Le recensioni della redazione QLibri
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Il coraggio della sfida
L’ultimo libro di Benni, appena uscito nelle librerie, è un dittico: una coppia di racconti con due fanciulle per protagoniste. La prima è “Pantera”, imbattibile fenomeno del biliardo, presentataci attraverso gli occhi adoranti di un adolescente in fase ribelle che si è fatto assumere come cameriere nell’inquietante e magica sala da biliardo dei Tre Principi, ove la misteriosa giocatrice regna incontrastata. La seconda è Aixi, una ragazzina che vive sulla costa, sensibile e selvaggia, il cui padre sta morendo di un male incurabile e il cui destino sembra essere quello di adeguarsi alle abitudini delle sue coetanee, per cui lei non prova alcun interesse.
Non è facile cercare di classificare la scrittura di Benni. I temi trattati sono adulti, a volte persino rudi, grezzi, quasi volgari. La forma narrativa, invece, si avvale della struttura della fiaba, con le sue figure archetipiche e le atmosfere oniriche, ove tutto diventa possibile. Ne risulta una favola destinata agli adulti, che parla il linguaggio della narrativa d’infanzia affrontando tematiche profonde che solo una psiche formata può arrivare a comprendere.
“Pantera” potrebbe tranquillamente trasformarsi in monologo teatrale e d’altronde Benni è altrettanto famoso come fecondo scrittore di teatro. L’autore titilla l’emozione, stimola la capacità di vedere personaggi e ambientazioni come se prendessero forma tangibile davanti agli occhi del lettore. Non è possibile rimanere indifferenti quando vengono pizzicate corde tanto profonde e con tale maestria. La tensione emotiva delle sfide al biliardo, la complessità del cuore di una donna, gli affetti perduti e il coraggio di ribellarsi al destino…Una commistione di età e di atmosfere che costruisce un mondo al contempo brillante e immerso in un fango torbido, oscuro.
La sensazione si avverte con estrema chiarezza in “Pantera”, costruito volutamente in un luogo liminare ove la vita di tutti giorni viene lasciata da parte per immergersi in una sorta di grotta oscura dove vincere è tutto, come succede al ragazzo che adora Pantera, il quale cerca in ogni modo di sporcarsi, di affondare, diventando membro di un mondo sotterraneo che però sa creare i suoi eroi. Nell’apparente leggerezza del secondo racconto, questa oscurità di manifesta in maniera più subdola, sottile, nelle consuetudini banali e consumistiche che tolgono spontaneità all’infanzia, come un veleno che corrode la magia dell’essere bambini.
Le protagoniste di entrambi i racconti sono giovani donne che la vita non ha graziato di particolare fortuna. Pantera è reduce da un’infanzia di soprusi da parte del padre, giorni di sofferenza che sono diventati leggenda e di cui nessuno conosce davvero i particolari. E’ stato allora che la piccola ha imparato a giocare a biliardo con il suo tocco micidiale, trovando da sé un territorio in cui essere padrona, imbattibile e intoccabile signora. Il suo personaggio inarrivabile è stato costruito ad arte e il nero di cui si veste serve a caratterizzarla quanto a nascondere il vero sé agli occhi di coloro che la sfidano.
Non è un caso se l’unico momento di cedimento le verrà dal suo opposto e complementare, quel magnifico giocatore vestito di bianco (un David Bowie campione di biliardo) che per la prima e forse unica volta le farà apparire una vita a due qualcosa di desiderabile invece che una condanna da evitare.
Aixi vive sola con il padre ormai malato terminale. La madre li ha lasciati, stanca della dura vita del pescatore, delle privazioni. Aixi vive ancora in un mondo in cui sogno e realtà convivono, una spiaggia di personaggi segnati dalla vita, che sanno vivere di espedienti e conoscono i segreti del mare e delle sue creature. Quali sogni può conservare ancora questa ragazzina che tra poco perderà tutto ciò che ha sempre amato e in cui ha creduto? Un atto di coraggio e incoscienza sarà la sua sfida all’ineluttabilità delle cose, un’affermazione di se stessa contro il destino e le trame di chi dovrà occuparsi di lei.
Una parola sulle illustrazioni di Luca Ralli, bellissime immagini in bianco e nero con un tratto dal sapore vintage, che si sposano alla perfezione con l’atmosfera dei racconti. Per quanto sia evidente l’intento fumettistico e quasi caricaturale delle illustrazioni, questo non toglie alcuna dignità all’opera di Ralli, che anzi interpreta in chiave grafica proprio quella ironia e quell’atmosfera da sogno che fanno da fondamenta ai racconti.
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Il nero e l'argento
Paolo Giordano utilizza due colori per battezzare il suo nuovo romanzo: il nero e l'argento.
Due colori molto diversi, simboli muti di due cuori, due anime, due modi di essere.
Questa terza pubblicazione vede la penna dell'autore cimentarsi in un lavoro breve, ma non privo di intensità e di contenuto.
Il flusso narrativo è concentrato prevalentemente nella voce di uno solo dei protagonisti, la quale voce raccoglie e rielabora un insieme di ricordi e di immagini slegati da continuità temporale.
Al di là dei nomi e dei volti, appositamente sfocati, i protagonisti della storia sono i complessi meccanismi di coppia e familiari, la loro solidità o fragilità; insomma quel micro-mondo che si crea tra le mura di casa, con regole, consuetudini, equilibri.
Una famiglia giovane, la gestione della quotidianità, la ricerca della completezza dell'uno nell'altro, le mancanze, i silenzi; eppoi le finestre si aprono ed entra una ventata d'aria fresca tra quelle mura, che come una scossa elettrica riporta il riappropriarsi della vita, divenendo collante tra particelle oramai alla deriva.
Paolo Giordano in pochissime pagine riesce a far parlare i sentimenti, portando in superficie tutti i colori dell'anima; ci sono le tinte fosche dell'incomprensione e della chiusura, le sfumature nebulose dell'evanescenza e della superficialità, eppoi i colori più accesi sprigionati dai momenti più intensi della vita.
Si intrecciano prepotentemente l'amore ed il dolore, la vita e la morte, come due facce alterne di un'unica medaglia.
La vita raccontata da Giordano non fa sconti a nessuno, scorre tra dolcezze e amarezze, scandita da un'alternanza di momenti chiari e scuri.
E' palpabile una vena di pessimismo che scorre lenta e sotterranea, indugiando sotto le maschere dei ruoli ricoperti in famiglia e nella società.
Ritorna anche in questo romanzo il tema della solitudine già emerso e scandagliato ne “La solitudine dei numeri primi” e ne “Il corpo umano”; è una solitudine amara come veleno ed insidiosa, camuffata dapprima dal desiderio di condivisione e realizzazione attraverso la coppia eppoi esplosa nel luogo più intimo, come il focolare domestico, luogo che dovrebbe unire e cementare gli animi.
“Il nero e l'argento” è un'ottima prova di scrittura, che mette in luce la crescita stilistica dell'autore; il linguaggio è diventato più raffinato, l'espressività è potenziata.
Giordano si conferma un autore capace di indagare l'uomo, senza scivolare nella banalità e nello stucchevole, infondendo ai propri scritti un'emozionalità forte, fotografando situazioni figlie del quotidiano e della società attuale.
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Il corpo umano
UN RICORDO DAL PASSATO
Questo romanzo storico ha come protagonista Lina una giovane sui 20 anni di Piacenza, una ragazza normale figlia di contadini, che agli inizi del ‘900 decide di intraprendere il viaggio verso l’America.
In questo libro viene raccontata la storia di Lina a 360 gradi, dall’infanzia, al suo percorso di crescita, al viaggio verso il Nuovo Mondo e alla sua nuova vita.
Faccio una premessa prima di continuare, mi ha sempre incuriosito tutte le volte che leggo o guardo delle interviste di scrittori o di quelli aspiranti tali, che dicono che hanno avuto l’ispirazione per scrivere il loro romanzo da un fiore, da un profumo o da una canzone.
Anche in questo caso Silvia Pattarini alla fine degli anni novanta, quasi per caso aiuta la nonna a trovare una carta in uno di quei vecchi cassetti dei nonni dove c’è di tutto e di più, dove tutti noi vorremmo trovare qualcosa di interessante o antico o misterioso. Guarda caso invece di trovare quello che la nonnina voleva,si ritrova tra le mani una busta dove c’era un biglietto di terza classe per l’America datato 20 agosto 1919, come quello che si vede nella copertina del libro. Quindi, come viene scritto dalla stessa autrice, con quel pezzo di carta è andata ben oltre le apparenze e ha tirato fuori una storia.
La scrittrice è stata molto stupita nel trovare questo biglietto e viene a conoscere che la sua nonna era andata in America da giovane cosa delle quale era ignara fino ad allora.
Ma partiamo per gradi, innanzitutto troviamo la ragazza nel suo paese d’origine, lei è molto conosciuta in quanto è una delle poche persone che sapeva leggere e scrivere quindi molti si rivolgevano a lei per farsi leggere lettere o cartoline di parenti lontani.
Molti italiani in quel periodo decidevano di emigrare per trovare fortuna o semplicemente per fuggire da una situazione di miseria e povertà, il lavoro era poco e il cibo scarseggiava.
Vi chiederete come mai Lina così di umili origini sapesse leggere e scrivere?
L’autrice ce lo spiega poco dopo, quando a 10 anni Lina cade su una pietra appuntita che le causa una brutta ferita alla gamba, i medici le dicono che non possono guarirla ma l’unica cosa possibile è quella di amputare la gamba.
Così suo padre si rivolge alle suore di Rivergaro che la ospitano al convento, la curano e nel periodo che la bambina è li da loro, le insegnano a cucire a leggere e scrivere, inoltre le regalano una corona dalla quale non si separerà più.
All’ epoca la parola e l’aiuto della chiesa, di parroci e suore era importantissimo, ci si rivolgeva a loro in caso di malattie, per cercare lavoro, oggi la situazione è radicalmente cambiata.
La vita di Lina è costellata da grande dolore, ora che è rimasta zoppa perde anche la sorella Paolina e la bambina che la stessa porta in grembo.
Non si da mai per vinta la ragazza vuole riuscire a raggiungere la Merica, cose veniva chiamata dagli italiani, dove già c’è la sorella Emilia e il marito Giulio, nelle lettere che riceve dalla ragazza, il nuovo continente viene descritto come un posto bellissimo, con molto lavoro, dove ci sono delle porte magiche dove si entra e ti trasportano nei vari piani del palazzo senza l’utilizzo delle scale(ascensore).
Inoltre, dove si può usare un aggeggio che viene chiamato “tele fon” con il quale si può parlare direttamente senza utilizzare un foglio e una penna.
Decide quindi di provare a partire e inizia a lavorare in una filanda per riuscire a pagarsi il biglietto, in questa occasione conosce Maria e Angela madre e figlia, con le quali instaura un rapporto di amicizia e le tre partiranno insieme verso Genova dove si imbarcheranno per l’America.
Dopo un viaggio non proprio facile,dove a loro si uniscono anche Tina e Amabile, arrivano alla città ligure dove si preparano per il viaggio, dopo un rigoroso controllo medico e dei documenti .
E qui iniziano i problemi , come ben sappiamo la terza classe è quella peggiore, dove i passeggeri vengono chiamati “di stiva”, dove le condizioni igieniche erano al limite. Le cuccette erano sovraccariche di persone, non si poteva cambiare d’abito, in quanto le valige erano nel reparto bagagli della nave e non c’era modo di recuperarle fino alla fine del viaggio, così se un bambino vomitava, o si sporcava non si poteva pulire.
Le stanze rimanevano sporche, non si poteva farle arieggiare, questo contribuiva alla diffusione di malattie gravi, oltretutto c’erano poche medicine a disposizione.
Dopo molti giorni di viaggio arrivano a Ellis Island anche chiamata” l’isola delle lacrime”, eh si vi chiederete non a New York no……. prima di arrivare nella grande mela ci si fermava qui dove i passeggeri erano sottoposti a dei controlli sanitari oltre che venire interrogati.
Inoltre le donne sole potevano restare, solamente se c’era già a New York un parente maschio altrimenti venivano rispedite indietro. Lina manda un telegramma alla sorella che la viene a prendere subito e da qui inizia la sua permanenza in America.
Qui mi fermo con la storia per non svelarvi di più, ma Lina avrà un bel po’ di colpi di scena che la metteranno a dura prova.
Posso dire che la vita nel Nuovo Continente non è tutta rosa e fiori anzi la situazione anche lì è difficile, gli emigrati italiani vengono trattati molto male, non ci si fida di loro vengono soprannominati con dei dispregiativi quali dago, wop ecc.
Se trovano un impiego vengono considerati dei ladri quindi vengono controllati prima di poter andare a casa oppure durante il loro lavoro venivano chiusi a chiave per paura che rubassero o facessero troppe pause.
Ho adorato Lina perché è una di noi, una ragazza del popolo, seria che spera in un futuro migliore, che parte da sola lascia il suo paese e la sua famiglia per il sogno americano. Ha una grande forza sa rialzarsi e trova sempre il coraggio di andare avanti. Lotta per i propri diritti non senza difficoltà.
La scrittrice è riuscita a narrare una storia seppur inventata in maniera meravigliosa sembra quasi che stia raccontando la vita vera di una ragazza che emigra in America.
Si nota moltissimo l’impegno che Silvia ha messo nel suo lavoro di ricerca e di ricostruzione del periodo storico basando la storia su dei fatti di cronaca realmente accaduti.
Lo stile è molto scorrevole, il romanzo è molto interessante ma sebbene il racconto sia pervaso da fatti drammatici non è mai stato noioso o cupo o triste, anzi quando interrompevo la lettura non vedevo l’ora di riprenderla in mano per sapere come andava avanti.
Come accadde anche oggi gli emigrati vengono discriminati, così anche per noi italiani all’epoca, andando all’estero c’era nei nostri confronti una sorta di sfiducia.
La scrittrice ha voluto dedicare il libro alla sua nonna che con il suo biglietto le ha dato lo spunto per la sua storia e alla memoria soprattutto dei suoi antenati e per far conoscere la storia ai propri figli.
Se volete anche voi intraprendere questo viaggio nel tempo, lasciarvi trasportare dalle emozioni e commuovervi questo è il libro che fa per voi, farete fatica a dimenticarvi di Lina che rimarrà nel vostro cuore.
P.S. Ringrazio vivamente l’autrice per la dedica che mi ha scritto, mi ha fatto molto piacere.
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Io me la squaglio
Lucido nudo crudo senza sorridere mai.
Questo ho pensato fin dalle prime pagine, lucido nudo e crudo non necessariamente e' un pregio, ma nemmeno un difetto. Dipende dall'utente ?
La raccolta consta di quindici racconti ambientati in Canada, per lo piu' nel periodo della seconda guerra mondiale. Si tratta di spaccati di vita narrati con estrema chiarezza e realismo.
La scrittura e' essenziale, la sensazione e' quella di osservare uno specchio e allungando la mano, toccarlo. La sua superficie riflette ogni istante di vita nitidamente: la malattia, l'abbandono, il tradimento, la perdita, la gelosia. Tutto avviene con precisione, con inopinabile coerenza. Poi se pero' si allunga quella mano la superficie dello specchio e' sempre liscia e gelida, immutata a prescindere dall'immagine.
Ebbene nonostante la penna sia di livello, nonostante il contenuto non manchi, il libro non mi ha emozionata nemmeno per un istante trasmettendomi un esasperante senso di tristezza, di malinconia, annaspando irrimediabilmente per trecento pagine terrorizzata di restare bloccata, ingoiata da quelle pagine.
Specchio freddo, per me sei apatia.
"Cara vita" sarebbe il titolo originale dell'opera , per una volta convengo con chi ha scelto il racconto "Uscirne vivi" per la traduzione italiana. La gola riarsa, le membra afflosciate, se la vita fosse questo libro si tratterebbe veramente di sopravviverle. Grazie al cielo ogni tanto ci si puo' permettere di vivere, di aggrapparsi ad un momento felice per sopportare il resto, quel momento che in questo volume sembra non arrivare mai.
La curiosita' di leggere un'opera della novella premio Nobel era forte, non so se questa raccolta caratterizzi tutta la sua produzione, ma se così fosse direi che l'incompatibilita' tra me e l'autrice e' insormontabile.
Bello a chi piace.
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- sì
- no
LA VITA INCOMPIUTA RIMANE NELL'ARIA
Questo è un romanzo molto diverso dai soliti, unico e che va contro i schemi e i stereotipi che ci vengono proposti dall’ editoria oppure che troviamo in libreria.
Questo potrebbe essere un vantaggio come invece un enorme punto a sfavore del libro, ci ho riflettuto parecchio dopo averlo finito e soprattutto in previsione di una futura recensione.
Essendo un romanzo davvero originale, atipico ma per questo anche meraviglioso cercherò di trasmettere a voi quello che la lettura mi ha suscitato cercando di affrontarlo con estrema umiltà.
Nel libro troviamo due fratelli Lorenzo e Letizia che vivono con i loro genitori che come spesso accade litigano tra di loro e per sfuggire alla realtà si inventano dei giochi o delle storie, come per la loro giostra preferita di cavalli in un luna park vicino a dove abitano, immaginano che i loro animali preferiti Bianca e Nerone si liberano per scappare via, insieme, per un futuro migliore.
Uno dei due fratelli crede di averli visti volare via ma poi una sera vanno al luna di park e scoprono ben presto che loro si trovano ancora la’.
La loro infanzia e di conseguenza anche la loro adolescenza verrà spezzata da un evento tragico che li segnerà nel loro percorso di vita, la perdita della madre aprirà un grande vuoto in loro. A sua volta anche il padre li ha abbandonati e se la dovranno cavare da soli.
Poi incontriamo Cecilia, una donna fragile, insicura anche lei ha in sé dei fantasmi con cui deve combattere, l’autore ripercorre la sua vita dal primo concerto fino a quando abbandonerà la sua carriera e inizierà un percorso verso il declino.
La storia dopo ci parla di Matteo e di Lucia, una giovane coppia all’apice della felicità per la nascita della loro primogenita, infatti Lucia sta per dare alla luce una bambina che si chiamerà Siria.
Successivamente ritroviamo i due dopo il parto e il lettore intuisce che qualcosa è andato storto che la bambina non c’è e che Lucia è in uno stato emotivo e psicologico difficile, si stacca dalla realtà e dal marito.
Ma Lorenzo e Letizia, dove sono finiti?
Le storie dei due fratelli e di Cecilia e Matteo si fondono, entrambi saranno il sostegno l’uno dell’altro per andare avanti per continuare a sopravvivere e affrontare la vita in maniera migliore.
I temi trattati in questo libro sono molteplici, devo dire che su 210 pagine circa, di spunti e tematiche su cui riflettere ce ne sono moltissimi.
In primo luogo il dolore e la sofferenza,secondo me, la fanno da padrone, sia quello che si prova quando si perde una persona cara, oppure quello che invece si prova nell’interno del proprio animo, quello interiore psicologico ,che è più forte di quello fisico e che dal quale forse non si trova rimedio.
Letizia e Lorenzo subiranno il trauma della perdita della persona a loro più cara, di quella che li incoraggiava e li spronava ad affrontare le loro difficoltà, le loro paure ad andare avanti e a superarle, la stessa donna che darà la sua vita per il bene dei figli.
Rispetto al padre è la persona che da più affetto che li capisce e che rimarrà sempre una figura importantissima nelle loro vite. Mi ha molto colpito la metafora dei titoli di coda come quando un film è finito per descrivere il momento della perdita della madre.
Cecilia, è una persona che combatte le proprie insicurezze lasciandosi andare o sprecando la propria vita con persone sbagliate, dopo la fine della sua carriera si butta via, si lascia amare e vive una vita senza passione, senza amore senza speranza, forse la vita ha per lei in serbo una seconda possibilità rappresentata da Lorenzo.
Ma anche Lorenzo è un ragazzo speciale che non riesce a distinguere il quadrato da un cerchio ma questo non gli impedisce di lottare per il suo sogno che era poi quello anche della madre.
Matteo, uomo innamorato della moglie che non riesce a staccarsi da lei, dai ricordi che lo imprigionano che non lo lasciano andare avanti con la sua vita, nemmeno la sua passione per la pittura riuscirà ad aiutarlo, ma l’incontro con Letizia cambierà qualcosa.
L’autore è riuscito in modo veramente unico a descrivere le emozioni, le atmosfere, la sofferenza dei personaggi , le loro fragilità e le loro insicurezze.
Altri temi che vengono affrontati nel libro sono sicuramente il bisogno d’amore che viene ricercato dai personaggi e alla fine si inserisce il tema del perdono.
La metafora iniziale dei cavalli delle giostre, dove i cavalli vogliono liberarsi dal padrone delle giostre, così anche Letizia e Lorenzo cercano in tutto il romanzo di trovare quella strada, quella via di fuga che gli permetta di liberarsi dalle catene del passato e di andare avanti liberamente.
Lo stile di Gentile si avvicina molto alla poesia, utilizza moltissimo le frasi brevi e sovente le ripete oppure viene ripetuto l’inizio della frase come a rimarcare e a rinforzare il concetto che vuole esprimere.
Molti passaggi del libro mi sono rimasti impressi grazie sicuramente alla scrittura brillante dell’autore e alla sua bravura nel descrivere le situazioni, le emozioni e lo fa spesso utilizzando anafore e metafore.
Il libro ha di per se una morale o meglio vuol far trapelare un messaggio che c’è di fondo in tutta la storia, la vita cambia in un attimo ma” forse di tempo c’è ne ancora per rimediare agli sbagli e al dolore procurato. E se c’è non si può sprecare.” E poi ancora che “non siamo nulla se non ci prendiamo cura di qualcuno”, che ci sia un fratello, un genitore, un amico o qualsiasi persona che se è in difficoltà va ascoltata,capita e seguita nel suo percorso.
Consiglio questo romanzo a tutti quelli che vogliono leggere qualcosa di diverso, che si vogliono mettere in gioco, misurarsi con un genere originale e a chi vuole lasciarsi trasportare dalle emozioni.
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Le origini del mito?
Prequel de "Le cronache del ghiaccio e del fuoco" , il nuovissimo libro del genio George R.R.Martin è un testo che ho atteso per tanto tempo e quando la redazione mi ha proposto di recensirlo, sono stata assolutamente entusiasta di avere questa possibilità.
La prima cosa che devo premettere è che, pur trattandosi di un prequel, sappiate che non ritroverete nessuno dei personaggi resi famosi dalla saga martiniana: niente Tyrion e il suo sarcasmo (ahimè), niente Cersei e Jaime, nè Barriera, nè la mia adorata khaleesi..niente di niente.
In effetti l'unico motivo per cui potrebbe essere considerato un prequel è perchè l'epoca descritta nel libro ci conduce al periodo storico in cui i Targaryen sono ancora nel fiore del potere, pur non essendoci draghi in giro a sputare fuoco. Ovviamente alcuni nomi di lord vi suoneranno familiari (attenti a quell'infame di Frey), e le città che i due protagonisti toccheranno sono quelle che conosciamo.
La storia dunque descrive il viaggio itinerante di Dunk, cavaliere errante un pò bonaccione, e del suo specialissimo scudiero, la cui vera identità (purtroppo svelata troppo presto) riserverà qualche sorpresa. Tra tornei, spacconate, fughe e battute di spirito, i due, così diversi eppure in qualche modo sinceramente legati da una vera amicizia, ci porteranno di nuovo nei Sette Regni, facendoci rivivere quelle ambientazioni tanto care.
Devo dire due parole su questo punto, perché mi aspettavo un romanzo diverso: non dico che, come prequel, il tempo dovesse portarci indietro di dieci o vent'anni prima degli avvenimenti narrati ne "Il trono di spade", ma forse il nastro si è riavvolto troppo nel passato, in quanto la storia di questo volume non tocca alcuno dei personaggi che conosciamo bene.
E' pur vero che vengono chiariti alcuni punti, come le discendenze e la suddivisione del territorio, ma nulla che faccia dire "ah!questo fatto è proprio curioso!", oppure "questo particolare è prezioso per il seguito".
Non saprei, ma mi da l'impressione di un romanzo slegato, a sé stante, quindi non so fino a che punto considerarlo un prequel vero e proprio.
Detto questo, non può non essere letto se siete dei veri fan di Martin, e pur non essendo assolutamente brillante, graffiante e sexy come la saga successiva, deve essere un tassello da aggiungere al puzzle.
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La Belgrado di Deki
Nel quartiere 62esimo nord della nuova Belgrado,
cubi di cemento, immobili come statue millenarie, occupano i cortili polverosi all'ombra dei palazzi.
È qui che il dodicenne Deki e i suoi amici si affacciano alla vita.
Sotto i loro occhi si snoda la Belgrado decadente di fine regime totalitario (quello di Tito), complicata dalle differenze etnico/religiose e dalle rivalità di quartiere che, talvolta, sfociano in violenza.
Belgrado, quindi, osservata attraverso gli occhi di un bambino che pian piano diventa adolescente.
Una città che cambia con lui e si avvia ad un lento rinnovamento pur restando, in apparenza, ferma nella sua sobria arretratezza.
Ci afferriamo ai ricordi di Deki, alle sensazioni, ai sentimenti che lo turbano e alle pulsioni che lo dominano; ne conosciamo gli amici con le loro storie, la famiglia con i suoi punti deboli e condividiamo con lui una quotidianità scandita dalla scuola, dall'attrazione per le ragazze (di cui Ivana resta regina incontrastata) e dalla voglia impetuosa di crescere.
E poi, arriva l'atteso trasferimento in Italia.
Trascorrono tre anni.
Il ritorno a Belgrado per le vacanze, ha un gusto amaro.
Quel campetto da calcio che appariva enorme a dodici anni, improvvisamente è solo un minuscolo quadrato di cemento adibito a parcheggio e diventa simbolo del cambiamento della città e della gente che la vive.
Ma è un cambiamento reale o è tutto nella testa di Deki che guarda con altri occhi?
No. Il cambiamento è reale e, portarlo alla luce, fa male.
Romanzo d'esordio per Nikola Savic, vincitore del discusso (e discutibile, aggiungerei) talent show Masterpiece andato in onda su Rai 3, che lo ha incoronato "scrittore esordiente di talento".
È un romanzo autobiografico, dove l'autore racconta un pezzo di vita trascorsa in Serbia prima del definitivo trasferimento in Italia, in provincia di Venezia.
È un romanzo privo di estetismi stilistici, asciutto, diretto e anche un po' sfrontato. Le storie narrate sono storie di cuore che si avvertono sulla pelle; raccontano la formazione, la ricerca della propria identità in un contesto difficile vissuto, però, da privilegiato. L'amicizia è valorizzata così come l'orgoglio di appartenere ad una data realtà.
Il cuore pulsa in ogni riga; c'è un velo di malinconia e odori che acquisiscono una loro importanza e un loro contesto preciso. In contrapposizione, c'è uno sfondo storico/politico poco approfondito; esso filtra come un raggio di luce attraverso una tapparella ma la sua influenza resta costante dalla prima all'ultima riga.
Non siamo di fronte ad un romanzo che sprigiona un fascino particolare ma, cattura attenzione, così, semplicemente, senza scossoni.
Al termine del romanzo c'è una bella postfazione di Andrea De Carlo, di cui consiglio la lettura all'inizio, prima di immergersi nel romanzo. Così facendo ci si accosta alla storia con meno scetticismo e con sentimento di scoperta. Una storia da leggere e ricordare con tenerezza.
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Valchirie di carne, Valhalla di carta
Uno strano e criptico incontro quello avvenuto con l’ultimo nato in casa Lethem, autore finora non frequentato dal sottoscritto e destinato a trovare un oblìo non meglio identificato all’interno della massa informe dei volumi con cui divido l’esistenza. Monsieur Lapalisse arrossirebbe di fronte ad una preventiva considerazione tanto facile quanto poco illuminante: siamo di fronte all’America, e con essa siamo di fronte ai suoi retaggi letterari più consueti e, francamente, più triti. Ciò che risulta chiaro fin da subito è la netta collocazione di questo romanzo all’interno della più compiuta tradizione della letteratura newyorchese/nordamericana, quella dei veterani sotto le insegne di DeLillo e quella seguente del Delfino, Johnatan Franzen (newyorchese solo d’adozione). Stile e modus operandi sono tipici di questo novecentesco folklore, tutti i crismi sono al loro posto e non vi è nulla a livello linguistico che possa considerarsi estraneo allo standard stellestriscie. Lessico forbito e tagliente. Frecce appuntite di nazionalistica autocritica sibilano negli interstizi del sarcasmo e della sdrammatizzazione. Una piccola dose di nobiltà di pensiero, qualche spoglia filosofica ammantata nel cinismo dei personaggi, lievito, vanillina, 180° per 45 minuti. Tutto può essere banalizzato, naturalmente, e ridotto ai minimi termini. Ma è altrettanto naturale l’inquadramento all’interno di una griglia di topoi, in cui l’abilità e la sensibilità narrativa non risiedono, a parer mio, nel loro sconvolgimento o nella loro negazione, ma nell’inventiva e nell’acume con cui possono essere combinati per creare qualcosa di sempre nuovo. Se la chimica ci insegna che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, allora forse è altrettanto vero che il cliché va tollerato nella misura in cui è immagine, èikon, di una reinterpretazione di se stesso verso un fine, telos agognato, che è quello dell’originalità, della distinzione e dei palmizi oscillanti.
Per entrare ora nello specifico ed esaminare uno dei sovracitati topoi che tanto caratterizzano i giovani virgulti del panorama letterario, è impossibile astenersi da un apprezzamento sincero per la fortunata gestione e caratterizzazione dei personaggi. Ne “I giardini dei dissidenti” avviene ciò che dovrebbe sempre avvenire, a parer mio, in ogni denso prodotto cartaceo che si rispetti. I figuranti che occupano la scena hanno da dire qualcosa, hanno da mostrare, hanno da pensare e da dimostrare di saperlo fare. Non si fanno pregare e non sono avari, né tanto meno timidi. Rose Angrush Zimmer e la figlia Miriam sono, nel senso più calzante del termine, due primedonne. Sono loro, fulgide virago dei due versanti del Novecento, che attraggono tutti i fari della nostra attenzione. Loro, le valchirie che cavalcano l’esistenza come Europa in groppa al toro. E loro, questo toro libidinoso lo tengono per le corna, per nulla intimorite. Rose, privata di un marito mandato in esilio dal proprio partito, è la potenza, l’inflessibilità caratteriale portata alle estreme conseguenze. Una non-madre, comunista impegnata, ipocrita, contraddittoria, erudita e granitica. Mille aggettivi per un personaggio che merita e che si colloca a metà tra l’erona sofoclea, l’attivista disinibita immolata al più sfrenato sciovinismo e la madre superiora di un circolo di atei. E come lei Miriam. Come lei sprezzante e tremendamente, incorreggibilmente, imperdonabilmente, snobisticamente newyorkese. Miriam che non si scompone se Rose, in uno dei propri parossistici, barocchi proseliti, le infila la testa nel forno. Miriam che fugge da casa per la salvaguardia della propria condizione psichica e si ritrova a vivere appieno quei lustri di struggente libertà e lirismo che furono gli anni ’60. E allora, noi con lei, frughiamo McDougal Street e la Bowery alla ricerca di cugini impegnati in rivoluzioni, numismatica e scacchistica, facciamo conoscenza di un grasso ragazzino di colore tanto disilluso da capire di non doverlo essere affatto, che in un altro tempo sarà l’illuminato professore che racconterà la storia di Rose e Miriam al figlio di quest’ultima, nato dall’amore condiviso con il “chitarrista” Tommy Gogan.
Un mosaico in cui le tessere coincidono, sebbene disposte in squarci temporali che riassumono i passaggi salienti della storia americana recente. Ma la miscela di ingredienti che compone la malta, il legante di queste tessere, è troppo liquida e non fa presa. Si pretende di tenere tutto insieme ad incastro, a secco, in un contesto che rimane di carta e non di immagini. New York, per quanto mi riguarda, è assente in queste pagine scritte da Lethem. Rimane fatta di parole. La luce e lo spettro ottico che genera le immagini resta cieco e sordo, e una città che rappresenta un microcosmo resta un assembramento linguistico e verboso di strade, vie, quartieri, boulevard senza spessore, senza alcuna proiezione verosimile nella mente di chi a New York non ha mai messo piede. In questo senso credo che possa essere considerato un romanzo fortemente autoreferenziale, dedicato ad una limitata, ahinoi, quantità di lettori che sono i soli a poter godere appieno di tutto quello che viene passato sotto silenzio, che viene dato per scontato e risaputo di un mondo a sé stante con cui non tutti hanno familiarità. In un rapporto inversamente proporzionale, la munificenza con cui i personaggi donano sè stessi a nostro beneficio è guastata dalla cupidigia con cui si dà, o non si dà, la città che non dorme mai. In definitiva, troppo Sheeler e troppo poco Ruscha. Una Beat Generation bypassata senza quasi sfiorarla. Un tentativo di evitare la maniera, la peste di ogni artista che voglia definirsi tale, che, a parer mio, sfocia in un successo pallido e privo invece di quegli aspetti della poetica statunitense che, sebbene meno pregnanti a livello politico, sono stati fondanti nella formazione della classe intellettuale del Nuovo Continente. Forse, e qui si va nel puro contesto ipotetico, una piccola pecca di presunzione nel tentativo di mostrare l’abilità con cui i personaggi, se ben costruiti, non necessitino di una ribalta per essere credibili e inerenti ad un contesto. Non spetta a me la parola decisiva. Eccettuando gli scrittori di alto lignaggio, mi ritrovo invece ad essere della “scuola del contesto”, il quale, se altrettanto ben costruito, è capace di dare frutti parimenti nettarini.
Tirando le somme, siamo senza dubbio di fronte ad un romanzo sostanzialmente godibile, che pecca però di anemia e che rimane troppo poco verace da intaccare con risolutezza quella pellicola di distacco, critico e visuale, tra il lettore e l’autore. Un romanzo che non merita né bocciatura né indifferenza, ma che, invece di valorizzare sé stesso, conferma inesorabilmente, almeno per il sottoscritto, la superiorità totale di altri più pregiati prodotti di quella medesima scuola del narrare formatasi oltreoceano. E se il confronto non rientra nelle ortodossie dell’opinabilità, e mi esimo dal citazionismo per evitare il tedio (FranzenFranzenFranzen), definirei senza dubbio soddisfacente la condizione di aporia che mi porta a non dover bombardare il mio Olimpo e allo stesso tempo a metterlo in allarme. I nembi oscuri di Lethem si addensano in un orizzonte futuro, ipotetici ambasciatori di uno scroscio potente.
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Cento giorni sul comò: una strana vita normale
Pino Tossici, sportivo, bancario ,questo e altro ancora si occupa da tempo di scrittura di sè intesa anche come aiuto psicoanalitico: riversare la propria vita, i propri ricordi su carta o su file può essere una catartica seduta di psicanalisi utile a comprendersi e di conseguenza a comprendere.
Cento giorni sul comò è un risultato dei suoi interessi scientific: si tratta infatti di una autobiografia dell'autore molto particolare ed ironica incentrata sì sul protagonista ovvero lo scrivente ma anche sui comprimari principali senza i quali l'autore non potrebbe raccontarsi: i suoi genitori.
In Tristam Shandy , uno dei più originali romanzi o antiromanzi della fine del XVIII secolo, Lawrence Sterne occupa molte pagine del libro scrivendo dei genitori di Tristam e del suo concepimento ( in termini assolutamente casti e ironici), altresì Tossici tratta dell'incontro e del successivo matrimonio dei genitori imparzialmente e ironicamente.
Personaggi originali mamma e papà Tossici: lui forse un tantino dimesso, tipico travet venuto fuori dal niente, lei coltissima e sempre inadeguata forse perché un tantino avanti rispetto ai tempi per questo sempre petulante, depressa, sempre attenta a riversare sulla sua famiglia le sue inadeguatezze e i suoi malesseri interiori.
Il protagonista prima Peppino, poi Pino, minuto, scanzonato, lettore instancabile non è al primo posto nella narrazione. L'autore quando parla di sè quasi si sdoppia e questo accresce senz'altro la base ironica di tutta la narrazione.
Divertente e scorrevole nei capitoli che parlano della famiglia e dell'autore da bambino e da adolescente , il libro diventa però affrettato e un tantino didascalico nei capitoli finali dando quasi l'impressione di non aver voluto soffermarsi troppo sugli episodi più recenti forse perché non sufficientemente metabolizzati. Lettura in ogni caso interessante che contribuisce a farsi l'idea come la vita di ognuno sia al tempo stesso straordinaria e normale.
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La storia secondo Wu Ming
Il collettivo Wu Ming colpisce ancora, pubblicando un romanzo articolato, complesso, polifonico.
Si tratta de “ L'armata dei sonnambuli”, l'ennesima riscrittura della storia in cui eccelle il gruppo di autori bolognesi.
Il romanzo è deliberatamente strutturato come un lungo copione teatrale, capace di mettere in scena
tanti attori, tante maschere, tanti volti catturati dalle cronache dell'epoca, uomini politici, re e regine, monarchici, patrioti, sanculotti, malfattori, cortigiane; il grande teatro è la Francia post rivoluzione intorno agli anni 1792.
I Wu Ming sono abili penne nel raccontare la storia passata utilizzando materiali dell'epoca e riempendoli di vita e movimento, di pensieri ed azioni, rendendo gli eventi palpitanti davanti agli occhi del lettore. La Storia perde il manto polveroso, abbandona la staticità in cui il tempo l'ha relegata, per divenire vitale, per tornare in auge, per assumere i connotati di una grande allegoria.
Il periodo storico che ispira il romanzo è tra i più ferventi; anni di lotte, di fazioni, di intrighi politici, di terremoti sociali.
Un periodo che si presta a divenire palcoscenico; si incastrano come scatole cinesi immagini legate alla Rivoluzione dove gli uomini combattono per strada e nelle piazze, immagini di internati psichiatrici utilizzati come cavie per i nuovi esperimenti in campo medico che prevedono l'utilizzo dell'ipnosi, immagini di compagnie teatrali, immagini d corpi straziati dalla lama della ghigliottina.
Una galleria sfaccettata di uomini, un'orda affamata di pane e diritti, una masnada di furfanti e poveretti, una vera e propria armata di uomini la cui mente viene controllata con nuove tecniche scientifiche per scopi abietti e di opportunismo politico e sociale.
Una rivoluzione scissa in tante rivoluzioni, ciascun personaggio combatte la propria; chi cerca la giustizia, chi il pane, chi la libertà, chi la sopraffazione, chi la vittoria.
Lo spaccato offerto dagli autori è un groviglio incandescente, è un coro di voci che grida, è la Storia che si mescola ad un pizzico di fantasia, è il passato raccontato dai protagonisti.
E' un lavoro dall'impianto poderoso, costruito su solide basi storiche e documentali, nulla è lasciato al caso ma tutto confluisce verso il filo conduttore, verso il significato che gli autori vogliono attribuire alla gigantesca rappresentazione; la storia di ieri che si rispecchia in quella successiva e odierna.
Il linguaggio è scoppiettante, ribolle di termini gergali, turpiloqui, si adatta perfettamente al clima e al pathos della narrazione divenendo concitato e febbricitante.
Wu Ming non offre una lettura agevole, per la moltitudine dei personaggi, per le citazioni riportate, per la concatenazione degli eventi; eppure questo ultimo romanzo è una avventura che va vissuta fino all'ultimo rigo per poterne cogliere appieno l'essenza ed il messaggio.
Si accomodi il lettore in platea e si accinga ad essere catapultato per le strade di Parigi, affollate, imbrattate di sangue, brulicanti di vita; crocevia di amara realtà e sogno di speranza.
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Altai
Racconti horror
L’autore è affetto dalla sindrome di Behcet.
Prima di essere affetto da questa patologia pensava di sfondare nel mondo lavorativo come ingegnere, ma non è stato così.
Questa sindrome lo ha avvicinato al mondo della scrittura e questo è il suo libro d’esordio.
Sicuramente per lo scrittore non è stato semplice iniziare a scrivere perché oltre al malessere fisico si era sommato anche quello psicologico.
Questa sindrome prova all’autore stanchezza cronica, febbre, spossatezza, afte, artriti ed altri vari sintomi.
Passiamo al libro.
È composto da sette racconti dell’orrore scritti molto bene, ma che sinceramente non mi hanno fatto impazzire.
C’è la suspense, l’angoscia, ma non sono riusciti a farmi godere appieno il libro.
Quello che è riuscito a scuotermi più interesse è stato sicuramente il primo, che si intitola “I Mendicanti di Breslavia”. Il quale parla di una donna bellissima e con uno spiccato senso per la carriera che si ritrova a dover prenotare un viaggio importante, ma la sua agenzia di fiducia non la può aiutare allora decide di entrare in un’agenzia di viaggi mai vista prima. Questo posto le metterà i brividi, ma non sarà qui che succederà il fattaccio bensì all’interno del treno che ha prenotato.
L’ambientazione del treno è riuscita a scaturire in me un po’ di panico probabilmente perché è un mezzo che uso spesso e se è troppo vuoto ci fa nascere un senso di paura insana.
Che dire?
Non posso dire che sia uno dei libri migliori che io abbia letto, ma neanche non voglio denigrarlo completamente. Le storie come dicevo prima non mi hanno pienamente sconvolto, ma è un romanzo d’esordio non si può pretendere la luna.
Buona lettura!
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Me ne vado per un po'
C'e' un piccolo quadro nato nel '600 custodito a New York, raffigura un cardellino domestico, un uccellino legato da una catenella. Prigioniero del rumore, degli odori e dei malumori degli abitanti di un'anonima casa dai muri gialli, ti osserva guardandoti negli occhi. Le piume morbide, nessuna vilta' in quella testolina alta . Guarda proprio te che lo stai osservando , tu che forse sei piu' prigioniero di lui e come lui ti affanni a muovere le ali, senza mai alzarti verso il cielo.
Anche Theo vive a New York, finche' durante una visita al museo con l'amata mamma un attacco terroristico gliela strappa per sempre.
Ed ecco il nuovo Theo, la sopravvivenza di un tredicenne solo al mondo. Come quell'uccellino Theo legato alla vita da una catena sottile, che nonostante i vizi e le tendenze autodistruttive che lo segneranno da adolescente prima, da adulto poi, resta qui. In questo posto maledetto che gli ha tolto tutto eppure non lo ha privato di scintille che lo hanno scaldato anche nei momenti piu' bui. Un amico, un grande, silenzioso amore. L'affetto di un uomo che lo amera' come un figlio, la passione per l'arte e l'immortalita' delle cose belle.
IL CARDELLINO e' un romanzo corposo di novecento pagine, ma la narrativa di Donna Tartt e' talmente limpida, scorrevole ed amabile da rendere la lettura estremamente veloce e piacevole.
Dilata il tempo l'autrice, le descrizioni di luoghi e sentimenti sono tanto intense che se il tempo dilatato e' quello nella storia, inevitabilmente si dilata anche il tuo tempo, affondato nel racconto di un piccolo, disperato outsider.
Questo almeno a me e' successo nelle prime settecento pagine, amando il libro riga dopo riga, incrociando le dita perche' continuasse cosi' fino alla fine. E invece no. Il clima drammatico e fortemente problematico narrato con una penna cosi' delicata e suadente di colpo subisce una frenata e la fiction tipicamente americana irrompe e non risparmia nemmeno la signora Tartt.
I capitoli che seguono -seppur coerenti con la storia- si trasformano in una sorta di thriller in bilico su un filo spinato, Al Capone da un lembo e Bruce Lee dall'altro a dondolare una trama in picchi assordanti ( verso il basso ).
Peccato che peccato, avrei voluto scrivere il meglio e dare il massimo dei voti, assuefatta come ero alla malinconia di un ragazzino solo e dannatamente triste, una canzone di angeli e perle, il potere di un'opera d'arte e la magia di un uomo che resuscita un antico comò.
Un libro molto bello, una compagnia incantevole nonostante tratti di emarginazione e ragazzini allo sbando, il lungo canto di un violino solista con qualche brutta e inspiegabile stonatura sul finale.
Un poco arrabbiata, vi auguro buona lettura e' comunque molto bello viverlo, finche' dura.
Come Theo, come un uccellino di un quadro inestimabile essere liberi di essere felici, anche solo per un poco.
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Yoshe Kalb di I.J.Singer
Yoshe Kalb di I.J.Singer, pubblicato a puntate in yiddish sul “Jewish Daily Forward” di New York di cui l’autore era corrispondente da Varsavia, ebbe subito un grande successo. Divenne in seguito un’opera teatrale e un romanzo in lingua inglese dal titolo The sinner. Le vicende narrate furono ispirate da fatti realmente accaduti, rielaborati in chiave romanzesca e i personaggi sono esponenti della comunità ebraica dei chassidi, residenti nella Galizia, quella regione che nel periodo storico appena precedente alla prima guerra mondiale era parte dell’impero austroungarico.
La prima parte del romanzo si concentra sul personaggio del Rabbi Melech, sul suo desiderio di contrarre nuove nozze con una giovane adolescente, pur essendo rimasto vedovo già tre volte. Non potendo tuttavia sposarsi prima che la figlia più giovane non abbia ella stessa preso marito, il Rabbi organizza le nozze della figlia Serele con il giovanissimo Nahum, e quindi, incurante dell’opinione che vuole di pessimo auspicio un nuovo sposalizio dopo tre spose defunte, si unisce in matrimonio con Malka.
In queste pagine colpisce la sudditanza della figura femminile, priva di qualsiasi libertà di scelta e di autonomia di giudizio. Serele, che pure nutre un sentimento d’amore per il giovane marito, Nahum, delicato intellettuale dedito allo studio della Qabbalah e della Legge, si vede respinta e tace con remissività subendo umiliazioni continue. Malka, oggetto del desiderio del lascivo Rabbi, si innamora perdutamente di Nahum, da lui ricambiata, e cerca di sfuggire alla sua sorte. Il peccaminoso rapporto consumato dai due amanti sarà la causa delle successive disgrazie. Morta Malka, nel vano tentativo di dare alla luce un figlio, Nahum si allontana di notte e iniziano così le sue peregrinazioni.
Il vagabondare di Nahum, la sua perdita di identità, il suo perseverante studio dei salmi, fanno di lui un uomo apparentemente diverso. Giunge e si radica in una comunità che lo considera un “minus habens” e lo chiama Yoshe il tonto. Questa stessa comunità lo costringerà a sposare la figlia ritardata dello scaccino. Questo sarà l’evento che lo indurrà a fare ritorno al paese da cui era partito e a sottomettersi dunque a un duro processo.
Al di là della trama, a tratti avventurosa, il pregio del romanzo sta, a mio avviso, nell’atteggiamento critico dell’autore nei confronti di ogni integralismo. Non si può fare a meno di notare infatti la sottile ironia con cui l’autore descrive sia le rigorose abitudini della comunità chassidim nel vestire, nel curare i cernecchi, nell’obbligare le spose a rasarsi il capo, sia l’esasperato rispetto della Legge, interpretata peraltro spesso in modo arbitrario.
Questo sembra essere il messaggio più forte: ogni religione, sia essa cristiana, islamica o ebraica, se interpretata secondo un rigore esasperato, se sfocia in un integralismo che cancella ogni elasticità di pensiero, può degenerare nella violenza più assurda. E Singer descrive con tratti estremamente realistici il tentativo di linciaggio della giovane Zivyah.
La figura di Nahum/Yosha è esemplare nel suo rifiuto di dichiarare la sua identità. Egli è Nahum e Yosha, ma nello stesso tempo non lo è. Alla domanda :”Chi sei?” egli risponde: “Non lo so.”
La sua meditata e voluta perdita di identità sarà il motivo fondamentale che lo spingerà ancora una volta, ebreo errante, ad allontanarsi in cerca d’una patria che lo accolga, una patria a dimensione d’uomo dove la Legge sia una guida e non una minaccia.
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Condannato a vivere, attratto dai disastri
Francesco Consiglio è l’autore di un originale romanzo “attaccaticcio” dal titolo LE MOLECOLE AFFETTUOSE DEL LECCA LECCA. Lo stile è interessante poiché riesce ad essere, allo stesso tempo, spensierato, esilarante ed erotico. Il sesso è la componente fondamentale di questo romanzo, che si legge attivamente come se si assistesse ad uno spettacolo di cabaret.
Il protagonista Francesco Pesce, meglio conosciuto come Ciccio, omonimo di un boss della ‘ndrangheta, ma di tutt’altro temperamento, è un adolescente timido e problematico, un’autentica calamita per i disastri che gli piovono addosso a fasi alterne. Entrare nel suo mondo porta il lettore a riflettere sulle esperienze, anche banali, della vita che, prima o poi, giungono a fare i conti con la sessualità e quella di Ciccio Pesce è davvero movimentata e surreale.
Il romanzo, raccontato con un punto di vista adulto, di conseguenza ormai consapevole dell’esito finale di determinate scelte giovanili, affronta il passaggio dalla pubertà all’adolescenza di Ciccio, ossia va dai 12 ai 16 anni del protagonista. Oltre a lui il lettore impara a conoscere i suoi due asfissianti genitori che lo credono afflitto da una malattia mentale rara, la sindrome di Asperger.
L’adolescenza di Ciccio è caratterizzata da esperienze amorose più o meno felici. Un po’ come accade a tutti. Ma la sua è davvero particolare. Nella sua storia personale ci sono quattro ragazze. L’unico dettaglio rilevante, che le accomuna, è che fin dalle prime pagine il lettore apprende che entro il termine, di questo romanzo breve, saranno tutte morte in circostante non propriamente chiare.
E così che nella vita di Ciccio viene giustificata anche la presenza di poliziotti e carabinieri che gli girano attorno senza che lui riesca a spiegarsene il motivo.
C’è poi anche uno zio erotomane con l’ossessione di entrare nel Guinness Book of Sexual Records. Un individuo che Ciccio, nella sua importante fase di formazione, percepisce come imbarazzante ed eccessiva.
Infine, ma non meno importante, nella sua vita c’è pure una francesina sexy di nome Miou, l’unica che resta una presenza dominante nelle sue esperienze di crescita. Unico elemento inquietante di Miou è che lei è un’amica immaginaria, invisibile agli occhi degli altri, che occupa la testa di Ciccio, senza che ci sia modo di sfrattarla.
Come nella vita di ogni adolescente, in quella di Ciccio Pesce si trova di tutto e il romanzo a lui dedicato è una lettura per adulti interessante, originale e un tantino folle, dove sicuramente non ci si annoia.
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Un libro dalla trama occultata
La vita per Celeste sembra procedere tranquillamente, Hacker solitaria, tra un click e l’altro si trova davanti ad un’opportunità che le darà modo di fare soldi a palate. Serve solo qualcuno da incastrare; qualcuno con pochi scrupoli, che si prenda l’impegno di sconvolgere la vita di Bianca del Prado, attrice capitolata, che cerca un modo per cavalcare nuovamente la cresta dell’onda. La risposta alle sue domande sembra essere proprio Vitaliano, aspirante modello e deejay, con un quoziente intellettivo molto discutibile. Ma può andare tutto liscio come hanno programmato? Cos’hanno in comune, in realtà, Celeste e Tano Cannuccia, mafioso coinvolto in loschi traffici di droga e prostituzione? Quale sfortunata serie di eventi darà modo ai due di incrociare le loro vite? Una storia ai limiti del paradosso, alimentata da sfortunate circostanze che daranno il via ad una staffetta di imprevisti. Molte vite verranno sconvolte, per la fame di successo di Celeste e Vitaliano, e sono in molti a giurar loro vendetta.
Questo libro inizialmente non ha attirato molto la mia attenzione. La trama descritta nella quarta di copertina non mi ha invogliata particolarmente ad intraprendere questa lettura, ma avevo come l’impressione che questo libro celasse qualcosa di più. La cosa che mi ha lasciata un po’ interdetta è stata che il libro, in realtà, sia meglio di come viene descritto nella trama. Ci sono dei particolari che personalmente avrei sviluppato di più, non correndo comunque il rischio di fare spoiler. Il libro contiene una parte dedicata all’autolesionismo e una parte dedicata alla prostituzione, argomenti che avrei voluto vedere più “spiegati” anche nella quarta di copertina, proprio perché invogliano il lettore a saperne di più.. secondo me il problema è stato principalmente questo, mancano le parole chiave! La stessa cosa avviene nella copertina, in cui spiccano parole quasi futili con il contesto del libro, e che non spingono il lettore ad incuriosirsi. Secondo me inserire alcune parole più “sfacciate” non avrebbero dato un idea forviante della storia in se, ma anzi, avrebbero incuriosito il lettore, trovandosi poi di fronte ad argomenti che giocano,in realtà, una parte importante all’interno della storia. La lettura è scorrevole, semplice ed impeccabile allo stesso tempo. Le descrizioni sono ben articolate e danno al lettore l’impressione di trovarsi all’interno della storia, prima nella camera di Celeste e poi al ristorante in compagnia di Tano Cannuccia, mafioso senza scrupoli. Il personaggio di Celeste inizialmente mi è piaciuto molto, ma poi la mia simpatia per lei ha lasciato spazio al fastidio, per come prende in giro Vitaliano, ragazzo ignorante che viene in qualche modo “manipolato”. Ho provato pena per lui, e ad essere sincera il finale mi ha lasciato l’amaro in bocca. Mi è piaciuto com’è stata “strutturata” l’ultima parte (tranquilli, nessuno spoiler!) , ma personalmente, avrei preferito un finale diverso. Per concludere, ci sono molti ma e molti se.. mi è piaciuto, ma non mi ha soddisfatta pienamente! La storia c’era, l’idea pure, ma andava forse articolata meglio, dando più spazio ad argomenti che svolgono purtroppo una parte troppo marginale all’interno della storia. Il libro “nasconde” anche una parte leggermente thriller, ma appunto, la nasconde! Non viene accentuata, e questo è un peccato.
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“Quei ragazzi terribili”
“E consentitemi di chiarire bene anche un’altra cosa: non sto parlando solo dei diritti dei feti. Sto parlando anche dei microscopici embrioni. Se in questo paese c’è un gruppo davvero ‘svantaggiato’, nel senso che è assolutamente privo di voce e rappresentanza nel nostro governo nazionale, non si tratta dei neri o dei portoricani o degli hippy o di chicchessia, tutta gente che ha i propri portavoce, ma di quelle creature infinitesimali laggiù nella placenta”.
Cinico, irriverente, sardonico, se non addirittura istrionico, ma allo stesso tempo duro e spietato nei confronti dell’entourage politico e dei mass media. Ecco come appare il romanzo-pamphlet di Philip Roth dall’irriguardoso titolo “La nostra gang”. Un titolo volutamente offensivo, quello creato dal celebre autore statunitense, che ben sintetizza la trama del suo racconto, liberamente ispirato alla figura del presidente Richard Nixon e a quella dei suoi principali collaboratori.
Uno scritto suggerito a Roth dal discorso tenuto da Nixon a San Clemente - che nel romanzo diventa San Dementia - nell’aprile del 1971, in cui si parla di aborto. Roth ne cita all’inizio un “inciso”: “L'aborto è una forma inaccettabile di controllo della popolazione.” Nixon mette poi in evidenza la santità della vita umana, il che implica la vita dei “non nati” e i loro diritti. Da questi concetti il romanziere trae l’occasione per creare una fotografia satirica, a tratti surreale, dell’allora agone politico. E sarà lo stesso Richard Nixon, sotto le spoglie di Tricky Dixon - Tricky è stato in effetti un appellativo affibbiato al Presidente americano -, il protagonista indiscusso di una manciata di capitoli, concepiti perlopiù sotto forma di dialoghi e monologhi. Capitoli che anticipano profeticamente - in particolar modo quello dedicato ad una sorta di “riunione di consiglio” tra gli intimi del Presidente - le intercettazioni rese note pochi anni dopo.
Roth parte quindi dai diritti dei “non nati” per far sviluppare a Dixon un discorso che lo porterà a concludere che anche i “non nati” hanno il diritto al voto in un’America davvero democratica - un voto che non dispiace affatto al protagonista del romanzo, visto che è a metà del suo primo mandato. Un comizio nel quale lo scrittore mette in mostra tutta la retorica di Dixon, la sua doppiezza, ma soprattutto la sua indiscussa capacità di dire tutto e il contrario di tutto, pur di trarne un profitto personale. Questa retorica fa da filo conduttore a tutto il libro, amplificandone il significato a livelli davvero parossistici, quando applicati a fini “criminali” dall’entourage presidenziale. Si assiste così ad un consiglio di Stato segreto, dagli aspetti davvero esilaranti e surreali - tenuto da Dixon in uno spogliatoio all’interno della Casa Bianca - in cui sia il Presidente che i suoi collaboratori indossano la divisa di una formazione di football americano per predisporre un piano contro i Boy Scout, rei di avere “diffamato” il Presidente, e finalizzato a creare un falso complotto contro di lui. Si assisterà poi alla preparazione e alla realizzazione, sempre da parte di Dixon e dei suoi accoliti, di un conflitto atomico contro la Danimarca, accusata di essere uno stato “pornografico”. Fino a giungere all’evento clou del romanzo: lo scombiccherato assassinio del Presidente e i “salti mortali” sostenuti dagli addetti della Casa Bianca per negarne la morte prima e per sostenerne in seguito il decesso per mano di un misterioso omicida, facendo di Dixon un eroe e un martire. Un eroe che, una volta giunto negli inferi, avrà ancora da ridire contro lo stesso Satana in un monologo che è la “summa” di tutta la retorica nixoniana. Non per niente Roth redige quest’ultimo lungo discorso “infernale” facendo buon uso di quello tenuto da Nixon nel famoso dibattito televisivo del 1960, che lo vedeva confrontarsi in diretta con John F. Kennedy.
Un libro degno di essere posto all’interno del filone satirico che comprende illustri precursori, quali Swift e Orwell. Uno scritto da leggere e rileggere più volte, tante sono le considerazioni che se ne possono trarre. Ad iniziare dall’ampollosità dei politici di ieri come di oggi e dalla loro capacità di ribaltare qualsiasi discorso e/o situazione a loro favore, facendo comunque credere alle masse di sacrificarsi sempre ed esclusivamente per loro.
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Gemelli astrali
Giallo italiano dalla copertina nera come la pece, su cui sono riportati schizzi rappresentanti temi astrali, tratteggiati di bianco, come se fossero disegnati con il gesso su una lavagna. In ogni capitolo conosciamo un personaggio, in uno dei primi addirittura scopriamo Federica, che sarà la vittima dell’omicidio, fatto centrale del libro, perché è proprio Federica che viene ritrovata bendata, con mani e piedi legati. Le piste che vengono percorse per risolvere questo giallo divergono, ma sono i temi astrali i co-protagonisti di questa vicenda, in cui la verità viene svelata proprio grazie ad essi ed all’intuito di Tina, l’amica della vittima, che è il mio personaggio preferito, perché è un personaggio insolito e buono. Originale la storia, dove intuito ed esperienza sono fusi insieme in modo armonioso. Buono anche lo stile, farcito di occasionali espressioni dialettali che rendono ancora più piacevole la lettura.
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Vota MPD
Questo romanzo stranissimo è organizzato in modo da sembrare quasi una campagna elettorale, con tanto di interviste, volantini, mail, intercettazioni telefoniche ognuna delle quali è in realtà un reperto della polizia preso dopo l'avvenimento che chiude il libro e lo chiude nel modo giusto dato che stiamo parlando di un movimento politico chiamato "Movimento per la disperazione".
L'idea del libro è molto suggestiva e mi ha intrigato subito parecchio. In realtà il contenuto del testo mi ha un po' deluso. Pensavo di trovare un testo surreale, dell'ironia feroce contro il mondo politico di oggi. Un movimento politico con proposte indecenti e con un programma che schiaffeggiasse i nostri attuali movimenti politici. Forse sentivo anche l'esigenza di un libro così.
In realtà l'antagonista di Michele Rota, tale Pina Bettini sembra uscita dall'oltretomba. Una cattolica integralista di sinistra, si fa per dire dato il divorzio e la campagna a favore dell'aborto, che la rendono poco credibile in queste vesti.
Mettere in campo un esponente delle forze politiche tradizionali che si erge a difesa della famiglia e dei valori morali e cristiani (dico cristiani perchè la Bettini dal punto di vista dell'autore questo fa) fa morir dal ridere. La difesa della famiglia? E chi l'ha mai fatta in Italia se dal punto di vista anche solo fiscale sarebbe molto più conveniente non sposarsi!
A me sembra che l'ultima Bettini (una Bettini di tutto rispetto) sia stata ritrovata dentro il cofano di un'automobile. Dopo di che non credo che nessun partito politico si sia più interessato di valori cristiani se non per accalappiare i quattro gatti rimasti dentro le chiese. Abbiamo partiti di destra e di sinistra incapaci di una minima solidarietà sociale, solidarietà che è alla base non dell'etica cristiana ma della società laica e del consorzio umano.
In ogni caso l'MPD mette in discussione la necessità di sacrificare qualcosa alla società. Ognuno ha diritto alla felicità e deve dirlo senza ipocrisie. L'MPD sviscera un programma che tutti i nostri politici in cuor loro sottoscriverebbero all'istante ma che probabilmente per un bieco moralismo di ispirazione cattolica o sinistroide, non possono fare. Il tallone d'Achille del romanzo è la figura della Bettini e il fatto che il vero problema è che tutti quelli che ci governano sembrano segretamente iscritti alla loggia massonica dell'MPD (con la minima variante che la disperazione è quella degli elettori) per cui l'MPD si rivolge a un antagonista, la Bettini, che non esiste più da tempo sulla scena politica.
Nessuno vuole fare rinunce oggi per il futuro di domani che non sarà nostro.
I valori tradizionali (la famiglia) vengono posti in discussione con argomenti divertenti ma adolescenziali, come l'autore stesso riconosce in alcuni punti del romanzo. L'uomo per sua natura ha come suo massimo interesse alcuni aspetti anatomici della donna, ma poi a causa di questo suo interesse deve sorbirsi di avere a che fare con la relativa proprietaria delle parti anatomiche, se non ha la sfortuna boia di moltiplicarsi. Ne vale la pena? Meglio leggere con attenzione i suggerimenti di P. Roth prima di mettersi il cappio al collo. Non vedo in quale partito tradizionale l'autore veda ergersi il difensore della famiglia cristiana. Forse Papi and company? Mah!
Il movimento introduce il reato di apologia del dolore. Perchè vietare l'eutanasia a tutte quelle categorie: malati gravi, anziani disperati? La soluzione dell'eutanasia e della legalizzazione della prostituzione risolverebbe di fatto molti problemi dalla sanità, alle pensioni, all'aumento di posti di lavoro. Il programma politico del MPD sotto sotto sarebbe condiviso da tutti, anche se un certo moralismo questo sì di ispirazione cattolica impedisce ancora di adeguarsi alle esigenze del paese.
Riguardo ad altri campi, la tutela dell'ambiente ad esempio, perchè rinunciare a qualcosa per il futuro? Perchè preoccuparsi dell'ambiente se da qui alla fine del mondo e all'estinzione della specie saremo morti anche noi?
Credo che proporre un programma politico apparentemente "amorale" non sia così scioccante e sferzante data l'amoralità di fatto di chi ci governa che lo è molto, molto di più. Non c'è contrasto. L'approccio doveva essere diverso anche se non saprei dire come.
Andando avanti nel romanzo o meglio nella campagna elettorale viene snocciolato e identificato il problema di fondo che sta nell'infelicità contemporanea.
Un'infelicità che ha alla base fattori individuali e congiunturali e un grande, grandissimo senso di stanchezza.
Questa parte del libro in cui si arriva a parlare della stanchezza mi pare la migliore, la più meditata.
Da qui l'autore prende il tono giusto. Nella parte precedente mi pare che ci sia stata una polemica con i fantasmi. Ma dov'è questa Bettini nel nostro panorama politico? Dove sono i cattolici? Sono ovunque e da nessuna parte e soprattutto sono 4 gatti senza voce in capitolo su nulla.
Nella parte finale l'autore trova il tono giusto.
"La stanchezza che io sento nasce proprio dalla sensazione che non è tanto l'Italia quanto il mondo ad avere fatto dei passi indietro. E' devastante l'idea che ci siano popolazioni intere che rimettono in discussione determinati principi e che ciascuno di noi debba indossare l'elmetto per ricominciare a combattere per cose che dovrebbero essere perfettamente consolidate. ...... Forse l'errore è stato proprio questo, credere di essere arrivati. A pensarci bene, anche questo è un motivo di disperazione in più: l'impossibilità di fermarsi, perchè fermarsi vuol dire rischiare di tornare indietro. Di perdere quello che si è conquistato. Che non sarà abbastanza per la felicità ma che non possiamo permetterci il lusso di perdere."
Da qui il tono diventa meno goliardico. In fondo i problemi ci sono e sono seri. L'infelicità è tangibile.
La conclusione poi è bella.
"In fondo la questione è semplice. Non credo alla vita. Probabilmente è tutto qui. Non credo alla vita."
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Consiglio il libro soprattutto ai lettori uomini. Per gli argomenti trattati, le lettrici sarebbero tentate di usare il libro come corpo contundente contro i malcapitati di sesso maschile che si ritrovano tra i piedi.
In principio era Holy, Harry Holy
Un uomo. Il suo passato, i suoi errori, i suoi segreti.
L'amore, il sesso, la tenerezza, il pianto, la fiducia.
Una medusa dai lunghi tentacoli rosso fuoco e la pelle diafana, un profumo inebriante che ti fa innamorare. Innamorare da morire.
Oslo e' lontana, Sidney e' qui. Canguri, opossum, serpenti velenosi, coccodrilli.
Narahdarn,il pipistrello che puni' chi violo' l'albero sacro, portando il male sulla discendenza del primo uomo. Il pipistrello e grandi ali nere che si accaniscono su giovani creature dai capelli biondi.
Il pipistrello che stupra, che strazia, che uccide.
E poi, quando ormai te ne eri quasi scordato arriva Hole, Harry Hole, il detective che per muto consenso accetta una distorsione di pronuncia australiana in Holy. Perche' santo e' meglio che buco.
IL PIPISTRELLO e' il primo romanzo della serie scritta da Nesbo, tradotto e pubblicato soltanto ora in Italia. Ho alle spalle un paio di suoi titoli, non i piu' famosi, e devo dire che nella mia breve carriera di lettrice di Nesbo questo e' il migliore che mi sia capitato.
Se auspicate di gettarvi a capofitto in un thriller mozzafiato fin dalle prime battute, lasciate perdere.
Per una buona meta' il romanzo si addentra nella vita di Harry, l'uomo.
L'ambientazione australiana stuzzica Nesbo il narratore, che si sbizzarisce in un piacevole assortimento di leggende aborigene che caratterizzano gli attori, oltre che intrattenere.
Il ritmo e' piu' quello scandito da una narrativa scorrevole che non da un poliziesco incalzante. Tant'e' che tra una pagina e l'altra quasi si ci si scorda del thriller, quasi. Perche' nella seconda meta' l'indagine emerge a ritmi incalzanti, leggende e personaggi e dettagli si incontrano, scontrano, incastrano...e poi arriva Harry Hole, quello di Oslo.
E apriamo il paracadute prima di sfracellarci a terra. Buona lettura.
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Un'avventura in Medio Oriente
“Massimo ha passato una notte insonne. L’adrenalina che gli circola in corpo ha vinto sulla stanchezza accumulata in quasi due settimane. Oggi, infatti, si avvererà il suo sogno: osservare da cronista uno degli scenari di guerra più caldi del mondo”.
Fantapolitica e avventura nelle terre contrastate del Medio Oriente sono gli ingredienti principali di “Operazione Gaugamela”, romanzo d’esordio di Alessandro Paolo Berionne. Una storia che si dipana nell’estate del 2025 tra Bologna, Roma e le principali città mediorientali. Un lungo racconto che prende l’avvio dalla partenza per Gerusalemme di un gruppo di preghiera di cui fanno parte due giovani cugini, Massimo e Sara. Ad essi capiterà un po’ di tutto, dal subire un terribile attentato fino a divenire consapevoli testimoni di un immane conflitto fra Israele e Iran. Tra questi due eventi vi è spazio per le indagini del Mossad sulla strage e sul rapimento del figlio del primo ministro israeliano da parte di un gruppo terroristico, per le azioni di alcuni agenti segreti internazionali, ma soprattutto per i conflitti interiori dei principali protagonisti. Questa, a grandi linee, la trama dell’avvincente epopea. Suggestiva senza alcun dubbio, tutto sommato ben congegnata, composta dal giovane autore in un buon italiano ma con alcuni, quanto inevitabili, limiti. Delle manchevolezze del tutto ovvie in un’opera prima: periodi non sempre scorrevoli, dialoghi il più delle volte poco fluenti, circostanze troppo fantasiose e/o ingenue. Il tutto intervallato da interminabili, a volte noiose divagazioni storico-politico-sociali sulla situazione mediorientale. Si aggiungano gli altrettanto lunghi monologhi interiori di Massimo sulle proprie idee politiche e religiose, che se da un lato possono convogliare il lettore nelle intricate vicende del romanzo, dall’altro lo appesantiscono notevolmente. Vi è poi un altro fattore che rende questo libro, seppure per certi versi gustoso da leggere, un po’ anacronistico: la troppa ingenuità, ancor più che fantasia, del suo autore nel narrare le vicissitudini in cui sono coinvolti i personaggi principali del libro, un’ingenuità a volte persino eccessiva. Un romanzo, “Operazione Gaugamela”, per molti versi autobiografico, come accade sovente per la prima opera, da cui emergono alcuni spunti degni di attenzione. Per concludere, Alessandro Paolo Berionne con un po’ più di “mestiere” potrà diventare un buon scrittore. A lui dimostrarlo.
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The mistery of Devil...
Si tratta di un libro piacevolissimo e intrigante ispirato al capolavoro di M. Bulgakov"Il maestro e Margherita": infatti si apre con una citazione estrapolata appunto dallo stesso.
Non esiste titolo più appropriato "Qualcosa di insolito" perchè è effettivamente una vicenda insolita, accattivante e inquietante...intrisa di misteri che anche alla fine rimangono tali, non saziando completamente la sete del lettore che non riesce a comprendere in pieno il senso del groviglio della storia.
Giallo psicologico e thriller misterioso, noir che riesce in alcuni punti anche ad essere spaventoso e intrigante, si presta bene a infinite interpretazioni anche perchè non esiste una verità sicura e definita; però forse è in questo che si cela il fascino occulto del libro.
La vicenda inizia con la partenza di alcune persone che destate dalla morte, vengono attirate in un castello dove uno strano personaggio, potente ed enigmatico, offre loro una nuova possibilità di vita, se riusciranno a superare alcune prove che consistono nell'accettazione delle loro debolezze e nel saper gestire la loro esistenza in un modo più dignitoso e utile....senza ripetere gli errori del passato.
Dopo la prova di cui l'esito rimane nebuloso e avvolto nel mistero, la storia si snoda intorno ad altre figure: un professore, musicisti e la vita di provincia di un anomalo, commissario anche lui diverso dai suoi simili che si trova immerso nella risoluzione di una serie di omicidi inusuali e avvolti nel mistero....
Lo scontro tra il commissario e il suo enigmatico antagonista rappresenta il senso più profondo di questa storia: tra luce e oscurità rivela tutti i vizi, le debolezze del genere umano, intento a lottare quotidianamente con i suoi demoni...e non sempre rivolto verso la luce.
Consiglio questo libro a coloro che come me sono appassionati di storie del mistero.
Sicuramente ne rimarranno affascinati. Ho apprezzato questo libro anche per la sua originalità che provaca inquietudine, ma che solletica curiosità e interesse.
Saluti.
Ginseng666
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Verso l'infinito - Ottavio Pattacini
Due mondi, due culture, due stili di vita, un’unica soluzione..
“Molti erano gli ologiornalisti che avevano definito quel periodo il peggiore della storia dopo l’epidemia di peste nera del 1348”. Steve, politico di professione e figlio di un noto astronomo, proferisce questa frase emblematica a suo padre in riferimento al periodo storico in cui i due vivono. Una congiuntura complicata, in cui la politica guarda alla dèbacle della Terra cercando nel progetto Galileo la soluzione alla crisi occupazionale che la attanaglia da secoli.
Un pianeta ormai esausto, distrutto dall’indisciplinata industrializzazione che ha ingabbiato il sistema climatico in una confusione perenne tra giorno e notte: il Mondo ha, dunque, dimenticato, come una forma di ribellione alla violenza subita dall’uomo, la scansione tra la luce ed il buio che cadenza lo scorrere del tempo, ma l’alternarsi del giorni è impercettibile perchè tutte le ore sono accompagnate da una luce verdastra e fioca.
Non si scorgono più le stelle, i bei tramonti e la vegetazione, ma il Pianeta è una discarica a cielo aperto.
Siamo nel terzo decennio del XXII secolo ed, in questa cornice politico-ambientale e sociale così complicata, che sembra quasi portare agli eccessi la recessione economica che oggi, nel XXI secolo, stiamo vivendo, l’unica soluzione prospettata, a causa della fortissima disoccupazione e dell’ inquinamento che avevano innalzato il tasso di mortalità ad un livello pari a quello del XIV secolo, è rappresentata dallo spostamento della macchina industriale umana su altri Pianeti in modo da arrestare la decadenza del sistema ecologico terrestre. Tali sono i punti programmatici del progetto Galileo che prima ho citato: forse l’ultimo tentativo di riparare a secoli di sfruttamento sfrenato ed immorale. L’umanità, negli ultimi tre secoli, si è comportata come un virus che ha distrutto tutte le risorse del Pianeta, su cui ha posato lo sguardo, portandolo a trasformarsi dall’Eden biblico a deserto contaminato e privo di vita.
Proprio in questo quadro apocalittico una nuova notizia sconvolge la vita dei protagonisti e confonde le idee di tutti: la presenza di una sonda che è entrata nel nostro sistema solare di origine sconosciuta. Un oggetto, dunque, che sembra essere la risposta definitiva ed inconfutabile ad un millenario quesito che si è posto l’umanità: siamo soli nell’universo? Pur nella sua straordinarietà, questa notizia è foriera di preoccupazioni in Steve, che rappresenta la politica, e, al contrario, di entusiasmo in Samuel, suo padre, che rappresenta la scienza.
Chi ha costruito la sonda e per quale fine? Sono dei semplici esploratori o hanno delle finalità belliche? Tali fantomatici costruttori, abitanti di Adrais, sono anch’essi alle prese con una situazione ai limiti dell’estinzione. Non l’inquinamento, non la disoccupazione, ma la lenta ed inesorabile disidratazione del loro Pianeta. Una crisi così violenta che ha portato ad una pace forzata, adornata da un’altrettanta forzata cooperazione, tra le due grandi Nazioni, che fino a quel momento erano state in guerra tra secoli, e che rappresentano la razza rettiloide evolutasi su Adrais.
Cosa accadrà quando rettiloidi e umani si incontreranno braccati dall’estinzione imminente e spinti dal desiderio di sopravvivenza?
Di certo non posso rilevare altro su una trama elaborata e che procede con suspence, altrimenti toglierei il gusto della lettura di questo romanzo di esordio di Ottavio Pattacini, ma vorrei aggiungere delle considerazioni riguardanti lo stile e l’iter narrativo.
Forti sono le influenze di Asimov quanto all’interazione dei personaggi ed alla descrizione di luoghi effettivamente mai visti, come la superficie di Marte o di Titano, che risultano accurate ed assolutamente verosimili.
L’iter narrativo è alternato tra momenti di pathos fortemente emotivi e pagine in cui l’autore sembra voler dare al lettore il tempo necessario per riprendere fiato.
Essendo un romanzo d’esordio, mostra quei fisiologici limiti propri di uno stile ancora da limare, ma, nel complesso, il romanzo è adeguato a trascorrere ore immersi in un nuovo mondo che affonda nella nostra epoca attuale i semi della sua esistenza.
La grafica stampata sulla copertina, tuttavia, è più adeguata ad un testo universitario di astrofisica che ad un libro di narrativa senza profonde pretese scientifiche ed indirizzato ad un pubblico che vuole solo leggere una storia. Sarebbe stato meglio aggiungere qualche particolare, riguardante la vicenda raccontata, così da rendere più stuzzicante l’immagine di copertina.
Inseguendo le maschere a volte s'inciampa
“Sono essenzialmente uno che s’inventa e racconta storie, un contastorie, o se lo preferite, un romanziere”
Andrea Camilleri non è solo Montalbano, infatti sarà ricordato ai posteri come uno scrittore dalle spiccate capacità narrative, un uomo che nutre e coltiva la passione per tutto quello che scrive anche quando ci impacchetta le storie sottoforma di “cuntu”di personaggi realmente esistiti ma pressoché sconosciute o quasi dimenticate. Gli è bastato un regalo risalente più di trent’anni fa del suo amico pittore Andrea Carmassi , un catalogo di una sua mostra del ’72 che si pregiava di una presentazione di Leonardo Sciascia dal titolo “La faccia ferina dell’Umanesimo”, che subito è scoccata la scintilla che lo porterà a nutrire curiosità per un ebreo originario di Caltabellotta, piccolo paese in provincia di Agrigento, convertito al cattolicesimo intorno al 1400, un istrionico personaggio sconosciuto e affascinante che si delinea in diverse opere storiche spesso incomplete e poco chiare. Per il sommo Camilleri è sicuramente fonte di un dispiegamento di fantastiche ricostruzioni che ruotano attorno a questo personaggio, infatti si avalla di meticolose puntualizzazioni, praticamente accetta la scommessa che è possibile fare una plausibile rielaborazione sulle orme di un uomo poliglotta che rivive in molti personaggi attraverso il modo più credibile, cioè ad inseguire la sua ombra sotto forma di romanzo, utilizzando diverse chiavi di lettura e tirando in ballo il proprio pensiero tra un capitolo e l’altro per meglio delinearne i contenuti smorzando la sensazione di leggere un romanzo storico.
Le pagine scorrono via velocemente, il grande Camilleri ci snocciola la storia attraverso una narrazione fluida, semplice ed esaltante, facendoci conoscere le piccole comunità ebraiche presenti in Sicilia nel 1400 e le loro condizioni sociali in un contesto storico ben delineato.
“Ma l'umanità è un immenso formicaio e se vuoi conoscerla davvero devi trasformarti in formica e viverci dentro”
Il camaleontico protagonista è Samuel Ben Nissim Abul Farag che poi diventerà Guglielmo Raimondo Moncada e per ultimo Flavio Mitridate in veste di maestro di cabala di Pico della Mirandola. Tre personalità diverse per un solo personaggio, si tratta di maschere pirandelliane? Di certo è che molte caratteristiche rivivono in tutti e tre, come la smoderata furbizia, la notevole e spigolosa capacità di ammaliare prelati, rabbini, pontefici, politici e potenti grazie alla capacità oratoria , la deviazione di pederasta e l’indole di dissacratore e omicida.
Personalmente ho voluto leggere il libro nel luogo natio del mio amato scrittore, un po’ a Porto Empedocle e un po’ sdraiata sulle spiagge da lui calcate e ricordate nel libro. Sono emozioni che scaldano il cuore del lettore anche quando arrivi alla parola fine senza aver subito appieno il fascino di questo personaggio pruriginoso e irritante, ancor meno dalle strategie seppur brillanti, utilizzate per farlo rivivere come intercapedine tra quest’ uomo e la sua ombra.
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Alakim: Luce nelle tenebre del mondo ...
Alakim è un romanzo molto particolare. Partiamo dalla scelta del nome di questo personaggio che sembra già essere carico di tutta l’essenza immane ed intensa che si racchiude in un unico essere che diventa testimone di tutte le nefandezze di un mondo e di tanti altri ancora.
A me è piaciuto molto questo nome, sarà per la A che è anche la mia iniziale, oppure perché in esso ho immediatamente colto l'immensità di un personaggio così grande da rendere il suo essere incontrastato.
Quasi fosse impossibile resistergli.
Oppure perché per certi versi è simile al mio romanzo e soprattutto al seguito che sto scrivendo. Quasi una piacevole e strana coincidenza.
Ma chi è davvero Alakim?
Da dove nasce tanta rabbia, potenza e desiderio esasperato?
E’ mai possibile che un angelo, un Serafino, colui che ha sconfitto Lucifero, una volta caduto dall’Eden, e precipitato sulla terra per sua libera scelta, diventi così malvagio, perverso ed inarrestabile?
La risposta è sì quando la tua vita te la stai giocando con il Signore del Male.
Lucius come lo chiama fraternamente Alakim. Colui che gli era fratello quando nel Paradiso regnava la pace. Ebbene sappiate che non è stato l’arcangelo Michele a cacciare Lucifero ma Alakimael, un Serafino di egual potenza e luce che in nome del Padre, ha combattuto contro un suo simile, riportando una vittoria tanto meritata quanto eclatante.
Ma Alakim è sempre stato molto di più.
L’insofferenza nel vedere che gli angeli non possono godere di libero arbitrio mentre gli umani sì, lo ha spinto a voler scendere sulla terra e distruggere quel mondo che l’umanità non merita. I suoi piani però lo portano verso una strada completamente diversa sulla quale compare nuovamente il passato e il viso giovane e dissoluto di suo fratello Lucius.
Con lui stringerà un patto che se perderà lo costringerà a cedere la propria anima al Demonio, la cui brama sembra non avere fine.
Alakim è tante cose insieme. La sua natura è angelica, demoniaca, persino umana.
Da quando stringe quel patto, su di lui prevalgono le tenebre. La sua luce di Serafino viene offuscata e le sue azioni sono esclusivamente dettate da una fame insaziabile. Una fame fatta di malvagità, di odio, di rabbia, di sangue. Gli occhi dell’immortale hanno i colori dell’argento e si nutrono di tutto il male del mondo. Solo così egli riesce a sopravvivere facendo del male e subendolo in un misto di dolore e piacere che proprio per la natura perversa di quell’essenza non riesce mai a soccombere.
Sceso sulla terra si appropria del corpo di un uomo morto, un sicario e la sua forma umana diventa sinonimo di potenza, sensualità, forza, oscurità.
Alakim è un angelo e un demone, un uomo e un immortale che combatte continuamente contro la sua stessa natura.
E’ incredibile come l’autrice riesca a trasmettere perfettamente il dissidio interiore del protagonista. La sua fame, le sue voglie, la sua malvagità, la sua lussuria sono talmente vive tanto da sentirle addosso. Alakim ci sussurra continuamente all’orecchio quello che prova ed è devastante scoprire quanto sia forte la volontà di fare del male, tanto quanto è ancora acceso quel barlume di coscienza che gli permette di non superare il punto di non ritorno.
E poi c’è lei, Nicole, giovane donna che lotta per i propri ideali e che dalla vita è già rimasta ferita a tal punto da non avere nessuna fede.
Ebbene proprio lei incontrerà Alakim e scoprirà di essere colei che lui cerca. L’Invocantes, una persona in grado di richiamare gli angeli, l’unico modo per rispettare il patto con Lucius.
Nicole si troverà coinvolta in una storia incredibile, alla quale, inizialmente farà fatica a credere.
Conoscerà Alakim, scoprendo la sua natura di angelo e demone, i suoi amici, Samshat e Muriel, Nephilim anch’essi di straordinaria potenza e affronterà insidie e pericoli, sempre in balia di eventi che sembrano al di fuori della propria comprensione umana.
Ma la lotta più forte e più sentita sarà quella con il suo corpo e con il suo stesso cuore.
Alakim le strappa ogni briciolo di ragione, la conquista senza chiederle permesso, le entra dentro, appropriandosi di ciò che lui dice essere suo.
“Ti terrei qua per sempre, senza che tu possa mai vedere altro, senza che tu possa mai sentire altro al di fuori di questo. Qua ad aspettarmi ogni giorno e ogni notte, perché venga a riempire il tuo vuoto.”
Non lo fa solo perché Nicole è l’Invocantes e quindi l’unica in grado di aiutarlo, lo fa perché prova un’attrazione indefinibile per lei che lo porta a desiderare di farla sua in ogni modo possibile.
Nicole si rende lentamente conto che lo ama, e che desidera stare con lui contro tutto e tutti, persino contro la sua stessa natura che lo spinge inevitabilmente verso la malvagità e la crudeltà.
“Ma lei non serrò le palpebre e guardò dritto nella parte più tenebrosa di Alakim, poiché lui era anche questo: terrificante e affascinante come solo il male poteva essere.”
C’è molto di religioso all’interno del romanzo ed è inevitabile la riflessione che l’autrice fa nascere ponendo determinate questioni ma senza dubbio il suo stile rimane impresso non per le domande ma per le certezze che riesce a narrare.
La certezza delle sue parole, scelte perfettamente e con cura, capaci di descrivere in modo vivo e animato le sofferenze tanto quanto i piaceri.
Tutti i personaggi sono terribilmente reali, scoppiano di vitalità, non sono racchiusi nella pagina, essi vanno oltre, entrano nella testa e sono capaci di farti vedere ciò che essi stessi stanno vivendo.
Non sono personaggi fumettistici nonostante la loro natura immaginaria, sono esseri fatti di corpo e mente, a cui non manca una profonda carica di nostalgia e malinconia.
E’ così Muriel, con il suo viso triste e perfetto, talmente bello da apparire come il piacere stesso.
E’ così Samshat, guerriero e immortale, unico a cui Alakim dia davvero ascolto.
E così lo stesso Alakimael figlio del paradiso e adottato dall’inferno, anima dannata e maledetta che cerca soltanto pace nella possibilità di essere se stesso.
In questo romanzo si gioca la libertà di ciascuno dei personaggi e gli Dei sembrano ridere e prendersela comoda mentre le sue creature, sia esse mortali che immortali muoiono in nome della libertà.
Ma quanto vale la nostra libertà?
Alakim se lo chiede e per lui vale la sua stessa esistenza. Vale l’amore, la passione, la morte, e la vendetta. Non vuole rinunciarci e non ci rinuncerà mai.
Una storia che spezza il fiato, che non lascia respiro e che coinvolge oltre ogni possibilità di riflessione e comprensione.
Il clima è avvincente, non c’è un attimo di pausa, le vicende si susseguono senza lasciare spazio alla noia. La trama è costruita perfettamente e nonostante ci siano avvenimenti e personaggi, ciò che emerge e s’impone su tutto sono i pensieri e le anime di questa gente, di questo mondo in bilico tra l’umano e l’inafferabile.
I pensieri contorti, i desideri inappagabili, la fame immonda di un essere che desidera più di ogni altra cosa vivere.
Amare, lottare, odiare, per se stesso e per ciò che gli appartiene.
Alakim è più profondamente umano di qualsiasi altro personaggio fantasy inventato.
E’ così vicino al dolore, alla rabbia senza via d’uscita perché lui, nonostante la sua forza, non può combattere contro la sua stessa natura.
Molto brava Anna Chillon a rendere tutto questo vicino e comprensibile a tal punto che Alakim è uno sfacciatamente cattivo ma non puoi odiarlo.
La sua cattiveria, la sua malvagità sono figlie della sofferenza e dell’umanità. Sono figlie delle stesse domande che ogni santo giorno ci poniamo anche noi.
Dio dov’è? Perché mi ha fatto questo?
Egli è un reietto, uno che è stato abbandonato e adesso è perseguitato. I suoi sentimenti non sono quelli di un angelo potente e luminoso, sono quelli di un essere ferito, che ha combattuto in nome di ciò che credeva giusto e adesso è terribilmente solo.
La solitudine, la consapevolezza, l’estraneità sono elementi che permeano l’intero romanzo rendendo la lettura dello stesso profonda e incisiva.
Non si può restare indifferenti di fronte a tanta potenza, ardore, mistificazione.
Alakim è uno sconfitto che si trascina dietro gli echi di una vittoria. La più grande delle vittorie, i cui segni lo marcano dentro. Resterà per sempre un immortale che ha goduto del Paradiso ma adesso è sulla terra ed è questa la sua casa. L’umanità fatta di splendore e terrore colora e vivifica le sue notti solitarie di cui solo la luna è inconsapevole testimone.
Il suo orgoglio è grande tanto quanto la volontà di non piegarsi a nessuna lusinga, consapevole che la solitudine è l’unica scelta.
Sembra quasi che questo romanzo spiani la strada ad un prossimo in cui davvero conosceremo l’anima del suo eroe.
Un eroe nero, fatto di sangue e ferite, di desideri e paure che ci lascia dandoci le spalle, senza prometterci se ritornerà, avvolto dalle fredde ombre.
Ma nelle tenebre si nasconde inevitabilmente la luce.
Alakim ha dimenticato la sua vita da Serafino, Nicole può essere l’unica in grado di salvarlo, di riportarlo indietro dall’inferno in cui è precipitato.
Ma a che prezzo?
Anna Chillon è l’unica in grado di svelarcelo.
E’ l’unica ad avere le sorti di Alakim in mano.
Sono certa che non lo lascerà da solo, che continuerà ad ascoltarlo.
Ad ascoltare la sua fame e a cercare la sua luce.
Perché la luce è lì, da qualche parte.
Anna, trovala.
Per lui, per te, per noi.
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Stati mentali alterati
“Cammino restando appena dietro di loro, se mi avvicino troppo i miei sensi percepiscono una rapida scossa di euforia, un frammento di beatitudine che dura il tempo del percorso fino al cervello, dove c’è un cartello di divieto, una porta chiusa, una combinazione indecifrabile.”
Stati di alterazione mentale, allucinazioni, fasi oniriche, momenti di abbandono e/o di sconforto, menti annebbiate da cocktail di droghe, avventure vissute ai limiti della realtà. In poche parole dei “piccoli momenti di buio”, come recita il sottotitolo della interessante raccolta di racconti dal titolo metaforico “Nicovid”, composti da Miky Marrocco. Intestazione davvero allegorica, poiché l’autore ha creato con essa un nuovo prodotto farmaceutico, al quale fare ricorso in caso di bisogno. O per lo meno è quanto accade al protagonista che fa da catalizzatore all’intero testo, uno psichiatra ormai giunto al limite della follia a causa dei suoi pazienti e come loro reso ormai schiavo delle sostanze che prescriveva. Costui, in condizioni di estremo disagio psichico, compone delle brevi storie “allucinogene”, dove alcuni personaggi fissi si alternano ad altri le cui vicende rasentano la pazzia, soprattutto quella così banalmente quotidiana. Racconti metropolitani, basati su monologhi interiori di individui fuori dal comune, a volte addirittura “borderline”, che riversano le loro angosce in brevi racconti, spesso composti da non più di una pagina. Nevrotici, schizofrenici, ma anche semplici personaggi sfortunati, che vagano alla deriva di una realtà senza alcuna prospettiva futura, dove ogni azione e/o situazione appare loro tanto possibile quanto irrealizzabile. Tutto questo accade nelle squallide periferie della provincia brianzola, coi suoi tetri locali, le serate trascorse fra drink e momenti di noia mortale. Banali circostanze, che improvvisamente si trasformano in situazioni oniriche se non da incubo, nelle quali ogni particolare dell’assurda vicenda sembra implodere all’interno dei racconti, tratteggiati con sagacia da Miky Marrocco grazie ad una scrittura secca, avulsa da qualsiasi fronzolo letterario. Ne risulta una narrazione moderna e fluente, che alterna l'io narrante con la più neutrale terza persona.
Una pregevole riprova stilistica per Miky Marrocco, musicista e scrittore alla sua terza produzione letteraria. Scaturito dal subconscio dell’autore e divenuto, a seguito di alcune riscritture una specie di “romanzo-non-romanzo” dagli aspetti sperimentali, “Nicovid. Piccoli momenti di buio” è così diventato il ritratto agghiacciante di un vissuto quotidiano, dove la nevrosi è ormai una norma e la follia un suo aspetto comune.
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L' AMICIZIA FA MIRACOLI ?
Può un'amicizia fare un miracolo? Si, se è autentica ... si!!!
Questa è la storia di un'amicizia che nasce tra due bambini inizialmente, adolescenti poi; un sentimento che si sviluppa , cresce sempre più, tanto da diventare indispensabile...tanto da portate l'uno a realizzare per l'altro i suoi sogni , le sue ambizioni...e oltrepassare la morte , ridandogli in qualche modo ancora vita.
Un ragazzo è irlandese e vive a Dublino, l'amico è italiano, recatosi là perchè figlio di un ambasciatore .
Entrambi segnati, sia pur in modo diverso, dalla propria figura materna; diversissimi come carattere e fisicamente e forse per questo complementari, ma con alla base una gran stima e un alto rispetto vicendevoli. Ognuno vede nel proprio amico la propria parte mancante.
Ho letto con gran coinvolgimento questa narrazione, provando una miriade di sensazioni ed emozioni : affetto, pena, amarezza, rabbia e anche tanta!
Si, ad un certo punto mi sono anche arrabbiata con l'autore per l'età del protagonista iniziato a forti esperienze sessuali a mio avviso del tutto premature.
Inizialmente ho associato la lettura di questo libro a "I ragazzi della Via Pal"; poi però la trama si è infittita, diventando sempre più complessa e coinvolgente.
Entusiasta di seguire le avventure dei due ragazzi, fino a quando, sia pur a gran malincuore ,uno dei due decide di seguire la propria strada da "irlandese". Eh, si, perchè questo libro trasuda di storia d'Irlanda, facendoti immergere nel dilemma e nel continuo dramma vissuto dai suoi abitanti. L'autore con profondo rispetto ci immerge in questa realtà, finora a me lontana e ci regala immagini d'incanto e superbe di un ambiente potente, superbo, ostile ma benefico,"di diperata vitalità che incita a resistere, a non arrendersi, a non piegarsi, ...dove la gente con la rabbia come compagna di vita, resiste per sopravvivere e sopravvive per vivere."
Proprio nel momento della separazione dei due amici però un tarlo mi è entrato nella mente...ma poichè la narrazione ha continuato a scorrere coinvolegndomi al massimo...questo mio dubbio è andato via via sfumando.
Ma ecco che alla fine, ho trovato la risposta a tutti i miei perchè, ridandomi la calma..eh, si, perchè di fronte ad un racconto basato su una realtà vissuta, non posso che assumere un atteggiamento di profondo rispetto.
Mai giungere a conclusioni affrettate, è stata ancora una volta questa una lezione per me.
Mi complimento davvero con questo autore, Emanuele Fantozzi, conosciuto grazie alla Qredazione che ringrazio vivamente.
E desidero concludere con un messaggio proprio per lui:
"Continua a scrivere e a regalarci ancora emozioni forti; con me hai fatto centro ed è successo: è stato come vivere un viaggio molto forte ed intimo...grazie di cuore!!!"
Buona lettura
Pia
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Contesa : la lotta del bene e del male
William Blake parlava di complementary opposites riferendosi alla necessaria esistenza nel mondo di bene e di male, del mite agnello e della feroce tigre e ribadiva che l'essenza negativa e quella positiva avevano la stessa matrice, poichè al mondo erano necessari.
Il romanzo di Lucio Paolo Alfonso parla dell'irresistibile legame tra vita e morte, amore e odio in un momento storico pregno e drammatico, vale a dire l'Italia degli anni Settanta e in due regioni italiane ricche di antichi onori e problemi attuali vale a dire la Sicilia e la Sardegna dell'epoca non ancora del tutto toccata dal boom turistico e ancora arretrata. Il protagonista un architetto e insegnante Giovanni Spuches, vive la sua esistenza tra pulsioni sessuali irrefrenabili per la bella Maria, e non solo e una malinconica attrazione per la nera signora, quasi come accade al cupo protagonista de L'ultima notte di quiete un film dai toni quasi leopardiani.
Arricchito da una prosa ricercata e quasi lirica colma di metafore e simbolismi, il romanzo scorre dalla prima all'ultima pagina n una ricerca spasmodica verso la verità che a tratti sembra dare all'intreccio tonalità quasi da thriller.
Interessante il ritratto che lo scrittore fa della scuola dell'epoca affrontata ( fine anni settanta) già travolta dall'ondata sessantottina e settantasettina è un'istituzione ancora paludata incapace di venire incontro in maniera fattiva ai disagi esistenziali degli adolescenti ( doloroso l'episodio della studentessa ex lettrice di Lotta continua che dopo le continua violenze familiari finisce in manicomio perché nessuno riesce a capire la sua drammatica involuzione) e nel contempo già poco vicina ai bisogni dei docenti costretti a levatacce allucinanti per raggiungere le sedi più lontane e già poco considerati nell'inquadramento sociale.
La storia ruota quasi esclusivamente intorno al personaggio principale che esprime in un continuo flusso di coscienza le sue angosce manifestate in una perpetua seduta introspettiva.
Adatto prevalentemente a un pubblico adulto per il periodare di alto livello usato dallo scrittore Alfonso è senza dubbio consigliato.
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Il passato a volte ritorna
Giallo scandinavo dal ritmo lento. Il noto team ha tra le mani un nuovo caso da risolvere, lettere minatorie e scomparse/comparse sospette legate ad un passato ignoto e ad un libro d’esordio dal contenuto inquietante. I protagonisti strada facendo capiscono che si raccoglie ciò che si semina, con rassegnazione si accetta. Riuscirà la squadra a svelare l’arcano?
Una trama promettente dalle potenzialità inutilizzate, per un buon numero di pagine i fatti si susseguono fiaccamente, le operazioni investigative raffreddano il detective-lettore e i punti cruciali sono privi di suspense. La partenza è debole, i pochi elementi centellinati dall’autrice non permettono di affiancare gli investigatori (o si tratta forse di una tattica ben studiata per celare sotto una coltre di mistero indizi e dettagli?) e l’aggiunta di dati superflui non impreziosiscono la narrazione. La seconda metà del libro decolla diventando un thriller coinvolgente, gli interrogativi e le risposte sorgono in via naturale seppur in ritardo rispetto alle aspettative e la fine è una corsa a perdifiato.
I personaggi, dalle scarse personalità, sono presentati sotto ogni punto di vista, gli ambienti, invece, sono descritti sommariamente. Ci sono continui collegamenti alle precedenti opere della bella Läckberg, nota importante per capire fino in fondo la storia.
Lo stile semplice, i toni informali, il contenuto leggero e i capitoli brevi rendono la lettura scorrevole. La copertina è accattivante, il titolo trova spiegazione verso l'epilogo.
Concludendo, un appuntamento per gli affezionati turisti di Fjällbacka.
“Alcune donne avevano una determinazione tale che nulla avrebbe potuto spezzarle. Piegarle, forse, ma mai spezzarle”
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Streghe e stregoni a Benevento
Botteghe che scompaiono e riappaiono dal nulla, streghe e stregoni, sibille e nenie enigmatiche, una profezia misteriosa e un prescelto all'oscuro di ogni cosa per un fantasy tutto italiano ambientato nell'Italia dei giorni nostri, più precisamente nella città di Benevento.
Remo è un ragazzino qualunque alle prese con genitori apprensivi e iperprotettivi che però non lo ascoltano come dovrebbero, che ogni giorno deve vedersela con bulli odiosi e professoresse arcigne e antipatiche che anziché vegliare sugli alunni in difficoltà sembrano patteggiare per i prepotenti della classe.
A complicargli ulteriormente l'esistenza ci pensano alcuni misteriosi figuri che tentano di rapirlo e una serie di eventi inspiegabili e stravaganti che gli faranno scoprire un'altra Benevento, in cui leggende e magia rappresentano la normalità.
Sin dalle prime battute il lettore viene completamente assorbito dalla storia.
Lo stile narrativo utilizza un linguaggio moderno, compatibile con quello dei ragazzi, vivace e divertente, semplice eppure vario.
Carini i numerosi giochi di parole utilizzati per dare il nome a luoghi e intrugli magici: la città magica sotterranea di Malevento, per esempio, si contrappone alla Benevento della superfice; per non parlare dei vari tè utilizzati da Bernardo, i cui nomi suggeriscono le proprietà stesse di queste bevande speciali, come il "tè-lefono" che permette di sentire meglio, il "tè-mpestivo" per rapidi balzi in avanti e in dietro in punti ben precisi o il "tè-nebra" che rende invisibili.
C'è un perfetto equilibrio tra le parti in cui l'azione predomina su tutto e quelle dedicate ai momenti di riflessione e chiarimento durante i quali i personaggi cercano di dare un senso alle proprie disavventure.
Le descrizioni puntigliose fanno sì che il lettore conosca l'esatta posizione di oggetti, muri e scalinate rispetto ai personaggi che si muovono sulla scena. Questa attenzione per i dettagli, diversamente a quanto ci si aspetterebbe, non costituisce una limitazione all'immaginazione del lettore né risulta noiosa o stancante.
I personaggi sono rappresentati con caratteristiche fisiche e comportamentali ben definite, sono stravaganti e simpatici.
Il romanzo è accompagnato da alcune illustrazioni in bianco e nero nello stile dei fumetti occidentali, che ne arricchiscono il contenuto.
La storia ha una conclusione, ma lascia aperta una possibilità per un eventuale seguito.
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Una rivelazione !
Ho avuto modo di stringere fra le mani l’inusuale romanzo della Dunwich Edizioni per pura casualità. Dopo anni trascorsi nell’immersione totale da buon videogiocatore incallito, non potevo farmi sfuggire l’occasione di godermi un’opera steampunk tutta italiana e, al termine della lettura, posso già anticipare di esserne stato soddisfatto.
Ma andiamo per ordine.
La trama è abbastanza semplice: la guerra di turno ha spazzato via ogni cosa e ULTIMA, la città delle contrade, si regge su un ambiguo meccanismo politico grazie al quale i Campioni di ogni Contrada, sfidandosi nel Palio, decidono chi sarà a governare per l’anno corrente. Qualcuno, però, ha una scorta illimitata di bastoni da mettere fra le ruote: una coalizione misteriosa sta ledendo silenziosamente tutti i Campioni, ferendoli e trasformandoli in relitti Senza Cerchi che, ad Ultima, equivale ad essere un ratto di fogna.
Demetrio Deisanti, l’eroe della vicenda, non è da meno: in un turbine di alleati e sciagure, le cicatrici sul suo volto diventeranno soltanto un monito di vendetta.
Non voglio soffermarmi troppo sulle evoluzioni del plot, poiché l’opera ha molto altro da offrire, tuttavia ci tengo a precisare che è decisamente adatta a coloro che cercano un’azione rapida senza fronzoli, catapultandosi da subito negli elementi fondamentali e tralasciando tutto ciò che è secondario. Questo è l’unico difetto del romanzo, a mio avviso: non ho riscontrato contenuti di base che possano attrarre i più meticolosi e non ho sperimentato un attaccamento particolarmente influente ai personaggi di turno. Poche volte mi sono ritrovato a pensare che non avrei voluto uccidere questo o quel nemico, o salvare la vita agli eroici Campioni del gruppo. Il romanzo è tanto rapido quanto semplice. L’autore stesso, al termine dell’opera, ci tiene a precisare che il suo è un tributo fantasioso al cameratismo ed alle emozioni del vero Palio a cui ha preso parte, preservandone i colori ed i caratteri. Se state cercando un libro che vi lasci il segno nei giorni a venire, che vi insegni qualcosa o che vi lasci a bocca aperta, probabilmente avete sbagliato opera.
Viceversa, se cercate un libro da leggere piacevolmente, state stringendo il volume giusto.
Vicenzi ha infatti realizzato un’opera di tutto rispetto, assai scorrevole e quasi tangibile, con descrizioni meticolose e scene vivide animate fra le pagine d’azione e strategia. Si fatica un po’ a tenere il conto di tutti i nomi ed i colori delle fazioni ma, quando si arriva al terzo finale dell’opera che descrive il Palio vero e proprio, ammetto di essermi sentito così coinvolto da averle imparate tutte. Si assisteranno a scene di disperazione cronica, e talvolta la rabbia sarà repressa dal lettore stesso che vuole a tutti i costi scrivere la sua classifica dei punteggi, e si sente in obbligo di scendere in campo pagina dopo pagina.
Ho apprezzato molto il finale che, senza inutili spoilers, insegna come un buon romanzo possa avere una degna conclusione da fiaba, incastrando tutti i pezzi e giungendo alla regola prosecuzione delle fantasie che ha suscitato durante il percorso. Mi aspettavo l’ennesimo orizzonte che sfuma alle spalle dell’anziano di turno, o il cattivone che nella cella oscura muove un dito e decide di tornare all’azione in un imprecisato sequel che non ci sarà mai, ma Vicenzi mi ha accontentato chiudendo i lucchetti con le chiavi giuste.
In conclusione, potrei definire questo Ultima come un libro scritto veramente bene (occhio alla grammatica ed al fraseggio, che sono perfettamente oculati e lisci come l’olio), veloce, coerente e senza pretese. In qualità di recensore amatoriale però, devo sottolineare ancora una volta che quest’ultimo accento di svago penalizza l’opera agli occhi dei più esigenti, e rappresenta il più grande difetto della storia raccontata. Nasce nell’azione e finisce nell’azione, e non troverete filosofie immanenti in una lunga serie di cliché classici del tipo: “la mia famiglia faceva schifo”, oppure “ho un passato vergognoso, adesso ammazzo tutti, divento un eroe e provo a redimermi”.
Tuttavia ho letto opere che hanno provato con le unghie e con i denti ad imporsi allo stesso modo, insomma ad essere rapide e incisive, ma sono scadute in pessime imitazioni da cartone animato.
Ultima non fa niente di tutto questo, anzi, è scritto così bene che mi ha lasciato a bocca aperta quando ho ripensato a come avevo ottenuto il romanzo: una semplice casualità, leggendo un titolo e guardando una copertina, mi ha regalato un viaggio veramente bello.
Una nota finale la dedico all’autore, con il quale ho avuto modo di scambiare due chiacchiere: è giovane e senza pretese proprio come il suo romanzo, ma Ultima vi farà dimenticare che non stringete fra le mani il risultato di un narratore navigato e di esperienza. Merita tutte le chance che potrete dargli.
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UNA VITA...
Ogni persona merita un romanzo?
Io penso di si.
In questo libro mi sono ritrovata ad ascoltare una donna che , nata subito il dopoguerra, decide di raccontarsi in questa storia.
Susanna (autrice esordiente), è di Bologna , ha un fratello e vive con i suoi genitori ,che come molti di quel periodo , possono contare di un certo benessere.
Ho ascoltato la sua vita, a partire dai suoi primi ricordi, alle sue esperienze scolastiche nei vari ordini di scuola, fino all'inserimento in ambito lavorativo.
L'ho seguita nella sua maturazione personale sempre alla ricerca di trovare una forza dentro sè e un buon equilibrio.
Interessante è stato senza dubbio seguire questa ragazza "figlia del 68" nel suo tentativo di appartenere in qualche modo al Movimento Comunista. Sempre schietta non si è risparmiata di riconoscere anche i propri errori e in questo l'ho stimata.
Ha viaggiato molto e in modo davvero singolare e ci ha fatto un buon resoconto dei suoi viaggi.
Se per certi versi quindi ho apprezzato questo suo raccontarci e la sua narrazione mi ha portato a fare dei confronti personali di vita oltre che a livello più generale con la società attuale, d'altro canto devo essere sincera: sia pur ella brava nello scrivere dal punto di vista stilistico e formale, io non sono riuscita a sentirmi coinvolta nella lettura del suo libro.
Ciò che a me è mancato è stato l'aspetto emozionale: non sono mai riuscita ad addentrarmi con coinvolgimento..
Io da sempre attratta dalle relazioni ho trovato molta superficialità nella sua esposizione in tale ambito.
Ogni persona merita un romanzo?
Si, lo penso ancora...ma c'è romanzo e romanzo...c'è vita e vita.
Terminata la lettura ( molto lenta, non più di poche pagine al giorno e faticosa per me), mi sono trovata a riflettere su quanto io sia stata attratta da scrittori che nella propria vita hanno avuto grandi sofferenze o abbiano avuto la possibilità comunque di provare passioni e intensi sentimenti.
Buona lettura a chi ama ascoltare le storie "lineari "degli altri.
Non me ne voglia l'autrice...
Pia
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1492
Sarà capitato anche a voi, che per tutta la durata del percorso scolastico alcune materie non fossero apprezzate. Neanche i bambini ne sono immuni e Biagio non fa eccezione!!! Lui che di anni ne ha 10. Egli attende con trepidazione che il suono della campana interrompa la noiosissima lezione di "storia", materia che ha l'effetto di un sonnifero, per il nostro personaggio, il quale appoggiatosi sul banco di scuola si troverà catapultato nell'anno 1492, a bordo della "Santa Maria" in compagnia del grande Cristoforo Colombo...
Ed è un viaggio a ritroso nel tempo, dove la modernità si scontrerà con il passato, mettendo in risalto più che mai le tante comodità che i ragazzi d'oggi hanno. Biagio avrà il grande merito di aver sostenuto il nostro eroe a continuare nell'impresa anche quando tutto sembra perduto...
Un libro che ha l'obiettivo di far comprendere ai bambini l'importanza di perseverare nelle proprie idee.
Anche mio figlio di anni 10 ha letto il libro, ne ho subito approfittato per chiedergli se avesse trovato una morale a racconto concluso, "si" è stata la sua risposta aggiungendo che "non bisogna arrendersi mai".
Con un linguaggio espositivo semplice, i piccoli lettori in erba saranno calamitati dalla storia, supportata dai meravigliosi disegni colorati e da colorare. Augurandomi che al più presto vi sia un seguito delle avventure di Biagio invito tutti coloro che hanno figli tra un'età compresa dai 6 ai 10 anni ad acquistare il libro.
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Una donna, due volti
Da pochi giorni è possibile leggere l'ultimo racconto di Cristina Comencini.
Lo definiamo racconto per l'esiguità delle pagine, uno spazio brevissimo in cui l'autrice riesce ad entrare nell'anima della sua protagonista.
Non c'è spazio per i preamboli, per introdurre la donna e la sua vita; questa autrice ha la capacità di disegnare il lato più oscuro di un cuore nello spazio di un battito di ciglia.
Con frasi rapide e veloci prende forma il volto di Nadia, figlia, moglie e madre, eppoi i vuoti, gli abbandoni, i rancori, le finzioni, le insoddisfazioni; una vita che deraglia abbandonando i binari della cosiddetta normalità, della famiglia, degli affetti, del perbenismo, per frantumarsi in tanti cocci.
E' straordinaria l'immagine dell'esplosione o trasformazione di questa donna, fotografando un collage di tante storie riportate dalle cronache, situazioni forti talora limite, eppure impregnate di crudo realismo.
I contenuti proposti dalla Comencini non possono lasciare il lettore indifferente sia altrove sia qua, sono il frutto di sentimenti sbagliati, corrotti, deturpati dalle forze oscure all'interno dell'individuo oppure da rapporti familiari e sociali piagati.
L'autrice riesce ad entrare nella parte più buia dell'animo umano, lo osserva e lo racconta ma non offre spiegazioni o giustificazioni delle azioni e dei pensieri.
La Comencini ha uno stile di scrittura inconfondibile, aggressivo e arrabbiato, denso e sintetico, non concede alla sua penna divagazioni, ma corre dritta sul bersaglio.
Non smentisce la sua alta espressività in questo racconto, nonostante ci si chieda il perché di una forma strutturale così concisa, quando i temi affrontati avrebbero permesso l'elaborazione di qualche pagina in più.
Sicuramente una scelta ponderata, una storia dai connotati così marcati e definiti da spingere l'autrice ad un'analisi rapida come una sferzata, una storia dove la fine è già scritta strada facendo, una storia di cui è impossibile tentare di ricucire i pezzi.
Ancora un buon lavoro, una lettura di grande trasporto emotivo, un viaggio nel dolore che non prevede il ritorno.
Al termine della lettura viene naturale chiedersi se siamo certi di conoscere la persona che abbiamo accanto nella vita e con cui stiamo condividendo un percorso; per l'autrice è un quesito per nulla scontato.
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Nulla, solo la noia
Inutile girarci intorno: non è un romanzo riuscito, ma solo l'esperimento di un bravo scrittore alle prime armi.
La lentezza, innanzitutto, il soffermarsi su ogni cosa ribadendo gli stessi concetti e allungando un brodo che stanca fin dalle prime pagine.
L'apatia con picchi di angoscia del giovane Arthur, alle prese col male di vivere per qualcosa di tremendo accaduto nel suo passato, gira troppe volte su se stessa e sembra non arrivare mai al sodo.
Dopo un po' ci si chiede perché lo scrittore si accanisca a plasmare un'argilla che cade da tutte le parti senza acquisire una forma compatta, tra una serie di situazioni stereotipate che sono solo l'imitazione di una brutta copia dei libri di Fante e Fitzgerald, a cui quest'opera è stata paragonata.
L'autore scomoda anche Proust, con un flashback di Arthur bambino che si strugge ogni sera nel desiderio del bacio materno della buonanotte:
“Quello era il mondo reale – lì, al sicuro, nel tempo perduto”.
In effetti non si capisce bene quale sia questo benedetto mondo reale, visto che il ragazzo (quasi sempre con gli occhi serrati o socchiusi) tende a fuggire dalla realtà inseguendo i ricordi, fino a quando anche la memoria gli gioca un brutto tiro, rivelandogli l'evento traumatico che forse aveva rimosso.
E allora meglio tornare al presente, ma ecco la vocina “che continuava a ripetergli che tutto ciò che sapeva, o sentiva, o vedeva, non esisteva affatto, che era tutto un incubo, tutto irreale”.
Insomma, non se ne esce, e il buio è l'unica cosa che sembra distendere i nervi del protagonista, purché accompagnato dal silenzio, cosa che accade di rado nella narrazione per il tormento suo e del lettore.
L'incomunicabilità tra gli esseri umani e la loro solitudine sono i temi predominanti del romanzo, spalmati maldestramente qua e là attraverso personaggi banali che si esprimono soprattutto per luoghi comuni.
Si salva a tratti qualche passaggio che ben descrive uno stato d'animo, o qualche situazione rappresentata con efficacia. Tutto il resto è noia.
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ALLORA RUBI, INVECE DI PERDERE TEMPO
Breve, ma denso. Vite diverse, visuali opposte, valori perduti s’incontrano, si scontrano e si rimescolano in una buffa tragedia, che si snoda veloce come un giro di danza.
I due personaggi principali ricordano i compagni di viaggio di Dorothy, alla ricerca del mago di Oz. Lei è tedesca, è ricca, ha girato il mondo. Ha classe, gusto, intelligenza. Le manca il cuore. Lui è italiano, è povero, e conosce soltanto la sua Rimini. Pochissima intelligenza. Gusto inesistente. Una classe tutta sua. Ma il suo cuore alimenta un’ostinata voglia di vivere.
Lei è stata derubata delle sue illusioni di alto livello, necessarie per vivere. A lui hanno portato via il poco che aveva, più che sufficiente per sopravvivere felice e contento. Lei è una vera principessa, fuori dai giochi. Lui è un perdente, imprigionato in un labirinto senza uscita. Lei cerca la sua ultima menzogna. Lui non sa che cosa sta cercando, ma s'impegna con passione.
I protagonisti scambiano testimonianze sui loro mestieri di vivere e sulle loro scelte di morte, confrontano livelli di consapevolezza e tecniche di illusione, intrecciano richieste e proposte impossibili. Qua e là, nei monologhi e nei ricordi, emerge il ricordo di antichi valori forti, seppelliti insieme alle generazioni perdute. Al centro della scena, invece, emergono i nuovi sensi di colpa che avvelenano le esistenze: il vero peccato è non essere belli; non essere ricchi; non saper esercitare la nobile arte della menzogna. È forse il solito mago di Oz, quel vecchio ventriloquo, che continua a ingannarci?
Il gioco tra i due, narrato con un ritmo trascinante, sembra senza vie di uscita; ma arriva il terzo incomodo, armato del coraggio necessario, che trova la soluzione migliore, per tutti. L’inverosimiglianza c’è, ma si adegua perfettamente all’insieme, soprattutto nei cambiamenti bruschi di dialoghi e stati d’animo.
Quanta vita, quanta memoria, in poche pagine. Massimo Carlotto ha ottenuto una molteplicità di sapori mescolando pochi ingredienti: non perdete questa piccola storia nobile, costruita con ironia e sentimento.
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Una donna dura come pietra
“Pietra è il mio nome” è l'ultimo lavoro di Lorenzo Beccati, forse conosciuto più come autore televisivo che nella veste di narratore.
Eppure Beccati negli ultimi anni si sta dedicando alla scrittura di romanzi appartenenti al genere del giallo storico, ambientandoli per le strade della sua Genova a cavallo tra 1500 e 1600.
Correva l'anno 1601 quando tra i carruggi genovesi un oscuro assassino seminava morte e terrore, mettendo in allarme le autorità.
Entra in scena la protagonista, la giovanissima Pietra, il cui nome eguaglia un temperamento ed un carattere duro da scalfire nonostante le avversità postele dalla vita; una donna iniziata fin da bambina alla misteriosa arte della rabdomanzia, invisa a molti, tacciata di stregoneria, eppure utilizzata in extremis come fonte di verità dal bargello e dalle guardie del Doge.
La figura di Pietra è il fulcro dell'intero racconto, donna scaltra e giudiziosa, consapevole dell'opinione che i concittadini nutrono di lei e avvezza a combattere la malignità ed i pregiudizi delle persone; una donna cui è stata rubata l'infanzia, la famiglia e gli affetti, piegandosi giocoforza al ruolo di rabdomante per pura sopravvivenza.
Il romanzo di Beccati, pur non possedendo la consistenza e la rigorosità di un romanzo storico a tuttotondo, tuttavia esplicita il desiderio dell'autore di addentrarsi nei meandri di un'epoca lontana, minata da vendette, superstizioni, dove le distanze sociali sono segnate da solchi incolmabili, dove il quotidiano è segnato da fame e miseria.
E' rappresentata la Genova dei palazzi del potere e l'altra Genova, quella della gente comune, delle donne che aspettano il proprio uomo imbarcato, dei piccoli artigiani che riempiono i vicoli con le loro mercanzie, eppoi i negletti ed i disperati.
La scrittura di Beccati è rapida, dominata da periodi brevi, frasi cristalline e qualche vezzo linguistico, note positive che a tratti si scontrano con la necessità del lettore di trovare maggior spessore narrativo. In compenso l'idea che supporta il contenuto è buona ed il personaggio di Pietra è positivo, fotografando una storia tutta al femminile, una storia in bianco e nero, una storia densa di umanità e di cattiveria come due facce della stessa medaglia.
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Il guaritore di maiali
Il mistero degli incurabili
L'uccisore di seta
Cos'è l'amore?
Questo romanzo parla dell'amore e del potere che esercita sulle persone...
La storia è narrata dal punto di vista di Severo, il protagonista, che si è murato nella cantina di casa sua per togliersi la vita ed avere finalmente la pace che ha tanto cercato. Mentre il suo corpo lotta con l'istinto di sopravvivenza Severo percorre un viaggio interiore narrando, saltando dal presente al passato, cosa lo ha segnato nella vita e cosa o chi lo ha portato a questa scelta.
Tutto è scritto in modo scorrevole addentrandosi nelle profondità dell'animo umano. Il protagonista crede di avere un mostro dentro che rischia di schiacciare le persone che lo circondano e che a suo modo ama. Nel ricordare da dove è iniziato tutto scopriamo che lui da giovane era felice e spensierato, aperto alla vita grazie ad una ragazza: Anita. Bellissima ed eterea ma bloccata su una sedia a rotelle. I due si innamorano e passano moltissimo tempo insieme fino ad un terribile giorno, quando Anita scompare misteriosamente. Per anni la sua famiglia e Severo l'hanno cercata, non si sono mai arresi ma purtroppo non si è mai scoperto niente. Da quell'episodio Severo si richiude in se stesso, si incolpa e inizia a isolarsi dal mondo. Gli anni passano e le vite vanno avanti, Severo incontra una donna, la sposa e mette su famiglia. All'apparenza sembra un uomo normale ma dentro è rotto, non ha mai dimenticato il suo unico amore infatti come scopre una nuova pista sulla sua scomparsa si mette subito ad indagare scoprendo poi una verità a cui per anni non ha voluto pensare: Anita era morta. Questa è la notizia che fa crollare tutto il suo mondo e che lo convince ulteriormente sulla decisione da prendere.
Da ogni pagina traspirano pensieri profondi sull'amore che fanno riflettere il protagonista, che hanno fatto riflettere me e che sono sicura farebbero riflettere chiunque leggesse questo romanzo. L'autrice ha poi deciso di dare il colpo fatale con un finale inaspettato e da lacrimuccia.
Quando ho iniziato a leggere il romanzo mi sono un po' pentita della mia scelta, non mi piaceva. Leggevo le prime 2 - 3 pagine e poi lo chiudevo. Ci ho messo più di 15 giorni per decidermi a leggerlo come si deve. Mi inventavo mille scuse pur di rimandare la lettura: un giorno dovevo lavare subito i capelli per approfittare del bel tempo, un altro dovevo assolutamente sistemare l'armadio, quello dopo avevo il mal di testa... insomma inventavo scuse su scuse. Finché poi mi sono convinta a dargli una possibilità.
Ho divorato L'orma sul cuore in mezza giornata, a libro concluso ho dovuto ricredermi e anzi mi sono pentita di aver aspettato tanto. Non mi era mai capitato, si ho letto romanzi scritti male e privi di fondamento ma il mio parere era lo stesso dalla prima all'ultima pagina... mai mi era successo di infatuarmi di un libro che all'apparenza non mi convinceva.
Teresa Donatantonio ti conduce mano per mano in un viaggio attraverso l'animo umano facendoti riflettere sulla vita. Alla fine si rimane un po' amareggiati ma si comprende che l'amore indebolisce o fortifica le persone, perché è il sentimento più importante di tutti. Se non sapessimo cos'è l'amore non lotteremmo così tanto per cercare la persona giusta, non saremmo gelosi e non odieremmo chi c'è lo porta via...
L'amore è ovunque, è in ogni attimo della nostra vita, è in ogni sfumatura: nella commozione di una mamma nel tenere in braccio per la prima volta il proprio figlio, nell'impazienza di un gatto o di un cane nell'attendere l'arrivo del proprio padrone con il muso schiacciato alla finestra, nello sguardo di pura adorazione di un uomo verso la propria donna...
Un romanzo riflessivo e profondo che consiglio di leggere.
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I MEMORABILI IN MUTANDE
Quando, a scuola, per alleggerire l’ansia delle interrogazioni, suggerivano di immaginare il professore in mutande, con me non funzionava.
Forse è anche per questo che questo libro non mi è piaciuto.
Gli sventurati protagonisti “in mutande” di cui qui si parla sono Socrate, Dante, Archimede, Carlo Magno… e altri diciassette nomi illustri.
Se avessi letto meglio la presentazione dell’opera, avrei meglio compreso che l’intento del libro è quello, sicuramente curioso, di demitizzare quei personaggi che per lunghi pomeriggi e innumerevoli notti hanno colonizzato, o avrebbero dovuto farlo, la nostra giovane mente. Il fine con cui è stato scritto è forse il migliore di tutti: una sana e grassa risata!! ma se lo avessi compreso, lo ammetto, probabilmente non avrei scelto il libro, per gusto personale.
Mi sono quindi ritrovata al cospetto di quel genio di Archimede mentre fa il bagno con le paperelle, di quell’intrepido di Annibale che si stordisce di papaveri e di quel valoroso (e pare ottimamente dotato) di Carlo Magno che….
Ogni episodio è raccontato in ordine cronologico ed è preceduto da un disegno in bianco e nero a caricatura del personaggio protagonista.
I due autori, scrittore e illustratrice, citano nel loro proemio Achille Campanile, suggerendo un’ironia breve e a tratti irreale.
Se dal punto di vista ideale, è un libro che potrebbe trovare un suo spazio nel mondo editoriale per i teenager, l’opera in sé non raggiunge il traguardo.
L’umorismo su cui si basa il successo di questo esperimento letterario, è grossolano e raramente mi ha fatto sorridere. Probabilmente la mia avversione alle parodie ha influito negativamente e il risultato infine mi è parso come un cabaret di cattivo gusto.
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Il tuono è passato, ora cade la cenere
Recensire i volumi successivi all'esordio di una saga non è mai compito facile. Il secondo potrebbe essere pressocché uguale al primo, rivelarsi inconcludente o perfino migliore sotto ogni aspetto.
Il caso di Tuono e Cenere è quello in cui ci si trova dinnanzi alla naturale prosecuzione della trama e dei risvolti personali introdotti nel primo volume, continuando la storia esattamente dove l'avevamo lasciata, e tirandosi dietro tutte le implicazioni di carattere bellico e sentimentale.
Detto ciò, non c'è molto altro da aggiungere, poiché il volume è una tappa obbligatoria per tutti coloro che vogliono giungere alla conclusione, e non fa altro che descrivere le battaglie e l'evoluzione dell'epidemia da un punto di vista diverso, introducendo nuovi personaggi e mettendone al margine altri, descrivendo nuove situazioni (talvolta inutili ai fini della trama, ma comunque godibili) e spostando l'accento su un pericolo decisamente più esteso (non solo geograficamente, ma anche umanamente).
Si affronterà così una lettura basata su cliché abbastanza comuni, quali vari tipi di infetti, scoperte che possono cambiare le sorti del mondo, predoni e razziatori che aggiungono sciagura al già vastissimo panorama di desolazione, baluardi e sopravvissuti vari, conquiste di vario genere e suggerimenti utili da portare in tasca per sparare bene e crearsi un generatore d'elettricità in qualche minuto. Dopotutto, ogni libro Z che si rispetti è fatto proprio di questo: una suspance di fondo in cui le situazioni possibili sono chiare ed intellegibili, ma non sai mai da che parte arriveranno e come andranno a finire, portandosi dietro personaggi importanti e centellinando la speranza del lettore fino all'ultimo capitolo (che, però, qui non è mai ultimo, essendo in programma la pubblicazione del volume conclusivo della trilogia).
Quello che posso dire per "variare" la discussione è che questo secondo libro, forse perchè ormai sappiamo che tipo di lettura si affronta e qual è lo stile, si legge più facilmente, ed il voto di piacevolezza è stato penalizzato dai lunghi tempi d'attesa fra un volume e l'altro che vanno a minare la memoria di un piccolo esercito di persona e relazioni createsi nel primo volume. Questo, però, è da "imputare" al destino fatuo che ha portato via un buon autore nel fiore dell'età.
A tal proposito, poiché a me stesso a volte è capitato di disprezzare così tanto una saga da fermarmi al primo volume, posso dare un prezioso suggerimento: se di "epidemia zombie" vi ricordate almeno il profilo generico dei gruppi di superstiti, qualche nome e qualche obiettivo militare lasciato in sospeso, date al secondo volume un'ottima chance.
Viceversa non è detto che abbiate scarsa memoria: come ho specificato nella recensione del volume precedente, potrebbero non piacervi abbastanza gli zombie col cervello marcio.
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CINQUE RAGAZZE IN GIAMAICA
Se siete delusi/e dalla vostra vita sentimentale, se volete lasciarvi travolgere da una vacanza fatta piena di relax, divertimento e bei fustacchioni, partite insieme alle cinque protagoniste di questo romanzo per la Giamaica.Questo libro mi ha proprio conquistata, l’ho trovato esilarante, romantico, pieno di avventura e leggerezza.
Mi ha molto incuriosito sia la trama, che il titolo che la bellissima copertina con i colori della bandiera della Giamaica.
La storia gira attorno a cinque ragazze che vivono a Roma e che sono soprannominate lo”Squinternat Quintet”, tutte accomunate da relazioni amorose finite male.
Iniziamo con Giulia, 28 anni che esce da una storia con Pietro, un personale trainer pieno di sé e più concentrato su suoi muscoli che sulla sua fidanzata.
Poi c’è Mariasole, sposata con Paolo ha una vita piatta e monotona, il massimo del suo divertimento è uscire a mangiare una pizza con suo marito. La ragazza viene lasciata, in quanto Paolo le dice di amare un’altra donna, no…. in realtà è un trans e tra l’altro un ex amico dei tempi del liceo.
Dopo ancora c’è Sara sposata con un medico Carlo, il suo matrimonio finisce quando l’uomo si innamora di un’altra, mentre Susanna vive da parecchi anni una relazione con Silvio, non è pronta per il grande passo e il fidanzato la lascia per cercare nuove emozioni.
Infine, c’è Margherita disordinata e perennemente in ritardo, le altre ragazze la definiscono “donnavventura”, in quanto è lei che lascia i suoi ragazzi, in una decina di anni ha avuto sette storie tutte finite male, è in attesa del principe azzurro.
Una sera le ragazze si ritrovano in un bar e tra un cocktail e l’altro è Giulia che spiazza tutte e fa un annuncio, parte per la Giamaica per tre mesi ha trovato un lavoro in un villaggio turistico il Sunset Inn Resort. Le amiche inizialmente titubanti decidono di seguire la ragazza.
Così inizia un’avventura molto divertente e spiritosa e sembra anche al lettore di essere in vacanza con loro, viaggiare in quel paese pieno di paesaggi meravigliosi e con delle spiagge bellissime.
Ad un certo punto mi sono chiesta io cosa conosco della Giamaica?
Ma direi quattro cose che vi elenco di seguito:
1- Rasta: la parola fa riferimento a quella tipica pettinatura che hanno i ragazzi del posto e mi ricorda anche un mio compagno di classe un po’ strano beh…….in realtà ho scoperto,non è giusto dire così, il vero nome di questa pettinatura è dreadlocks, viene chiamato rasta impropriamente prendendo spunto dal rastafarianesimo che è la religione locale, che crede nel Dio Jah;
2- Bolt, il pluripremiato atleta, l’uomo più veloce del mondo;
3- Bob Marley e la musica raggie:
4- Marijuna.
Dopo la lettura di questo libro ho conosciuto sicuramente meglio questo paese è ho anche sfatato dei luoghi comuni che in modo errato avevo sentito dire sulla Giamaica.
Ma torniamo al romanzo, le ragazze intraprendono questo viaggio per divertirsi, per avere una rivincita personale nei confronti dei loro ex ma in realtà loro hanno bisogno e sono alla ricerca dell’amore.
Al loro arrivo vengono accolte da Nelson, che hai il compito di accompagnare i turisti in hotel e per i vari viaggi organizzati lungo l’isola. Questo in realtà è il suo primo lavoro, il secondo è quello conosciuto come Big Bamboo ossia turismo sessuale.
Nella storia entrano anche altri due ragazzi Mike, americano che vuole diventare archeologo e lavora come barista del villaggio e come spogliarellista e Odisseu, un cantante brasiliano.
Nei mesi della loro vacanza i tre e le ragazze ne combineranno delle belle tra di loro, rivalità, incomprensioni e anche tanto amore.
E’ stato interessante conoscere il motivo per cui questi ragazzi o almeno alcuni di loro si prostituiscono per soldi per poter studiare o realizzare i loro sogni, infatti ogni capitolo è nominativo e la storia viene raccontata da vari punti di vista.
Mi sono piaciute moltissimo le parti romantiche del libro e il fatto che ci sono molti testi di canzoni e alcune di queste le canticchiavo anch’io.
Il libro è scritto in maniera molto scorrevole e accurata, gli autori hanno saputo trasmettere attraverso le pagine le emozioni, le paure e la voglia di ricominciare che hanno le protagoniste.
Mi è sembrato alcune volte di guardare una fiction a episodi, come in una commedia romantica di qualche regista italiano di oggi.
E’ stato sicuramente per me una sorpresa leggere un libro che è stato realizzato e scritto da più autori emergenti e soprattutto a mio avviso molto talentuosi.
Consiglio questo libro a tutti perché è divertente, spiritoso, romantico, sorprendente e perché ti fa capire che nonostante tutto i veri sentimenti come l’amore ma soprattutto l’amicizia valgono più di ogni altra cosa.
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... BCE ECB EZB …
“Devi credere in qualcosa. Se non è la religione, credi nell’istinto, nel destino, nella vita, nel karma o in qualsiasi altra cosa.”
Lorenzo Fossati è un personaggio interessante. A bordo della sua MV Agusta F4, accompagnato dal rombo possente del motore, è l’uomo giusto cui ci si rivolge quando c’è qualcosa di grosso da risolvere.
All’inizio è soltanto un caso di omicidio: il Presidente del Consiglio italiano viene ucciso da un cecchino. Seguono altri eventi delittuosi e misteriosi che risultano essere collegati al primo. E poi c’è una donna, bellissima, bionda e pericolosa, con una vita davvero interessante, proprio perché avvolta nel mistero.
Mentre i complotti si susseguono e si intrecciano con un ritmo vorticoso, fra indizi da decifrare, esplosioni e sparatorie, il lettore è pienamente consapevole che i due personaggi più interessanti sono destinati ad incontrarsi per poter venire a capo della matassa che coinvolge questioni economiche di equilibrio internazionale.
È un bel thriller, scritto bene, che non si lascia sfuggire le migliori strategie narratologiche, ideali per avvincere il lettore, interessarlo e intrattenerlo in piacevolissime ore di lettura.
È un romanzo che ha radici in temi di interesse pubblico, come il signoraggio, il sistema di creazione della moneta, la soluzione alla crisi del debito e altri argomenti connessi. Nonostante gli argomenti, prettamente economici, è un romanzo che si legge piacevolmente e che porta a riflessioni di carattere generale. Le teorie, alla base della cospirazione, sono interessanti e finalizzate a costruire l’intrigo e la situazione di pericolo. La trama è complessa, ma ben motivata e strutturata, risultando verosimile ed avvincente.
È costituito da capitoli brevi e con chiusure ad effetto che intrappolano l’interesse del lettore. Si legge, quindi, con un ritmo serrato, dinamico, che non tralascia colpi di scena. Il lettore ha quasi l’impressione di guardare un film, grazie a descrizioni precise e dettagliate e ad una scelta lessicale appropriata.
È un romanzo che consiglio agli amanti del genere, ma anche a tutti coloro che sono alla ricerca di un romanzo interessante che non li faccia annoiare.
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Exit strategy
Quasi un sospiro di sollievo si tira quando il libro si conclude, perché fa male leggerlo; le pagine scorrono veloci, infarcite di uno stile così rude, ma al tempo stesso ricercato che non permettono la resa; la trama pur essendo il quarto capitolo di una trilogia o un sequel come piace definirlo al suo autore, è piuttosto semplice: si narrano le vicende di uno scrittore omosessuale, a cui l'autore ha prestato il suo nome creando un gioco di specchi che disorienta, già in odor di pensione e del suo trasferimento da Roma a Milano.
Cosa riesce, allora, ad emozionare in modo così profondo?
Se la lettura avviene fluida e costante, si riesce a vivere le situazioni e l'angoscia, il senso di vuoto, che attanaglia il protagonista perso in una realtà che non vuol vivere, ma che è costretto a guardare con occhi spalancati.
La personale catarsi del protagonista, galleggia a mezz'aria sulle vicende italiane, il contatto con la realtà si ha nelle vicende di Berlusconi degli ultimi tre anni, scorci di televisione spazzatura ricordano che è il nostro paese quello raccontato e insinua il senso di disperazione, di assenza di possibilità di ripresa, di felicità, di realizzazione.
Come fu per “Resistere non serve a niente”, ma con una punta di cattiveria in più, il lessico è quasi sconcio, forte, scuote gli animi, costringe a riflettere e ad interrogarsi attraverso il paravento dell'omosessualità, di un mondo così lontano dalla regola -così lo racconta- fatto di escort e di sesso estremo, per far trasparire la voglia di normalità, che è l'unica via di fuga, l'unico vero rifugio per una serenità forse più tiepida, ma vera.
Non è una sconfitta, non è il riposo del guerriero che dopo una vita fatta di estreme azioni e di tentativi di ricercare in un estetismo rifocillante, non è la rassegnazione di chi non ha più soldi per comprare i propri desideri, è la consapevolezza di essere giunti alla fine di un percorso e di non avere più voglia di cercare qualcosa che non esiste se non nell'evanescenza delle proprie immagini mentali.
La crudezza con cui si racconta il lento decadere della madre malata, affetta da una demenza senile ormai irrimediabile, distrugge, perché descrive con chiarezza le molte realtà che esistono, i pensieri non detti, ma fatti trasparire, la crudeltà di un egoismo così radicato, ma non ammesso, giustificato, mascherato; così metafora dopo metafora, la realtà intorno i mescola con la realtà immaginata, con i sogni non realizzati, e solo quando i sogni si realizzano, quando le sorprese si palesano ecco che quella realtà cruda, goccia goccia da concretezza alla vita sognata e tingendola di verità la rende vivibile.
Siti ci regala un libro schietto, fatto di note autobiografiche, forse, ma che lascia un segno così crudo e dolce da riconciliarci con il mondo, donandoci una speranza di felicità, non sofisticata, ma genuina.
Non è un testo da intrattenimento, ma un libro che va gustato e amato, assaporando ogni parola che nella sua schiettezza nasconde una ricercatezza lessicale che lascia interdetti.
Siti si conferma uno dei nostri migliori scrittori, per intensità e per stile.
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Elisabetta cercava l'amore, quello vero.
“I soldi non fanno la felicità” ed Elisabetta ne sa qualcosa. Figlia di un grande imprenditore di Taormina e di una donna capace di sentirsi sicura solo indossando abiti firmati, la protagonista si trova ad affrontare da sola gioie e dolori della vita aristocratica. Lei, giovane ed anticonformista, studentessa di psicologia infantile si divide tra una serata con gli amici e due ragazzi troppo diversi tra loro, ma ancor più da lei. Messaggini a tarda notte, canzoni e problemi troppo seri per una ragazza della sua età, portano Elisabetta in una dimensione parallela. Gli altarini si scoprono, la sua amica del cuore è in realtà malata di anoressia, e Gioia, che di malato non ha nulla viene considerata però tale data la sua omosessualità. Storie di giovani, che però di puro e candido non hanno ormai nulla. Un mistero si cela tra le mura di casa Primo e casa Cundari, la mafia c’entra qualcosa con la malattia di Michelle? Ci vuole un passo indietro, un passo per poter guardare da lontano la sua famiglia, per poter esternarsi da quel nido accogliente che in realtà, cela qualcosa di profondamente inquietante.
Questo è il primo libro di Nicole Pizzato che leggo, è un romanzo a “tema sociale” che, a mio parere, riesce ad avvicinare anche i più giovani ad un argomento impegnativo come può essere la mafia. È riportato tutto in modo semplice, niente giri di parole, solo la chiarezza e schiettezza necessarie a spiegare al meglio un argomento delicato come questo. La storia tra la protagonista e Raul, giovane Brasiliano dal bell’aspetto, mi ha tenuta incollata alle pagine, suscitandomi curiosità e una gran voglia di scoprire l’evolversi della loro relazione. Mi ha infastidita il personaggio della madre di Elisabetta, e leggendo mi sono trovata più e più volte a pensare a quanto in realtà non siano scontati certi valori che ci insegnano i nostri genitori. Valori fondamentali, come l’umiltà, hanno tristemente risparmiato alcuni soggetti, ed è davvero avvilente leggere come una donna si possa sentire completa solo indossando un abito “Gucci” e sentendosi così qualcuno solo indossando il nome di un altro. Quanta insicurezza può esistere in una persona che non è capace di guarnire la sua vita con i nomi dei suoi cari, ma solo con quelli di stilisti famosi? Ad alcuni la lunga lista di grandi marche potrebbe infastidire, specialmente all’inizio quando non si conosce bene la personalità della madre, e quindi può dare l’idea di essere un libro un po’ frivolo. La storia racconta di alcuni “incontri clandestini” con Raul, e non mancano gli accenni sessuali, ma intendiamoci, nulla di volgare o esageratamente sfrontato. Chi avrà letto alcune delle mie recensioni precedenti saprà che io sono un po’ “bacchettona” da quel punto di vista e quanto un libro sfocia nel volgare mi infastidisce, ma in questo le parti “d’amore” sono descritte in maniera così dolce da far volare l’immaginazione e lasciare il lettore ad affezionarsi ancora di più ai due protagonisti. I dialoghi sono scritti in maniera semplice, a volte con qualche accenno dialettale e con qualche parola colorita, ma non ci ho trovato nulla di male, solamente ragazzi di vent’anni che usano qualche “minchia” di troppo per dare enfasi alle loro conversazioni … e quale ventenne non lo fa? Anche in questo ho trovato veritiero il racconto di Nicole, descrive i giovani alla perfezione, e leggendo mi sono ritrovata ad immaginare i loro gesti e la sfrontatezza che solo un ventenne può mostrare. Mi sono piaciuti gli accenni alle canzoni dei “Negramaro”, una delle quali porta proprio il nome del libro, e alcuni scambi di sms tra Elisabetta e Raul mi hanno fatta sorridere, insieme a lei. Una cosa negativa che ho trovato (anzi, l’unica) sono alcuni errori di grammatica, non parlo dei discorsi diretti, espressi in un linguaggio dialettale, ma proprio qualche errore qua e la, forse solamente errori di battitura, ne ho notati un paio, ma nulla che comprometta la lettura del libro, che sentirei di consigliare ad un pubblico giovane, che cerca una lettura semplice e rilassante ma allo stesso tempo di spessore. Termino la mia recensione scrivendo una frase che ho trovato all’interno del libro e che mi ha colpita:
“Elisabetta cercava l’amore quello vero, puro. Quel sentimento che ti fa sentire la febbre e i brividi alla pancia. L’amore quello citato nelle poesie dei poeti romantici. L’amore che non guarda in faccia niente e nessuno, nel quale non conta l’automobile che ha l’altra persona perché la seguiresti in ogni parte del mondo, anche a piedi nudi”
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Il figlio di Philipp Meyer
Che l’intellettuale americano abbia sempre sentito l’esigenza di consolidare le origini e le radici della giovane nazione che gli ha dato i natali è cosa nota. Basti pensare al disagio più o meno evidente in autori come Henry James, nato a New York e morto a Londra, o T.S.Eliot nato a S.Louis e morto anche lui a Londra, che elessero l’Europa e l’Inghilterra, in particolare, a patria culturale di riferimento.
Il romanzo di Philipp Meyer, “Il figlio”, persegue l’obiettivo di ripercorrere la storia dell’America nelle sue tappe più significative, attraverso l’epopea di una grande famiglia di cui si seguono le vicende dalla metà dell’ottocento ai giorni nostri giorni.
L’autore si serve di tre diverse tecniche narrative: il racconto in prima persona dove narratore e protagonista coincidono come nel caso di Eli, che può essere considerato il vero effettivo capostipite della famiglia, il racconto in forma diaristica che ha diversi precedenti nella tradizione americana, ma che richiama il più popolare classico inglese Robinson Crousoe di Defoe nel caso di Peter, e la narrazione in terza persona, relativa al personaggio di Jeanne Anne, tentativo quest’ultimo di esposizione obiettiva e imparziale dei fatti.
Un romanzo avvincente che tradisce una profonda voglia di storia, che dia dignità all’uomo e all’intellettuale americano, anche se dai fatti troppo spesso traspaiono ombre ed eventi poco edificanti.
La tematica affrontata in questo romanzo non è certamente nuova, basti pensare all’opera di Thomas Berger, più nota per la trasposizione cinematografica di Athur Penn “Il piccolo grande uomo” o al film “Il gigante” diretto da George Stevens, o ancora a “Balla coi lupi” di Kevin Kostner tratto dal romanzo di Michael Blake. Tutte storie ambientate nel Texas.
Il personaggio che assume maggiore spessore è senz’altro Eli, che dopo aver visto sua madre, sua sorella e suo fratello trucidati dagli indiani, viene da questi rapito e portato nei loro accampamenti dove trascorrerà alcuni anni. La vita a contatto con una natura aspra e ostile, a fianco di uomini il cui comportamento spietato risponde quasi sempre a una logica e a una morale primitiva, ma non priva di senso né di lealtà, rende Eli un giovane ardito e pone le basi per l’uomo senza scrupoli che sarà.
Attraverso il suo racconto seguiamo parte della storia del Texas, dalla lotta contro i pellerossa, a quella contro i messicani, dalla guerra di secessione all’esproprio dei territori per lo sfruttamento dei pozzi petroliferi. Una storia dura, che mostra l’altra faccia dell’american dream e che spiega la nascita delle grandi ricchezze e dei centri di potere.
Il diario di Peter, uno dei discendenti di Eli, che si trova ormai a essere parte di una famiglia diventata potente, mostra, al contrario, il disagio di chi non sente di condividere scelte prive di scrupoli che spesso inducono all’omicidio e all’odio razziale. Peter è il discendente considerato debole, in una società in cui consapevolezza e coscienza sono sinonimi di fragilità. Ma la sua fragilità si trasformerà in coraggio nel momento in cui avrà la forza di abbandonare una famiglia nei cui valori non si riconosce e di rinunciare alla ricchezza, per vivere con la donna messicana, la cui famiglia aveva contribuito lui stesso a sterminare.
Il personaggio di Jeannie, descritto da un’anonima voce narrante esterna alla storia, è interessante per l’evidente conflitto interiore che la anima: da una parte il desiderio di emancipazione e di parità di genere, dall’altra l’istintiva propensione verso un ruolo femminile tradizionale . Ella vive traumaticamente il suo passaggio dalla condizione di “mater familias” a quella di manager. Tutta la sua vita è condizionata dalle sue scelte, anche l’amore, il sesso e il rapporto con i figli.
Un romanzo, questo di Meyer, molto ben articolato, il cui titolo, “Il figlio”, al di là di un riferimento specifico a questo o a quel personaggio diviene la metafora dell’uomo americano nei suoi molteplici aspetti: egli può essere audace e coraggioso, prepotente e violento come Eli, sensibile come Peter, desideroso di emancipazione e tradizione come Jeannie.
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Come un respiro interrotto
Dopo l'ottima prova di scrittura con “L'ultimo ballo di Charlot”, giunto secondo classificato al Premio Campiello 2013, Fabio Stassi è da pochi giorni nelle librerie con il suo nuovo romanzo.
“Come un respiro interrotto” è un romanzo che ci regala un autore ulteriormente maturato, che ha cercato strade personali per esprimersi al meglio, raggiungendo completezza di contenuti e di stile.
Stassi compone la trama del suo lavoro utilizzando tante tessere, ossia tante voci, divenendo la sua penna un collante per realizzare un quadro di vita multicolore.
L'impatto è forte e disorientante, una coralità di voci che porta in scena volti e storie del passato, un'alternanza di punti di vista, un brulichio di sentimenti che tratteggiano una donna misteriosa; lei è Sole, alla brillantezza attribuita dal nome fa da contraltare una coltre nebbiosa che la avvolge da sempre, passato e presente, una ragazza degli anni Settanta, una cantante, una figlia, una nipote, una sorella, un'amica.
La caratterizzazione di Sole attraverso queste pagine è un vero capolavoro, che brilla per intensità, raffinatezza; è una protagonista che si compone un pezzo alla volta fino alla rivelazione finale, in cui tutti gli elementi accumulati per strada prendono forma, dando un volto a quell'immagine eterea e sfumata che l'autore ha creato lungo il percorso narrativo.
Complementari e indispensabili tutte le figure che le ruotando attorno e che ci parlano di lei, spogliandosi di segreti e condividendoli direttamente col lettore in lunghi monologhi.
La storia raccontata da Stassi è un'apoteosi di vite, di sofferenze, di sacrifici, di abbandoni, di amore; è un groviglio di individualità, è un esempio di cuore nella famiglia e nell'amicizia.
Fabio Stassi raggiunge un eccellente risultato di scrittura, percorrendo strade espressive nuove e vincenti rispetto al lavoro precedente, abbandonandosi a tratti ad una scrittura viscerale e dimostrando notevoli capacità di indagine psicologica attraversando indistintamente e con efficacia l'universo maschile e quello femminile.
E' un lavoro che parte lentamente fino raggiungere un ritmo ed una profondità sconvolgente, caricandosi di un'impetuosità emotiva verace.
Il mondo rappresentato da Stassi è senza veli e belletti, un mondo che ti mette alla prova in famiglia e nella società, un mondo amaro, un mondo di ieri che si riflette su quello attuale.
“Come un respiro interrotto” sa regalare emozione e commozione, cavalcando le onde dei ricordi, delle immagini, delle parole, dei pensieri.
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Pensavo fosse amore e invece....
Brian ha quasi cinquant'anni, un matrimonio fallito, un buon lavoro e amici con cui dividere serate e confidenze.
Una vita ricca la sua ma, nonostante questo, sente che manca qualcosa.
C'è un luogo, però, che riesce a rappacificarlo con i suoi pensieri e i suoi stati d'animo: il Camposanto di San Gervasio.
Da questo luogo suggestivo trae un profondo senso di pace, quello che realmente gli serve per riordinare idee ed emozioni.
Un giorno, nel visitarlo per l'ennesima volta, si imbatte in una sconosciuta.
La donna è avvenente e ne resta subito ammaliato.
Ha voglia di conoscerla, di carpirne i segreti e per questo inizia con lei una conversazione dai toni confidenziali nella quale si sorprende a confidarle particolari della sua vita privata.
La donna si chiama Livia e per Brian è la donna giusta, quella che attende da sempre.
Dopo questo incontro non sarà più lo stesso uomo e Livia occuperà prepotentemente i suoi pensieri.
Per giorni spera di poterla rincontrare finché questo accade.
Inizia, così, un rituale di corteggiamento al quale Livia, già sposata, cerca di sfuggire ma Brian, non può e non vuole rinunciare.
Rita Bignante è una scrittrice emergente originaria di Torino ma che vive e lavora a Cumiana e questo è il suo secondo romanzo.
La scrittrice lascia raccontare questa storia d'amore al protagonista in prima persona, utilizzando un linguaggio moderno.
La scrittura è fluida, immediata ma troppo infarcita di citazioni letterarie e di rimandi storico/artistici che, invece di fornire una cornice romantica e d'altri tempi alla storia, diviene quasi una forzatura del testo tanto da risultare pesante e, in alcuni punti, inappropriata. L'autrice, infatti, sembra essersi concentrata più su questo aspetto che sui dettagli della storia d'amore che risulta carente di emotività e poesia. Mi chiedo:" Tutto questo è per nascondere le pecche della trama o solo un tentativo di arricchimento del testo? Sinceramente non saprei rispondere.
Unico punto a favore è un finale che sorprende e regala un' emozione.
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- sì
- no
Un concerto poetico
In questo libro di poesie la musica si forma attraverso le parole ed i versi di questo autore.
Le sue parole escono con armonia e proprio il poeta decide con che ritmo farle uscire, e farle comprendere al lettore.
Il suo testo si divide in molte parti, tutte richiamano la musica: preludio, minuetto, suite, fuga, canzone, allegro, andante, adagio e corale.
Anche se il libro è molto veloce è stato bello riflettere su ogni poesia, cercare di comprendere il vero significato e di farla entrare nel cuore.
Ovviamente come in tutte le raccolte di poesie non tutte possono piacere, ma una di queste mi ha colpito particolarmente.
Mi riferisco alla poesia intitolata “Preludio” la quale parla dell’amore che continua nonostante tutto e tutti. Un amore così grande che nulla può contrastarlo neppure lo spazio o il tempo.
Che altro posso dire?
È una bellissima raccolta di poesie da leggere e rileggere più volte, che ci fa comprendere come senza accorgercene stiamo perdendo le cose più care a noi esseri umani: I VALORI.
Lo stile utilizzato da questo poeta molte volte è intricato, ma non per questo perde di bellezza anzi talvolta la sua scrittura sibillina fa aumentare la magnificenza delle sue poesie.
Mi sento di consigliarvelo e vi auguro buona lettura!
P.S: Ringrazio moltissimo l’autore per la bellissima dedica che mi ha fatto trovare all’interno del suo libro!
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Il Tempo e le Stelle
“L’ostinato silenzio delle stelle” è una raccolta di racconti di respiro fantastico/fantascientifico che ha le sue radici nella partecipazione dell’autore al concorso nazionale RiLL, in cui si è distinto più volte. Per dare maggiore lustro a un talento che, secondo questa associazione, va tenuto nella debita considerazione, gli è stata data l’opportunità di pubblicare una piccola antologia di racconti, alcuni mai passati sotto gli occhi della giuria del concorso.
Malerba costruisce i suoi racconti ambientandoli in spazi prettamente fantascientifici come in contesti quotidiani o – addirittura – storici, facendo sì che il fantastico si insinui nella realtà cui siamo abituati e arrivi a sconvolgerla.
Molto efficaci alcune intuizioni. La prosa, in generale, è buona. L’autore non si perde in descrizioni pedisseque, né in parentesi aggiuntive su personaggi che vanno compresi semplicemente tramite la lettura. Non spreca parole, va all’osso dell’immagine o del concetto su cui fonda i suoi racconti. Purtroppo, si nota in più di un’occasione un uso improprio di alcuni termini unito a piccoli arcaismi leziosi nella costruzione di alcune frasi, dettagli che avrebbero dovuto essere rivisti prima della messa in stampa. Quando Malerba è “sul pezzo”, infatti, queste stonature spariscono, facendo capire che l’autore possiede ancora un buon margine di miglioramento.
L’uso delle proprie passioni come materiale su cui fondare i racconti è massiccio, non sempre condivisibile. La passione per il Giappone, per esempio, traspare in diverse occasioni ma spesso si manifesta con un fiorire di termini in lingua nipponica che possono solleticare un lettore a sua volta appassionato, ma confondere e annoiare chi non se ne intende. Un eccessivo, anche se innocente, sfoggio di erudizione all’interno di un’opera di narrativa non è mai una scelta felice.
Si passa da monologhi interiori a storie più convenzionali, in una ricerca di forme narrative che non si pone dei limiti. Alcune idee sono innovative, quasi sorprendenti. Altre danno l’idea di non essere state sviluppate a sufficienza e al termine della lettura lasciano l’impressione di qualcosa non perfettamente compiuto.
In generale, il gradimento risulta ondivago, ma non per questo negativo. Le storie di Massimiliano Malerba meritano la pubblicazione; hanno solo bisogno di un ulteriore lavoro di cesello.
La raccolta si apre con “All’alba”, una storia ambientata in un episodio chiave della storia giapponese e incentrata su un duello, un passaggio all’età adulta. Il guerriero scelto per tale duello, però, si rivelerà essere più che umano. La passione già citata per il Giappone si manifesta di nuovo, più avanti, con il racconto di pura fantascienza che dà il titolo alla raccolta: “L’ostinato silenzio delle stelle”. L’autore prova ad immaginare come e quanto i sogni di un uomo sotto sonno indotto, impegnato in una missione spaziale, possano sostituirsi alla sua vera vita e alle sue vere emozioni.
Un rapporto vagamente malsano con l’autorità emerge in due racconti, molto diversi fra loro. In “Il funzionario”, un uomo si confronta con colui che dovrà farlo morire, come previsto dalla legge. In “Il colloquio di lavoro”, invece, Malerba giostra con straordinaria bravura un colloquio come fosse un duello, in cui le parole e le forme retoriche sono le armi che spilleranno sangue.
“L’ombra” , “Nella notte assetata” e il racconto di chiusura “Corrispondenze” si fondano sui paradossi temporali, evidentemente un tema molto caro all’autore. “Le stelle d’inverno” parla del periodico ritrovamento di creature aliene, mentre “L’uomo lunare” è una spiritosa indagine giornalistica su un uomo che crede e ha fatto credere di aver posato piede sulla Luna.
Chiude la raccolta una breve intervista all’autore, per inquadrarne meglio i gusti e la personalità.
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Ombre
Una storia con il sottofondo della musica, la musica di Verdi. Per tutto il libro la musica riempie i vuoti tra le persone, riempie la mancanza di parole, il vuoto indicibile di tutte le vite.
"Come quando rincasavo e già dal piano terra sentivo la sua voce che attaccava sempre sulla stessa aria, il disco di Verdi che mi ha regalato, quello che volevo.
A volte mi manca. E poi, altre volte, è il contrario. Tutto diventa terribile, prende corpo, tutto ricomincia, e allora la musica la sento di notte che ronza come uno strano canto, e quel ritmo, quel respiro, la mano sulla ringhiera, il pavimento che scricchiola, la luce del corridoio, sai, il temporizzatore, e allora tutto mi torna in mente, ed è colpa della musica se succede e vorrei che mi portassero via tutta quella musica e poi,
ascolto ancora."
La vicenda che non è mai raccontata e sta alla base di tutti i monologhi è lo stupro di una ragazza, Claire. Il libro è fatto di monologhi in cui l'io monologante cambia in continuazione. Ho dovuto rileggere alcune parti all'inizio perchè non riuscivo a capire chi parlasse. A volte è Claire, a volte l'amica e vicina Cathe, a volte lo stupratore. Ma non pensate a Marai, perchè la scrittura è molto diversa. Non c'è introspezione del personaggio, differenziazione psicologica, no. Le voci sono tutte simili, non c'è cambio di tono. Tutti i personaggi sono parte dell'unica anima dell'autore che sembra parlare sempre di se stesso con le voci dei diversi personaggi.
Le persone non sono mai descritte direttamente, come se non avessero una precisa consistenza ma attraverso particolari: gli occhiali, il cappotto rosso, lo smalto delle unghie. La violenza stessa è vissuta attraverso particolari irrilevanti: la mano sulla ringhiera, lo scricchiolio delle scale.
La voce narrante dello stupratore non è diversa dalle altre, lo stesso vuoto di vita, lo stesso bisogno di un incontro, di un contatto umano impossibile. Lo stesso desiderio/invidia per le vite degli altri di cui ci si sente solo spettatori come il pesce rosso che guarda il mondo dalla sua boccia, separato da tutti. Cathe e lo stupratore sono simili, lo stupro stesso riporta Claire indietro, rispetto alla sua felicità, rendendola più simile alle altre voci narranti. Lo stupro serve a ripristinare un equilibrio momentaneamente rotto.
Il sentimento innominabile è la gelosia per la pienezza della vita altrui. Della vita che sembrava uguale e uguale non era.
"Perchè ci accorgiamo che le vite che sembrano uguali, col cavolo, non lo sono affatto, perchè quelli che ci capiscono non capiscono noi ma solo loro stessi.E noi amiamo l'estraneità degli altri per ciò che di noi vorremmo amare ma non capiamo."
La narrazione è fatta con un linguaggio originalissimo che a volte sembra un ibrido, ma un ibrido riuscito, con la poesia, senza quel tocco narcisistico che di solito caratterizza simili approcci. Con un tono, al contrario, dolente, di ricerca interiore che fa stare appesi alle parole.
Per sottolineare questo aspetto, a volte l'autore termina la frase con una virgola, omette una parola, lascia la frase interrotta come incomplete sono le vite descritte.
A volte, soprattutto verso la fine del libro, i personaggi vanno molto vicini a un incontro. Si pensa che alla fine qualcosa succederà.
Ma,
"io vorrei parlarle ma per dire cosa, se tutto quello che si può dire si sa già, ed è l'aria improbabile delle nostre mani, il pallore della nostra pelle o ciò che di noi arriva prima di noi stessi, forse, a dire che non siamo qui per continuare a mentire, che vorremmo, niente, niente-non volevo disturbarla."
La traduzione è molto buona, l'edizione curata. C'è anche a fine libro un commento del traduttore che spiega il suo lavoro e l'opera. Se ho ben capito, l'editore si ripropone anche l'encomiabile compito di salvare e riproporre capolavori del 900 dimenticati.
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Vivere in Vaticano
Negli ultimi anni il focus sul Vaticano e le sue vicende sembra essersi potenziato, tanto che si è ampliata una certa produzione saggistica sul tema.
Tralasciando certuni scritti a sfondo prettamente critico e scandalistico, mossi più dall'intento di raggiungere buone vendite a scapito di una corretta informazione, occorre vagliare con cura l'attendibilità delle notizie dal semplice fumo.
Chi non si è mai domandato cosa avvenga tra le mura vaticane, come funzioni questo micro apparato statale?
Sicuramente è un argomento che stimola curiosità e di cui si è disposti ad ascoltare volentieri.
L'autrice Matilde Gaddi ha deciso di raccogliere i ricordi personali e familiari in un piccolo saggio autobiografico; lei nata presso lo Stato Vaticano, come testimoniano in maniera indelebile i suoi documenti, da una famiglia ivi residente per il lavoro del padre.
Il racconto, pur nella sua semplicità, lontano dalla minuziosità di un saggio di un addetto ai lavori, tuttavia riesce a trasmettere al lettore tante informazioni precise, dalle più formali alle più spicciole e quotidiane, raggiungendo pienamente lo scopo di aprire il sipario sulla vita un po' “speciale” che si vive all'interno di quelle mura; mura che separano l'Italia da uno Stato estero, retto dal Santo Padre, mura avvolte da un alone di mistero.
I ricordi della signora Gaddi percorrono la prima parte del secolo scorso, anni densi di storia e di avvenimenti anche per il Vaticano, con il succedersi di figure notevoli di papi, lei che li ha conosciuti da vicino, percependone le diversità e le particolarità, ce ne offre qualche aneddoto.
Degne di nota durante questa lettura, le informazioni sullo statuto legislativo e normativo che gli abitanti laici del piccolo stato sono tenuti ad osservare; insomma per loro vivere tra quelle mura non significa solo usufruire dei benefici ma comporta anche il dovere di rispettare leggi e regole.
Una lettura rapida e suggestiva, in grado di svelare attraverso la storia della famiglia Gaddi, la storia di tante altre persone che prestano attività lavorativa per il Vaticano e là risiedono.
Una lettura dai connotati illuminanti anche per chi avesse masticato nozioni di diritto internazionale, arricchendo la conoscenza di regolamenti specifici e consuetudini cristallizzate nel tempo.
Aleggia forte tra le pagine tanta nostalgia da parte di chi scrive e la voglia di ricordare il proprio passato, la propria infanzia e adolescenza tra le mura di uno dei luoghi più noti al mondo, ma al tempo stesso più segreti, più magici, immerso in una perenne nebbiolina che ne conserva tutta la sacralità.
Un ringraziamento alla signora Matilde Gaddi per aver concesso una copia del suo saggio alla Qredazione.
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