell’epoca era sicuramente rovente, in Italia e nel mondo stavano per avvenire cambiamenti politici che “infastidivano” il vecchio potentato. Per questo motivo, così ci dice il libro, il clan dei marsigliesi ebbe un forte appoggio politico e mafioso alle sue spalle. Una pedina nelle mani dei grandi e malati “poteri”: qui si parla perfino di tentativi di golpe e di massoneria.
Dopo questa parte centrale completamente dedicata “al clan”, nella parte finale ritroviamo l’obiettivo della narrazione puntato quasi esclusivamente su “Brando”. Non vi svelo nulla, sappiate solo che il finale si ricongiunge per narrazione con le primissime pagine.
Che dire di questo romanzo, beh, innanzitutto è scritto bene, la lettura scivola via davvero bene.
Non posso però dare un voto molto positivo a questo romanzo. Amo (come ormai noto)i romanzi nei quali sono i personaggi i protagonisti della vicenda, mentre in questo caso è la vicenda ad essere la protagonista. Inoltre nella parte centrale penso che alcuni punti siano poco particolareggiati mentre altri lo siano in maniera eccessiva. Vi sono salti temporali troppo ampi nei quali mi sono chiesta “si, ma nel frattempo cos’è successo?”.
Molto bella invece la prima parte, dove viene descritta la difficile infanzia e adolescenza di Brando. Questa minuziosità nella narrazione viene usata, a mio parere, per “trovare una motivazione” alle enormi azioni crudeli di Brando, ci viene fornita la spiegazione di come un essere umano possa riuscire a compiere le violenze che i membri del clan dei marsigliesi hanno compiuto. Non una giustificazione, ma una realtà: l’odio nutrito e covato nell’animo cresce a dismisura e divora tutti gli altri sentimenti, fintantochè per nutrirsi brama sempre più odio e violenza.
Non mi sento di sconsigliare questo romanzo, ma sicuramente è diverso dalle aspettative che si hanno leggendo le citazioni in copertina.
Questo non è un romanzo dettagliato sulla storia del clan dei Marsigliesi, piuttosto una narrazione non troppo particolareggiata di cosa rappresentò per l’Italia questo clan e la situazione politica del periodo nel quale operò.
La scelta dello scrittore credo sia stata quella di narrare nel modo più semplice possibile una vicenda che è tutt’altro, e questo, però, a finito con esserne un po’ troppo superficiale.
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Finché morte non ci riunirà
A volte le cose piacevoli arrivano quando meno te le aspetti, così un giorno mi è capitato tra le mani questo libro che ho trovato nella mia cassetta della posta. Guardando la copertina su cui sono disegnati due cavalieri di Malta con alle spalle la fortezza dell'omonima isola mi sono detto che questo poteva essere l'ennesimo abbozzo di un autore non ancora conosciuto al grande pubblico, il quale si affaccia sul panorama letterario con un azzardo. Ma leggendo tra una pausa e l'altra, durante la lettura di un altro libro, sia la nota dell'autore che la prefazione mi si è accesa una scintilla che mi ha portato direttamente nel XVI° secolo sull'isola di Malta.
Matteo Freddi, questo il nome dell'autore, non mi ha raccontato di inconfessabili segreti dell'Ordine dei Cavalieri di Malta, né tanto meno di assurdi tesori o pergamene segrete di Solimano, sovrano dell'impero ottomano.
Matteo Freddi mi ha proiettato al centro di epiche battaglie, raccontate con grande maestria e a volte con crude descrizioni di quanto le guerre possano essere traculente.
Al centro di questa battaglia tra l'esercito e la flotta dei musulmani intenti ad invadere per conquistare Malta, difesa eroicamente e stoicamente dai suoi Cavalieri, guidati dal gran maestro La Vallette, si insinua la separazione di una coppia di sposi che in modi differenti cercheranno in tutti i modi di riabbracciarsi...finché morte non li riunirà!!!
Durante la lettura mi sono venuti altri celebri scontri militari che avevo letto su altri romanzi ma quello che più si avvicina all'epicità dell'impresa è quello del Signore degli Anelli, durante la celebre battaglia dei Campi del Pelennor ossia Minas Tirith, ma sull'isola di Malta questo scontro c'è stato per davvero e non è frutto di fantasia.
Complimenti all'autore perchè è riuscito a combinare egregiamente la veridicità storica alla fantasia di vicende che fungono da cornice ma anche da ossatura del romanzo.
Buona lettura a tutti.
Syd
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L'ipotesi del male
Donato Carrisi questo speciale romanziere, un po' criminale ed un po' paterno, ha confezionato per noi lettori un thriller dai chiari contorni gialli. Ha ripescato la sua eterna protagonista Mila Vasquez da quella che è la stella più luminosa nella sua costellazione di produzioni letterarie, Il suggeritore, la protagonista ritorna prepotentemente alla ribalta negli uffici di polizia per indagare sull' inspiegabile ritorno dal nulla di alcune persone scomparse e ritornate per ricordare a tutti che Kairus, Il Signore della buonanotte, Il Mago ovvero l'Incantatore di anime è tornato. Questo decennale nemico della polizia è pronto a scatenare "L'armata dell ombre" così Mila si ritroverà assorbita totalmente da questa indagine mostrandoci il suo lato più intimo, torbido, buio, una parte del mondo da cui lei è attratta perchè ne è parte.
Carrisi ci propone un viaggio nell'universo dell'oscurità interiore di ogni personaggio, ci mostra la luce e l'oscurità, la superficie e l'abisso di ognuno, a volte ci accarezza per poi schiaffeggiarci, è come stare in acqua al mare e non avere il tempo di respirare perchè ogni onda è seguita da un'altra ancora più alta che ci sovrasta. Il romanzo è scritto con uno stile caratterizzato da capitoli brevi e colpi di scena incastrati ad arte. Pensate che ad un certo punto della lettura pensavo di aver capito tutto, bè in un certo senso è così, ma Carrisi mostra le sue carte calando la scala reale e vincendo a mani basse il suo gioco con il lettore, che alza le mani arrendendosi e pensando ho speso bene i miei soldi.
Un thriller che richiama le indagini di un libro giallo, finalmente dico, che ci conduce senza traculenza in un'analisi introspettiva dei personaggi con un finale che ancora ora mi ha lasciato con una grande fame...di lettura!!!
Carrisi raccontandoci questo romanzo ci regala una Mila che proviene dal buio ed è al buio che vuol ritornare, ci propone la sua formula di buio, oscurità...insomma l'ipotesi del male. E non finisce qui...al peggio non c'è mai fine!!! Fidatevi vi do la mia parola.
Buona lettura a tutti.
Syd
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SCAPPANDO DA STALIN......
Libro che “cuce” una vicenda di fantasia, in un contesto storico ben preciso, affiancando a personaggi inventati, persone e fatti realmente vissute ed accaduti. L’intreccio tra la storia russa e americana a cavallo della seconda guerra mondiale, ben si sposa con parti di fantasia.
L’autore è ebreo, nato in Polonia, si trasferisce per qualche anno in Russia, per poi stabilirsi definitivamente in Francia negli anni ’50; è un’intellettuale di fama internazionale, che ha dedicato molto allo studio e alla scrittura inerente alle vicissitudini del popolo ebreo.
La vicenda si snoda su due piani temporali differenti.
Inizialmente il lettore si trova a Washington nel 1950, più precisamente, ad assistere alla 147sima udienza della Commissione per le attività anti-americane, nella quale Maria Apron, insegnante di recitazione c/o l’Actors Studio di New York, viene accusata di essere una spia comunista, in possesso di un documento di identità falso, appartenuto ad un agente dell’ Office of Strategic Service ( Organo di raccolta informazioni sulle attività di spionaggio dell’URSS dal 1947),infiltrato a Mosca, di cui non si hanno più notizie, dopo l’ultimo contatto avvenuto nell’estate del 1944, rispondente al nome di Michael David Apron.
In quegli anni in America, imperversava una vera a propria caccia alle streghe, queste ultime erano impersonate dai comunisti. Il buon americano per essere tale, doveva anche essere un vero anti-comunista, ed ecco che anche tra nomi noti di Hollywood si era venuta a creare una vera e propria “lista nera”.
Il nome della persona che veniva vergato sopra tale lista, poteva dimenticarsi di lavorare e doveva fuggire con tutta la famiglia.
Ma torniamo alla storia. Chi è Maria Apron? Una donna bella ed affascinante, molto forte ed intelligente, con due occhi blu molto espressivi, brava attrice indubbiamente. Durante l’interrogatorio comincia a raccontare la propria storia, ecco l’alternanza temporale di cui accennavo precedentemente.
Maria inizia la narrazione dal lontano 1932, quando si è ritrovata costretta a fuggire, dopo aver passato una serata di festa nella lussuosa residenza di Stalin, a cui è seguita una nottata tra le braccia del dittatore.
All’udienza viene autorizzato ad assistere il giornalista Allen Koenigsman, i suoi dubbi, i suoi interrogativi, sono anche i nostri. Chi è in realtà Maria Apron? Le vicende che narra sono reali?
Dalle prime battute il lettore si ritrova coinvolto a pieno titolo nella storia. Il desiderio è sapere cosa ha da raccontare Maria, cosa può dire per convincere la Commissione della propria innocenza.
E così, si attraversano eventi storici realmente accaduti in modo naturale e fluido, lo stile di scrittura è chiaro, articolato, ma nello stesso tempo comprensibile. Risulta estremamente agevole per il lettore, seguire i cambi temporali, il sovrapporsi di personaggi e luoghi, che ripercorre la stessa Maria narrando la propria vicenda. Si potrà così vivere tra tanti orrori della guerra anche una dolce e grande storia d’amore.
354 pagine che si leggono in un soffio. Interessantissimo trovare in Appendice alcune pagine riassuntive che dettagliano “personaggi e fatti reali” presenti nella storia, con una breve descrizione, oltre ad uno schema altrettanto dettagliato relativo a “riferimenti storici e culturali”.
Insomma, Halter si premura di dare al lettore non particolarmente ferrato sulle vicende storiche menzionate, una sorta di bussola, che permetta di orientarsi tra le pagine in modo più che buono.
Ringrazio la Redazione che mi ha permesso di leggere questo libro.
Inoltre, ho avuto la possibilità di rivalutare la Casa Editrice Newton Compton, della quale,i romanzi letti in precedenza mi avevano parecchio deluso.
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Via The End
Con Via The End, primo volume di una trilogia, Antonietta Mirra dichiara un’intenzione ambiziosa: far aprire gli occhi all’Umanità “su ciò che davvero si cela dietro i concetti di colpa e libero arbitrio”. In sostanza, si parla dell’eterna lotta fra Bene e Male, nella quale, una giovane e brillante psichiatra dovrà vedersela con gli strani medici e pazienti di un istituto d’igiene mentale e con alcune sinistre visioni.
La lettura, però, presenta una serie di intoppi.
Il primo è che mi sono resa ben presto conto che la sintesi che mi aveva attirato, riportata sull’aletta, era, in realtà, l’intera trama del romanzo, comprensiva di spoiler e di finale.
La presentazione (non il riassunto!) ha la funzione di attrarre il lettore, non di raccontargli tutto quello che accade nel libro, togliendogli l’effetto sorpresa e il piacere di fare “congetture”, specialmente se il testo è caratterizzato da una focalizzazione interna (e quindi votato alla suspense).
Ma questo è solo un dettaglio: purtroppo (e dico purtroppo perché odio fare recensioni negative di scrittori esordienti), “Via The End” presenta parecchi problemi, sia nella forma che nel contenuto.
L’impressione è che il romanzo sia stato scritto di getto e mai sottoposto ad editing, in alcuni punti sembra sia il risultato della collazione di scritti di varia natura (pensieri sparsi, poesie, pezzi di racconti) forzatamente messi insieme, con un risultato finale frammentario e poco scorrevole.
Ci sono una serie di ingenuità di stile e veri e propri errori (anche gravi), sia di punteggiatura (la virgola tra soggetto e predicato, punti interrogativi mancanti), di ortografia (“né” scritto senza l’accento, ad esempio), di impaginazione (a capo improbabili).
Gli errori più frequenti sono quelli di stile e di contenuto.
Parto dall’incipit: “il telefono squillò e sembrava che non l’avesse mai fatto prima”.
Esattamente che tipo di sensazione ci trasmette questa frase? Nessuna. Il lettore recepisce soltanto che il telefono squilla, non ricava alcuna informazione aggiuntiva dal fatto che “squilla come se non l’avesse mai fatto prima” perché questa aggiunta, in realtà, non significa niente riferita ad un oggetto.
Ancora: “Samantha alzò lo sguardo dal libro di psichiatria che stava leggendo e guardò l’apparecchio incerta se lasciarlo urlare fino all’inserimento della segreteria o decidersi ad interrompere quella violenza simulata su un oggetto inanime e rispondere senza voglia”.
Troppe parole e l’insieme diventa prolisso e pesante.
Un altro problema riguarda i tempi della narrazione, a volte completamente sballati, con passaggi bruttissimi dal trapassato prossimo al passato remoto: “Samantha lo aveva constatato un anno prima, lavorando in un gruppo di medici della sua città, a cui capo c’era uno degli psichiatri più famosi della regione. Decise di abbandonare quel posto dopo aver assistito a una scena raccapricciante a danno di un paziente che lei non potette in alcun modo evitare”. E questo problema si ripropone costantemente nel testo, dove a volte il passato remoto viene usato nei dialoghi (“andai” / “vidi” sono forme dialettali).
Altro problema, i dialoghi.
1) Chilometrici: è francamente impossibile pretendere di tenere viva l’attenzione di un lettore, quando gli si propone un dialogo in cui ogni intervento dura due pagine.
2) Inutili: spesso comunicano informazioni inutili (tipo: “ciao”/ “ciao” / “come stai?” / “tutto bene, grazie”).
3) Poco realistici: molto spesso utilizzano un linguaggio ridondante, formale, da lettera istituzionale. Esempio: il padre si Samantha, preoccupato perché la figlia non risponde più al telefono, le dice: “Mi ha chiamato ieri [un amico di lei, ndr] dicendomi che tu non rispondi a nessuna delle sue chiamate, rendendoti irreperibile”. L’ultima è un’osservazione ridondante, nessun essere umano preciserebbe una cosa del genere, essendo già chiaro il concetto nella frase precedente. “Mi ha chiamato ieri, mi ha detto che non rispondi alle sue mail” è un po’ più vicino alla realtà, ad esempio. Altro esempio di linguaggio inappropriato in un dialogo: il vice direttore dell’ospedale che dice “[...] altrimenti la faccio subito accompagnare nel suo appartamento, con la promessa di rivederci domani”. Benché la situazione sia formale, gli esseri umani tendono a non parlare come in un testo scritto, nessuno al termine di una discussione concluderebbe dicendo “cordiali saluti”.
Frequentemente nel testo s’incontrano pagine che sembrano uscite da un manuale di psichiatria messe in bocca a persone che stanno parlando in maniera informale e non a un convegno scientifico.
Ancora, il voler a tutti i costi spiegare le sensazioni della protagonista, porta l’autrice a commettere errori di stile come questo: “Il cuore le batteva talmente forte da impedirle di pensare. Nella sua mente il suono dell’organo vitale le rimbombava come se stesse uscendo fuori dal corpo e stesse per schizzare via chissà dove”. L’uso di ”organo vitale” invece di cuore, per evitare la ripetizione, è brutto, in realtà tutta la seconda parte si poteva evitare, perché ripete un concetto già espresso!
Non manca il classico infodump: “in fondo al corridoio c’è l’ascensore, il bagno e l’ufficio del direttore dal quale siamo appena usciti”, nella realtà nessuno avrebbe riportato una notizia evidente ad entrambi i protagonisti della scena.
Altre cose che proprio mi hanno fatto storcere il naso: occhi che “si fissano nel soffitto candidamente bianco”, capelli “buttati indietro con la gelatina”, gente che rimane a fissarsi per dieci minuti senza che nel frattempo accada nulla (provate a fissare qualcuno per soli 30 secondi e vedrete che sono già un’eternità.)
Troppo spesso l’autrice esagera con le metafore e il linguaggio “elegiaco”, dando vita a frasi totalmente nonsense: “le pareti che dovevano essere imbrattate di inchiostro nero, espressione ululante di un intenso delirio dell’animo, sgorgante come fosse sangue dal corpo di un essere impaurito del proprio riflesso perché convinto di esistere solo in quello, erano immacolate come le vesti di una vergine esangue, in cerca di spiritualità che sa di consapevole abbandono”.
Elencare tutti i problemi di stile sarebbe lungo perché, ripeto, sono davvero tanti.
A dire il vero il testo, nella seconda parte, migliora leggermente, anche perché aumenta l’azione.
Il contenuto del romanzo non è originale, ma poteva essere trattato in modo da renderlo attraente per il lettore, il problema reale è come il romanzo è scritto, pesante e pieno di errori. Andrebbero tagliate intere pagine che rallentano la narrazione, senza essere utili alla trama. Insomma, tra la scrittura e la pubblicazione ci sono una serie di tappe intermedie che, in questo caso, sono state saltate a piè pari.
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Sindbad torna a casa
Un tuffo nella malinconia della giovinezza ormai sfumata e con essa tutto quello che la popolava.
Sandor Márai realizza un romanzo molto particolare per stile e contenuto, riesce ad unire una bella prosa a delle emozioni profonde. Il peregrinare per Pest è di Joyciana memoria, come Ulisse anche Sindbad si trova in un sol giorno a vagare per le vie della città vecchia, ormai solo ombra di ciò che era, solo vuoto guscio di un mondo lontano, quando gli scrittori erano anima e i libri vita, quando Sindbad era giovane e rispettato per quello che scriveva.
Quanto la trama è semplice e lineare tanto profondi sono i temi toccati e molto attuali, nonostante il romanzo sia stato pubblicato nel 1940, interpretabili a più livelli.
Il protagonista Sindbad, ovvero Gyula Krúdy, si fa essenza della scrittura stessa, trasmette la passione, l'ansia di esprimere le proprie emozioni, l'amore per la propria patria e la malinconia di qualcosa che finisce in modo definitivo, l'alito della morte che aleggia sulla vita e facendosi soffio porta via tutto quello che è stato. Ciò che rende questo piccolo libro speciale si trova nella parte centrale, dove l'autore, mentre Sindbad pranza, sopraffatto dai ricordi, ci ricorda perché egli scrive e sono pagine di una intensità profonda che l'allievo dedica al proprio mentore, in cui lo eleva a musa e guida, ad impersonificazione dell'ispirazione e di quella forza che si impadronisce di un uomo e lo trasforma in artista. Ogni aspetto della vita diviene spinta propulsiva a scrivere per lasciare testimonianza di quell'attimo, di quella sensazione irripetibile e determinante.
Quel ripercorrere le tappe dei caffè letterari e trovare desolazione e superficialità nei giovani scrittori orfani della passione e della capacità di provare emozioni, di quel riuscire a trasmetterle solo con la penna, è un elevare la propria arte, ma soprattutto la propria giovinezza, quando non esisteva una casa, perché questa erano i profumi del bagno dove a settanta gradi si discuteva con gli altri intellettuali dei fatti del mondo per renderli arte oppure il gusto del caffè unica e vera bevanda dello scrittore.
Il ritorno a casa è struggente e foriero di nuovi pensieri e della presa di coscienza di un'epoca andata, finita, dissolta, ma anche della certezza rinnovata che il proprio passaggio nel mondo non è stato vano, un'infinitesima traccia è stata lasciata e questo basta per dare un senso alla vita, quasi a descrivere il destino di ogni scrittore la cui opera sopravviverà in eterno.
Tutti questi fili sono tenuti insieme da una scrittura fluida, scorrevole in cui Márai sostiene Sindbad e lo caratterizza in modo preciso, non nascondendone i molti difetti, ma mettendoli al servizio del suo genio. I personaggi secondari sono appena accennati e tutto il viaggio è pervaso di citazioni di scrittori vissuti in Ungheria all'epoca di Krúdy, che rendono ancora più struggente questo viaggio di Sindbad in una costosa carrozza.
Scritto come omaggio al proprio maestro, utile a tutti quelli scrittori che hanno smarrito la passione e la ragione per rendere vive le pagine su cui scrivono.
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IL TRIO MALEFICO
Elena, Vanessa e Samantha sono tre adolescenti come tante che vivono in un paesino della provincia di Milano: la noia quotidiana, la voglia di vivere, di essere qualcuno, di trasgredire in tutto e per tutto, di crescere e di uscire dalla triste realtà in cui si sentono terribilmente in gabbia, le porta a diventare tre ragazze difficili, trasgressive e ribelli a livelli inaspettati.
Fumare spinelli, disinteressarsi alla scuola, avere le prime esperienze sessuali dopo un po’ non bastano più… sentono il bisogno di qualcosa di più forte, di più eversivo, di più diabolico e lo trovano… eccome se lo trovano.
Iniziano con i patti di sangue, piccoli taglietti che le uniscono le une alle altre, proseguono con atti fuori dall'ordinario, come dipingere di nero le pareti della propria camera o provare a evocare satana… finiscono con il peggiore degli atti: progettare di uccidere qualcuno che non ha fatto loro nulla di particolare, se non quello di non meritare di vivere perché troppo buono e inutile al mondo… e chi se non meglio di una suora risponde a questo loro identikit?
E’ così che, a Chiavenna, suor Maria Laura trova la morte in un sentiero vicino al fiume Mera, per mano di tre adolescenti annoiate dal mondo, tre ragazzine cresciute in famiglie perbene, ma con dentro un vuoto micidiale che risucchia tutto quello che le circonda: dalla vita innocente di una persona alle loro stesse esistenze, macchiate da un omicidio nato per un motivo futile e stupido come la noia, come la volontà di voler compiere un gesto folle per uscire dall'anonimato, non capendo che uccidere può essere facile come respirare, ma vivere ed essere qualcuno, ovunque ci si trovi a vivere, è ben più difficile ed arduo.
I miei complimenti a questa giovane autrice, che è stata in grado di scrivere un libro difficile, con una facilità estrema, con una maestria e una bravura degne dei migliori scrittori; si resta incollati a questo libro fino alla fine e nonostante questa triste vicenda sia nota a tutti, non si riesce mai a staccare gli occhi da queste pagine!
Non posso far altro che consigliarvi questo libro e promuoverlo tra i migliori letti negli ultimi periodi!
Buona lettura!!
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Quattro etti di amore
Chiara Gamberale propone al pubblico un romanzo intriso di problematiche estremamente attuali, un romanzo che indaga zone d'ombra della nostra società.
Lo stile narrativo non troppo impegnativo, rapido e fresco in realtà riveste con brio e colore un contenuto sostanzioso e impegnativo; ossia la vita, con i suoi fardelli, i suoi sogni, le sue disillusioni, le sue gioie e le sue mancanze.
Vita significa uomini e donne, unitamente alla loro capacità di viverla, di goderla, per realizzarsi al meglio, per assaggiare la felicità, per condividere esperienze, per crearsi un nucleo di affetti.
I personaggi creati dalla Gamberale sono creature alla ricerca di un posto nel mondo, alla ricerca di certezze, di rifugi, di appagamento; sono donne giunte ai rispettivi capolinea, cui la vita impone una svolta, una scelta perché il vortice della quotidianità le ha risucchiate e svuotate.
Le certezze ed i piaceri di ieri lentamente sono andati alla deriva, corrodendo stima, amori, sogni, mettendo in risalto una sensazione nuova: l' insoddisfazione.
Ed è proprio l'insoddisfazione a tramutarsi in un mostro ingordo che ingoia qualsiasi rimedio, facendo cadere nell'impotenza qualsiasi tentativo di placarla.
Una visione amara del mondo attuale ci aspetta tra queste pagine; un mondo dominato dall'esteriorità, dall'effimero, rapporti interpersonali al collasso, incomunicabilità tra le mura di casa.
L'autrice intraprende un'analisi del vivere moderno con toni leggeri che tuttavia con l'andare della narrazione si fanno più duri e più fermi, scavando con finezza nel cuore dei personaggi, mettendone in luce ansie e delusioni.
In questo romanzo la Gamberale è abile nell'imbastire storie che si sfiorano e si intrecciano, alternando le voci narranti come in una danza, creando raffronti, sottolineando somiglianze e divergenze; le voci delle due protagoniste femminili suonano sincere, dirette, modellate su schemi sociali di estrema attualità.
Sono donne parte di un mondo che propone modelli e impone ruoli, sono donne in fuga dalle catene del quotidiano, sono donne cui la propria vita è divenuta un vestito troppo stretto.
Racconto ben dosato che sotto sembianze di semplicità, cela profondità di contenuto e spunti di riflessione, nonostante la sensazione ricorrente che stilisticamente esso faccia l'occhiolino ad una eventuale trasposizione cinematografica.
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Disperazione e Speranza
Quando cambia il corso della nostra vita? Spesso senza neanche accorgercene ad agire come giro di boa è un evento o una dimenticanza, avvenuta per puro caso e contro la nostra volontà. Ma quel frangente, che ha richiesto solo pochi secondi, è riuscito a capovolgere letteralmente la nostra vita.
Una vita pacifica fatta di routine, lavoro, famiglia, moglie e figlia. Questa è la storia del Dott. Giacomo Fontana, uomo affermato professionalmente, grazie anche ad un'innata dote di compassione e comprensione dei dolori altrui, lo hanno portato dove lui si trova adesso a barcamenarsi tra ospedale e studio privato. Una famiglia con moglie e figlia, tutto liscio e lineare. La moglie Anna che da lezioni di musica. La figlia Cecilia vicina alla maggiore età ed in procinto di conseguire la maturità classica. Ma qualcosa si innesta in questo idilliaco quadro familiare: la malattia di Anna. Nessuno riesce a dargli un nome, sta di fatto che giorno dopo giorno lei si chiude in se stessa, non parla quasi più. Un mutismo devastante, una malattia che la risucchia attimo dopo attimo, giorno dopo giorno.
Ma uno sfortunatissimo giorno Giacomo prima di uscire di casa per andare a lavoro dimentica delle fialette d'insulina con delle siringhe a casa. Sarà l'inizio della fine, l'inizio del suo giro di boa. La moglie le trova se le inietterà e....coma ipoglicemico....morte. Nessuno lo accuserà, la polizia ha compreso l'accaduto, ma la figlia cosa dirà della sua dimenticanza, della sua sbadataggine che ha causato la morte della madre? Cecilia non dirà niente perché lui non avrà il coraggio di confessarlo. E' giovane, deve sostenere gli esami di maturità la confessione può attendere.
Ma le cose, come al solito, non vanno come noi pensiamo, un mattino la figlia ricostruisce, per puro caso, il tutto e decide di andarsene partire per sempre, abbandonare il padre, scappare da quel peso troppo enorme per lei.
La vita di Giacomo muta completamente, non denuncia la scomparsa e va alla ricerca della figlia perduta.
Passano mesi, abbandona il lavoro, vive per strada con pochi panni cenciosi che si ritrova addosso, ritorna a casa solo di tanto in tanto per ripulirsi e poi vaga nuovamente alla ricerca della sua amata figlia, non perde mai la speranza nella sua disperazione, perché lui non comprende la sparizione di sua figlia:
“... ma giro attorno a questo pensiero come una vite spanata che si ostina, inutilmente, a volersi fissare nel legno.”
La riesce a trovare e di colpo comprende, si illumina e capisce che la figlia sa, la pedina, sa cosa fa e come passa il suo tempo, ma non riesce mai ad avvicinarla. C'è un qualcosa in lui che glielo impedisce, è bloccato, ha paura, terrore della reazione di Cecilia, paura di un suo rifiuto...
Troverà la forza in un modo nuovo, strano, inusuale ma solo così è cosciente che potrà portarsela a casa. Un dialogo interiore fra padre e figlia.
In poche pagine che costituiscono questo racconto l'autore con una prosa pulita, netta e precisa come il taglio di un bisturi ci fa addentrare nella miseria umana , nell'abbandono, nella dimenticanza del nostro prossimo, nei casi umani che girano intorno a noi e a cui noi volontariamente voltiamo la faccia. Ma ci parla non solo del grigio di un'esistenza e di varie esistenze ma anche di coloro che donano la vita con passione e amore a coloro che hanno avuto meno di noi, donando non il grigio della vita ma le varie sfumature di colore, come un arcobaleno in pieno cielo. Un inno alla speranza che si raggiunge dopo la disperazione.
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Vivere, nonostante tutto
Quando ho iniziato a leggere “Canada” non sapevo esattamente cosa vi avrei trovato. Non conoscevo l’autore, se non di fama, e non ero sufficientemente informato sul suo conto da sapere di trovarmi al cospetto di un Premio Pulitzer, che ha visto entrare uno dei propri romanzi nella classifica dei cento migliori libri in lingua inglese scritti dai primi del Novecento. Benché non abbia la pretesa di potermi formare un’opinione valida su un autore dopo aver letto solo una delle sue tante fatiche, devo ammettere che prima di venire a conoscenza dei trascorsi così sfolgoranti del signor Ford non avrei mai sospettato tanti e importanti riconoscimenti. Probabilmente leggendo “Canada” non ho letto il suo meglio, quello che lo ha incoronato come appartenente ai massimi esponenti della letteratura statunitense novecentesca. Mi riprometto quindi di approfondire per capire meglio di quali virtù letterarie il pubblico e la critica si siano così pazzamente infatuate. Per il momento, analizzando brevemente l’ultimo lavoro di questo autore, mi limito a considerare ciò che ho notato, ricevuto e interiorizzato senza avere la possibilità di fare confronti con altre sue opere e con il quadro completo della sua poetica. “Canada”, per quanto mi riguarda, è il classico romanzo d’oltreoceano che ci racconta una contemporaneità tangibile e ormai trascorsa, un contesto temporale, quello degli anni ’60, vissuto e rievocato con un buon gusto che non prevede esagerate pretese di caratterizzazione e veli nostalgici troppo mielosi. Nessuna malinconia inutile e manieristica tenta di compromettere il sicuro andamento narrativo, che fluisce con una trama essenziale raccontata da voce adulta innestata su corpo di ragazzino, il quale rivive per noi nei ricordi (immaginari) dell’autore. E questo ragazzino è Dell, quindicenne, legato e slegato alla sua volubile gemella dizigotica Berner, ed insieme figli di una coppia di genitori caratterialmente male assortita. Bev, ex capitano dell’aeronautica militare statunitense, convinto, malgrado l’abbreviazione, che Beverly sia un nome maschile, persona allegra e distinta, fondamentalmente molto confusa sulla gestione più concreta della propria vita. La controparte è Neeva, ebrea, figlia di una conservatrice famiglia di immigrati, ripudiata per aver sposato Bev in un momento di assente lucidità. Persona eclettica, creativa, incisiva, schietta e dall’aspetto stravagante. Una coppia di genitori dai rapporti apparentemente normali che celano immensi canyon di incomprensione, incomunicabilità sentimentale, divergenze esistenziali. Una famiglia periodicamente sradicata a causa dei trasferimenti professionali di Bev, senza un’identità propria riconducibile ad un luogo da chiamare “casa”. Lavori inconsistenti e vacillanti che solo a tratti portano uno stipendio sicuro. Una somma di ragioni che logorano, una situazione che goccia dopo goccia scava silenziosamente la patina rocciosa della sopportazione. Un insieme di problematiche sommerse che porteranno la coppia di genitori a compiere un passo definitivo, che porrà irrimediabilmente fine a qualsiasi futuro “normale” potesse avere in potenza questo nucleo famigliare dalle complesse interazioni. I genitori, spinti dal bisogno di denaro, compiono una rapina in banca e vengono arrestati dopo pochi giorni, lasciando così allo sbando la coppia di figli quindicenni, che si separano e intraprendono ignote e differenti strade di vita. Il lettore segue Dell, che viene indirizzato verso il Canada dove verrà ospitato a Fort Royal, una sperduta e deprimente cittadina periferica del Saskatchewan. E’ da questo momento che, venendo gradualmente a contatto con il suo sedicente benefattore, Arthur Remlinger, la vita di questo giovane protagonista passerà dal vivere nello squallore alla definitiva discesa in una spirale di comportamenti violenti di cui sarà, suo malgrado, spettatore. Una violenza sorda, mascherata, cautamente annidata nelle multiple e volubili personalità di questo Remlinger dal carattere schivo e circospetto. In un’attrazione/repulsione questi due personaggi così distanti dialogano in un reciproco interesse fino al raggiungimento del secondo punto di non ritorno della vita di Dell, secondo climax della storia. Storia con un epilogo piacevole e ben gestito, attuale e verosimile, ancora una volta senza pesanti risvolti tragici, con un distacco sempre e comunque sufficiente a tenere alta l’attenzione del lettore. Quella raccontata da Richard Ford, nella mia personale lettura, è una storia che riguarda due tematiche principali, quella dell’egoismo e quella dell’intraprendenza, o, se vogliamo, della forza d’animo. L’egoismo, quello degli incoscienti genitori incapaci di gestire i propri sentimenti, i propri affetti, la propria vita, che in nome di una boccata d’aria fresca, come quella portata dall’anticonformismo e dall’anarchismo, in nome di una scarica di adrenalina che li faccia uscire da una quotidianità asfissiante, minano la giovane esistenza di due ragazzi bisognosi solo di radici e di educazione. Proprio quei ragazzi che, in un modo o nell’altro, dovranno tirare fuori quella forza d’animo che permetterà loro di vivere la propria vita nonostante tutto, cercando di trarre il massimo del bene possibile in qualsiasi cosa capiti sulla loro strada. Ragazzi che cresceranno, che condurranno vite certamente non perfette, magari insoddisfacenti, ma con la consapevolezza di aver tratto un importante insegnamento, quello del non perdersi d’animo, quello di prendere le cose per come sono, così, alla luce del sole. Una buona lezione questa, espressa con delicato, poetico vigore dalla penna di un autore che merita di essere ascoltato e che sicuramente ricomparirà tra le mie prossime letture, con il caloroso augurio che avvenga anche per voi.
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Una donna formidabile
Leggere i romanzi di Camilleri è, per me, come entrare nel mondo delle favole.
Sarà il linguaggio, sará la grande fantasia, sará l'ironia che condisce il racconto, ma anziché leggere, ho l'impressione di tornare bambina ed ascoltare una voce che mi racconta di re, regine e cavalieri.
Mi è capitato con altri romanzi suoi, ricchi talvolta di pensiero filosofico, talaltra dolorosamente immersi nelle miserie umane. Tantopiù mi è capitato con questo delizioso romanzo impiantato su un evento reale, seppure poco noto, magistralmente sviluppato come un'ironica dolce-amara favola per adulti, non priva di quella morale che le grandi favole del passato sempre contenevano.
In brevissimo: nel ‘600 a Palermo imperversava il malgoverno, l’illegalità, l’arroganza del potere e del denaro (ho detto nel ‘600!!!). La Sicilia era retta da un Vicerè, vicario del Re di Spagna e il suo potere si estendeva sia alle cose dello Stato che a quelle della Chiesa. Il fatto vero è che, a causa della morte improvvisa del Vicerè Angel de Guzmàn, titolo e ruolo passarono a sua moglie, Eleonora di Mora, che ebbe la possibilità di governare per appena 28 giorni prima di essere richiamata in Spagna, nonostante i notevoli risultati di buon governo a causa di una richiesta inviata al Papa, da un vescovo indegno, di dichiarare l’incompatibilità del suo essere donna con la carica di Legato Pontificio.
Eleonora fece in tempo a sostituire tutti i membri corrotti del Consiglio, a creare soluzioni di supporto alla vita dei più deboli, a calmierare il prezzo del pane, a lasciare un impianto di buon governo, a farsi odiare dai corrotti, amare e rimpiangere da tutti gli altri.
Camilleri racconta a suo modo questi ventotto giorni condendoli, come solo lui sa fare, con ironia, tenerezza, fantasia e con una diafana storia d’amore.
Tanto appare viva la figura di Donna Eleonora che ho provato il desiderio di tirarla fuori dalle pagine del libro per affidarle la soluzione apparentemente impossibile dei problemi della nostra Italia di oggi, che non sono troppo diversi da quelli del suo tempo.
Il romanzo di Camilleri sotto quest’aspetto è estremamente attuale: le malversazioni e il malgoverno sono raccontati al passato nel romanzo, ma possono essere coniugati al presente cambiando solo qualche nome. Nel romanzo e nel passato la soluzione ha il nome, l'intelligenza politica e la fermezza di Donna Eleonora, sollevata all’improvviso subdolamente dal potere a difesa del malaffare: dove trovare una Donna Eleonora cui affidare la soluzione dei problemi del presente?
Una volta ancora voglio testimoniare la grande piacevolezza della scrittura di Camilleri quando si dedica a raccontare fantastiche avventure di uomini e di donne cui sa costruire caratteri ricchi di personalità e di sfumature, immergendoli in ambientazioni che prendono corpo anche in assenza di lunghe descrizioni.
Eleonora è una figura formidabile e resterà viva nella mia memoria insieme a Maruzza, a Minica, a Giurlà, personaggi amatissimi di altri racconti meravigliosi dovuti alla stessa fantasia.
[…]
E già all’ura di mangiari tutta la cità vinni a sapiri che donna Eleonora non era cchiù Vicirè per ordini di So Maistà e che sinni doviva ripartiri duminica sira per la Spagna.
A picca a picca, nello spiazzo davanti al Palazzo, accominzaro ad arrivari a taci maci mindicanti, genti coi vistiti pirtusa pirtusa che cadivano a pezzi, genti struppiata alla quali ammancava un vrazzo o ‘na gamma, ciechi, stroppi, malatizzi, sbinturati di nascita, curti di menti… ognuno aviva ‘n mano un pezzo di pani che s’era potuto accattari pirchì ora il pani costava picca e loro ci potivano arrivari.
E se l’erano vinuto a mangiari ‘n silenzio, per ringrazio, davanti a donna Eleonora.
[…]
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Il panico
Difficile definire in maniera compiuta questo nuovo lavoro di Christian Frascella; un diario personale per dialogare con se stesso e al contempo rendere partecipe il pubblico della propria esperienza oppure un piccolo saggio su problematiche psicologiche che trae linfa vitale dal vissuto dell'autore?
Protagonista assoluto è il panico, male subdolo, aggressivo e logorante; un mostro latente che si annida nella mente e nel corpo pronto a scatenarsi senza preavviso.
Quello di Frascella è un racconto di vita, di verità, è il racconto della discesa improvvisa nel baratro delle malattie mentali, è il racconto di un uomo che non si conosce più, un uomo che genera una persona nuova, da capire e con cui convivere.
Sono pagine che fanno riflettere e che creano una forte vicinanza del lettore all'autore, grazie alla capacità di Frascella di mettersi a nudo, di scavare nei meandri della malattia raccontandola con sensazioni, con immagini, con pensieri che solamente chi l'ha vissuta può rappresentare in maniera così completa e trasmetterne l'essenza a chi, fortunatamente, non la conosce.
E' una lettura amara e dolorosa, tuttavia l'aria che si respira tra queste pagine è frizzante e briosa, sono bandite autocommiserazione e pessimismo; c'è tanta positività che fa da contraltare alla fatica di lottare contro il male, si percepisce il sorriso di chi tra mille tribolazioni ha cercato con tutte le forze di uscire da un tunnel, riuscendo a trovare uno spiraglio di luce.
Il lettore avverte una voce sincera, la voce di un amico che sente la necessità di raccontare la sua vita liberandosi da un fardello pesante. Una voce che ripercorre gli anni trascorsi a chiedersi “perché, anni pesanti come piombo capaci di distruggere il nido sociale e familiare, anni di trasformazione, di paura, di solitudine, di ricerca di serenità e di normalità.
Veramente gradevole la penna di Frascella, capace di smorzare i toni seriosi e le situazioni critiche con pennellate di sana e composta ironia; un narrare fluido e accattivante, dominato da un ritmo veloce che fa volare pagina dopo pagina, senza tralasciare la cura dell'espressività e la ricerca di intensità.
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Orecchie a vela, sempre tese
Questa è un’autobiografia, scritta senza quel distacco che molti ritengono necessario per questo genere di narrativa. L’autrice, scrittrice di successo e con una lunga esperienza di pubblicazioni alle spalle, racconta la sua infanzia, la sua crescita e l’evoluzione del suo mondo interiore.
La storia della bambina dell’iceberg ci consente di calarci nel mondo interiore di una bambina depressa, costretta ad affrontare un gran numero di abbandoni e di violenze. Ci illustra i suoi pensieri, le sue ribellioni, le sue difese. I sentimenti emergono soprattutto attraverso le immagini, i suoni, i singoli ricordi: colori, suoni, episodi, frasi. La sua scrittura semplice, a tratti povera, mi sembra uno strumento appropriato per narrare la storia della bambina dell’iceberg: riflette il colore di quei ricordi, il ritmo di una vita segnata dal dolore.
Anche la Trieste dei ricordi riflette il male di vivere. Gelo nel cuore e nella pelle. La bora spazza le case. Lo sguardo del padre riduce la vita a una misera lotta per la sopravvivenza. La paura della madre riduce i figli ad animali pericolosi da ammaestrare. L’autrice racconta con efficacia la lotta di una bambina sola, che deve trovare un ordine in un caos gelido: il suo sguardo attento non sa ignorare le contraddizioni e non sa fuggire di fronte alla crudeltà degli adulti, che infine si rivelano più fragili che crudeli. Non mancano i momenti in cui lo sforzo di comprendere genera equivoci divertenti, che strappano un sorriso dal retrogusto amaro.
L’autrice si definisce un’anima candida e si racconta con candore, senza timori, senza modestie. Le sue opinioni personali sono esposte con chiarezza, accanto al vissuto che le ha fatte emergere: leggiamo e scopriamo che cosa pensa Susanna Tamaro della vita, della natura umana, del mondo editoriale, della famiglia, di se stessa e anche della sua scrittura. Una scrittura lontana da manuali e incapace di pianificazioni. Una scrittura che vuole essere priva di sentimentalismi, ma attenta ad approfondire il sentimento. Una scrittura che ogni volta sembra “un miracolo”, che non può accadere su ordinazione.
“La vera scrittura sta altrove, giù in profondità, nel nucleo della terra, nel cuore di tenebra dell’uomo.” Non sono d’accordo con questa affermazione dell’autrice, o meglio lo sono soltanto in parte. Non sono d’accordo anche su altro, molto altro. Per questo motivo vi consiglio di leggere la sua autobiografia: una storia da ascoltare, una miniera di spunti su cui riflettere.
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Un mondo parallelo
Elena Premoli è l'autrice di questo romanzo, sua opera prima, credo che per me, lo posso affermare senza ombra di dubbio, poterla leggere sia stata un'enorme fortuna, senza la redazione di Qlibri, che ringrazio, forse non avrei mai avuto questa opportunità, oppure l'avrei letta quando sarebbe diventata famosa. Perché, state pur certi che lo diventerà!
Il romanzo è assolutamente sorprendente con uno stile accattivante ed incalzante, prende dalla prima all'ultima parola, è fresco,leggero e romantico ma non come si intente normalmente. Una storia pesante che attraversa tutta una vita e modifica altre.
Caterina è una studentessa universitaria che ha l'opportunità di partire con il progetto Erasmus, la sua sede di arrivo sarà un piccolo centro del Galles. Ma per poter partire ha bisogno di un po' di denaro da mettere da parte, sarà così che risponderà ad un annuncio come baby-sitter. Il lavoro è suo, nello stesso palazzo dove si reca la colpisce, per puro caso, la visione di una donna anziana molto eccentrica nel vestire. Da quel momento le vite delle due donne, anche se di due generazioni differenti, si intrecceranno indissolubilmente. Il legame è proprio questa piccola cittadina del Galles, Bangor. Rose, l'anziana signora, si sente pronta a rivelare finalmente cosa le pesa come un macigno, e cosa l'ha ridotta alla dipendenza dell'alcol.
“ C'è un altro mondo sai, un mondo parallelo fatto di parole non dette e pensieri mai venuti alla luce, un mondo di idee e progetti mai realizzati, un mondo dove la verità non ha forma. E' li che fino a questo momento ha giaciuto il mio segreto.”
E' la storia triste e complessa di una ragazza, figlia unica, che per un triste disegno del destino perde entrambi i genitori in un'incidente d'auto insieme ad un fratello che doveva nascere. Continuerà a vivere con i nonni poveri e pastori che non possono provvedere alla sua educazione scolastica e per ignoranza la vendono ad un signore ricco del luogo. Lei sarà costretta a trasferirsi a Londra, dove diventerà la concubina del figlio di questo signore, che effettivamente si occuperà della sua istruzione ma anche delle sue catene.
Rose con gli anni, pur adattandosi in qualche modo, non si abituerà mai ad essere considerata una schiava, così, un giorno riesce a scappare. Ritorna nel suo paesello, il nonno è morto e la nonna è diventata cieca, se ne occuperà lei fino al giorno della sua morte. Dopo il funerale e dopo qualche tempo si renderà conto che nulla la lega più a questo luogo e parte per Bangor, dove richiedono una bibliotecaria presso l'università. Dal giorno che metterà piede in questa cittadina tutta la sua vita, per dieci anni, verrà sconvolta. Modificata dal legame che la giovane intesserà con uno strano tipo spagnolo di cui tutti nel paese ignorano il suo passato.
Un oscuro passato aleggia su quest'uomo che porterà Rose all'alcolismo. Dopo la scoperta e il triste epilogo, la donna, ormai quarantenne, decide di partire e tornare dalla zia, in Italia, a Milano che si occuperà di lei come una figlia. Ma la storia non si conclude qui ne per Rose ne per Caterina.
Tutto il racconto di una vita si svolge in un pomeriggio, nella stanza di un palazzo al centro di Milano. Rose si rese conto che le sue ore oramai erano contate, era giunto il momento di dire tutto, di fare i conti con il passato e di rendere giustizia ad una vita.
Cosa posso aggiungere altro, sembra un romanzo già maturo e ponderato. Invio alla scrittrice i miei migliori auguri di continuare così e di poter far parte della costellazione dei grandi scrittori.
Possiede tutti i numeri necessari, ma uno in particolare....sa scrivere!
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CO CA I NA
C'era una volta l'eroina, la droga disperata, quella che imponeva il dito puntato, l'emarginazione.
Ma i tempi cambiano e quel tipo di sballo diviene meno accattivante, serve qualcosa di piu' cool, che non annichilisca il fruitore ma lo porti al massimo pur senza privarlo del suo status.
It' s evolution baby : cocaina, la droga performante.
Ti fa stare bene, ti permette di lavorare piu' a lungo, di sopportare meglio lo stress, di praticare un sesso eccellente .
Ma cosa c'e' dietro quella striscia bianca ?
Un mondo. Un mondo schifoso che passa spesso inosservato.
Una guerra al potere ed al denaro, un business planetario piu' forte dell'economia fittizia su cui si basa l'incorporeo sistema finanziario (derivati, finanziamenti, mutui, carte di credito ) perche' si avvale della forza della tangibilita'. Esiste ancora un bene che nonostante la crisi e' sempre piu' richiesto, muove capitali enormi ma soprattutto conta denaro vero. Un mare di liquidita' che batte ogni inadempienza figlia della crisi, perche' questo prodotto si paga. Tutto e subito : cocaina.
In un libro lungo e corposo Roberto Saviano ci offre un approfondito lavoro di ricerca, una lettura impegnativa che richiede la massima attenzione. Fitto di nomi , di date, di cartelli narco e soprannomi ogni dettaglio e' saldamente legato al successivo, perdere una riga significa perdere il filo logico.
Ma se questo e' un imponente reportage giornalistico, l'argomento e' talmente interessante e la scrittura cosi' incalzante che e' inevitabile apprezzare le doti dell' autore, che riesce con le capacita' di un romanziere ad incastrare e rendere appetitosa quest'infinita' di dati.
Ritmo serrato. A partire dal piu' grande produttore di cocaina, la Colombia, procedendo poi nella narcoguerra che porto' il Messico a svettare sul podio del maggior narcocapitalista al mondo e via via spostandoci alle grandi distribuzioni americane ed europee attraverso l'Africa, fino anche alla nostra Italia che - 'ndrangheta-camorra-mafia - non si fa mancare nulla.
Certo gli argomenti trattati sono forti, spesso ho dovuto distogliere lo sguardo davanti alle torture, alle fosse comuni, agli stupri ma questo libro non e' una passeggiata primaverile, questo libro parla della narcoguerra e delle sue decine di migliaia di morti.
Questo libro non vuole essere terapeutico ma al prossimo grammo di coca che accarezza la narice, spero che il lettore-fruitore usi il naso non solo per inspirare, ma anche per identificare. Identificare l'odore della coca. L'olezzo del narcosangue.
In chiusura Saviano pubblica tre pagine di ringraziamenti.
Allora mi dilungo anche io - tanto ho gia' chiacchierato troppo - e ringrazio chi non si ringrazia mai, come le Forze dell'ordine di tutti i Paesi che non si fanno comprare dalla ricca corruzione narco, che ci mettono la pelle. Ringrazio gli scrittori, che non si arrendono e continuano a tenere viva l'attenzione. Ringrazio i miei colleghi lettori, perche' credo non ci sia bandiera bianca piu'accecante dell'indifferenza.
Detto cio' , ammetto di avere una pressoche' nulla conoscenza pratica della cocaina, pero' mi espongo : questa e' roba buona.
Questa cosa ? La coca ? Macche' coca, il libro. Il libro e' roba buona, io non sniffo, leggo.
Buona lettura .
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Da grande voglio fare il pirata..!
Dalla quieta austerità di un convento al palazzo del conte Cervet.
Dalle luride mani di una minacciosa ciurma di pirati alla cabina della Golden Lady.
Per finire poi nella giungla e quindi a Barbados.
Inizia e si dipana così l’intricata vicenda di Soledad, prima sposa di un nobiluomo spagnolo violento e vendicativo, poi vittima dei pirati di Morgan e infine prigioniera e vittima consenziente del pirata, John McFee.
Tre momenti.
Tre situazioni.
Tre luoghi dove i personaggi cambiano e ritrovano se stessi, affascinanti le dinamiche comportamentali e psicologiche dei protagonisti che sono ben delineati e che già dopo le prime 100 pagine sembra di conoscere da sempre.
Da un lato Soledad, vittima piegata, ma mai spezzata, degli eventi. Dall’altro John McFee, pirata dal passato terribile, dalle reazioni imprevedibili, tanto spietato e feroce quanto pronto a rischiare la vita più volte, per salvare quella della sua donna.
Saranno proprio le molteplici vicissitudini ad avvicinarli, cancellando e trasformando la paura di Soledad e la passione e il crudele passato di John, in una rinascita che consacrerà il più forte, intenso e dolce dei sentimenti.
Un plauso alla Morgan che con un sapiente mix di avventura, sensualità, passione ha creato un' opera, sicuramente non snella, ma di facile lettura ed appassionante.
Per oltre 550 pagine ho sentito nitidamente l'aria frizzante del mare tra i capelli, il garrito rauco dei gabbiani, le tavole di legno che scricchiolano sotto le scarpe, l'odore pungente del legno fradicio e del rum invecchiato e il sole caraibico che brucia la pelle, restando comodamente seduta sul divano di casa.
Detto questo, buon avventurosa lettura a tutti!
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I conti alla fine tornano!
Le “SCHICCHERE” soprannome dato dalla giovane e ambiziosa giornalista Shelly Watkins al suo primo esordio di articolo di cronaca nera alle vittime trovate uccise da un presunto serial killer.
Luana, Nadia e Diana morte accoltellate e poi rivestite e ricomposte come meravigliosi giocattoli vengono uccise in modi diversi ma accomunate da una polaroid che l'assassino , soprannominato il Giocattolaio, lascia vicino al cadavere.
Il detective Manuel Boselli, uomo meticoloso e noto criminologo cerca di risolvere il caso, si pone diversi quesiti: perché riceve messaggi in latino, le date degli omicidi hanno un nesso fra loro, il numero cinque è importante e perché queste tre donne?
Manuel collaborerà con Shelly alle indagini per identificare il misterioso assassino che ha pianificato ogni cosa, quali indizi portano quelle polaroid, cosa gli sta sfuggendo?
Ho scelto questo libro dalla copertina tenebrosa, perchè i thriller sono la mia passione e perchè le recensioni erano tutte più che positive, direi ottime.
I personaggi non mi avevano appassionato molto e all'inizio ho pensato che fosse la solita storia letta e riletta paragonandola alla “ minestra riscaldata” ma poi mi sono dovuta ricredere, il Giocattolaio è stato proprio bravo ha stupito anche me, non ha lasciato impronte, ha osservato e agito spietatamente perchè spietata era la sua vendetta e perchè la fine è …..proprio l'inizio e, solo leggendo il libro lo intuirai!!!!
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Una placida tensione
“Lo scorrere dei giorni leviga il dolore ma non lo consuma; quello che il tempo si porta via è andato, e poi si resta con un qualcosa di freddo e duro, un souvenir che non si perde mai… E qua, come un sasso che porto ovunque, c’è un pezzetto di cuore altrui che ho conservato da un vecchio viaggio”
Siamo nella flemmatica campagna a Nord di New York. John e Marion, membri esemplari della “società bene” newyorchese, hanno organizzato un week end nella loro tenuta con due vecchi amici, dove si sono ritirati a condurre un’esistenza fin troppo tranquilla. E’ passato un anno da quando il fratello di John, Tony, se n’è andato, vittima dell’Aids; l’ex compagno di lui, Lyle, è stato invitato a passare un paio di giorni dalla coppia. Porterà con sé, inaspettatamente, un ragazzo conosciuto da poco, Robert, fatto che desterà il malcelato disappunto della padrona di casa.
Quello che dovrebbe essere un placido week end di “rimpatriata” si avvia a diventare quasi un ordigno pronto ad esplodere. Tensioni sotterranee, silenzi carichi di imbarazzo e di parole non dette creeranno una elettricità quasi palpabile che percorrerà tutta la vicenda.
Cameron è maestro nel delineare in poche pagine la psicologia dei personaggi e il clima di inquietudine che a poco a poco finirà col permeare tutta la vicenda. E’ come se tutte le figure faticassero a venire a patti con la realtà, sia esterna sia intima, e non potessero pertanto comunicare in nessun modo il loro disagio, le loro emozioni, il loro sentire. La tensione si evince da mezze frasi, parole non dette, convenevoli su come servire a tavola. E su tutto aleggia il ricordo più vivo che mai di Tony, onnipresente anche se mai citato in modo esplicito, lunga ombra che avvinghia i presenti e ne determina inconsciamente il comportamento.
L’autore possiede una innata capacità di descrivere con levità e grazia contraddizioni , malintesi e ipocrisie della cosiddetta upper class americana; il romanzo scorre via piacevolmente, senza intoppi, e ci si ritrova sprofondati in quest’atmosfera carica e tesa senza quasi accorgersene.
Impagabile la scena del “taglio dell’uva”, quando Marion propone delle inconsuete e raffinatissime cesoie per l’uva a un Robert visibilmente allibito e a disagio : in poche righe sono descritti in maniera sopraffina l’imbarazzo e la tensione che si annidano dietro ai convenevoli, quando non è facile dire le cose come stanno e ci si trincera dietro banali affettazioni, perché la realtà fa troppo male o ci si è abituati fin troppo bene a dissimularla in nome del quieto vivere.
"Il week end" è uno dei primi romanzi dell’autore, ma è già caratterizzato da una scrittura limpida, asciutta ma evocativa, davvero ricco di grazia e di profondità.
Una lettura sicuramente consigliata.
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LE LUCINE DI NATALE
E’ quasi Pasqua, ma io non voglio parlarvi di Pasqua. Voglio parlarvi dei primi giorni di dicembre di ogni anno. Come al solito cerco in garage le scatole per addobbare il mio alberello di Natale sintetico. Cerco lo scatolone più pesante, quello con le lucine sopra e le palline sistemate sotto. Ecco apro…e tac…come ogni anno, immancabilmente, il filo delle lucine è lì…ma cavoli com’è annodato! Allora con calma e pazienza mi metto lì, piano piano, cerco di snodare il filo…e poi lentamente, una ad una, libero le lucine e finalmente riecco il mio bel filo di lucine, tutte in fila, una vicina all’altra.
Ecco questo romanzo è stato un po’ come ritrovarmi davanti al filo delle lucine tutte annodate. All’inizio l’autore ci presenta tanti personaggi molto diversi tra loro e in tante situazioni diverse, chi per strada a distribuire volantini, chi agente del CIRADE (una sorta di intelligence contro l’eversione). Ma quello che rende la situazione un po’ più complicata è il fatto che ogni personaggio è descritto in una situazione particolare, del quale ne capiamo il contesto solo andando avanti con la lettura.
Questa è stata la difficoltà iniziale di questo thriller, ma il resto, il resto è veramente uno spasso. Una volta sciolti tutti i nodi la storia è davvero avvincente, ricca di suspance e colpi di scena.
Posso solo accennarvi alla trama, dandovi tanti particolari rischierei di svelarne troppo il contenuto, e non voglio farlo per non rovinare il gusto della lettura. Credo sia sufficiente dirvi che si tratta di un’indagine, compiuta dal CIRADE (vedi sopra) per sgominare una banda di terroristi delle nuove “brigate rosse”. La vicenda è ambientata nei primi anni del 2000 e come è giusto che sia, le indagini si avvalgono di tanti strumenti di alta tecnologia informatica e non solo. Ho trovato la descrizione di tali metodi talvolta drammaticamente plausibili…chissà poi se poi oggi la realtà non abbia superato la fantasia.
Questo romanzo è ricco di personaggi, ne troverete dei più disparati. Nonostante l’autore abbia reso cooprotagonisti della vicenda diverse figure, risulta chiara nella lettura l’intenzione di far emergere alcune figure rispetto alle altre. Immancabilmente ogni lettore avrà più simpatia per l’uno o per l’altro…si schiererà talvolta dalla parte dei “buoni” e talvolta da quella dei “cattivi”, perché poi, tanti “cattivi” di questo romanzo in realtà non sono tali.
La vicenda è narrata a Roma (vedi titolo) è questo è ancora più affascinante. E’ sicuramente impossibile non riconoscere certi comportamenti politici e sociali tipicamente “nostrani”. E’ stato anche questo che me l’ha fatto gustare ancora di più. Mi è sembrato di assistere ad una storia vera…tanto ho sentito coinvolgimento nel racconto.
Dentro trovate accenni al nostro triste passato e, purtroppo, attuale presente. E’ chiaro come se il terrorismo non si manifesta non vuol dire che non c’è…purtroppo è nascosto e questo è ancora più pericoloso. Questo è quello che dimostra questo romanzo. Dietro alle persone più rassicuranti si può nascondere chiunque.
Io ne consiglio vivamente la lettura, con un un’unica accortezza. Come ho già accennato la parte iniziale è di difficile lettura, il romanzo è strutturato in maniera tale da cominciare a “correre” dopo le prime 50 pagine e vedrete che poi non vedrete l’ora di sapere come va a finire.
Complimenti all’autore, al quale richiedo se sta pensando ad un seguito, io sicuramente lo leggerò.
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Il fatale contagio del male...
Ho amato profondamente questo libro: una lettura che mi ha affascinato, irretito, conquistato e commosso. La storia di una donna che in seguito a una dolorosa delusione sentimentale, diviene
una feroce, spietata giustiziatrice...degli uomini.
Uomini che maltrattano le donne, che le picchiano, che le molestano...che le ingannano, che le seducono quando sono ancora imberbi e innocenti.
La delusione, l'abbandono sentimentale brucia come un sudicio marchio sulla coscienza, diventa come un anelito, una volontà decisa di riscatto, di giustizia ad ogni costo...
"L'unico uomo con cui dormo e convivo è il mio cane" affermerà la protagonista con amarezza...
L'uomo diviene così il nemico da combattere....e la giustizia compiuta nei riguardi delle altre donne....un'ombra, un anelito della giustizia che lei non ha potuto avere.
Il libro scritto da una donna ed è un libro dedicato a tutte le donne, a tutte le donne stuprate, alle donne percosse uccise...molestate, ingiustamente sfruttate da certi tipi di uomini immorali e violenti...
Per me è stato terapeutico questo libro...un libro che ci offre spunti...di occasioni che la protagonista si serve per compiere la sua "sommaria giustizia", che fortunatamente si applica solo con violente percosse senza giungere all'omicidio....
Può capitare nel parco, in uno studio medico, in un bagno pubblico, o in una casa di uno stupratore, correndo innumerevoli rischi...una donna che si è allenata con le arti marziali...per essere forte, aggressiva, invincibile...Nikita, l'anti-eroina, la donna che porta in sè la ferita inequivocabile...inflitta dall'uomo....il confine tra il bene e il male risulta a volte labile....e con niente lo si può varcare, perdendosi per sempre..
Il contagio del male può diventare in certi casi fatale anche all'anima più candida...
Con un linguaggio a tratti essenziale e corretto,, a tratti condito con parolacce esplicate con fresca franchezza, tipica della gioventù che mescola felicemente espressioni scurrili a riflessioni esistenziali, l'autrice descrive anche la vita privata della sua protagonista, il rapporto con la famiglia, una nuova storia d'amore......che forse sarà l'inizio di una redenzione...di una vita finalmente rischiarata dall'onda ristoratrice della speranza.
Consigliato e promosso a pieni voti!!
Saluti.
Ginseng666
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Suspance, intrigo, morbosità
Suspance, intrigo, morbosità rappresentano le fondamenta su cui si poggia quest'opera. L' intento dell'autrice è creare attraverso una saga familiare un micromondo e descriverlo in ogni sua sfaccettatura, cercando di creare un substrato che lo accolga. L'ambizioso e arduo compito non è di facile soluzione, infatti non è raggiunto; nel tentativo di stupire e di coinvolgere il lettore quelle che si susseguono sono immagini e situazioni estreme che risultano poco verosimili; un bel mosaico è il risultato della visione d'insieme del suo creatore non della bellezza di ogni singola tessera; La struttura del racconto è complicata, da una parte per il numero eccessivo dei personaggi che compongono la famiglia siciliana allargata e dall'altra per l'intrecciarsi delle vicende dei protagonisti. I fili che ordiscono la trama sono troppi, troppo particolari e sfuggono al controllo dell'autrice che finisce per far collimare il tutto in modo forzato. I personaggi sono mal caratterizzati, inseriti in un contesto melodrammatico e vittime del destino, ma senza che venga mostrata l'essenza del loro animo, senza spiegare ciò che ha permesso una deriva collettiva, senza creare un' empatia con nessuno di essi. Vengono descritte tutte le situazioni che più suscitano emozioni nell'animo del lettore: violenza sulle donne, sadomaso, anoressia, omosessualità, bisessualità., associazione mafiosa, sfruttamento degli immigrati e molto altro; troppo per una sola famiglia, troppo per una sola vicenda. Lo stile con cui il tutto è scritto appare ridondante e cerimonioso, infarcito di metafore che mal si comprendono; le descrizioni sono volte a fotografare e non a raccontare gli eventi o le persone, uccidendo la possibilità di avvolgere la bella villa Pedrara con quell'alone di magia regalatoci dall'originale incipit, in cui la scelta di far raccontare la storia dallo spirito della salma incuriosisce e ben dispone, ma come un banco di nebbia si dissolve via via che ci si avvicina alla conclusione. Lascia l'amaro in bocca, perché sarebbe bastato poco per rendere la lettura lieve e piacevole, un tocco di ironia col quale tentare di spiegare un destino beffardo che gioca con la vita della famiglia Carpinteri una divertente partita a scacchi, ma il velo della realtà offusca tutto, anche quei pochi barlumi di luce che tra le righe si scorgono.
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Storie di famiglia
Fausto De Lalla ha deciso di condividere la sua storia familiare col pubblico, scrivendo un “libro di memorie” davvero intenso e molto interessante.
Libri come questo diventano uno strumento validissimo per conoscere la storia italiana, per affrontare un percorso che a ritroso ci fa entrare nelle case degli italiani del secolo scorso.
Tra le pagine di questo racconto prendono vita momenti cruciali delle vicende italiche da fine Ottocento al secondo conflitto mondiale, osservati attraverso gli occhi ed il cuore di chi li ha vissuti, di chi ha dovuto fare i conti e convivere con l'avanzare inesorabile dei tempi.
L'autore ritrae i protagonisti nel loro vivere la quotidianità, regalandoci uno spaccato del nostro paese genuino e verace, dotato di una forza comunicativa nettamente superiore a qualsiasi manuale di storia.
La penna fluida e descrittiva di De Lalla riesce a trasmettere un'infinità di sensazioni, dalla gioia per le piccole cose al timore per eventi cruenti contro cui è impossibile opporsi ma solo tentare di difendere se stessi e i propri cari, dalle scelte imposte da situazioni esterne alle scelte fatte con passione e con cuore.
Insomma i protagonisti qua rappresentati sono un micromondo variegato che lotta, soffre, gioisce, ama, si impegna ad andare avanti con decisione e fermezza.
Da questo racconto trapela la voglia da parte di chi scrive di ricordare le proprie origini, di ricordare e ricostruire la storia della propria famiglia, nella consapevolezza che ciascuno di noi è anche il frutto del percorso intrapreso da coloro che ci hanno preceduto, è anche il frutto dell'educazione ricevuta e dell'ambito socio-familiare in cui è cresciuto.
E' un racconto scritto in maniera armoniosa, accurato nelle descrizioni, fonte di emozioni per il lettore, coinvolgendolo con lacrime e sorrisi.
“Una famiglia borghese” appartiene ad un genere letterario cui è importante dare spazio per ricordare il passato attraverso esperienze di vita che dalla sfera individuale ci aiutano a leggere la storia di un paese intero.
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Un pranzo luculliano
La vita di ogni singolo individuo si può trasformare in un enorme calderone di sorprese ed eventi da cogliere al volo, per l'appunto un pranzo luculliano, nulla può essere lasciato al caso, ogni singola pietanza deve essere mangiata tutta, subito ed avidamente, perché domani non sappiamo se tutto ciò che si è presentato oggi lo ritroveremo. Così in poche parole la vita potrebbe essere il nostro paese delle meraviglie, ma come in tutte le cose che appartengono a questa terra nulla è gratis, a tutti prima o poi viene presentato il conto.
Dopo questo breve antefatto vorrei iniziare a raccontare la trama di questo piccolissimo romanzo opera prima dell'autore Pasqualino Napoli, Paki (il protagonista) è un ragazzo calabrese trapiantato a Verona, ridente città del nordest (siamo circa alla fine del decennio appena passato, quando la crisi economia non era esplosa tragicamente), intraprendente, con quella giusta intelligenza che gli consente di far carriera nelle assicurazioni, praticamente un uomo che riesce ad ottenere tutto ciò che al momento desidera. Tanti soldi, molte donne, ma tutto dal sentore del “mordi e fuggi”. Vive in un appartamento con altri due ragazzi, uno di questi è il napoletano Tony, con il quale stringerà un legame di forte amicizia. Ragazzi o meglio giovani uomini, estremamente smaliziati che non si lasciano sfuggire neanche l'occasione del bere eccessivamente oppure di farsi di marijuana o di cocaina. Ed è proprio così che Paki , insieme al suo amico napoletano, accetterà un affare come corriere della droga. Il solo unico pensiero è riuscire a fare, soldi facili, secondo il loro codice etico, senza far male a nessuno. Paki non si lega mai a nessuna donna, è alla ricerca di quella giusta, o forse reputa che al momento non sia il periodo adatto. Tutto riesce a questi ragazzi senza troppi intoppi, anche l'inaspettata promozione lavorativa di Paki, perché nonostante tutto sa lavorare alacremente. Ma la vita presenta il suo conto, sempre, comunque ed in qualsiasi situazione noi ci troviamo, non attende che siamo pronti oppure no dal riceverlo. Purtroppo Paki non pensa ad un'eventualità del genere, impossibile alla sua età, nonostante sia oltre i trent'anni, pensa che la vita è tutto, subito e bisogna mangiare più che si può. Proprio ora avviene l'interruzione dell'idillio e il suo, forse, rinsavimento alla ricerca dei pezzi di vita persi lungo la strada.
Non racconto cosa accade e cosa gli abbia fatto cambiare idea e vedere le cose sotto un'altra lente d'ingrandimento, interessa sapere che è un libro che si legge tutto d'un fiato, in poche ore, fa riflettere sulle cose che possediamo e che forse dovremmo curare con più attenzione, perché non sempre si può ritornare indietro con un colpo sul tasto rewind.
Romanzo inteso che come opera prima mi sento di promuoverlo a pieni voti, ed auguro allo scrittore che possa proseguire in maniera feconda, allo stesso modo, anche per i suoi prossimi scritti.
Un libro ed una riflessione per tutti.
(Il titolo? Questi ragazzi avevano la pretesa di coltivare la marijuana, sul balcone del loro appartamento, al centro di Verona!)
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LA MAGIA DEL TAVOLIERE DELLE PUGLIE
Immaginate una bimbetta sul treno con le manine attaccate al finestrino e lo sguardo perso all'orizzonte, alla ricerca di un puntino lontano, un aggroviglio di case, un muraglione, un campanile, tante pale eoliche, un cane e due nonni… fuori dalla porta ad aspettarla…
Immaginate di vedere oltre quel finestrino una distesa infinita di campi coltivati a grano, per lo più bruciati dal sole estivo che non risparmia, nei mesi centrali dell’anno, questa splendida zona d’Italia; immaginate distese di campi dove svettano centinaia di ulivi, da cui iniziano a intravedersi i loro preziosi frutti; da una parte, in lontananza, il Gargano e dall'altra, laggiù, in fondo in fondo, una voluta di fumo che si alza, a indicare l’ennesimo incendio, doloso o meno poco importa: è normale amministrazione in quel territorio; il tutto sovrastato da un immenso cielo azzurro, che solo a guardarlo “ti si apre il cuore”.
Ebbene dopo la lettura di alcune delle poesie presenti in questo libricino, mi sono ritrovata bambina, sul quel treno che mi portava laggiù dai miei adorati nonni, con tutta la speranza, la gioia, la felicità, la fiducia nelle piccole cose, che solo una bambina di pochi anni può avere.
Non ho mai amato particolarmente i libri di poesie, non fanno per me, ma ho trovato un’eccezione in questo libro, in cui oltre a poesie dedicate alla magica terra natia di questo autore (troppo poche per le mie aspettative), vi si trovano versi dedicati anche alla religione e a personaggi illustri dei secoli scorsi.
Scritte in stile semplice e diretto, sono state comprese persino da me, non amante del genere, per cui il mio giudizio non può che essere positivo!
“Certi giorni laggiù il sole ti ferisce di gioia
e senti per l’azzurro l’infinito e profuma
una presenza viva.”
Niente di più vero….
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Quale amore.
Sono in difficoltà a scrivere di questo romanzo.
Perché parla d’amore e quando si parla d’amore io entro sempre in difficoltà.
Andiamo con ordine,nella confusione è l’unica strada da seguire.
Protagonista di queste pagine della Romano è Alba.
Alba ha il mare nella pancia,negli occhi,nelle mani.
Alba ha la fragilità nel cuore e cerca un ordine nella mente.
Alba anela alla felicità,ma questo è un segreto talmente rinnegato a se stessa che lo nasconde nel meandro più invisibile che c’è.
Alba ha Davide.
E io adesso come vi spiego cos’è Davide?
Davide è l’Amore.Quello che ti si incide nella carne,quello che trova conferma nei gesti,negli sguardi,nelle carezze,quello che nelle parole e nei fatti si nega.
Davide è l’Amore.Quello in apparenza sbagliato,quello negato,quello che non è abbastanza perché se lo fosse allora si sarebbe in due.
Davide è una ferita sanguinante,è dolore e cura,è estasi nell’unione,purgatorio senza senso nella separazione.
Ognuno di noi ha il suo Davide.
Ognuno di noi da lui è scappato e a lui ha fatto ritorno.
Non voglio far torto all’autrice:questa non è solo la storia di due amanti.
Questa è un racconto di distacco paterno,di amore materno,di ricerca di luoghi in cui fermarsi,di un altro amore tiepido ma accogliente,di lavoro,di colleghi e progetti,di femminilità
Ma lo sappiamo, ognuno di noi è predisposto a recepire solo una parte del racconto di un altro.
Mi sembra superfluo a questo punto dirvi che ho amato questo libro.
Ma la prudenza non è mai troppa:quindi,si,l’ho amato.
Ho amato la foto in copertina,la capacità di farti immaginare luoghi e personaggi pur in quasi totale assenza di descrizioni, la densità delle parole che colavano lentamente come miele rappreso, persino questa penna iperpoetica ho apprezzato…io che la poesia non la amo affatto.
Non è un libro scevro da difetti ma è un libro potente.
Potenza dell’amore?
Buona lettura.
P.s.:Avrò usato mille volte la parola amore.Ma è l’unica al mondo a non avere un sinonimo.
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Disgregazione
Vengono ritrovate pagine di un manoscritto in un mobile comprato da un antiquario a Roma.
Willy, l'uomo del ritrovamento ed anche l'acquirente del mobile, racconta di questa singolare scoperta ad un suo amico, sarà poi colui che si occuperà dello scritto.
Queste pagine sono organizzate ad episodi che accadono al protagonista del racconto, che molto verosimilmente è di carattere autobiografico, lui è arrivato a questa conclusione dopo varie congetture. Gli episodi anche nel libro non sono posti in maniera cronologica. Il periodo dovrebbe essere quello del fascismo o subito dopo, il ragazzo protagonista narra delle sue esperienze, delle disavventure e di tutte le persone che ama o per cui nutre una passione. Racconta delle persone care che muoiono durante il suo cammino, ma nel momento clou delle vicende compare sempre un topo, con aria di sfida e cosciente di non essere catturato. Ma soprattutto si pone come colui al di sopra delle parti, perché osserva, compare e scompare a suo piacere assolutamente indisturbato. Lo ritroviamo nelle case durante una riunione familiare, in cucina durante un approccio fisico con la lavapiatti, in un seminterrato durante un incontro galante con una contessa ed infine in un magazzino in compagnia dello stalliere di suo zio.
Il topo è onnipresente come elemento guastatore e malefico che si aggira incurante di chi gli sta intorno.
Al di fuori di questi episodi di vita, Willy scompare e il suo amico va alla sua ricerca senza avere molta fortuna. Da indagini intraprese viene a scoprire che molto probabilmente Willy ha raccontato tante bugie inventandosi tutta la storia del ritrovamento del manoscritto.
Lettura difficile e complicata, sia stilisticamente che a livello strutturale, piatto e senz'anima, oserei affermare, senza nulla togliere all'idea che di base risulta ottima ma come ho affermato poc'anzi c'è una distorsione organizzativa. La fluidità del romanzo viene compromessa proprio da questi episodi non concatenati temporalmente tra di loro, perde di discorsività. Mi sono persa numerose volte. Un puzzle che si deve comporre e cercare in tempi brevi l'incastro giusto, se lo si trova. Insomma, leggere un libro, in questo caso un romanzo, non può e non deve essere uno sforzo sovrumano per le nostre meningi. Deve darci, insegnarci, regalare passioni e sentimenti, altrimenti entriamo in ambiti completamente diversi da quello manualistico o a quello di trattato vero e proprio. Vi risiede un errore di fondo che spetta all'autore di sanare e rimediare, tutto questo secondo il mio punto di osservazione e riflessione.
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- sì
- no
Viva gli zombie
E dunque è accaduto: l'epidemia diffusasi in suolo asiatico ha preso piede anche in America; ma non è una semplice influenza, la malattia uccide le persone e le riporta alla vita. Una miriade di non-morti si aggira presto per le strade di ogni città, paese o campagna. Sia che si muoia per il loro morso, sia di cause naturali, ci si risveglia...zombie, affamati di carne viva.
Il nostro protagonista è un soldato della marina militare, che al momento dello scoppio dell'epidemia in suolo americano, decide in qualche modo di disertare e pensare a sé stesso: si procura provviste, si barrica in casa, pulisce tutte le armi e si procura il maggior numero di munizioni.
Pensate che questo basti a far fronte ad un'epidemia di tali dimensioni? E se qualcuno, là fuori, fosse sopravvissuto e avesse bisogno proprio del suo aiuto?
Da appassionata di "The walking dead", "28 giorni dopo" & co., mi sembra inutile dire che nei confronti di questo romanzo, sono partita prevenuta: lo amavo già solo dalla copertina!
L'autore non ha deluso le mie aspettative! Ci ritroviamo catapultati in pochissimo tempo in un mondo dai connotati apocalittici. Grazie alla forma del diario, viviamo le avventure (o disavventure, dipende dai punti di vista) del protagonista passo a passo, insieme a lui seguiamo i tg che raccontano della rapida diffusione dell'epidemia e ci lasciamo prendere dal panico per la palpabile omissione di informazioni da parte dei media. Credo che uno dei maggiori punti di forza di questo romanzo, si proprio l'esser stato scritto a mo' di diario: questa forma infatti si rivela azzeccatissima per dar rilievo alla vicenda più che ai personaggi, al susseguirsi dei giorni e delle emozioni legate a questa "invasione zombie", piuttosto che allo spessore psicologico dei sopravvissuti.
Infatti, in un certo senso, i personaggi sono messi da parte: non vorrei sbagliarmi, ma in tutto il libro non ho mai trovato il nome del protagonista! Anche i suoi compagni, sono sicuramente importanti per la storia, ma poco contava se invece che John, William ecc, si fossero chiamati Giuseppe, Jeffrey o con altri nomi. Essi infatti sono utili alla storia per il suo svolgimento, ma non per darle spessore, in quanto a questo ci pensano già i nostri cari zombie! Solitamente non apprezzo molto i romanzi in cui i personaggi non vengono approfonditi (a livello di dettagli fisici e psicologici), perchè la mancanza di quei particolari mi impedisce di sentirmi parte del romanzo e di potermeli immaginare; in "Diario di un sopravvissuto agli zombie", questo problema non sussiste, perchè la minuzia con cui vengono descritte le scene, gli edifici in fiamme, le macchine ammassate per le strade e gli zombie brancolanti, mi è più che sufficiente per farmi sentir parte del gruppetto di sopravvissuti e per condividere con loro le paure o le piccole gioie.
Ah, quasi dimenticavo: scordatevi ogni impegno, quando inizierete la lettura, resterete un giorno intero immersi in queste pagine.
Non di più.
Anche perchè il vostro cuore non reggerebbe se decideste di chiuderlo e riprenderlo il giorno successivo.
Vivamente consigliato!
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“TUTTO E’ COMPIUTO”
Lazzaro vive in un paesino della bassa bolognese, sconosciuto ai più; di quei paesini immersi nella nebbia in ogni stagione dell’anno; dove si contano quattro case in croce, una chiesa, il canale e tanta, ma tanta campagna; dove gli abitanti si conoscono tutti, sanno tutto di tutti e hanno due luoghi di ritrovo: la messa o il circolo Arci.
Lazzaro ha ventisei anni, un lavoro, una casa propria, lasciatagli gentilmente in eredità dal nonno e sfruttata immediatamente per scappare dalla quotidianità e dall'angusto ambiente familiare cui era costretto, una macchina (seppur un catorcio), e una vita sociale uguale a quella dei suoi amici, caratterizzata da weekend di baldoria alla ricerca di una ragazza che non ha mai avuto… è un po’ uno sfigato direte voi… beh in effetti descritta così la sua vita non è un granchè, almeno fino a quando, ironia della sorte, non scopre la causa di quella tosse continua, di quel peso che si sente lì, all'altezza dei polmoni, che non lo fa correre come vorrebbe quando gioca le partitelle di calcetto il sabato pomeriggio, che gli mozza il respiro e che ultimamente gli inizia a creare qualche serio problema…
Lazzaro passa nel giro di pochi giorni da una vita in bianco e nero a una vita a colori: inizierà a vedere il mondo e la vita con occhi diversi; inizierà a capire di aver trascurato e dato per scontato cose che, col senno di poi, meritavano la sua attenzione; capirà che la vita in fondo è breve, troppo breve a volte, e ci sono delle cose davvero importanti per cui vale la pena di vivere e di lottare; capirà, grazie all'incontro con una donna e grazie alla presenza (e all'aiuto costante) di Don Edoardo, che l’amore, verso la propria famiglia, verso una persona di sesso opposto o verso la propria esistenza, è un qualcosa di così forte da far superare ogni ostacolo che si incontra sul proprio cammino, da far crollare ogni paura, anche quella di morire.
Un romanzo ricco di elementi autobiografici di forte impatto, che fa pensare a quanto siamo fortunati e a quanto spesso sprechiamo tempo in cavolate, col rischio poi di pentirci per aver fatto passare occasioni o momenti che non torneranno o per aver perso l’opportunità di passare del tempo con una persona che ora non c’è più, di dirle che le volevamo bene, che eravamo lì per lei; un romanzo che ci fa aprire gli occhi sul senso della vita, sulla sua brevità, sulla sua bellezza e sulla sua spietatezza.
Devo dire che nelle prime cento pagine ho avuto qualche difficoltà a proseguire nella lettura del
romanzo, lo trovavo un po’ troppo incentrato sul movimento ormonale tipico del sesso maschile dell’età del personaggio; ma le frasi in dialetto bolognese e la fiducia nelle potenzialità del testo mi hanno fatto tenere botta e difatti tutto è cambiato: mi sono ritrovata a sperare, a vivere e a lottare con Lazzaro… a capire che la vita è una sola, che non dobbiamo sprecarla... e che vale sempre la pena di essere vissuta!
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Otto racconti al Cafè de l'Univers
Gli sguardi indolenti dei giovani protagonisti si soffermano su oggetti e figure di passaggio che rievocano in loro ricordi, riflessioni e frammenti di vite in cui passato e moderno, tradizione ed evoluzione, fanatismo religioso e politica si contrappongono, scontrandosi spesso persino con la logica.
I racconti dei giovani marocchini - a volte surreali, altre volte ironici - suscitano perplessità e fanno riflettere su quanto, in fin dei conti, la cultura islamica e quella occidentale non siano poi tanto diverse: differiscono gli usci, i costumi, i precetti, ma il modo di porsi l'uno neiconfronti dell'altro è il medesimo.
Infatti un occidentale messo dinnanzi alla possibilità di liberarsi da pregiudizi, luoghi comuni e convinzioni errate che nel tempo il suo popolo ha eretto, generalizzando, nei confronti di una cultura diversa dalla propria incontrerà le stesse difficoltà che ha un islamico ad accettare cambiamenti e stili di vita che considera più permissivi, liberali e lontani dalle prescrizioni religiose.
Dal punto di vista tecnico va segnalato che l'autore utilizza un espediente singolare: i racconti cominciano tutti all'imperfetto, quindi collocati in un tempo passato rispetto al momento in cui la voce narrante riferisce i fatti; tuttavia, dopo una breve introduzione di poche righe, che solitamente serve a presentare la situazione o i personaggi, la narrazione si sposta al presente, direttamente sulla scena, come se l'autore compizze uno "zoom temporale in avanti" dentro la storia, lasciando il testimone ai protagonisti.
Pare però che questi passaggi dal passato al presente non siano facili da gestire, visto che l'autore talvolta passa erroneamente da un tempo all'altro anche nel bel mezzo della narrazione: trattandosi però di un testo straniero, forse tale difetto è da attribuire a chi ne ha curato la traduzione (non conoscendo il testo originale non posso attribuire consapevolmente la mancanza all'uno o all'altro dei due).
Concludendo è una lettura singolare e interessante, supportata da uno stile semplice e scorrevole.
Consigliata a chi vuole impiegare un pomeriggio con qualcosa di diverso.
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Amore, guerra e storia a Napoli
L’ho letto proprio con gusto questo romanzo di Anna Bulgaris!
Ho puntato sulla lettura di questo libro quasi senza avere indicazioni, né suggerimenti; appositamente non ho cercato informazioni sulla sua scrittrice italiana e sulla sua produzione letteraria.
Così mi sono trovata per le mani un romanzo rosa-storico ambientato nel 1799 a Napoli, grazie al quale ho conosciuto un periodo ed eventi ben narrati che mi hanno affascinata.
Già dalle prime pagine mi ha ricordato moltissimo, come genere, gli “Harmony History”, in cui passione, amore, vicende storiche e nobiltà sono i protagonisti incontrastati - e da amante del genere questo non può che essere un complimento.
L’ ho trovato molto ben scritto e incalzante nella trama, in cui svariati flash-back mi hanno permesso di conoscere la storia pregressa e travagliata dei protagonisti.
La rappresentazione della Napoli del tempo era così realistica che riuscivo quasi a vedere i suoi vicoli mal frequentati, i suoi palazzi barocchi, le navi attraccate in porto; sentivo lo sbattere dei tacchi dei militari inglesi nelle strade e sui velieri, gli odori forti delle strade e sono quasi riuscita a toccare gli abiti sfarzosi della nobiltà corrotta come pure gli stracci indossati dai poveri.
Anche i personaggi mi sono piaciuti nella loro rappresentazione, erano diversi e diversificati, ben tratteggiati già con poche parole: villani, regine ed ammiragli.
La storia d’amore era come potevo aspettarmela in un romanzo di questo genere: assoluta, forte, contrastata e problematica, in cui gli eventi storici del tempo hanno remato contro i protagonisti dalla prima all’ultima, sorprendente, pagina.
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Intrigante esordio
Brillante esordio di Gloria Scaioli, che ci propone un’avvincente storia fantasy dai tratti classici ma con un’ambientazione che affonda radici nella storia antica, e in una mitologia greco-romana (da cui traspare il background di studi dell’autrice, qui sfruttato al meglio), più che prettamente celtica e arturiana. Decisamente apprezzabile dai lettori con basi classiche ma non solo, anzi il target d’interesse è ampio e si estende tranquillamente oltre gli amanti del fantasy classico. Infatti ogni riferimento è la base per la creazione di un mondo fantastico originale, con una sua struttura sociale ben definita, ricca di particolari e dinamiche ma facilmente comprensibile, e molto accattivante.
Uno dei pregi della costruzione narrativa sta proprio nell’immergere direttamente il lettore nel mondo delle Città Millenarie, svelandone gli antefatti e la struttura in maniera graduale nel procedere della storia, senza mai dilungarsi troppo in complesse spiegazioni, così come in ridondanti e prolisse descrizioni dell’ambiente; che avrebbero minato il ritmo d’azione e avventura che non manca all’interno romanzo, e che si mantiene invece costante dimostrandosi in grado di accaparrarsi l’attenzione del lettore fino alla fine. All’obiettivo primario e fulcro della storia: la ricerca del principe Euno da parte di fazioni opposte che si contendono le sorti delle Città Millenarie, s’intrecciano e si legano le vicende dei diversi personaggi, in maniera naturale ed efficace, contribuendo a una struttura narrativa scorrevole e piacevole. Che dà vita a storia di spessore, non banale ma intrigante. La stessa figura di mago proposta nasce da un approfondimento psicologico interessante (che personalmente ho apprezzato soprattutto nella figura della maga –mezza maga- Eco).
Un altro dei punti forti de La Radice di rubino sono i personaggi, molti tra protagonisti e secondari e tutti tratteggiati con maestria, dalle personalità forti e ben definite, che s’imprimono nel cuore del lettore, che li scopre gradualmente con il procedere della storia attraverso il loro passato, le azioni e i pensieri. In alcuni casi, infatti, bastano poche battute ben congegnate per introdurre nella particolare psicologia del personaggio (sempre abbastanza complessa da non risultare mai superficiale o standardizzata). Come nel caso del mago Sosigene, dove basta una battuta sagace nel prologo per inquadrarlo e farsene un’idea piuttosto precisa (una delle mie battute preferite). Il cacciatore di taglie Manfredi è senza dubbio uno dei protagonisti di questo primo volume della saga, uno tra quelli che si fa notare per il suo passato particolarmente misterioso e intrigante. Anche se i fratelli Metelli non son da meno (e gli amanti della psicologia non faticheranno a intuirne la particolare situazione e a restarne intrigati). Ammetto comunque di avere una particolare affezione per Palla (nonostante sospetti che nel secondo volume ci riserverà sorprese, e forse non belle).
Lo stile narrativo non è colloquiale, ma con un registro di sicuro più raffinato ed elegante che dimostra una notevole padronanza della lingua italiana in sintonia con l’atmosfera e l’ambientazione propria del romanzo. In ogni caso scorrevole e fluido. Il testo, un altro dei pregi del romanzo, è ricco di battute ironiche e sagaci che contribuiscono alla piacevolezza della lettura.
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Un valzer di sentimenti
Lo scrittore Nicola Zacchino utilizza il termine Balcoimento come acronimo di “Ballo con i miei sentimenti”.
E’ questa la condizione in cui una persona versa quando la vita ti pone davanti a bivi o situazioni imprevedibili.
Così,come Luca,ci si ritrova come una barca in balia di una tempesta di emozioni,sentimenti e ricordi,senza terra all’orizzonte e senza salvagente.
Gli amici?Ci sono,ma in quei momenti qualsiasi parola,qualsiasi gesto,appare vano:nulla può consolarti e riannodare il filo che ormai è ingarbugliato dal tuo continuo ballo.
E ci si ritrova inerti,quasi come un automa,senza spirito di vita,foglia in pieno vento del tempo che scorre senza lasciar traccia,pronto solo a subire o ad evitare gli eventi.
Per fortuna il destino ha molta più fantasia di noi,ma anche se la soluzione ai problemi ti viene incontro,ti sbatte contro,sei lì che non sai cosa fare.
In fondo quando un combattente resta ferito,ad ogni combattimento tenderà a proteggere la sua cicatrice,sapendo che quello sarà sempre il suo punto debole,e di riflesso,cercherà di infliggere al suo nemico la stessa ferita.
Problemi di cuore,problemi d’amore,e purtroppo non sempre un fiore nuovo può sbocciare facilmente tra i rottami di un altro amore.Ci vuole tempo,ci vuole fiducia,ci vuole coraggio.
Questo è quello che insegna questo libro:la paura ci resta vicino sempre,anche quando non la vediamo,ma nonostante questo dobbiamo avere il coraggio di provare,perché “gli altri ti fanno ciò che gli permetti di fare”.
“Tutto è pericoloso ,anche camminare dentro Roma lo è,la paura nasce quando non si conoscono le cose”
E’ il valzer dei sentimenti,un flusso continuo di pensieri che parte dalla prima pagina fino alla centotrentaduesima senza mai fermarsi.
Lo scrittore ci invita ad essere spettatori del suo ballo e le parole una dietro l’altra sembrano le note di una musica,dapprima triste,poi allegra,poi turbolenta prima di quell’ultima nota di speranza che sfocia in una luce nuova,come quelle che si accendono quando termina lo spettacolo.
Un vortice che ti tiene con sé,che ti entra dentro fino al midollo,e così anche lo sfondo della città di Roma,solo a tratti accantonata per posti meravigliosi del Perù e del Sannio,perde importanza:avrebbe potuto essere qualsiasi altra città,avrebbe avuto lo stesso effetto.
E’ la storia di Luca,anzi,è il ballo di Luca,il ballo con i suoi sentimenti, una lotta per raggiungere la cosa più preziosa:la felicità.
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Un cuore continua a battere
“Cuore Cavo” accoglie tra le sue pagine una storia cruda, in cui la morte domina la scena prepotentemente.
Questo romanzo non si può ridurre semplicisticamente ad una storia di suicidio; questo romanzo nasconde altro, vuole trasmettere altro.
Viola Di Grado utilizza la storia della sua Dorotea, per indagare sull'intreccio tra la vita e la morte, per interrogarsi sui volti oscuri della morte e sulle eventuali strade percorribili dopo di essa.
Argomenti complicati e opinabili che si colorano di infinite sfumature a seconda dei punti di vista e dei credo di natura religiosa o personale.
L'autrice ha la capacità di materializzare davanti agli occhi del lettore sia la vita sia la morte.
La vita talmente spinosa, amaro calice, ingiusta, diversamente articolata, vita familiare spezzata, vita sociale inappagante, vita amorosa deludente, piccole gioie, grandi rancori e incomprensioni, continuo rincorrersi di speranze; eppoi la morte, non solo accidentale o naturale, ma anche bramata come soluzione, come via di scampo, come uscita di sicurezza, come occasione per voltare pagina.
Ma la morte cos' è?
Un approdo sicuro verso un'agognata serenità o l'inizio di una nuova esistenza?
La Di Grado affida la sua risposta alla narrazione, improntando il suo racconto sulla duplice faccia della morte.
Da un lato la morte come nemica della fisicità umana, colpevole del disfacimento e della perdita di ogni connotato fisico della persona, dall'altro la morte con la sua capacità di creare un nuovo essere, di cui non può intaccarne la sensibilità e le emozioni, anzi ne esalta il potere di vedere oltre ai limiti posti dal vivere quotidiano.
Insomma l'autrice immagina la nascita di una persona novella, in grado di di comprendere l'essenza ed il significato della vita terrena in maniera limpida e più distaccata dalle costrizioni imposte dalla famiglia e dalla società.
E' un romanzo lacerante e duro, in cui la narrazione in prima persona della protagonista amplifica il suo grido di dolore e la sua estenuante ricerca di una collocazione nel mondo; un lungo monologo per fare il bilancio di una vita, per accendere una luce sul passato, per accettare il presente e immaginare un futuro.
A livello contenutistico è un racconto dal costrutto coraggioso, ma ottimamente articolato ed elaborato; l'asso nella manica di questa giovane autrice è la forza e l'originalità stilistica, doti che le permettono di utilizzare le parole come armi che puntano dritte al cuore di chi legge.
Parole secche, dure, evocatrici di sensazioni immediate, senza filtri per edulcorarne gli effetti.
Viola Di Grado è una giovane penna talentuosa, capace di trasformare inanimate pagine di carta in una fucina di sentimenti e di emozioni.
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Una Vendetta... senza sale!
Accattivante. Insapore. Entusiasmante. Piuttosto vuoto.
Non sono impazzita, no. E' semplicemente la mia opinione.
Hector Cross ha tutto ciò che un uomo può desiderare: una bella moglie, un buon amico e tanti soldi. Troppi soldi. Il Dio denaro è impietoso, e spesso colpisce i suoi seguaci con dure azioni.
Hector Cross è un uomo tutto d'un pezzo: sua moglie rimane vittima di un assassinio e lui desidera vendetta. Superba vendetta.
Chi ha ucciso la sua adorata Hazel? I soldi sono l'unico motivo? Cosa si cela dietro il potentissimo impero della Bannock Oil?
Se volete scoprirlo, prendete questo voluminoso tomo ed immergetevi nella lettura.
Un'immersione completa, intanto. Già dall'inizio si viene catturati completamente, tant'è che è difficile straccarsi, le pagine volano via senza problemi, fluide; lo stile non ha nulla di complesso, perfettamente aderente al genere, ottimo collante dei nostri occhi che scorrono agilmente tra le righe.
Wilbur Smith non vi risparmierà nulla: descrizioni crude o più dettagliate, ma il tutto in modo da non annoiare mai. D'altronde, un romanzo d'avventura deve invogliare il lettore a proseguire dotandosi di tanta suspance, e lui ci è magistralmente riuscito, non vedrete l'ora di terminare.
La narrazione prosegue incalzante, senza intoppi o punti morti, vivida e coinvolgente.
E a questo punto vi domanderete: perché un giudizio così basso?
In breve: Vendetta di sangue è un libro pieno di contenuti, ma contenuti 'vuoti'.
Come ho già detto si fa leggere con piacere, è denso di azione, colpi di scena, vicende inaspettate, turpi passioni e tanto altro... il lettore non fa fatica ad immaginare il tutto, le scene scorrono intense nella sua mente. Ma sotto, poi, non c'è nulla.
Vuoto: personaggi 'meccanici', davvero non ho provato alcuna simpatia per loro, soprattutto per i cosiddetti 'buoni', mi sono sembrati troppo abbozzati, senza quel soffio dell'anima capace di renderli 'umani'. Capisco che da un romanzo d'avventura non si pretendono abissi psicologici, ma questa 'carenza' si riflette anche su tutti gli svolgimenti principali del romanzo levandogli emotività e veridicità.
Ne risulta un'atmosfera generale fredda, troppo distaccata, di 'superficie',o almeno così a me è sembrato.
In conclusione direi che è una lettura che consiglio se amate il genere, se non avete aspettative letterarie; nonostante la mole infatti si legge in fretta, è un libro leggero che alla fine dà anche soddisfazione e fa sentire 'pieni'. Sazia per bene, anche se ad un'analisi più attenta è abbastanza 'insipido'. E povero di nutrienti.
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Karol Wojtyla spiato
Dopo la sconfitta della Germania nella Seconda Guerra Mondiale e quindi dopo la caduta del nazismo tutti ci si aspicava un periodo di prosperità, pace, serenità e soprattutto libertà.
Uno degli stati più feriti dalla dittatura nazista è stato la Polonia ed il suo popolo, purtroppo a volte il detto che al peggio non c'è mai fine trova conferme inaspettate così come è avvenuto per la gente polacca.
Siamo nel 1946 e la Repubblica Polopare Polacca è sotto l'influenza politica, militare ed intellettuale sovietica, il comunismo si fa strada nel tessuto sociale così come una sostanza entra, attraverso l'ago di una siringa, nel sangue.
E' in questo periodo che uno dei personaggi più popolari ed influenti della seconda metà del novecento diviene sacerdote in Polonia, uno stato comunista che impone una dittatura sottile, crudele e spietata con la quale si dichiara stato ateo.
Dopo la caduta del muro di Berlino e quindi dopo la fine della guerra fredda si è potuto accedere ai documenti dei servizi segreti polacchi, dai quali è emerso un risvolto forse impensabile, perchè Karol Wojtyla, poi divenuto Papa Giovanni Paolo II, è stato oggetto, per quasi 50 anni, di attenzioni da parte dei servizi segreti polacchi e di tutti gli stati del blocco sovietico.
Se si pensa all'alienazione a cui molta gente è andata incontro durante la dittatura comunista si rimane davvero allibiti, dalla lettura di queste pagine emerge come lo Stato polacco ha cercato di boicottare in tutti i modi la chiesa ed i suoi esponenti tra cui naturalmente il futuro Papa Beato. La cosa che si è sempre temuta è stata quella di poter offrire al popolo oppresso una possibilità, un'alternativa ma nulla da fare, ogni alternativa all'ateismo era quella di distruggere e annientare ogni tipo di religione soprattutto quella cattolica, un po' come avviene oggi con la Cina ed il Tibet, anche a costo di svariate vite umane.
In questo libro viene descritto e ben documentato tutto l'apparato di spionaggio e sicurezza polacco che ha dispiegato risorse illimitatamente pur di insinuarsi negli ambienti religiosi, con spie che sono state anche in stretto contatto con Wojtyla, fino alla sua salita al Soglio Pointificio, si descrive come anche l'attentato al Papa sia stato potenzialmente organizzato nell'operazione Triangolo da KGB, Stasi, servizi segreti bulgari e polacchi.
Da quest'opera, di sicuro spessore, emerge la grande vittoria di Giovanni Paolo II "sull'impero del male comunista", forse alcuni passaggi risultano ripetitivi, impegantivi e un po' tediosi ma nel complesso leggibili.
L'autore Marek Lasota ci ha mostrato una pagina davvero terribile della nostra storia recente ma alla fine la storia ci dà ragione, l'uomo Karol Wojtyla con la sua fede, la sua caparbietà, la sua speranza ha vinto una guerra ideologica sovvertendo quella che era una situazione mondiale che sarebbe potuta sfociare in un conflitto atomico ed invece ha fatto trionfare la libertà di ogni individuo nel poter scegliere se professare o meno qualsiasi fede.
Buona lettura a tutti.
Syd
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La debolezza deve essere spazzata via
Il titolo della recensione è una frase di Adolf Hitler, la stessa citata da Paul Grossman per introdurre il suo thriller investigativo. Un’ottima scelta. Questo thriller, narrato con grazia scorrevole, è ben costruito e ben ritmato, e può essere letto come un modo insolito di narrare la Shoah.
La storia esordisce nella Berlino scintillante del 1929, quando ancora la Germania sembrava in ripresa. Gli artigli della crisi non si sentivano ancora, ma la tragedia era alle porte. Il protagonista, un detective ebreo, intuisce già i contorni del mostro che sta calando su quello che è ancora, per poco tempo, il suo paese.
Le descrizioni della capitale tedesca costituisce uno dei punti di forza di quest’opera. Inseguendo le indagini scopriamo i monumenti, le strade, le piazze. Incontriamo gli artisti e gli intellettuali. Parliamo con bambini di strada, organizzati in bande. Giriamo tra i quartieri e quelli dove regna la miseria. Arriviamo anche al quartiere degli immigrati ebrei. Osserviamo la civiltà e il rispetto per le regole, l’amore per l’arte e la puntualità, ma anche la diffusa ostilità a qualsiasi forma di debolezza, il rigore nell’educazione dei bambini, l’antisemitismo dilagante dopo la Grande Guerra. L’autore conosce e racconta bene anche la psicoanalisi, che ancora non era stata messa al bando. Un’epoca riprende vita sulla carta, si svela nella finzione.
La cultura tedesca dell’epoca non fa soltanto da sfondo, ma si intreccia con vicende e personaggi. Nonostante l’antisemitismo diffuso, in Germania non c’era traccia dei pogrom che dilagavano nei paesi dell’est. La Germania era la terra dell’ordine. Il caos dei tempi nuovi si annuncia con il ritrovamento di un sacco di ossa. Sono ossa di bambini, lavorate come gioielli. Uno psicoanalista osserva che sembra un tentativo di ripristinare l’ordine dopo la distruzione. L’indagine scoprirà una storia familiare di morte e sofferenza, che riflette in un gioco di specchi quella che sarà la regressione sanguinaria di una nazione intera, la pianificazione razionale di un orrore del tutto irrazionale.
Questo bellissimo romanzo non è un passatempo. Il sangue di queste pagine non scorre come salsa di pomodoro: l’orrore rischia di lasciar traccia. Alcuni personaggi ricalcano i cattivi delle fiabe e del cinema: ci sono la cannibale e la strega cattiva, c’è perfino lo scienziato pazzo dalla risata crudele. Ma questi personaggi cari al nostro immaginario collettivo non sembrano usurati e non stonano in questa scena del crimine, che coinvolge anche la Storia.
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Senza dignità
Quando ho ricevuto questo romanzo mi sono letteralmente impaurita vedendo le sue dimensioni (quasi cinquecento pagine), e leggendo che era un thriller (non sono propriamente un'appassionata) ero scoraggiata, ma e dico ma mi sono dovuta ricredere su tutte e due i fronti, si lascia leggere che è una meraviglia e poi è un bellissimo romanzo intricatissimo ma ben scritto. Non mi sono mai pentita di averlo letto dalla prima all'ultima pagina anche se provo un leggero disagio nel narrare parti invece del tutto, è veramente molto complicato, ma ci proverò lo stesso.
Will Trent del GBI viene mandato da Atlanta, per investigare sull'omicidio di una giovane studentessa, nel piccolo centro urbano di Heartsdale. Allison è il nome della ragazza che viene trovata morta in un lago con dei pesi alle caviglie ed un biglietto che indica esplicitamente che è un suicidio. Ma da subito si chiarisce che è un omicidio, lo rivelerà un piccolo taglio dietro la nuca.
Solo qualche ora dopo viene trovato, dalla polizia locale, in casa della ragazza un uomo con il passamontagna e dopo una colluttazione e l' accoltellamento di un poliziotto, l'uomo viene arrestato. In realtà si tratta di un ragazzo di nome Tommy, che portato alla stazione di Polizia viene fatto confessare, con deposizione scritta, dall'investigatrice Lena Adams. Ma il ragazzo è ritardato, in una piccola città era noto a tutti, di ciò non viene tenuto conto e così Tommy si ucciderà in cella subito dopo la confessione.
Entra in scesa la patologa-pediatra Sara che si trova in città per la festa del Ringraziamento, ed è lei che metterà luce sul ragazzo, in quanto per le sue problematiche mentali non può aver congegnato quell'omicidio/suicidio, difatti lei sapeva tutto di Tommy perché era stato un suo paziente.
Le due donne si odiano per un passato troppo scottante e doloroso che ancora dopo anni risulta difficile da dimenticare e scrollare di dosso, e che rischia di inficiare ed intralciare le indagini.
Si verificherà, anche, un terzo strano omicidio quello del fidanzato di Allison trovato nella stanza del dormitorio dell'università, sul quale in precedenza si erano addensati i sospetti dell'uccisione della ragazza.
Will Trent si troverà tra le verità, la bellezza e l'intelligenza delle due donne Sara e Lena. A chi credere? A chi dare peso nella versione dei fatti? Seguire il proprio istinto o seguire dove lo porteranno le indagini e le persone? Sono realmente quello che mostrano di essere o si spacciano di essere? No, vi assicuro che per circa un quarto di libro state li ad arrovellarvi il cervello, mettendo sotto una lente quello che la scrittrice vi ha concesso. Tutto inutile, la verità, le scoperte, le confessioni arrivano da angolazioni di visuali che nessuno si aspetta o tanto meno si ci immagina. Una squallida e scomoda verità, di persone che volevano comprarsi altre persone e che venivano ricattate, multinazionali senza scrupolo e dottori non da meno, senza far passare sotto tono il corpo di Polizia corrotto e corruttore.
A questo punto non si può rivelare altro altrimenti il gusto di scoprire dove la scrittrice vi vuole far addentrare viene meno.
Grande thriller, non mozzafiato, ma rivelatore di scomode verità sociali.
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Lucy
In quest' ultimo lavoro, la Comencini ci accompagna nell'intricato mondo dei sentimenti e delle relazioni umane siano esse di coppia o familiari.
Lucy è un romanzo che con la sua struttura a più voci, coinvolge il lettore in maniera totalizzante, obbligandolo a prestare ascolto ai monologhi-confessione dei protagonisti.
Ecco che la storia narrata perde univocità per colorarsi e moltiplicarsi in un caleidoscopio di visioni differenti, in base al punto di vista e alla sensibilità emotiva di colui che parla.
Questo è un romanzo amaro, pregno di incomprensione, solitudine, rimpianto, delusione; siamo di fronte a donne e uomini che decidono di fare i conti col loro cuore, per capire il tempo presente interrogandosi sul passato e sul peso delle scelte fatte.
Il fardello del passato si intreccia col presente generando la consapevolezza che nulla nella vita si cancella, ma occorre trovare la forza per riconoscere gli errori, per ripartire alla volta del futuro, facendo pace prima con se stessi poi con il mondo circostante.
Tra le pagine di queste romanzo si innalza un canto alla estrema durezza della vita sia di un uomo sia di una donna sia di un figlio che nasca in un contesto familiare anomalo o difficile.
La Comencini è superba nell'analisi dei sentimenti; attenta a cogliere le infinite sfumature della coscienza umana, la profondità dei drammi e dei dolori, le incertezze che destabilizzano, le passioni brucianti, i rimorsi, le paure radicate, oltre a tutti quei meccanismi che si innescano nella coppia e nella famiglia allorché insorgano problematiche.
E' un romanzo avvolgente e penetrante, dove la forza graffiante delle parole ci accompagna in un turbinoso viaggio nell'animo umano, navigando tra amori lacerati, famiglie alla deriva, sogni infranti, speranze disattese.
Cristina Comencini sa parlare di sentimenti, di uomini e donne, sa trasmettere al pubblico intense emozioni trasportandolo sull'onda della commozione e dell'immedesimazione, utilizzando un linguaggio diretto, dosando con equilibrio dolcezza e forza di espressione.
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