Le recensioni della redazione QLibri

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Gennaio, 2015
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Vivere e non sopravvivere. Essere non solo esister

L’unica certezza del diciannovenne Ed? Non valere assolutamente niente. Queste sono le premesse con cui il giovane si presenta sin dalle prime pagine. Non è un genio, non ha caratteristiche che lo contraddistinguono dalla massa, non è bravo a letto, non eccelle negli studi né tantomeno nel lavoro ed è la pecora nera della famiglia. Vive in quella che definisce “una baracca” in uno dei sobborghi di Sidney con un coinquilino silenzioso ma dall’odore letale: il diciassettenne portinaio, canino amico a quattro zampe e gran bevitore di caffè zuccherato. Passioni? La lettura. Ama Audrey, collega tassista e vicina di casa che non lo considera altro se non «il suo migliore amico». Un giorno come tanti Ed si trova coinvolto in una rapina ma riesce a fermare uno dei criminali mentre tenta la fuga. Da quel momento, se da un lato riceve notorietà, dall’altro diventa il destinatario di misteriose carte da gioco. Qualcuno sa che oltre al leggere suo passatempo preferito è dilettarvisi con Audrey, Marv e Ritchie, immancabili compagni d’avventura. Ogni carta presenta un enigma. Quando nomi, quando indirizzi, quando semplicemente parole, il giovane è chiamato a svolgere delle “missioni” che consistono nel consegnare dei “messaggi” agli individui indicati su queste.
Scritto con grande ironia, scorrevole e sincero il romanzo scorre rapido – e senza tante pretese – tra le mani del lettore che però a tratti si domanda inevitabilmente dove voglia effettivamente andare a parare Zusak. Eh si, perché il problema principale che si riscontra nell’opera – o almeno per una buona metà di essa – è più che altro questo. Per tutto il libro ci si interroga su Ed, sul suo essere, sul suo ruolo e sul perché proprio egli sia stato scelto e da chi, ma in sottofondo, come una presenza non visibile ma palpabile aleggia quella domanda: Markus cosa vuoi dirci? Qual è il tuo messaggio? Ironia della sorte se si pensa al titolo…
Ed ecco che giunti alla seconda parte del libro, il componimento spicca il volo con tanto di lascito al seguito.
« All’inizio continua semplicemente a camminare. Ma appena abbasso lo sguardo sui nostri piedi mi accorgo che in realtà non stiamo andando da nessuna part. E’ il mondo che si muove: le vie, l’aria e le chiazze scure nel cielo. Ritchie e io siamo fermi » perché limitarsi ad esistere quando si può essere, sembra sussurrarci Zusak. Perché limitarsi a sopravvivere quando si può vivere? E’ una questione di scelta e di coraggio. Si può essere ovunque ma quel che fa la differenza è la persona e le sue decisioni. Si può optare per una vita in cui ci si accontenta, ci si consola degli insuccessi e dell’insoddisfazione con improbabili “scuse” , un’esistenza dove si accetta di coabitare con la menzogna pur di non ascoltare la verità ed affrontare il dolore. Oppure si può prendere la vita per quel che è e andare avanti senza piangersi addosso, vivere preferendo «inseguire il sole invece di aspettarlo», vivere e non solo sopravvivere, essere e non solo esistere, osservare con gli occhi e con il cuore, fare qualcosa per raggiungere i propri obiettivi ma soprattutto interrogarsi su questi perché tutti ne abbiamo, basta guardarsi dentro. Tutti possono fare la differenza se lo vogliono, chiunque può « vivere al di là delle proprie capacità » se lotta per farlo.
Per concludere, il libro si presta ad una lettura veloce con un linguaggio semplice e diretto, ma con un messaggio “tra le righe” che necessita di essere cercato così come lo stesso Ed è costretto a fare. E’ un romanzo che va affrontato, non basta leggerlo, va capito, un componimento dove il lettore è costretto a mettersi “spalle al muro”. Con una lettura superficiale può risultare privo di significato, quasi sciocco, soprattutto se paragonato a “storia di una ladra di libri”, ma in realtà il suo valore traspare proprio nella volontà di ricerca. Una vera e propria partita a carte o a scacchi parrebbe, dove ogni mossa è calibrata e determinata da una strategia, ma non con Zusak o altri, soltanto con noi stessi e con le fatidiche domande: siamo soddisfatti delle nostre vite? Cosa vogliamo veramente? E soprattutto chi siamo e chi vogliamo essere?

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Consigliato a chi ha letto...
a chi cerca un romanzo su cui interrogarsi ed ha voglia di "leggere tra le righe".
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silvia t Opinione inserita da silvia t    09 Gennaio, 2015
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La chiesa della solitudine

Dal buio ovattato e privo di sogni, attraverso le palpebre chiuse, la luce con violenza riporta alla vita e l'odore di morte e di malattia si rarefà laciando una sensazione di stordimento e panico; un nemico è stato estirpato, ma il danno più grande è stato ormai fatto: la convinzione tipica dei giovani di essere immmortali si è dissipata e con essa la possibilità di progettare un'esistenza che si sente come condannata e quindi inutile.

Così deve sentirsi Maria Concezione una volta scoperto che l'intevento a cui è stata sottoposta l'ha liberata da un cancro mammario, ma non certo dalle metastasi che inesorabili avrebbero rosicchiato ogni sua goccia di linfa vitale, col tempo, in modo lento, ma continuo.
Il più autobiografico dei romanzi della Deledda, senza dubbio il più intenso che abbia mai letto.
L'essenza che sottende alla struttura che lo sostiene è il senso di colpa, atavico, vissuto come precetto religioso che si oppone ad ogni pulsione carnale.
Come già avvenuto per Elias Portolou la lettura avviene in modo veloce, un lento susseguirsi di azioni, di sguardi, sensazioni ed emozioni.
Non è il piano narrativo a suscitare l'interesse del lettore, perché questo appare lineare, privo di guizzi talentuosi o originali: la vicenda è semplice e a tratti banale, ma gli attori che la interpretano la rendono viva, nonostante la morte che aleggia ovunque e che rende quasi palese la sua presenza nella pur totale assenza di consapevolezza da parte di tutti ad eccezione della malata.
I personaggi sono i fili colorati che compongono il ricamo, si intrecciano dando sostanza ad un canovaccio che altrimenti sarebbe scarno e anonimo.
Lo stile della Deledda è ancora più moderno ed essenziale che in passato: abbandonata quasi del tutto l'ispirazione verista attinge dal decadentismo, ma crea uno stile tutto personale che affonda le radici in un terreno imbibito si religione, ma anche di superstizione, di provinvialismo ed egoismo.
Ancora una volta descrive la Sardegna per raccontare il mondo, racconta la storia di Maria Concezione per parlare dell'Umanità.

Va letto, lasciato decantare e come un buon vino d'annata assaporato con calma e pazienza, affinchè possa penetrare nel profondo del proprio essere.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    08 Gennaio, 2015
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Il Poiana non molla la preda

Nuovamente insieme il giallista Loriano Macchiavelli -noto soprattutto per aver ideato il Brigadiere Sarti Antonio- e il cantautore modenese Francesco Guccini.
Il loro personaggio di maggior successo viene qui abbandonato, non c'è spazio per il Maresciallo Santovito, sostituito da un agente della forestale chiamato ad indagare sulla misteriosa scomparsa di un geologo nel bel mezzo dell'appenino tosco-emiliano.
Si eleva energica la passione per il territorio, la conoscenza e l'amore per luoghi alieni al caos metropolitano, microcosmi scanditi da tempi in cui è sconosciuto il frenetico vivere "civile" moderno; c'è poi la storia, ruotante attorno ad una serie di omicidi inseriti in un racconto dalle sfaccettature plurime coerentemente articolate attraverso i passi di un'investigazione che purtroppo, stringi stringi, lascia poco.
Colpa dei personaggi, spesso descritti frettolosamente e nemmeno in maniera tanto piacevole. Caso lampante è il protagonista Marco Gherardini, detto il "Poiana", che una volta tanto, suo malgrado, non deve preoccuparsi solamente delle attività riguardanti la salvaguardia del territorio e delle specie animali e vegetali che lo abitano.
L'esigua simpatia ispirata dall'investigatore per caso sembra incarnare la limitata propensione ad aprirsi tipica di alcune comunità montane, sospettose, chiuse in quel mondo difficilmente accessibile e gelose dei loro piccoli grandi segreti.
In questo caso i poco graditi forestieri saremmo noi lettori, sballottati tra parecchi personaggi dai metodi spicci o figure il più delle volte confinate sullo sfondo, un abbondanza di volti intriganti ma incapaci di generare vera passione, attori appena accennati di una storiaccia di sangue in cui la cupidigia dell'essere umano segna ancora una volta la rovina (seppur momentanea) di quel piccolo angolo di paradiso, reso meno incantevole da una pioggia incessante.
Dal titolo la pericolosità dell'acqua potrebbe apparire come assoluta protagonista, ed invece frane e smottamenti passano presto in secondo piano, deludendo chi si attendeva una maggiore dedizione alla causa ambientalista, solo sfiorata con l'evidente condanna al disboscamento folle e al dispregio delle bellezze naturali.
Non mancano comunque figure interessanti come quella di Adùmas, un po' bracconiere, un po' saggio conoscitore della montagna e dei suoi luoghi più impervi, altri invece restano al palo, come la bella Betty, protagonista di alcune parentesi rosa mai in felice accordo con la trama principale quasi quanto la digressione artistica su Piero Della Francesca.
Romanzo senza particolari acuti, piacevole per l'ambientazione e per la capacità di tenere desta la curiosità, anche se noioso in più punti e complessivamente poco entusiasmante una volta scoperti altarini e colpevole.
Si archivia tutto senza restare particolarmente colpiti, e per un romanzo giallo non è certo il massimo.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    07 Gennaio, 2015
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Elias Portolou

Un modo piccolo circondato dal mare, un mondo sicuro, in antitesi con un continente cattivo, pregno di pericoli.
Un'isola in cui purificarsi, un mondo al di là del mare dove marcire e quasi da non nominare.
Si respira un'atmosfera lontana in “Elias Portolou”, fatta di scarpe rotte, di montagne insidiose, di natura maligna, ma di sentimenti profondi e devastanti.
La Deledda descrive i personaggi in modo da renderli quasi vivi di fronte ai nostri occhi, regalando loro una forza espressiva degna di un film.
Ciò che colpisce al di là dello stile moderno ed asciutto è la capacità di suggerire, attraverso azioni e non descrizioni, gli stati d'animo, la vicenda e gli sconvolgimenti interiori sia di Elias, protagonista indiscusso e foriero della tematica principale, ma anche dei comprimari, riuscendo così in un'intricata trama fatta di numerosi fili a definire in modo perfetto il microcosmo in cui la vicenda si svolge.
La natura si pone come sfondo di questo teatro, in cui gli attori recitano la loro opera e se Elias è la rappresentazione dell'irruenza e della colpa, della forza di volontà sconfitta dalla passione, Maddalena, sposa di suo fratello, diviene a tratti la vittima e a tratti la tentatrice, la pura “colomba” e la peccatrice.
Il punto di vista, pur rimanendo sempre neutro, poiché la Deledda non si erige mai a giudice, si limita a descrivere, con dovizia di particolari, una realtà possibile, viene cambiato di continuo e Elias genera pietà, rabbia, compassione.
Elias pecca e poi si confessa, Elias promette e non mantiene, Elias genera e non accudisce.
Se ci si ferma al piano narrativo senza dubbio non si riesce ad apprezzare fino in fondo quello che è questo romanzo ed io stessa appena concluso, ho provato una delusione; troppo semplice, troppo veloce, ma poi, col passare dei giorni, quei personaggi, quei luoghi arrampicati su rocce scoscese, riaffiorano, quei turbamenti dell'animo divengono propri e tutto assume un senso più profondo e la vicenda trascende le pagine materiali del libro per diventare essenza di un tempo e di un luogo che a suo volta diviene essenza dell'umano sentire.
Elias diviene la Sardegna e poi il mondo intero; la Deledda si fa portavoce di un disagio universale ed è per questo che pur rifacendosi al verismo di Verga e della Serao se ne discosta, perché racconta un'epoca, descrive ciò che davvero esiste, ma non si limita a questo, riesce in un modo quasi magico a far respirare le emozioni, generando nel lettore un'empatia che porta a soffrire con i personaggi, non solo durante la lettura, ma anche dopo.
Lo stile, come accennato è moderno e minimalista, l'intensità del lessico rende la lettura non sempre scorrevole e le tematiche trattate spesso sono esasperate, ma non si deve far l'errore di scindere gli elementi che compongono il romanzo, perché essi se analizzati singolarmente appaiono ridondanti e e eccessivi, la maestria della Deledda sta tutta nel creare un'alchimia tale da rendere il tutto un prodotto di strepitosa intensità evocativa.

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Romanzi storici
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    06 Gennaio, 2015
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La parigina di Roussillon

1937. Lisette lascia Parigi, e un promettente impiego in una galleria d'arte, per seguire André in un villaggio della ventosa Provenza: è li che Pascal, l'anziano nonno di André, è rimasto solo e bisognoso di assistenza. Salvo arrivare a Roussillon ed accorgersi che Pascal non ha affatto bisogno di cure: nonostante l'età avanzata, passa le giornate a giocare alle bocce con gli amici ed a custodire gelosamente gli oggetti legati ai propri ricordi. Allora, se è questa la situazione, perché Pascal ha indotto il nipote e la sua giovane moglie a lasciare la capitale e i loro rispettivi lavori e ad accorrere in quel luogo sperduto?
Il motivo è legato proprio a Lisette – come lei stessa scoprirà presto con gran meraviglia – e a quell'epoca bella di fine '800 (la belle epoque, per l'appunto) in cui la Francia aveva accolto grandi artisti alla ricerca di ispirazione, tra cui pittori del talento di Cezanne, Pissarro, Gauguin, etc...

L'ultimo libro di Susan Vreeland – l'autrice de “La passione di Artemisia” – è indubbiamente pensato e ben costruito, più di quanto un veloce riassunto della trama lasci pensare.
Parte con un idilliaco “quadretto” di vita provenzale ma, già dopo il primo quarto del volume, vira verso toni drammatici: nell'anno 1940, infatti, la Francia sposa la causa antinazista, per poi diventare l'ennesimo obiettivo di conquista delle truppe hitleriane di invasione. A quel punto la “lista” di Lisette – rimasta a Roussillon con molte meno certezze di quando vi è giunta – acquista la sua reale importanza nella trama del racconto (che si conclude ad undici anni di distanza dal suo inizio).
Va dato atto alla scrittrice statunitense di aver saputo rendere in modo elegante e coinvolgente l'atmosfera di un piccolo paese della provincia francese – evidentemente attraverso un accurato lavoro di documentazione –, come anche di aver ben descritto le ansie di chi combatte una guerra mondiale tra le mura di casa, consumandosi nell'attesa del ritorno delle persone amate e nelle rinunce e insidie quotidiane da affrontare in solitudine. La parte centrale del libro (quella che abbraccia gli anni del conflitto mondiale) risulta perciò coinvolgente e piacevole.
I primi capitoli del libro non sembrano avere lo stesso passo: alla grande capacità descrittiva (di ambienti e abitudini, anche quando si tratta di delineare il particolare in poche parole) non corrisponde altrettanta bravura nel gestire quelle scene che dovrebbero gettare luce sui rapporti tra i protagonisti e che invece scontano dialoghi e situazioni a volte banali.
Discorso analogo per le ultime 150 pagine del libro, che – avendo sullo sfondo una Francia che prova a rialzarsi dopo la fine della guerra – si tramutano in una sorta di “caccia al tesoro”. E' vero che l'autrice saprà giustificare in parte tale sviluppo con un inaspettato escamotage della trama, ma ciò non ripaga della macchinosità con cui vi giunge.
Al netto di queste imperfezioni, “La lista di Lisette” resta un libro da leggere in quanto mirabile ritratto di una maturazione: quella di una donna che, inizialmente spensierata nella sua passione per l'arte, dimostrerà – a se stessa per prima – di saper tirare fuori una forza inaspettata nelle peggiori avversità.

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Avventura
 
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Zine Opinione inserita da Zine    04 Gennaio, 2015
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Mediterraneo

“Il Dio del deserto” è un mezzo, per Wilbur Smith, di condurci nuovamente in un regno che ama e di cui ha scritto copiosamente, riscuotendo successi internazionali. Sto parlando, come ovvio, dell’Antico Egitto, con i suoi faraoni, gli alti dignitari, la magia e la cultura di una società tanto distante da noi eppure mai priva di uno spiccato fascino, dovuto anche alla commistione sempre presente di afflato divino anche nei momenti più quotidiani.
Riprendendo le fila delle avventure del nobile Taita, Smith ha elaborato un intricato gioco politico che gli dà l’occasione di immergere il lettore in altre due culture dell’antichità: quella mesopotamica e quella cretese.
Il romanzo narra delle nuove imprese di Taita nella lotta contro gli Hyksos, insediatisi da tempo nel nord dell’Egitto, allo scopo di restituire i suoi domini al Faraone. A questi scopi politici affianca il suo ruolo di tutore delle due giovani sorelle della famiglia reale, Tehuti e Bakatha.
Il suo azzardato piano prevede di mettere l’uno contro l’altro il re degli Hyksos e il Supremo Minosse di Creta, momentaneamente alleati, tramite un’azione militare ingegnosa al limite della follia. La mossa riesce, rendendo Taita l’uomo più importante d’Egitto; il passo successivo è assicurarsi il favore dei cretesi per dare agli invasori il colpo di grazia. Cosa potrebbe superare la possibilità di imparentarsi con il Faraone sposando le sue sorelle?
Taita conduce le due giovani nel lungo viaggio verso lo sposo destinato, ma i suoi piani si scontreranno contro i sentimenti delle ragazze, mentre alcuni misteri riguardanti la sua natura più che umana troveranno inaspettatamente risposta.
Con una prosa svelta, leggera e adatta alla lettura più interessata come a quella più distratta, Smith tesse un complicato arazzo il cui scopo principale e non particolarmente dissimulato è quello di raccontare le antiche civiltà del Mediterraneo. Attraverso gli occhi di Taita e delle sue protette ci viene offerta una panoramica completa di città, forme di governo e costumi, in un viaggio difficile e irto di ostacoli.
L’amore per la Storia permea il romanzo, sovrastando quasi sempre una vera ricchezza di trama, anche se va sottolineato che l’autore – il quale ha non pochi anni di mestiere alle spalle – sa come utilizzare un linguaggio semplice per non oberare i lettori di dettagli interessanti solo per lo storico.
I personaggi del romanzo, pur se caratterizzati, tendono a essere prevedibili, corrispondenti a “tipi” predefiniti al servizio dell’intreccio predeterminato, poco vivaci. Le principesse sono indomabili fanciulle pronte a tutto, capaci di diventare in poco tempo espertissime guerriere pur conservando il piglio monello di due bambine viziate. Anche i loro sentimenti d’amore sembrano più dettati dal capriccio che da sentimenti profondi, creando pochissima partecipazione.
Il protagonista, devo ammetterlo, è stato difficile da digerire. Taita è autocelebrativo quasi in ogni frase che pronuncia, un Cicerone tra le piramidi. Si scoprirà più avanti che ne ha ben donde, i suoi poteri sono più che umani; nondimeno, questa vanità esibita, il disprezzo o la pietà con cui giudica quanti gli stanno attorno (perfino quando ha una buona opinione di qualcuno), le affermazioni di tono razzista, lo rendono talmente antipatico che si fatica a proseguire nella lettura. E’ difficile provare empatia verso un personaggio tanto arrogante.
Nel complesso, una lettura leggera, di qualità altalenante. Un buon romanzo “da spiaggia” o per rilassarsi senza dover riflettere troppo.

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Classici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    04 Gennaio, 2015
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Cenere

“Cenere” è il romanzo che fonde la sofferenza e la speranza, il bene ed il male, in maniera mirabile.
Impossibile non definirlo un piccolo gioiello; una trama corposa e ben sviluppata, una galleria di personaggi immortali, una serie di scatti color seppia del territorio sardo, una penna che incide come un bisturi la carne quando racconta il dolore.
La speranza e la fede di una giovane donna si scontrano contro il muro della durezza della vita; quanto amore e quanti sogni, quanto bisogno di scappare dal grigiore, quanti sacrifici, quanto tempo speso ad aspettare confidando in un pizzico di fortuna e di affetto.
I personaggi della Deledda sono figli di una società retta da leggi ferree, o nasci ricco o nasci povero, o nasci padrone o nasci servo.
Il tempo scorre inesorabile tra le strade imbiancate di polvere, tra le casupole dei pastori, tra le piccole bicocche della servitù; la notte ed il giorno si alternano tra le aspre boscaglie del nuorese, la vita narrata dalla Deledda è ruvida come il territorio, è spartana, è spicciola, è grigia come la cenere.
La cenere è ciò che resta del fuoco, è cenere ciò che rimane dopo passioni brucianti, dopo delusioni scottanti, dopo che la vita ha arso sentimenti e sogni.

In questo romanzo la poetica deleddiana esplode con forza e vigore, sia in tema di immagini sia in tema di contenuti.
Tra queste pagine vi è l'apoteosi del canto del territorio sardo, culla di una società ancorata a culti e tradizioni ataviche e inespugnabili.
Gli uomini e le donne sono il frutto della terra, sono cuori sensibili e passionali, hanno un volto cupo ed un volto limpido, possiedono un animo avvezzo alla sofferenza e al sacrificio.
E' espressa con lucidità e accettazione la sottile eppure marcata linea che divide il bene ed il male; intesi come due facce della stessa medaglia, quasi imprescindibili l'uno dall'altro.

Tra le pagine di questo romanzo c'è una Deledda al culmine delle sue potenzialità narrative, per nulla inferiore al più noto “Canne al vento”; riesce a fondere con ardore tutti gli elementi necessari per dare una voce ed un volto ad ogni uomo e donna rappresentati, concentrando in ognuno di loro tutte le sfumature della gioia e del dolore, evidenziando con forza la dicotomia, a lei cara, tra male e bene.

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Autori italiani
 
Produzione letteraria 
 
5.0
silvia t Opinione inserita da silvia t    03 Gennaio, 2015
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Introduzione alla lettura di Grazia Deledda

Quella mattina le campane suovano a morto e i rintocchi portavano una sensazione di pace e di allegria, perché il dolore non poteva soffocare la forza di quella vita che aveva infine deciso di estinguersi.
Pochi giorni prima le sue condizioni era peggiorate, malato da tempo aveva lottato con tutte le sue forze, credendo a ciò che quel giovane dottore pieno di entusismo gli pormetteva; entrambi sapevano che il nemico da sconfiggere era troppo forte, ma ad entrambi piaceva credere che insieme ci sarebbero riusciti o che almeno lo avrebbero ingannato.
Giorgio era troppo intelligente per non sapere che la fine era vicina, che la sua forza lo stava abbandonando, ma non riusciva a crederlo possibile, sua madre, suo padre molti dei suoi fratelli se ne erano già andati, ma gli sembrava impossibile che tuta la sua vita, tutto il suo patrimonio, immobiliare e non, potesse rimanere ad altri, foss'anche suo figlio.
Quando andava a trovarlo, capitava spesso dopo la visita di quel dottore, lo trovava sempre seduto sulla sua poltrona, con il giornale onnipresente sul letto, una penna e una risma di fogli sulla scrivania e una pila di libri in molte lingue diverse sul comodino.
Amava scrivere, a tutti, agli amici lontani, ai genitori morti, a suo figlio, a se stesso e amava leggere, amava i libri; infatti la sua grande casa era inondata di volumi, ce n'era ovunque, negli armadi, nelle scatole, nelle cassapanche, libri di pregio, libri da poco, titoli impegantivi insieme a autori sconosciuti e di dubbia qualità, edizioni rare che ne sostenevano dozzinali comprate forse in edicola, come dei cuccioli abbandonati che avessero trovato riparo in quella grande e confusionaria casa, che assomigliava molto all'antro di mago Merlino.
Giorgio amava regalare i propri libri, a chiunque dimostrasse amore per la letteratura e se dopo una chiaccherata riusciva a cogliere quella passione allora iniziava a parlare di ciò che aveva letto, degli autori che, in gioventù aveva conosciuto e spesso la sua vita irrompeva violenta e i racconti della sua Sardegna si coloravano d'ambra e dai comodini uscivano dagherrotipi che ritraevano avi briganti che non davano certo lustro alla famiglia, ma permettvano di stendere un velo quasi di mito sulla sua storia.
Il contrasto tra i racconti e i grandi respiri ai quali il suo cuore malandato lo costringevano creava in chi gli sedeva accanto un misto di tristezza e di malinconia e il pensiero non poteva non correre a Mastro Don Gesualdo, a quegli anni in cui un pezzo di terra valeva più di qualunque altra cosa.
Una volta, durante una visita, capitò che Giorgio gli regalasse un'edizione dei Malavoglia illustrata a cui teneva molto e fu in quell'occasione che la similitudine uscì fuori dalla sua mente e si palesò a Giorgio, il quale con quegli occhi furbi e intelligenti non esitò a chiedere se capisse la differenza tra la Sicilia e la Sardegna, quelle due terre, diceva, hanno in comune solo l'essere un'isola.
Egli era Sardo e se un provincialotto del nord come lui non ne capiva la differenza che si leggesse la Deledda.
Fu così che prese un campanaccio, quello che indossano le mucche e cominciò a farlo risuonare; poco dopo arrivò Danilo, suo figlio che con fare alquanto seccato chiese che cosa volesse ancora ed egli gli chiese, anzi gli ordinò di andare a prendere l'opera omnia della Deledda poiché voleva farne dono a questo suo gradito ospite.
Danilo tornò con quattro polverosi volumi, la cui candida copertina era divenuta grigia e le pagine piene di fioriture e macchie del tempo che emanavano, al loro sfogliare, un profumo antico, una sensazione di pace che Giorgio volle paragonare alla sua Sardegna.
Solo leggendo questi testi capirai il mio mondo e solo dopo spero potremmo discuterne.. non ci fu tempo, la morte lo colse qualche giorno dopo, ma quei rintocchi, pur annunciando un funerale, non potevano non portare con sè l'eredità di un uomo che aveva vissuto a pieno la propria vita, senza compromessi e con una cultura che non può non arricchire.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    23 Dicembre, 2014
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L'occhio per occhio non rende felici, solo ciechi

Breaking News!! Edizione straordinaria! - direbbero nei tg made in Italy, molti di noi avranno ancora vivo il ricordo delle agghiaccianti edizioni straordinarie ascoltate e vissute negli anni '90 durante la prima guerra del Golfo.
Ed effettivamente quella guerra fu un evento straordinario, la prima vera guerra in cui molti di noi diventavano spettatori, per fortuna solo 'mediatici', di una guerra non più raccontata sui libri di storia ma attuale, tragicamente reale e che coinvolgeva, più o meno direttamente, diversi Paesi dell'Europa.
Nell'ultima fatica di Schatzing la guerra è la protagonista assoluta, una guerra però che ha origini molto più antiche rispetto alla guerra del Golfo, potremmo quasi dire che è nata con l'Uomo e con l'uomo forse cesserà, visto che ad oggi è ancora in atto: il conflitto in Medio Oriente tra arabi ed israeliani.
Una guerra che non è per noi così 'straordinaria' come lo è stata quella del Golfo, perchè probabilmente le atrocità che la caratterizzano sono divenute così frequenti da renderla 'ordinaria', decine se non centinaia di uomini, donne e bambini, molto spesso innocenti, vittime del caso prima ancora della guerra, che muoiono sotto gli attacchi suicidi di fanatici religiosi o attacchi mirati di missili punitivi... sangue che scorre da anni, secoli ma che ormai non è più degno per noi di un'edizione straordinaria.
"L'aldilà ha sempre avuto la sua importanza."
"Può darsi, ma non può essere una giustificazione per devastare l'aldiquà."

E devo dirvi la verità, a costo di sembrare poco obiettivo nel mio commento, se ho apprezzato questo libro è stato anche perchè Schatzing, a suo modo, ha richiamato la mia attenzione su questa tragedia che non dovrebbe mai essere dimenticata, dovrebbe sempre essere in prima pagina, nel rilievo che meritano le .. breaking news.
Il resto rientra nello stile tipico di Schatzing: come già ne Il quinto giorno, dove l'autore arricchisce il suo romanzo con descrizioni minuziose e dettagliate di fenomeni scientifici e nuove tecnologie al fine di rendere più realistica e coinvolgente la trama fanta-apocalittica, così in Breaking News l'autore incastra una spy story nel contesto della guerra arabo-israeliana ... ma le proporzioni sono alquanto sbilanciate.
Infatti a fine lettura si ha la sensazione che il racconto delle peripezie in cui s'imbatte il giornalista d'assalto Tom Hagen, braccato da spie e feroci assassini, sia solo una piccola parte di una trama che in realtà si snoda su un arco temporale di quasi cento anni, dal 1929 ad oggi ed in modo non lineare con frequenti salti in avanti e indietro (come dimostrano i titoli dei singoli capitoli), e che riprende e rivisita tutti gli eventi salienti del conflitto medio-orientale.
Definirlo quindi un thriller o una spy story è a mio parere alquanto limitativo: Breaking News è un'opera imponente che prende spunto da episodi realmente accaduti e che rappresentano la Storia di Israele e Palestina, raccontati sin nei minimi dettagli con lo stile fluido di Schatzing e 'leggermente alterati' per divenire scenario plausibile di un complotto terroristico, ben più tragico e distruttivo di quelli reali sinora verificatisi... e che, speriamo, rimanga sempre circoscritto tra le pagine di questo libro.
Naturalmente, molti potrebbero rimanere delusi dal romanzo di Schatzing che sconsiglio vivamente a chi necessita di una carica di adrenalina ogni due pagine: l'adrenalina c'è ma è molto, molto diluita nelle mille pagine che compongono il libro.
Consideratelo piuttosto come un romanzo 'storico', per la meticolosa ricostruzione della Storia del movimento sionista e dello Stato israeliano, in cui però alcuni eventi sono stati manipolati dall'immaginazione dell'autore ma in modo così abile da non poter più distinguere cosa è vero da cosa è inventato: a titolo di esempio, la vita di Ariel Scheinermann, meglio noto come Ariel Sharon, viene narrata sin dall'inizio ed in modo dettagliato senza tralasciare il contesto sociale in cui è vissuto e che ha plasmato la sua personalità; vengono descritti tutti gli avvenimenti salienti della sua carriera politica, le decisioni e le scelte difficili e le ripercussioni sul popolo ebraico, sino alla morte avvenuta nel 2006 a causa di un'emorragia cerebrale; almeno secondo le fonti ufficiali, si sarebbe trattata di emorragia cerebrale, Schatzing invece manipola leggermente le fonti ufficiali presentandoci una versione alternativa che rende ancora più credible la sua spy story.
Ovviamente anche la versione che l'autore ci presenta di Sharon (così come di altri personaggi di spicco della politica israeliana) è assolutamente personale e forse anche politicamente condizionata, spetta al lettore decidere se condividerla o meno:
"Io convivo col fatto di essere odiato per il mio modo di agire. Altri, invece, sono amati per il loro modo di non agire. Non fanno niente, non prendono decisioni, trovano belle parole solo per ciò che tutti applaudono. E' meglio così, forse? Sicuramente è più facile. Ma questa non è la mia strada."

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    14 Dicembre, 2014
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Progetto Noah

Ha il corpo di un nuotatore, il viso di un quarantenne, le mani di chi non ha mai svolto lavori pesanti, individua che arma ha sparato dal rumore del proiettile, vestiva abiti di qualita' quando Oscar lo raccolse dalla strada svenuto, ferito. Non conosce il suo nome, si trova a Berlino e non ricorda il perche', non sa da dove proviene, si muove tra i senzatetto nella vita di strada. Apre la mano, osserva la pelle. Il suo palmo contiene l'unica certezza e la sola spiegazione ad ogni cosa, in quel grossolano tatuaggio cucito chissa' da chi : Noah. 
Il problema e' che lui ne ignora il significato. Lui e' all'oscuro di tutto.

Potrei dirvi molto altro, ma siccome sono stata addestrata fin da piccola a non anticipare mai una parola in piu' della sinossi imbastita sui thriller, qui mi fermo.
Non taccio pero' sulle potenzialita' della prima meta' del libro in cui il romanzo indossa un abito dal taglio splendidamente europeo, misterioso al punto giusto e altrettanto affascinante e sottile. Poi l'autore tedesco abbandona la marcia per ingranare un'impennata dai toni decisamente statunitensi, con quella fiction che seppur piacevole assume livelli macro. Congiura ed azione assumono proiezioni megalomani, roteanti ed illuminate da luci stroboscopiche; la virata ben si addice comunque all'evolversi della vicenda.
Interessante e' l'impresa di Fitzek che nel thriller incanala una denuncia di ampissimo raggio, esplodendo la volonta' di sensibilizzare i lettori su una quantita' di questioni che il nostro povero pianeta ed i suoi sfruttatori umani farebbero bene a considerare. Si parla di inquinamento, di carestie nei paesi sottosviluppati, di sfruttamento, della fame e delle condizioni disastrose in cui versano le popolazioni negli slums, di consumismo, dell'apatia da social, di allevamenti intensivi...
Allora chiudo citando Sebastian Fitzek che - pure lui in chiusura - cita Romain Rolland:" il pessimismo della ragione non esclude l'ottimismo della volonta'".
Tutto sommato, nel carrello del bilancio inserisco un buon prodotto. Buona lettura.

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Romanzi autobiografici
 
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    13 Dicembre, 2014
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La cognizione del dolore

Potrebbe forse sembrare arbitrario fare riferimento al romanzo di Carlo Emilio Gadda per affrontare il tema de “Il tempo della vita” di Marcos Giralt Torrente, premio Strega Europeo 2014. È proprio, tuttavia, il controverso e doloroso rapporto genitore – figlio, al centro di queste due opere, così diverse per contenuto e forma a giustificarne l’accostamento. Se Gadda aveva fatto suo il concetto di Schopenhauer secondo il quale vi è una diretta relazione tra dolore e conoscenza, nell’opera di Giralt Torrente lo stesso concetto viene esplicitamente e ripetutamente dimostrato.
“Il tempo della vita” è una biografia non un romanzo, è il resoconto a volte dettagliato delle fasi più importanti della vita dell’autore. Nonostante il ripetuto ricorso alle date, che può sembrare a volte eccessivo, l’opera non diviene mai un cronologico e freddo resoconto di fatti. Risulta infatti evidente la necessità dell’autore di collocare in un tempo preciso l’evoluzione dei suoi rapporti col padre, senza avere tuttavia la pretesa di raccontare ogni singolo episodio della loro esistenza: “Tento di aprire una finestra: di mostrare una porzione della nostra vita, non la sua totalità.”
Dopo una breve infanzia felice con entrambi i genitori, l’abbandono del padre, pittore irrequieto in perenne ricerca di se stesso e di una espressione artistica universalmente accettata e riconosciuta, traccia una ferita profonda nell’animo dell’adolescente Giralt Torrente, che comincerà a nutrire nei confronti del padre sentimenti sempre contrastanti, ora di rancore ora di ammirazione, in un continuo assolvere e dimenticare per poi tutto rimescolare e ricominciare.
Attraverso l’analisi e la rievocazione delle sofferenze giovanili, l’autore giunge a quella consapevolezza dolorosa, che gli permette tuttavia di affrontare con coraggio e generosità la malattia incurabile del padre. E qui assistiamo davvero alla trasformazione del figlio in padre, alla sua commovente quasi disperata dedizione alla cura di quel genitore divenuto ormai fragile e indifeso. E qui si palesa altresì come l’arroganza, sia pure inconsapevole, degli anni giovanili, vienga superata, quasi cancellata, con il diminuire della forza fisica e con l’aumentare delle debolezze e delle insicurezze. Attraverso il dolore, attraverso la cognizione del dolore, il figlio Giralt Torrente assolve il padre, gli restituisce quella dignità che non gli aveva più riconosciuto nel suo rancore giovanile. È un percorso di sofferenza infinita che gli serve per riscattarsi come figlio e per riscattare il padre allo stesso tempo.
Questo processo egli lo affida consapevolmente alla scrittura, quella forma d’arte, che, proprio perché diversa da quella paterna, gli consente di esprimersi con tono personale e originale. È il modo per descrivere come si possa rimanere impantanati nei sentimenti e come con il passare degli anni si rimpianga il tempo sprecato e si diventi più vulnerabili di fronte all’ineluttabilità del destino.
Il riscatto della figura paterna fa sì che il figlio cerchi in ogni modo le affinità che lo leghino a lui, nel tentativo di radicarlo profondamente dentro di sé, per non perderlo definitivamente con la morte. Perché la morte è assenza, è oblio, è il nulla.

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    10 Dicembre, 2014
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Professione Angelo Distruttore

Se tutti gli angeli custodi fossero come quello che è protagonista di questa storia, sono certo che la razza umana si estinguerebbe nel giro di alcuni mesi.
Sulo Auvinen, defunto insegnante di religione appena arrivato nell’aldilà, viene repentinamente catapultato nel bel mezzo di un corso di formazione per angeli custodi, in una sorta di azienda celeste i cui capi sono Dio e Gesù Cristo, mentre i più importanti dirigenti sono i santi, come Pietro.
Una sorta di Angeli Custodi S.p.a.
Al termine del corso gli verrà affidata in cura la protezione di Aaro Kohronen, quarantenne scapolo finlandese appena diventato titolare di una libreria antiquaria con bar annesso, la cui vita era decisamente più tranquilla prima dell’arrivo dell’angelo custode, portatore di guai e scompiglio, più che di protezione.

Una storia molto semplice, presentata con uno stile altrettanto semplice e abbastanza scorrevole. Si può assaporare nettamente, con lo scorrere delle pagine, l’assenza di pretenziosità che pervade questa storia, che certo non vuole imprimersi indimenticabile nella memoria del lettore, anche grazie a grossolani errori logici di base. Come può un angelo immateriale invisibile e inudibile dare indicazioni a dei pompieri riguardo un incendio, sbagliando maldestramente peraltro? Se gli angeli e i diavoli sono invisibili agli uomini, perché in alcuni frangenti diventano inspiegabilmente visibili? Forse l’autore per proseguire nella storia ha voluto osare qualche forzatura di troppo e, alla ricerca del lieto fine, sminuire gli assurdi guai causati dal protagonista, che appare un imbranato di proporzioni divine. Il lettore che è alla ricerca di una coerenza di base in qualsiasi lettura gli si ponga dinanzi, rimarrà certamente deluso e storcerà il naso più di una volta. Ma se si prova a prendere questo libro per quello che è, ovvero una semplice storia senza enormi pretese, volta soltanto a regalare un buon racconto, ci si accorge che la lettura procede piacevolmente strappando anche qualche sorriso. Inoltre, osservando le disavventure dello sfortunato e imbranato angelo, rivedremo un po’ noi stessi quando, animati dalle migliori intenzioni, riusciamo soltanto a creare degli incommensurabili casini.

“Fece di tutto per riportare alla ragione le due belligeranti, ispirando nella loro mente i più nobili ideali di pace e fratellanza, ma niente da fare. Ammansire due megere inferocite è un’impresa impossibile anche per un angelo custode.”

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Mi sento di consigliarlo a chi cerca una lettura leggera e senza pretese.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Dicembre, 2014
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Il Polmone Nero e la realtà americana.

A soli 29 anni Samantha Kofer è uno degli avvocati più brillanti di New York. Specializzata in cause immobiliari, e dunque ben lontana dalle aule dei tribunali con tanto di arringhe e clienti veri, vive dedicandosi interamente al lavoro, i week-end non esistono; ciò che conta è il risultato e se questo è raggiungibile lavorando per oltre 100 ore alla settimana ben venga perché lei diventerà socia della Scully&Pershing. Non molte sono le donne che riescono a raggiungere posizioni di tale prestigio tanto meno in meccanismi quali quello legale in cui ella esercita, ma non demorde, solo 2 anni, soltanto 370 giorni e avrà tutti i requisiti per ricoprire tale veste... Strane voci circolano però tra gli uffici, aria di licenziamento sembrerebbe aleggiare, e Samantha non è immune a questa ondata. Come molti altri giovani avvocati e professionisti di ogni genere si ritrova da brillante e promettente collaboratrice a ennesima disoccupata in circolazione. In generale le società non se la stanno cavando bene a causa della crisi ed hanno ben pensato di licenziare la maggior parte dei loro assistenti. Con la speranza di poter un domani tornare a ricoprire la sua carica a Samantha viene offerto di prestare un'attività di volontariato per 12 mesi; avrebbe lavorato gratis ma le sarebbe stata mantenuta l'assicurazione sanitaria e, al termine del periodo se le condizioni fossero migliorate, sarebbe potuta tornare al suo lavoro a New York con tanto di mantenimento dell'anzianità conseguita.
Dopo aver contattato una decisa delle organizzazioni no-profit consigliate dai suoi ex datori, ed aver ricevuto i consueti “no, grazie la posizione è già stata ricoperta”, la sua domanda viene presa in considerazione dalla “Legal Aid Clinic” a Brady, Virginia, capitanata dalla guerrigliera Mattie Wyatt. E così Samantha si ritrova tra i monti Appalachi dove scopre un mondo a cui la grande mela non l'aveva minimamente preparata. Nell'arco della prima giornata di lavoro non solo entra nella tanto temuta aula di tribunale dove assiste ad un'arringa ma si ritrova anche a fronteggiare problemi veri, i suoi clienti non hanno denaro per pagarsi un legale privato e lo studio dove lei effettua il suo tirocinio è specializzato nell'assistenza di coloro che vertono in scarse possibilità economiche e che spesso vengono raggirati dai “potenti” che con semplici sotterfugi si approfittano della loro inesperienza e della loro ignoranza. Tra donne maltrattate, testamenti improvvisati, domande alla previdenza, stipendi pignorati e soggetti mentalmente instabili che si credono vice-sceriffi, la giovane conosce Donovan Gray, trentanovenne nipote di Mattie ed avvocato acerrimo nemico di ogni società mineraria. Venuta a conoscenza dell'esistenza della malattia del “polmone nero”, complicazione causata dall'esposizione alle polveri delle strip mine (miniere a cielo aperto) e dall'inquinamento acquifero (etc) da queste determinato, il suo impegno si devolve per la causa.
Nonostante il romanzo abbia una partenza leggermente lenta questo si rianima a partire dall'arrivo di Samantha negli Appalachi. L'obiettivo di Grisham è quello di porre l'attenzione del lettore su un problema ancora aperto ma spesso sottovalutato o dimenticato: l'estrazione del carbone e tutto ciò che la procedura della sua lavorazione (dall'insediamento nei siti di raccolta al prodotto finale) comporta.
L'autore non è uno sciocco, avendo alle spalle una laurea in legge ed una carriera da avvocato riesce a spiegare chiaramente a chi legge, a prescindere dalla sua formazione giuridica e non, le dinamiche giudiziarie americane senza nulla tralasciare, pregi e difetti. Sotto certi aspetti alcune vicissitudini sono per noi europei lontane anni luce, per altri il loro sistema appare molto meno farraginoso del nostro; ma tutto si sa, ha i suoi pro e i suoi contro. I protagonisti sono descritti con attenzione, ognuno ha un suo scopo e tutto è narrato con veridicità, anche le ipotetiche possibili vicende amorose non sono “ovattate”, bensì sono concrete e tengono conto delle vite degli individui. Samantha non è la classica “eroina”, anzi, ma tra l'inizio e la conclusione dell'opera si evolve scoprendo la vera se stessa ed affrontando le sue paure. Arriva a comprendere ciò che il padre ha sempre cercato di farle capire, i problemi dei suoi clienti non sono più lontani anni luce da lei ed il lavoro che ab initio non la convinceva adesso la conquista perché lo svolge nel rispetto delle persone che, con la loro valigia piena di problemi, chiedono il suo aiuto e con la moralità e la diligenza necessari ad un vero avvocato. Una piacevole scoperta che mi sento di consigliare perché aiuta a riflettere su disastri ambientali che potrebbero essere evitati (e che non sono poi così lontani dalla nostra prospettiva) ed invita il lettore a conoscere un sistema che spesso viene idolatrato senza conoscerne veramente le fondamenta.

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a chi in generale ama i gialli giudiziari e a chi ha letto altre opere di Grisham.
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Maso Opinione inserita da Maso    02 Dicembre, 2014
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Orogenesi dell'audience

Il lettore, l’assiduo praticante della carta stampata e degli abissi e degli intrecci e delle vicende, acquisisce inevitabilmente delle competenze. È trasportato in perpetuo verso un incremento esponenziale, più o meno lento, della coscienza e del ragionamento sul gusto. Se è esatta l’evocazione artaudiana dell’uomo che si « conquista per schiarite successive » è forse altrettanto vero che una spinta all’avvenire di queste schiarite può provenire dalla letteratura e dalla sua linfa. Ci sono libri, qualsiasi sia la loro natura formale, che nella loro conformazione compatta riescono a conficcarsi talmente tanto opportunamente, profondamente e precisamente nella distesa di supponenze (e acquisizioni) da arrivare a sfiorare direttamente il nostro Primo Strato. Un Primo Strato che è, inevitabilmente, la base primigenia ed elementare di una geologia stratificata e personale. La prima delle tante coperte che indossiamo, l’infarinatura, il requisito minimo, fondazione ingenua e in espansione di una cultura letteraria in nuce.
Il nuovo McEwan, entrando nello specifico, è una punta di freccia silicea, compressa, vitrea, dura, affilatissima e simmetrica. Proviene dall’oltremanica senza emettere alcun sibilo, fende carni e roccia e si deposita sotto il mantello che indossiamo, là dove ogni lettore (o meglio ogni essere alfabetizzato) non fatica a riconoscere il magistero di eleganza e correttezza di chi sa fare indiscutibilmente il proprio mestiere.
“La ballata di Adam Henry” è questa freccia. Come mi capita spesso di dire, lo Chef d’oeuvre è ben lungi dal palesarsi. Ma non è nemmeno misurabile – come la stragrande maggioranza delle opere letterarie odierne – con un metro assoluto, onnicomprensivo e super partes. È, relativamente, però, in grado di situarsi in un luogo, nei nostri interni, apparentemente in sua attesa. Sembra quasi sia stato studiato per riempire alla perfezione un alloggiamento appositamente creato e appositamente pronto ad accoglierlo. Un’infinitesimale sensazione di pienezza, il “click” noetico più soddisfacente che ci avverte di un avvenuto, microscopico, accadimento indotto. Ed è un ingranaggio che scatta perché quella che narra McEwan è una storia di tutti. Di tutti perché rifugge il semplicismo illustrativo delle storie adolescenziali e delle croci che si portano appresso, perché rifiuta la catalogazione dei più frusti paradigmi della crescita. Perché va oltre e mostra, grazie ad Adam Henry, diciassettenne leucemico che rifiuta le cure in nome dei dogmi di Geova, il bisogno d’amore, di attenzione disinteressata che ha smesso di essere appannaggio esclusivo dell’adolescente per divenire universale. Il surmoderno è un luogo tetro e non sono solo gli Adam Henry ad avere bisogno di due orecchie che ascoltino e di due braccia che confortino. Oltre alle diatribe ideologiche, etiche, religiose, oltre ad un immenso paraocchi fatto di paraocchi, ci siamo tutti quanti in quel letto, non leucemici ma comunque mendicanti.
Ma le tinte fosche di un’interpretazione (chiedo venia) magari errata non debbono oscurare un messaggio ben più lucido e illuminato, quello di McEwan che tenta di porci davanti a una lezione basilare, importantissima e tanto poco scontata in quanto data per scontata. Ascoltare, ascoltare e ascoltare. E poi ascoltare ancora e ritardare, procrastinare la parola e farla giungere solo quando si è perfettamente sicuri di aver compreso le parole di chi ha parlato. Quelle del giudice Fiona Maye sono anche le nostre orecchie in questa vicenda. Sono le orecchie di una sessantenne in crisi coniugale, sono orecchie che stanno ai lati di un cervello brillante ma sovraccarico, che doneranno attenzione ad Adam, che lo sentiranno suonare stentatamente le note di una malinconica romanza di Britten, che lo sentiranno pontificare sul volere divino di Geova. Fiona farà il suo mestiere con la medesima competenza dell’autore da cui essa è nata. Entrambi coglieranno i frutti e constateranno quali conseguenze avrà portato il loro agire. Per quanto riguarda le conseguenze dell’agire di McEwan, si dà il caso che siamo precisamente noi lettori a deciderle. Noi riscontro pubblico, noi audience stratificato, noi persone che ricaviamo le nostre conclusioni e i nostri accrescimenti, le nostre teorie, le nostre vanità che abbiamo voglia di urlare ai quattro venti per soddisfarci, gonfiarci ed ammiccare. Noi che a nostra volta, come tutti, necessitiamo con impellenza di un pubblico per vivere, animali sociali incorreggibili e spesse volte in-corretti. Un pubblico che annuisce, acquiescente e benpensante, o che arriccia il naso di fronte alla proiezione di sè stesso. Ma il moralismo è un cacciatore abilissimo, ed è tempo si sfuggire alla tagliola. Parlino gli altri. Parli Palahniuk, e con esso parli David Fincher. Ce lo ripetano altre mille volte quanto sia importante trovare qualcuno che ci sappia ascoltare e che, invece, non finga mentre aspetta il suo turno per parlare. Non basta mai. Come non bastano mai queste storie, che con porzioni cronometriche e ipperrealiste di realtà fittizie – equipollenti ad altre che di falso non hanno nulla - si rivelano come gli ultimi baluardi di civiltà, umanità e principi ormai desueti.

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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    02 Dicembre, 2014
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" MIDNIGHT IN PARIS "

"Per me non c'è mai stato né presente né passato. Tutto si confonde".
Uno scrittore percorre le strade di Parigi, con molti ricordi risalenti a decenni prima, agli anni '60, ai suoi vent'anni.
Tra i vari personaggi, ormai poco più che fantasmi di un ambiente equivoco, spicca l'immagine di una giovane donna, già sfuggente allora, mai più rivista.
"Con il tempo le loro figure sono diventate sfocate, le loro voci impercettibili". Il tema della memoria è dominante ("Non recidere, forbice, quel volto, / solo nella memoria che si sfolla", scriveva Montale; ancora : "Ed io non so chi va e chi resta").

Siamo nella Parigi degli Esistenzialisti: non certo in quella turistica da cartolina; bensì su strade solitarie dove i passi risuonano e perfino il parco è disadorno, rifugio di gatti randagi. Le giornate trascorrono perlopiù nella morta stagione, con un grigio dominante, quasi che i vividi colori fossero qualcosa di troppo per quelle anime che prediligono la notte, come protette dal buio appena rischiarato da rari lampioni che diffondono una incerta opalescenza.
"Un orologio batteva i quarti"; "una musica jazz proveniente da una libreria". Non ci stupiremmo di intravedere, dietro una vetrata, la silhouette elegante di Juliette Greco, rigorosamente vestita di nero.
Anche negli interni "la luce era un po' velata, come se le lampadine ricevessero un voltaggio insufficiente", con l'impressione talvolta di essere catapultati dentro un quadro di Toulouse-Lautrc.
In queste atmosfere rarefatte aleggia, però, l'ombra di un delitto.

Qualcuno ha detto che tutte le arti tendono alla musica. Effettivamente qui la scrittura sobria, uniforme, senza alcuna caduta di stile, ha l'andamento di un sottofondo musicale, che riveste discretamente il contenuto ovattato, volto a "cogliere, inconsapevolmente, un vago riflesso della realtà".
D'altronde, diceva Hella Haasse, "l'arte, che non mira ad altro che a riprodurre la bellezza percepibile dai sensi, non basta a sedare la fame dell'anima".

Questo libro non è il capolavoro di Modiano, ma ha la bellezza delle opere minori, che sono tali non perché più imperfette di altre; solamente non esigono di lasciare un segno indelebile con cui identificare un autore. Si tratta però di un tassello importante del grande mosaico poetico di un artista, perché in fondo "uno scrittore crede di parlare di molte cose, ma quel che lascia, se ha fortuna, è un'immagine di sé" (J. Borges).

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letteratura straniera
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    01 Dicembre, 2014
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Morti alla contadina

È una delle più talentuose scrittrici di thriller tedesche ed io la scopro solo ora con IL VILLAGGIO DEI DANNATI. È così che sono entrata in una storia thriller eccellente, ideata da ELISABETH HERRMANN, dove il tema di base sono le cosiddette “morti alla contadina”.
Una donna ambigua, un’allevatrice di ratti, schiva e taciturna, è sospettata di un terribile omicidio. Charlie Rubin, questo il suo nome, ha poche parole da riferire alla polizia: “Io allevo per uccidere”. Sono parole che feriscono come un’arma del delitto. Subito appare l’unica colpevole, la donna abituata ad ammazzare alla contadina, proprio perché è cresciuta in uno sperduto paesino, prettamente agricolo, nella regione del Brandeburgo, dove liquami, maiali e trogolo sono gli strumenti di eliminazione totale.
Ormai considerata pazza e pericolosa da tutti, Charlie è colei che ha gettato un uomo vivo nella gabbia dei pecari e l’ha fatto mangiare vivo.
Qualcuno, però, vede in lei qualcosa di diverso: una vittima.
Di questo avviso è Sanela Beara, una semplice vigilessa croata di lingua tedesca, piccola di statura, ma intenzionata a fare qualcosa di più del suo semplice lavoro di routine. Mentre pensa di cambiare totalmente la sua vita, iscrivendosi alla facoltà di economia, decide di indagare sul passato di Charlie Rubin anche se non potrebbe farlo.
Ha dubbi sulla colpevolezza di Charlie Rubin anche Jeremy Saaler, uno psicologo tirocinante, che non sa a che punto fermarsi nello scavare nei segreti della mente umana.
Pur non conoscendosi, Sanela e Jeremy si trovano ad indagare su quelli che risultano essere una serie di efferati e sconosciuti omicidi. Entrambi, per strade diverse, ma con lo stesso fine, discolpare Charlie e trovare il serial killer, giungono nello sperduto paesino di Wendisch Bruch, dove la presunta colpevole è cresciuta e dove ormai vivono pochissime persone, ancorate al passato. È nel paesino semi disabitato che si nasconde un oscuro segreto, legato ad un doloroso passato di miseria e povertà da cui molti sono fuggiti o sono letteralmente scomparsi.
Il villaggio dei dannati, nel romanzo, nome attribuito dai giornali a Wendisch Bruch, è un thriller scritto in modo avvincente e ricco di colpi di scena. Con una trama disseminata di indizi e di detto e non detto, è un romanzo che giunge ad un’orribile verità appassionando il lettore. Ottiima lettura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    30 Novembre, 2014
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LEGGE O GIUSTIZIA?

Forse in nessun altro luogo vi è più bisogno di un Dio o di chi ne faccia le veci che all’inferno fra i peccatori: nella prigione di massima sicurezza di Staten a Oslo Sonny Lofthus,un giovane eroinomane, lì rinchiuso per omicidi non commessi, ascolta le confessioni dei suoi compagni carcerati e li benedice, invocando per la loro la misericordia «di tutti gli dei e le dee della terra». Il barlume di pietà che gli altri intuiscono in Sonny è forse la sola cosa viva nell’animo devastato di lui: il suicidio del padre, poliziotto accusato di corruzione, lo ha spinto all’autodistruzione prima attraverso l’eroina poi addossandosi la colpa di crimini perpetrati dalla banda criminale del “Gemello”, in cambio della droga. La medesima vocazione alla giustizia oltraggiata che lo ha spinto all’annullamento della coscienza lo riporta in vita, quando viene a sapere che il genitore è stato ucciso. La resurrezione inevitabilmente porta con sé la necessità di guardare lucidamente l’inferno che ha inghiottito suo padre e lui: se tutti gli dei del cielo e della terra non possono concedere altro che misericordia, l’unica giustizia riparatrice è l’arcaico” occhio per occhio, dente per dente”. A quell’abisso nessuno scampa: alcuni vi precipitano per vizio, come il cappellano pedofilo, o per avidità e volontà di dominio, come il Gemello e i suoi sgherri, gli innocenti lo abitano perché costretti.. “Il confessore” racconta la lotta efferata degli uni contro gli altri: la società inquinata non ammette per nessuno il bene, ma, se nella anime pure esiste, esso diventa ossessivo desiderio di vendetta La giungla non concede il lusso del libero arbitrio: la scelte è fra l’essere vittima o carnefice.
Il crime di Nesbo ha dunque come sfondo problematiche etiche da dramma classico: il conflitto fra legge e giustizia, quella che «sta sopra la legge». E il dubbio accompagna il lettore mentre scorrono veloci le sequenza d’azione: chi si assume la missione di ristabilire una verità, come Simon, il poliziotto sulla soglia della pensione, o lo stesso Sonny, “Il Budda con la spada”, chi è veramente, quale realtà si cela in fondo ai loro occhi? Neppure l’amore dei loro angeli salvatori, le donne, riesce a vederla….

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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    28 Novembre, 2014
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Uomini come fagiani

Premio Nobel nel 2009 per la letteratura, Herta Muller è una scrittrice rumena da tempo residente a Berlino.
E' la prima volta che leggo una sua opera, trattasi di un romanzo breve in cui è lo stile soprattutto ad attirare l'attenzione. La prosa della Muller è asciutta, rigorosa ed essenziale, incute quasi soggezione. Le sue frasi secche assemblano una serie di capitoli brevi di velocissima lettura e sempre autoconclusivi, ambientati presso una comunità sassone stanziata in Romania, in cui si erge mesta la figura del mugnaio Windisch, in perenne attesa dei passaporti che permettano a lui e ai suoi famigliari di emigrare.
Nonostante il personaggio centrale sia maschile c'è presumibilmente qualcosa di autobiografico, ravvisabile nelle origini natie e nel percorso di vita affrontato dalla Muller, non soltanto per la "fuga" in terra straniera (in quanto "penna" poco gradita al governo rumeno), ma anche per il lavoro svolto da Amalie, la figlia del mugnaio, educatrice d' asilo come lo fu l'autrice.
La ragazza è protagonista di alcuni dei capitoli più significativi: diventa importante per capire il periodo, che pur restando vago lascia intuire lo strapotere crudele del regime di Ceausescu con i bimbi immediatamente indottrinati ad adorare come un padre il despota.
A seguire spicca l'abuso del potere militare e spirituale. La ragazza infatti, dopo decine di sacchi di farina portati dal padre al sindaco senza esito alcuno, viene data in pasto agli appetiti sessuali del poliziotto del paese e del parroco, in cambio dei tanto agognati visti per poter valicare i patrii confini.
Le due istituzioni sono la rappresentazione di un sistema opprimente qui mostrato in piccola scala e che attraverso la figura di Ceausescu tiene in pugno col terrore e il ricatto una nazione intera.
E' un libro con cui urge trovare una certa sintonia, la scrittura è semplice ma ricca di metafore e simbolismi, la particolarità spicca fin dall'immagine scelta per la copertina, mentre il fil rouge narrativo viene più volte riempito da situazioni in cui dimensione terrena e onirica si amalgamano dando l'idea di un popolo sull'orlo della sconfitta.
Il titolo fa riferimento ad un vecchio detto rumeno secondo il quale l'uomo è inadatto alla vita quanto il fagiano lo è al volo.

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Fantasy
 
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Elisabetta.N Opinione inserita da Elisabetta.N    27 Novembre, 2014
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Oscar e la speranza

Chorams è…
È un…
mmm….
Penso che si possa definire un libro carino allo stesso modo di quando devi presentare l’amico del tuo fidanzato alla tua migliore amica e per descriverlo lo definisci “simpatico” o meglio “un tipo”.
Non posso affermare di aver amato alla follia questo libro, ma non posso nemmeno definirlo illeggibile.

Inoltre non riesco ad inquadrarlo bene né per quanto riguarda la storia, né per quanto riguarda il genere.

Partiamo però dall’inizio: la storia non è banale, ma nemmeno originalissima, in quanto presenta spunti già visti come ad esempio il protagonista che si addormenta per ritrovarsi in un nuovo mondo che ricorda un po’ “Alice nel paese delle meraviglie,” o se si vuole aggiungere che prima di addormentarsi stava leggendo un libro antico ritrovato nella libreria paterna, “La storia infinita”. Ma va beh, si deve pur partire da qualcosa e se effettivamente è stato ispirato dai libri che ho citato le premesse per una bellissima storia ci sono tutte, no?

Poi, andando avanti con la lettura, mi sono più volte domandata se potevo considerare questa storia una favola…
“C’era una volta un ragazzo di nome Oscar che un bel giorno si addormentò per poi risvegliarsi in un mondo diverso, lontano dal suo. Il regno in cui era capitato aveva perso la Speranza ed era sull’orlo di una guerra. Un’antica profezia diceva che un giorno un giovane sarebbe arrivato da un mondo lontano per riportare la speranza nel regno, ma questo Oscar ancora non lo sapeva…”
Carino no? Quantomeno intrigante…
Quello che mi ha frenato però, è lo stile, ma soprattutto il linguaggio utilizzato. Quest’ultimo, infatti è così ricercato che stonava in un protagonista che, almeno da quanto si poteva dedurre all’inizio, appartiene ai tempi moderni. Spesso addirittura, creava una sorta di effetto comico che mi faceva sorridere.
Io, semplicemente e forse troppo in genuinamente, avrei mirato, con una storia come questa, ad un pubblico giovane che però non è a suo agio con un linguaggio ricercato e cerca, per la maggior parte dei casi, l’evasione in una bella storia con un linguaggio semplice.

Purtroppo però ho notato anche che non sono stata emozionata da questa lettura. I personaggi erano piatti, delle marionette nei loro ruoli. Pensando soprattutto a Oscar, niente lo preoccupava o lo intimoriva, nessuna obiezione in quello che doveva o poteva fare. I momenti che dovevano essere i più commoventi erano così artificialmente enfatizzati da perdere la loro emozione. Non mi sono sentita parte della storia o in sintonia con i personaggi.
Questo è stato enfatizzato anche dai tempi della narrazione che spesso tornavano indietro per raccontare quello che capitava ad altri personaggi. Niente di strano fino a qui, succede in molti romanzi, ma qui veniva evidenziato con frasi, e anche con cambi repentini dalla notte alla mattina prima, spezzando la narrazione e rendendo il tutto molto frammentario.

Dopo tutto questo cosa rimane?
Un libro carino.

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Romanzi
 
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SARY Opinione inserita da SARY    27 Novembre, 2014
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La cura

Così si potrebbe intitolare questo romanzo e se fosse un film la colonna sonora adatta sarebbe “La cura” di Battiato.
Un romanzo a quattro mani, una sonata al pianoforte in cui toni alti e toni bassi si alternano in armonia riempiendo l’aria di musica dolce e piacevole, un ristoro per le orecchie e un balsamo per lo spirito. C’è sintonia tra i compositori, si capiscono e si completano, una chiede, l’altro risponde, una ragiona, l’altro semplicemente ama, dell’amore più puro e onesto.
I protagonisti sono Gioconda, rappresentata da Chiara Gamberale, e Filèmone, impersonato da Massimo Gramellini. Lei è una donna afflitta per la crisi matrimoniale causata dai suoi stessi errori e dal tormento interiore che l’accompagna dalla nascita, lui è il suo angelo custode, paziente, saggio, tenero. Gioco o follia? Uno scambio di biglietti cura l’anima, il cuore e la mente della protetta, attraverso un esame di coscienza ed un percorso interiore Gioconda riscopre sé stessa ed il significato di alcuni concetti chiave della vita.
Originale nella forma e nel contenuto, del resto lo sono tutti i libri dell’autrice, annessi pro e contro. Uno scambio di idee, un questionario sui sentimenti, sul perdono, sulla forza interiore nascosta in ognuno di noi. Le pagine migliori sono quelle di Gramellini/Filèmone, ricche di riflessioni e stilisticamente pregiate. Vi sono collegamenti alla sfera religiosa che potrebbero non soddisfare tutti i gusti scontrandosi con devoti e miscredenti. Bisogna prenderlo per quel che è, non è un testo di teologia e non è un saggio di filosofia, è un romanzo che si avvale della facoltà di esprimere liberamente opinioni, adottando inoltre la buona strategia della novità in fatto di impostazione e tematica, nulla pretende, tutto concede.
I lettori non vi troveranno risposte a quesiti esistenziali e non resteranno ammaliati da virtuosismi letterari, ma potranno passare qualche ora di piacere costruttivo.
Concludendo, una guida pratica all’amore in tutte le sue forme.

“Amarsi è l’opera d’arte di due architetti dilettanti di nome Io che, sbagliando e correggendosi a vicenda, imparano a realizzare un progetto che prima non esisteva. Noi.”

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Racconti
 
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    25 Novembre, 2014
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Montalbano allucchì

Non è il primo romanzo di Camilleri che leggo, ma è la prima volta che incontro Montalbano. Non ho seguito la serie televisiva, ma ne ho spiato qualche spezzone, qua e là. La mia visione del giovane Montalbano è quindi insolita: non posso confrontare il giovane con il vecchio, né il libro con la televisione, tuttavia il picciotto non mi è del tutto sconosciuto.

I primi racconti li ho trovati scorrevoli ma non troppo appetitosi, appesantiti da qualche ripetizione tematica, ma poi Camilleri si scalda e rivela il meglio del suo mestiere: le trame sono ben costruite, avvincenti, senza fronzoli. E lo stile, lo stile merita una degustazione accurata, una ricerca delle perle che aiutano l’ironia a emergere.
“Era un cinquantino curatissimo nella pirsona e nel vistito, profumato, tutto mezzi’nchini e sorrisi sbrilluccicanti.”

Un gran bel mestiere di scrivere, quello di Camilleri, astuto ma non disonesto, affinato dall’esperienza, affilato nell’uso sapiente delle lingue, magistrale soprattutto l’arte di costruire il contesto, che accoglie il colore siculo alternandolo con la stabilità dell’italico idioma, al punto giusto e senza eccessi. Non ci sono problemi di glossario: l’ambiente si esprime senza incertezze, la narrazione rapisce e soddisfa.

I personaggi sono dipinti da tratti rapidi e sapienti, ma senza stereotipi. A volte sono inverosimili, come il ladro virtuoso che lascia il resto e si ravvede infine con volenterosa commozione. Per fortuna non mancano quelli anche troppo verosimili, come il procuratore che insabbia il video che inchioda pezzi troppo grossi in un delitto davvero troppo sporco. La percentuale di picciotte beddrissime, però, eccede un poco. E le donne baffute non sono necessariamente grasse (e viceversa).

Montalbano è un personaggio gradevole. Non ama il rigore, rispetta poco le regole scritte, gioca con quelle non scritte, spesso interviene pesantemente a raddrizzare un diritto nato storto. Montalbano è un protagonista che riflette con grazia la sfiducia dei suoi lettori nei confronti della giustizia. Ma la sua rimane una visione ideale: chi ci la conosce davvero, sa che la patria del diritto è molto più contorta, inefficace, barbara e ingiusta di quanto si possa immaginare.

Il finale di questi gialli lascia spesso un retrogusto incerto, aspro come la terra in cui è ambientato: un saluto brusco, una risposta mancata, qualche sottinteso di troppo sottolineano che no, non è il giallo ben definito di Agatha Christie e le celluline grigie di Poirot nell’aria troppo rovente della Sicilia andrebbero sprecate.
“«Bonanotti» ricambiò Montalbano, raprennogli lo sportello per farlo scinnire.”

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lo stesso autore, lo stesso personaggio, gialli di tutti i tipi.
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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    25 Novembre, 2014
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Affreschi e complotti a Napoli

Nel suo ultimo lavoro Colitto mette in scena una Napoli post Masaniello, una città in cui i fermenti politici sono in apparenza raffreddati, ma all'interno dei palazzi si ordiscono manovre contro il governo spagnolo.
L'aristocrazia banchetta tra portate ricche e succulente, gli umili sbarcano il lunario inventandosi un mestiere, ambendo ad entrare a servizio della nobiltà, come servi, sguattere, giullari, maggiordomi, stallieri.
Tra intrighi e congiure, tra assassini e delatori, tra miseria e violenza corre strisciante per ogni dove un nemico subdolo che non perdona, a cui nessuno può sfuggire, ricco o povero che sia: la peste.
Dipinto lo sfondo, Colitto imposta una trama narrativa in continuo movimento, muovendo i fili di un complotto da sventare e di omicidi da vendicare, all'interno di un climax in cui le durezze dell'epoca si fondono con la dolcezza dell'amicizia, della generosità, dell'affetto.
E' un romanzo incalzante, ritmato quasi interamente da dialoghi tra i protagonisti, figure ben cesellate di cui è facile vederne le sembianze tra le righe.
Il pittore e la fanciulla partoriti dalla penna dell'autore non brillano per originalità come figure in sé, ma la volontà di renderli vivi in maniera storicamente attendibile è riuscita.

Ad una valutazione complessiva appare prevalere l'intento di dare vita ad una storia dinamica che metta le radici in un contesto storico ben definito, senza soffermarsi troppo in momenti di riflessione storica.
Un romanzo adatto ad un lettore che preferisca fruire di opere dal ritmo rapido, dove sono le stesse bocche dei personaggi a raccontarsi e dove gli eventi quotidiani sono tessere di un mosaico complesso che deve chiudersi come un cerchio.
Per gli amanti del grande romanzo storico, una lettura acerba che si lascia assaporare ma che insinua sul fondo un desiderio di approfondimento, sacrificando il filone noir.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    25 Novembre, 2014
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Da facebook al Grande Fratello

Annie fermò un certo Vipul che, disse, presto avrebbe reinventato interamente la televisione, il mezzo di comunicazione che più di ogni altro era rimasto arenato nel ventesimo secolo. “Dì piuttosto nel diciannovesimo” puntualizzò lui, con un leggero accento indiano, ma in un inglese preciso e superbo. “E’ l’ultimo posto dove i clienti non trovano mai quello che vogliono. L’ultima reliquia degli accordi feudali tra creatore e spettatore. Non siamo più dei vassalli!” concluse e chiese subito il permesso di andarsene. “Quel tipo ha una marcia in più” disse Annie mentre attraversavano la mensa.


Mae Holland, dietro raccomandazione della sua carissima amica Annie, viene presa a lavorare nel Cerchio. Il Cerchio però non è solo un luogo di lavoro, lì non solo vengono portate avanti ricerche all'avanguardia in una infinità di settori e si gestiscono informazioni via web ma è soprattutto il luogo fisico in cui il dipendente è chiamato a vivere. All'interno c’è tutto: dai centri benessere alle feste, al supermercato, al medico personale. Al dipendente è insistentemente richiesto di interagire via web con i colleghi e di partecipare e condividere i propri interessi, la propria vita con gli altri mediante un sistema, credo, piuttosto simile a Facebook. Il dipendente è valutato non solo per l’abilità che ha nel suo lavoro, ma soprattutto per quella che dimostra nella socializzazione cioè in base alla partecipazione a gruppi, a feste, alla condivisione di immagini della propria vita privata, ai mi piace che riceve e alle faccette sorridenti.
In realtà, Eggers estremizza una tendenza che già esiste nella nostra società e che tutti conosciamo. Tante persone condividono la propria vita per il desiderio di rappresentarla a un’altra persona come fosse un film, non ad amici intimi bensì a estranei. Per uno strano meccanismo questi estranei diventano “gli amici”. Ma in questo modo uno tende a recitare una parte mentre nel dialogo a cuore aperto con un amico entra più profondamente a contatto con il proprio nucleo intimo e vitale.
Passano con questa modalità di rapporto concetti distorcenti: l’idea ad esempio di trasparenza come forma di sincerità per quanto riguarda la vita privata e come forma di democrazia per quanto riguarda la vita politica (pensiamo all'idea di alcuni partiti politici anche italiani di fare ogni cosa, ogni incontro via web).
SE NON SEI TRASPARENTE COSA HAI DA NASCONDERE?
In un certo senso la tentazione di vivere la propria vita come un’isola dei famosi, di essere visti e riconosciuti, un aspetto importante nella società di oggi,nel Cerchio viene incentivata e promossa.
"Io voglio essere vista. Voglio una prova della mia esistenza".
Così la perdita del confine tra pubblico e privato viene favorita per il comandamento della trasparenza vista come modalità democratica di rapportarsi agli altri. Penso a certe trasmissioni sui vari delitti che valicano tranquillamente il limite della decenza e del rispetto in nome della libertà di informazione. TUTTO QUELLO CHE SUCCEDE DEVE ESSERE CONOSCIUTO, dicono al cerchio. LA PRIVACY E’ UN FURTO. I SEGRETI SONO BUGIE: CONDIVIDERE E’ PRENDERSI CURA.
Trasmissioni come i reality spingono nella direzione di questa distorta idea di trasparenza e di sincerità totale. Eggers dimostra perfettamente come i rapporti umani, per es. quello tra Mae e Annie, vengano falsati dal fatto di essere uditi e ascoltati da altri. L’elemento di falsità introdotto è lampante. Certe scene, come quella della caccia a Mercer, sono inoltre emblematiche oltre che di tale falsità anche dell’allontanarsi di ognuno da se stesso. La recita diventa non solo con gli altri ma con se stessi.
Trasparenza e controllo sono però due concetti strettamente collegati: ognuno di noi sente esercitato su di sé un controllo quando gli arrivano offerte sui prodotti che ha cercato nel web. Lo scopo di tale controllo viene percepito come commerciale.
Ma estremizzando la capacità di controllo, utilizzando tutti un unico profilo cui legare mail e quant'altro e il proprio nome vero anziché false identità, Eggers arriva a immaginare un controllo pressoché totale. Sicuramente Eggers cita Orwell. Però mentre il sistema politico di Orwell ci pare collocabile in un futuro remoto e forse relegabile nella fantasia dell'autore, il sistema Cerchio ci sembra già allungare i suoi tentacoli su di noi.
Tutta la gente del Cerchio individualmente non sa quello che fa collettivamente, dice Mercer, una delle due teste pensanti del romanzo. Ma il fascino del controllo totale, della trasparenza sono superiori a tutto.
Il Cerchio viene rappresentato dalla figura simbolica dello squalo che divora tutto: gli animali della vasca, anche i più coriacei.
Eggers con il suo interessante romanzo porta alle estreme conseguenze tanti aspetti già noti della nostra società, tante idee malate smascherandone il baco. Credo che l’impegno del romanzo sia il suo più grande pregio. E’ un libro però che si legge facilmente con la sensazione di guardare l’isola dei famosi o qualcosa del genere. Ma certo la lettura per quanto facile non è mai frivola.
Bellissime le descrizioni delle gite in Kajac lungo il fiume in solitudine. Mae assapora la libertà, l’essere sola con se stessa, il contatto individuale e privato, non condivisibile mediante film o foto, con altri. Bellissime e ristoratrici perché la vita dentro il Cerchio è snervante anche per il lettore. Anche il lettore finisce per sentirsi in gabbia, imprigionato, incapace di pensare con la sua testa. Con una identità artificializzata dalla esposizione mediatica. Anche il lettore sente quella voce Mae, Mae ipnotizzante, estraniante che fa uscire Mae fuori da se stessa per diventare una specie di automa.
Il punto debole del romanzo, volendo trovarlo, potrebbe essere che in un simile sistema che punta al controllo totale l’individuo Mae, facciata sorridente del sistema,ha troppo peso. Come può essere tutto quanto nelle sue mani?
In ogni caso il finale è quello giusto. Ovviamente l’altro finale possibile avrebbe svalutato di molto il romanzo.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    24 Novembre, 2014
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La versione di Smitty

“Smitty”, alias Word Smith, ottantasettenne giornalista sportivo in pensione, fanatico dell'allitterazione – strana ma proficua dote, che l'ha fatto entrare in familiarità con quattro Presidenti degli Stati Uniti –, amico di scrittori (un irascibile Ernest Hemingway su tutti), è la voce narrante della storia del baseball americano... o, meglio, della dimenticata Patriot League.
Già, perché tutti conservano memoria delle altre due leghe, la American League e la National League, e delle loro leggende, ma nessuno sembra aver memoria degli eroi della Patriot League. Perciò, come al solo Ismaele è consentito tramandare la storia di Moby Dick, in quanto unico marinaio sopravvissuto al naufragio del Pequod, così soltanto Smitty è in grado di riportare alla luce le gesta dei Ruppert Mundy: dai successi degli anni '30 alla perenne trasferta dell'anno 1943, dovuta all'affitto – in verità un “esproprio” – dello stadio di casa, utilizzato dai militari destinati a partire per la Normandia (compresi i giocatori di baseball chiamati alle armi).
Nel leggendario racconto dell'irriducibile Smitty rivivono tra gli altri:
Gilbert Gamesh (detto “Gilgamesh”), il magico lanciatore capace di non far vedere una palla agli avversari per tutti i nove inning che compongono una partita, così come di attentare alla vita dell'incorruttibile arbitro che gli infliggerà (per squalifica: violazione del regolamento) la prima sconfitta della sua carriera;
Roland Agni, primo battitore nelle statistiche della Patriot League, eppure impossibilitato a lasciare la squadra dei Mundy, a causa – questa è la voce che gira! – di un incombente complotto comunista contro il baseball americano;
Big John Baal, meraviglioso battitore a condizione di essere completamente ubriaco in campo, degno figlio di “Spit” Ball, il lanciatore noto per la schifosa abitudine di... beh, leggetelo da voi.

Ne “Il grande romanzo americano” – pubblicato per la prima volta nel 1973 – Philip Roth ruba i panni di un ultraottantenne rinchiuso in un polo geriatrico assieme alle sue inesauribili memorie agonistiche. Basterebbe il nome di quest'ultimo – Word Smith, ovvero “cesellatore della parola” – ad intuire l'incedere istrionico e irriverente (ben oltre il limite del politicamente scorretto) inventato dall'autore per stare al passo con il suo caustico personaggio, una sorta di raccoglitore enciclopedico di aneddoti sportivi determinato a porre rimedio al più squallido caso di censura che gli Stati Uniti ricordino... a suo dire, naturalmente.
Un godibile esercizio di stile, ben lontano dai libri più conosciuti e osannati di Roth (“Pastorale americana”, “La macchia umana”, “Lamento di Portnoy”); un libro non così penalizzato dall'uso di termini tecnici come qualcuno ha sostenuto (in fondo, per cogliere l'ironia del racconto non è necessario essere patiti del baseball).
La questione è piuttosto se l'argomento puramente sportivo possa piacere o meno (in questo secondo caso è meglio forse provare con altro). E comunque, v'è da dire, dalle 400 pagine del libro si sarebbe potuto tirar via qualche episodio di troppo, senza portare il racconto a risentirne.
L'obiettivo di Roth è comunque raggiunto: attraverso le comiche vicissitudini dei Ruppert Mundy disegnare (e disdegnare) l'America nelle sue fondamenta costitutive – “Il grande romanzo americano” non è che questo –, oltre che il “tipo” sportivo nel suo nocciolo, ovvero l'essere eternamente ragazzo anche nel pieno del successo (o dell'insuccesso): “ciò non toglie che la loro più grande aspirazione sia andare a stabilirsi in una casetta nel folto di un bosco alla prima occasione, cucinarsi selvaggina a pranzo e a cena, o semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente dentro una comoda canoa, con Madre Natura come unica compagna femminile. Come tutti sanno, i ragazzi vorrebbero essere dei grandi giocatori di baseball, mentre i grandi campioni vorrebbero essere ancora dei ragazzi”.

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i libri di Paolo Villaggio, apprezzando quel tipo di umorismo.
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    24 Novembre, 2014
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Canzoni di rivolta di un cieco in Paradiso

La terra odora di aglio e sudore, si sviluppa un ibrido dai germogli verdi e dalle gocce del massacrante lavoro dei contadini di Tiantang ( Paradiso), nella provincia dello Shandong.
Dall'alba a notte fonda, il profilo chinato dei gracili corpi di uomini e donne segue le direttive dell'unica via percorribile : quella tracciata dal Partito e dalla pianificazione agricola. Una volta terminato il raccolto pero' l'Organizzazione si rifiuta di ritirarlo e pagarlo , ogni passo e' gravato da imposte e multe, l'aglio marcisce sui miseri carretti.
Esasperazione, fame, poverta', abusi, impotenza sferzano le masse che disperate si ribellano, forzano i cancelli della sede del distretto, vorrebbero parlare, capire, trattare. Verranno arrestati, torturati, uccisi.
Una giovane donna durante il travaglio, sola in una baracca che condivide coi ratti, parla al suo bambino che si contorce per venire al mondo. Lo scongiura di restare avvolto nel tepore del suo utero, il mondo e' tremendo, c'e' solo lavoro senza riposo, non si mangia, non si sorride, il sole brucia , l'acqua annega, le mani colpiscono. Disperata tra le doglie lo avverte che non potra' piu' difenderlo una volta fuori ed il bambino testardo ascolta la sua mamma, smette di menare calci. Decidono di stare insieme, lontano dalla cattiveria e dal dolore.

Scritto nel 1988 ed ambientato negli stessi anni, il romanzo si ispira ad un evento realmente accaduto ( la rivolta dell'aglio ) ed e' arricchito dall'infausto amore tra Gao Ma e Jinju e dalle strazianti vicende di altri personaggi, in un accavallarsi di strati temporali non lineari.
L'amara realta' contadina narrata da Mo Yan e' lucida e feroce, non risparmia non sconta non ha pieta'. Poverta', violenza e prevaricazione sono una minaccia costante, ma cio' che turba piu' di tutto non e' il fatto fine a se stesso, e' la crudelta' diffusa e vissuta come fosse pane quotidiano ed irrinunciabile. Come se l'orrore fosse una cosa normale.
Molto spazio ai discorsi diretti a discapito della bella prosa che fa capo allo scrittore cinese, il volume istiga ferocemente all' apnea del tormento e dell'incredulita'; ricordate di respirare durante la lettura, diversamente ne morirete. 
Toccante e disperato, truce ed esasperato.

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Letteratura rosa
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    23 Novembre, 2014
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Uno sbaglio che si poteva evitare

Bene, da dove partire per fare questa recensione? Me lo sono chiesta varie volte dopo aver finito di leggerlo e me lo chiedo ancora qui davanti a questa pagina bianca.
Un romanzo carico di aspettative, milioni di ragazze erano in trepida attesa di conoscere anche le avventure amorose di uno dei fratelli del loro adorato Travis Maddox, Trenton.
Ci sono da dire due cose, la prima è che se andiamo a contestualizzare il libro e considerarlo per quello che è, un New Adult dedicato e realizzato in seguito al successo del suo famoso predecessore “Uno splendido disastro”, la valutazione non può che essere positiva.
Mi spiego meglio, questo romanzo ha molte caratteristiche in comune alla maggior parte dei libri di questo genere, i protagonisti hanno delle situazioni famigliari difficili, c’è una storia d’amore e siamo nel periodo universitario o comunque scolastico.
Qui la voce narrante è Cami, Camille all’anagrafe, che al secondo anno alla Eastern University vive con l’amica Raegan e si mantiene da sola lavorando in un locale. Una ragazza determinata, che si vuole rendere indipendente dalla sua famiglia con la quale non ha un buonissimo rapporto.
Come tutte le ragazze della città anche lei nutre un segreto interesse per i fratelli Maddox, e quando una sera Trenton le offre da bere, scocca la scintilla anche se la loro relazione non decolla subito.
Tra litigi, fraintendimenti, il fidanzato di lei e varie incursioni di parenti e fratelli vari, i due continuano a frequentarsi, anche se all’inizio creano solamente un rapporto di amicizia.
Trenton, più vecchio di Travis abituato ad avere fugaci storie d’amore, sembra che a poco a poco si interessi sempre di più a Cami.
Fino a qui tutto bene, ma se noi vogliamo analizzare il libro da un altro punto di vista, non rimanendo in superficie ma scavando nella storia, riusciamo ad ottenere una recensione forse più critica e che porta in evidenza i molti difetti di questo romanzo.
Cami, è sicuramente più simpatica della spocchiosa Abby, si crea da subito una sorta di empatia con chi legge. Devo dire che però fa la preziosa per molto tempo, dice di non subire il fascino di Trenton ma ben presto si capisce che fin da piccola il ragazzo le piaceva come a tutte del resto. Ma non era mai stata una sua conquista.
Forse l’atteggiamento di Cami è dovuto anche per il fatto che lei prova ancora qualcosa per il suo fidanzato ma non è pronta a lasciarlo per stare con Trenton o forse i suoi sentimenti stanno cambiando.
Di Trenton ho capito poco, o meglio capisco che è successo qualcosa di grave nel suo passato, ha un carattere da ”tenerone” anche se fuori sembra un duro, vive con il padre e lavora in uno studio di tatuaggi.
Non è come il fratello, Travis, che era più arrabbiato e che creava o si andava a cercare le risse, sicuramente era più problematico di Trent.

Jamie ha il difetto, se si può dire così, di caratterizzare poco i suoi personaggi, non li delinea bene, ci fa conoscere solo un lato di loro senza far un’analisi più approfondita.
In più alcuni particolari del libro non sono assolutamente sviluppati, la scrittrice sembra inserire qua e là delle parti che però cita solamente e non chiarisce, che senso ha nominare dei fatti e poi lasciarli sospesi?
Ho trovato che troppe volte vengano nominati il bel Travis e Abby, la storia tra i due è contemporanea a quella di Trenton e Cami e quindi di nuovo abbiamo seguito la loro relazione, che già sapevamo e di cui ormai non ne possiamo proprio più.
Mi è sembrata una ripetizione che si poteva evitare anche inutile al fine della trama, ma non so se sia stata l’autrice o se la sua casa editrice abbia voluto inserire così spesso Travis nel libro, mossa azzeccata visto il grande successo che ha avuto “Uno splendido disastro”.
Quindi dove sta l’ago della bilancia?
Da una parte abbiamo la serie dei disastri che da oltre 100 settimane è in classifica e non so a quante edizioni sia arrivata la ristampa, ma dall’altra parte è impossibile non essere oggettivi davanti al fatto che non è un gran romanzo.
La trama è trita e ritrita, semplice, una ragazza carina che viene notata dal figo di turno e poi la storia prosegue tra alti e bassi.
Devo però anche far notare che ci sono alcuni errori nel testo, parole sbagliate, alcune lettere si sono perse per strada e perfino il nome di Trenton diventa Trevor (a pag. 75).
Un minimo di revisione del testo sarebbe stata gradita, per rispetto ai lettori.
Nella linguetta dell’edizione rigida, viene indicato come Jamie sia diventata un idolo per i lettori italiani, ma direi lettrici in particolare, infatti da due anni rimane in classifica tra i più venduti.
E non immaginate che ressa di gente c’è stata nella presentazione del libro a Roma e a Milano dove la scrittrice è intervenuta.
Cami e Trent e il loro idillio amoroso mi hanno conquistata?
Ma direi proprio di no purtroppo, mi sono così impegnata a farmeli amici ma non ci sono riuscita. Nemmeno il suo predecessore “Uno splendido disastro” mi aveva convinta del tutto ma almeno gli avevo dato una valutazione buona, nelle media.
Consideriamo i New Adult per quello che sono, dei romanzi che hanno la giusta dose di romanticismo ma che non offrono niente di più.
Lo so, lo so, molte persone non sono d’accordo con me e sono letteralmente innamorate dei fratelli Maddox, e non riescono a vedere che in giro c’è di meglio (e di peggio) ve lo assicuro.
Cito testualmente “Ma Cami non può permettere che questo accada. Sarebbe un grosso, imperdonabile sbaglio. Perché c’è una verità che Trent non conosce e lei deve fare di tutto perché non la conosca mai”.
Perché vi ho citato questo passaggio della trama? Questo segreto viene svelato alla fine, io non vi dico di cosa si tratta ma non capisco e non mi capacito di quello che ho letto, e chiedo a Jamie perché? Scrivere una cosa così assurda e sono ancora qui a chiedermi se sia vera. Delusione assoluta.

A onor di cronaca bisogna dire che il romanzo è molto scorrevole, lo si legge velocemente ma personalmente non mi ha entusiasmata e soprattutto non mi ha dato emozioni.
Non ho sentito vicino a me nessuno dei due personaggi e non sono riuscita ad appassionarti alle vicende dei protagonisti.
Una storia dolce e leggera che può piacere, ma credo fermamente che la scrittrice si sia fatta trasportare o meglio la sua casa editrice l’abbia indotta a trascinare prima la storia di Travis e Abby, e poi quella di Trent e Cami.
A me ha dato l’impressione che in questo romanzo, Trent e Cami, invece di essere i veri protagonisti, fossero ugualmente marginali rispetto al fratello, e che la narrazione sia stata tirata per le lunghe e non si è riusciti a trovare quel spunto in più che mi aspettavo.
Mi spiego, a mio avviso rimaneva sempre di fondo la storia tra Travis e Abby, che ha avuto molto successo, e di contorno è stata creata questa, che però manca sia di originalità che di piacevolezza e quindi diventa secondaria rispetto all’altra.
In quarta di copertina ci sono dei commenti riguarda al libro del tipo “ci dovremmo tenere forte perché nei paraggi c’è un nuovo Maddox”, ”nella vita vincono le leggi del cuore” e che” questo romanzo ci dovrebbe regalare un sogno tutto da leggere”.
Solo una parola, assurdità.
Passiamo oltre che è meglio, un libro che mi lascia molti punti interrogativi, e mi chiedo perché le case editrici ci continuano a subissare di questo tipo di romanzo? Direte, perché qualcuno li legge e li compra se no non lo pubblicherebbe di sicuro, giusto.
Vi lascio con una speranza, leggendo in Internet qua e là, cercando di farmi un’idea di com è Jamie ho trovato che questa scrittrice scrive anche dei romanzi che trattano di zombie uno in particolare che in America è uscito si chiama “Red Hill”, quindi un genere molto distante rispetto a quello dei disastri.
Sarebbe interessante leggere quest’autrice in questa nuova veste, ma probabilmente non ne avremo mai occasione.

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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    23 Novembre, 2014
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Aberrazioni in codice

La situazione di partenza del romanzo di Fabrizio Valenza è particolarmente interessante. Promette bene, poiché intriga la storia che affronta un tema ostico, pieno di tabù, proprio per l’aspetto riprovevole del crimine commesso. Forse proprio per questo i personaggi, che vengono disapprovati e considerati esseri abietti, diventano, nello stesso tempo, loschi individui da tener d’occhio e da scoprire dietro i veli della quotidianità.
I tre protagonisti sono tre professori di una scuola veronese. Hanno un’esistenza apparentemente normale, ma nascondono un abominevole segreto, che porta il lettore a volerne seguire le vicende proprio per sapere cosa ne sarà di loro.
Riusciranno a farla franca? Capiranno che è sbagliato ciò che fanno? Riceveranno un’adeguata punizione?
Ecco cosa vuole sapere il lettore di questo libro che lo cattura già dall’incipit.
Rocco Costanzo, Angelo Tiraboschi e Gustavo Nicolis sono pedofili e si sono macchiati con violenze e omicidi. Nel giro di dodici anni hanno violentato e ucciso otto bambini, proteggendosi con un codice di comportamento creato appositamente per farla franca. Ecco qual è il CODICE INFRANTO del titolo.
È una storia dalle tinte forti, un noir organizzato con una narrazione che penetra psicologicamente nella mente di chi decide di infrangere quella regola che aveva reso possibile custodire un così orribile segreto. Il codice, che li ha resi forti, invincibili, insospettabili, una volta infranto, non si può ripristinare. Anzi, mentre tutto crolla, la mente dei tre protagonisti, grazie all’autore, inizia a raccontarsi al lettore, a scavare nelle pieghe insondabili dell’animo umano, deviato dall’indicibile vizio.
Infrangere un codice equivale a cambiare le carte in tavola. La narrazione sconvolge man mano che procede e si addentra nei retroscena della storia.
Quando Angelo decide di infrangere le regole per soddisfare i propri istinti, gli altri piombano nell’orrore. Poco dopo, Angelo muore in modo violento e impressionante ed è come se una maledizione fosse crollata addosso al trio maledetto.
Il thriller psicologico procede a ritmo serrato, incide un segno in chi lo legge, nonostante la sua brevità. Presenta aspetti di un tema sociale, attuale e discusso, di cui non vengono mai spiegate bene l’origine, le cause e le eventuali, possibili soluzioni. CODICE INFRANTO è un romanzo scritto con uno stile semplice, lucido e incisivo, senza censure. Molto particolare come lettura, nonostante il tema turpe, ma in grado di aprire gli occhi su una delle realtà criminali più infide.

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Sydbar Opinione inserita da Sydbar    18 Novembre, 2014
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Bentornato Guerrieri...

Bentornato ad uno dei protagonisti della scena letteraria italiana, Carofiglio ma soprattutto al suo celeberrimo personaggio, Guido Guerrieri, un avvocato in piena mezz'età che si ritrova a dover difendere un giudice accusato di corruzione.
Dimenticatevi di Testimone inconsapevole, Ad occhi chiusi e Ragionevoli dubbi, non siamo assolutamente in un clima di legal thriller, le indagini si ci sono ma non hanno i toni di una ipotetica suspance che ci ha catturato con le predette opere, in cui abbiamo apprezzato l'autore ed il suo personaggio.
Lo giudico più un viaggio estremamente intimo del Guerrieri sempre più maturo, del Guerrieri che ha sempre in sé quell'impeto di sana meridionalità barese che lo contraddistingue, un Guerrieri alle prese con un sentimento che si era un po' assopito...l'innamoramento, un Guerrieri impavido, trasparente e sinceramente corretto con se stesso e con i suoi principi di vita.
L'opera è caratterizzata da capitoli che non generano la classica corsa a proseguire per scoprire eventuali colpevoli o evoluzioni investigative, i capitoli vanno letti ed assimilati tutti come un vero rapporto di analisi di un uomo alle prese con la sua coscienza. Meraviglioso il capitolo in cui Guerrieri fa una riflessione sull'ipocrisia del mondo giudiziario ad ogni livello, magistrati, giudici, avvocati, polizia giudiziaria...una vera perla nel racconto.
Carofiglio comunque seppur non svettando così come nei tre libri precedenti con protagonista l'avvocato Guido Guerrieri, ci prende per mano e ci conduce in una Bari vista dall'interno del protagonista, facendoci vivere quasi di persona tutti gli stati d'animo del personaggio nonché tutte le sue sensazioni derivate dagli stimoli esterni.
Citazioni davvero profonde quali quella di Bertolt Brecht "ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati" o con il pensiero della Hannah Arendt "L'azione morale nasce dal dialogo interiore, e proprio l' assenza, l' incapacità di questo dialogo trasforma persone banali in agenti del male", questi sono solo alcuni dei momenti di massima luce del romanzo.
Non un capolavoro ma sicuramente un libro da leggere.
Bentornato Guerrieri ridonaci attraverso il tuo personaggio l'autore che ci è mancato per tanto tempo.
Buona lettura a tutti.
Il Syd

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I precedenti di Carofiglio
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    17 Novembre, 2014
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UGO E LE DONNE

Per quanto mi riguarda sono sempre innamorato è il titolo del romanzo d’esordio di Sandro Settimj, un libro ironico, spiritoso e divertente.
Non appartiene ad un genere definito, è una sorta di chick lit al maschile, un incrocio tra un romanzo di formazione e una ricerca personale e introspettiva per trovare l’amore.
Ugo è un ragazzo un po’particolare, non è il classico maschio alfa che domina il rapporto, che non deve chiedere mai, che non fa mai vedere il lato più tenero di sé e che non vuole impegnarsi.
No lui ama le fiabe, in particolare quella di Cenerentola, e idealizza la figura di questo personaggio inventato e spera di trovare una donna che le assomigli.
E purtroppo, si deve scontrare con una realtà diversa, perché le donne moderne o almeno quelle che lui incontra nelle sue esperienze, sono molto disinibite, sicure di sé e di quello che vogliono da un rapporto.
Ugo quindi decide di fare una ricerca personale e interiore per riuscire a trovare la persona giusta, e per farlo si rivolge ad un analista.
E’così che lui ci racconta o meglio scrive le sue avventure amorose, le sue esperienze con le donne e lo fa con ironia e divertimento.
Questo libro ha tre caratteristiche importanti che lo contraddistinguono dagli altri, per prima cosa è un romanzo che parla dell’amore scritto dal punto di vista di un uomo. Poi racconta la complessità dei rapporti a due e infine non abbiamo come protagonista il solito belloccio ma un ragazzo normale e anche un po’ pasticcione .
Partiamo dall’ inizio, qui Ugo di certo non è il figo della scuola, o il bello e impossibile ma è un ragazzo riservato che ama le fiabe e cerca una ragazza di cui innamorarsi. Racconta con ironia, le sue disastrose avventure amorose e ogni volta le donne lo sorprendono spesso e volentieri anche in negativo. Infatti, si rifugia nelle sue favole e molte volte, paragonando la finzione alla realtà, ne rimane deluso.
Un giorno decide di partire dopo la laurea per fare l’animatore, con la speranza di incontrare gente nuove ma anche molte ragazze.
Ugo non capisce le donne e si nasconde dietro la sua Cenerentola, cercando di trovare, cosa assai difficile, una persona che sia simile a lei ma non capisce che in realtà questa non esiste.
Un altro aspetto importante che viene affrontato sono le relazioni d’oggi, che sono molto cambiate rispetto al passato, i rapporti sono diventati superficiali, brevi e vuoti.
Le persone non si vogliono mettere in gioco in amore, hanno paura di soffrire, d’ innamorarsi e di soffrire, così fuggono in relazioni che sono destinate a finire.
Poco tempo fa mi è capitato di guardare un’intervista di una titolare di un’agenzia di incontri, che diceva appunto che le persone non vogliono più investire in un rapporto a lungo termine ma che si fermano alla superficie e non vogliono più conoscere la persona con la quale escono.
In realtà a suo dire le donne e gli uomini che si rivolgono a lei vogliono innamorarsi della persona giusta e lei cerca di aiutarli nella loro ricerca.
Ugo , invece, si rivolge ad un analista che ha il ruolo principale di indirizzarlo a trovare la strada giusta, ma prima di questo deve capire cosa gli manca e cosa gli serve per riuscire ad innamorarsi.
Ho trovato molto divertenti e spiritosi i siparietti che si creavano tra Ugo e il suo dottore.
In terzo luogo, Ugo non vuole soffrire e quindi è lui che fugge quando la situazione si fa più seria oppure quando non riesce più a gestirla.
Il protagonista è un ragazzo imbranato con le donne, sia sul lato sentimentale che in quello più intimo, quindi si vengono a creare delle situazioni alquanto ironiche e surreali.
Nel mondo di Internet, tra whats app, facebook, twitter, instagram e chi ne ha di più ne metta, la magia del corteggiamento e dell’innamoramento non esiste più e tutto è più veloce e si bruciano le tappe non assaporando tutti gli aspetti di un rapporto.
Le relazioni amorose perdono di valore, rimangono in superficie e non si ha più voglia di conoscere veramente l’altra persona e molte volte i rapporti finiscono per incomprensioni a volte anche di poca importanza, alcune volte basterebbe parlare e chiarirsi.
Le persone hanno paura di impegnarsi, di prendersi le proprie responsabilità e così preferiscono lanciarsi in avventure di breve durata.
Prendiamo per esempio i nostri nonni che rimanevano insieme nonostante tutte le difficoltà, in quanto si accettavano e imparavano a perdonare anche i difetti che aveva l’altra persona, mentre oggi si ci lascia senza troppi preamboli.
Tutti noi vogliamo essere amati e abbiamo bisogno d’amore ma allo stesso modo scappiamo di fronte alle difficoltà, non vogliono rischiare i nostri sentimenti e abbandonarsi completamente all’amore.
Quindi preferiamo perdere tempo in relazione che sappiamo già che finiranno, che non ci danno emozioni o ci rifugiamo in noi stessi e non ci apriamo a nuove esperienze.
Il percorso che intraprende Ugo è molto coraggioso, non è da tutti guardarsi dentro, analizzare le proprie emozioni, sentimenti e anche accettarsi per la persona che siamo.
Nelle fiabe che tanto piacciono a Ugo e che lo accompagnano nel suo percorso di crescita, sono sì storie inventate ma che dentro nascondono un qualcosa che ci porta a sognare e credere di poter trovare la persona giusta con la quale condividere un percorso a due.
Un vero e proprio viaggio nel passato di Ugo, che racconta in maniera autoironica,e divertente le sue disavventure senza mai farci perdere il buon umore, ripercorrendo le tappe che lo hanno portano alla persona che è oggi.
Un libro molto scorrevole, un romanzo autentico che da spazio ad una voce maschile fuori dal coro che racconta finalmente le relazione dal punto di vista di un protagonista atipico.
Questo romanzo vuole portarci a credere ancora nell’amore e nella speranza che un giorno troveremo la persona giusta per affrontare un percorso di vita insieme e che sognare non fa male a nessuno.
Cosa aggiungere ancora? Non vi resta che leggere il libro e scoprirlo, Ugo riuscirà a trovare l’amore?
Citazione a pagina 80:
“E’ una fiaba triste” le dice commosso, dopo un lungo silenzio.
“No”risponde lei “Dipende da come la leggi”
(………)”Se punti lo sguardo alla fine vedrai solo quella. (……………..)”

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    15 Novembre, 2014
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Niente è come sembra

Protagonisti di questo romanzo sono il dottor Shepherd e Jane. Shepherd è un giovane psichiatra giunto nell’isolata clinica di Morgan come suo collaboratore, ma ben presto la crudeltà dei metodi del suo superiore lo indurrà a voler sperimentare la “Cura Morale”, un metodo basato sulla gentilezza. E’ così che trova sulla sua strada Jane, una delle pazienti di Morgan, la quale verrà scelta per la prova: si tratta di una giovane e bella ragazza che non ricorda nulla del suo passato e mostra evidenti problemi nel parlare. Si trovano dunque a confronto due personaggi, Shepherd e Jane, che, come lasciano intuire dei sibillini indizi sparsi tra un capitolo e l’altro, nascondono qualcosa dietro la loro apparenza; il loro rapporto si baserà sulla lettura, attraverso cui si apre la strada verso la libertà, quantomeno mentale, ed emergeranno gradualmente delle verità nascoste. Su questo andamento si fonderà l’intero svolgimento del romanzo, che pagina dopo pagina condurrà il lettore verso un finale imprevedibile attraverso una serie di colpi di scena.

Il libro di Harding ha il suo punto di forza nell’interesse generato nel lettore nei confronti dei personaggi: vi è infatti una galleria di protagonisti e di comparse, psicologicamente ritratti e descritti secondo modelli che saranno irrimediabilmente smentiti nel corso della lettura. Si viene così a creare un’atmosfera di mistero sottesa alla narrazione: non ci sono punti fissi, non ci sono certezze; l’autore si diverte a giocare con i personaggi da lui stesso creati attraverso la mente narrante in prima persona di Shepherd e il lettore non sa mai cosa aspettarsi dalla pagina successiva. Niente è come sembra: questo il motivo portante del romanzo e che rimarrà costante fino all’inevitabile emergere della verità, o meglio delle verità, verità pericolose da tener nascoste fino al momento giusto.

Scorrevole e piacevole, si tratta di un libro certamente non impegnato, ma sicuramente in grado di soddisfare chi ha voglia di una lettura intrigante e leggera ma non banale.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Novembre, 2014
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Da Shakespeare a Pinter


Audace nella struttura l’ultimo romanzo di David Grossman. Servendosi dei mezzi espressivi tipici del cabaret, l’autore mette al centro della scena un singolare personaggio, Dova’le, che con la sua arguzia si rivolge direttamente al pubblico, a poca distanza da lui. Il monologo del protagonista si alterna, nel corso della narrazione, alle osservazioni e ai ricordi del giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, che ha accettato con molte perplessità di assistere allo spettacolo. Ciò che appare immediatamente evidente è la volontà dell’attore di porre il suo pubblico di fronte alla realtà spogliata di ogni falsa apparenza. Prima di addentrarsi nel racconto della sua vita egli si rivolge infatti a singoli individui in sala, senza risparmiare loro osservazioni dure e talvolta offensive. Appare qui subito evidente l’eredità shakespeariana del personaggio del clown e della sua funzione di denuncia. Dova’le, infatti si presenta subito come un buffone al centro della scena. Con l’intento di alleggerire la rappresentazione, egli alterna al racconto drammatico vere e proprie barzellette, più gradite al pubblico. Non a caso informa quasi subito lo spettatore della sua abitudine giovanile di camminare sulle mani e vedere il mondo alla rovescia. Questo atteggiamento bizzarro nasconde una tragica visione della vita. Sin da bambino, infatti, Dova’le non riesce a stabilire un rapporto armonioso con la realtà che lo circonda. Dal racconto del suo tormentato viaggio attraverso il deserto per ritornare a casa dal campeggio militare dove si era recato, richiamato per la morte d’un genitore, emerge tutta la sua disperata solitudine accentuata dall’angoscia di non sapere se sia morto suo padre o sua madre. Ritornano così alla sua mente fatti della vita quasi sepolti in un piccolo spazio di memoria dove è sempre presente il dramma della Shoa.
Come i personaggi di Pinter, Dova’le è chiuso anch’egli nella sua “stanza dell’oppressione” nella quale egli intende trascinare anche il suo pubblico persuadendolo della necessità della ricerca della verità. Immergersi nel suo passato gli serve per denunciare insieme ai suoi limiti, anche i limiti e le colpe di chi lo aveva conosciuto nel passato e aveva mostrato indifferenza verso il suo destino.
Il contatto diretto con il pubblico agevola la comunicazione. Solo di tanto in tanto Dova’le si rifugia in una poltrona, unico arredo del palcoscenico, che ha lo scopo di sottolineare il limite entro cui egli stesso è chiuso. Il suo spettacolo tuttavia non è gradito a tutto il suo pubblico. Una parte di esso desidera rifugiarsi in qualcosa di illusorio e sfuggire alla cruda rappresentazione della realtà.
La presenza del giudice Avishai, tanto desiderata da Dova’le, al suo spettacolo, assume un significato più sottile, proprio alla fine del monologo. Giudicare senza partecipare emotivamente non è sempre garanzia di equilibrio e obiettività. Giustizia non è negazione di umanità. Dova’le desidera che l’amico d’un tempo si senta finalmente partecipe della sua storia e ne dia un giudizio sereno.
“Per lo meno rimarrà qualche parola di me […] Come la segatura dopo il taglio di un albero ….”
Personalmente, egli ha finalmente preso coscienza del significato dei drammi vissuti. Rivisitare il passato gli ha permesso di penetrare nell’animo delle persone che ha amato. Presupposto essenziale per non dovere più camminare a testa in giù.

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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    07 Novembre, 2014
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E che festa sia!

Un padre e un figlio davanti al falò tradizionale durante la notte di Natale. Tullio torna ai suoi affetti dopo un anno di lavoro in Francia, Marco è al settimo cielo perché può nuovamente dare sfogo a sentimenti repressi per mesi.
Tullio ha dovuto emigrare poco più che adolescente, trovato lavoro ha poi dovuto sacrificare la sua vita lontano dalle persone che ama. Marco vive nel ricordo del padre e per il suo ritorno.
Ora è tempo di confessioni, quelle di un padre che finalmente vede il figlio cresciuto, maturo, in grado di comprendere cose che fino a qualche anno prima potevano essere fraintese dall'acerbo sapere fanciullo, mentre Marco può confrontarsi (quasi) alla pari col genitore, non più mitizzato in forma semi-divina.
Il figlio ascolta attento il resoconto ed intanto materializza mentalmente i periodi tormentati dall'assenza: le estati afose in compagnia della fidata cagnetta Spertina, o con gli amici tutti insieme a rincorrere quel pallone giunto da Parigi, a fare il bagno in quella che è poco più che è una pozza di fango, a combinare guai con il cugino Mario o a scoprire la natura rigogliosa che attornia il fittizio paese di Hora (cittadina inventata dall'autore, sarebbe l'equivalente di Carfizzi in cui Abate è nato).
La nostalgia lusingatrice di un tempo andato e al tempo stesso reso doloroso dalla mancanza si eleva malinconico, un buco nero che l'affetto della madre e delle sorelle non possono riempire edifica un perenne stato d'attesa.
Marco in cuor suo somatizza scelte obbligate con gran sforzo, mentre la vita scorre costellata da gioie e da piccoli e grandi drammi, come la sua malattia o l'aggressione ad Elisa.
Abate dona voce a chi si è spaccato la schiena in un paese straniero offrendo sostentamento e dignità alla propria famiglia, eleva un affetto alimentato da una sorta di complice e rispettoso imbarazzo in cui non occorrono parole o gesti per comprendere la portata immane dei sentimenti.
Tuttavia l'amore non si imbriglia facilmente e infatti esplode nella catarsi natalizia: un abbraccio e un oggetto lanciato nel fuoco per confermare ciò che in fin dei conti trasuda da ogni pagina.
Il linguaggio particolare è di facilissima fruizione nonostante all'italiano si sostituiscano spesso termini dialettali o intermezzi in lingua arberesh (comunità d'origine albanese diffusa nel mezzogiorno e soprattutto in Calabria).
La magia dell'infanzia filtra il sacrificio di un uomo che è emblema di tutti i migranti; l' emozione quasi favolistica è mai banale o retorica, qui c'è tutto l'amore tra un figlio e un genitore.
C'è tutto l'amore del mondo.

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SARY Opinione inserita da SARY    05 Novembre, 2014
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Magia

Fra i monti Sibillini, in territorio marchigiano, magia, folklore, verità, saggezza si fondono creando un’atmosfera mitologica e speciale, si respira un’aria carica di storia e sapienza primordiale da inspirare a pieni polmoni per carpire, assorbire e lasciar sedimentare dentro di sé la preziosa conoscenza universale.
Arroccato sul monte, un paesino vive e sopravvive a ritmo della natura. Lentezza intesa come consapevolezza del momento in atto, silenzio rivolto alla riflessione ordinata, ascolto mirato alla comprensione. Poche anime popolano le viuzze, poche scarpe calpestano il selciato, le panchine cariche di neve non sono invitanti, eppure, abbandonata la ritrosia iniziale verso volti rugosi e tradizioni sconosciute, si varca la soglia dell’alternativa al cieco vivere, all’esistenza ricca di beni materiali che nulla portano e nulla ottengono.
Strani racconti ulula il vento, orecchie vergini potrebbero afferrare parole vere, immagini paranormali agli animi inquinati fanno scuotere il capo e passare oltre. Il sangue non mente, ciò che scorre dagli inizi dei tempi non si ferma, si modifica e va avanti per la propria strada, perché così deve essere. Viola, la protagonista, non potrà farne a meno. Lottare è inutile, accettare e coltivare il dono con senso di appartenenza è l’unica soluzione. Grazie al padre artista, viene passato il testimone e le ferite di una vita che non è stata clemente con nessuno, dove l’amore è stato sacrificato, sia quello passionale che quello familiare, saranno finalmente rimarginate.
Bello, intenso, ricco di riflessioni, mi è piaciuto l’intreccio tra magia, mitologia e umanità. Dietro a tutto questo c’è una storia di incomprensioni familiari, una figlia cresciuta all’ombra della notorietà del padre, allevata da una madre rancorosa e disillusa, una ragazza insicura che non si sente all’altezza della figura paterna, un senso di inferiorità che si trascina appresso in ogni campo della propria vita.
Il tutto è scritto benissimo, una penna matura, poetica, restando in tema di magia, direi mani di fata.
Concludendo, ne consiglio la lettura, un romanzo sul perdono, sull’accettazione, sull’essenza delle cose, sull’essere madre, moglie, figlia, ma prima di tutto sull’essere sé stessi.

“Mamma dice che non cambierai mai. - Tua madre vorrebbe potermi modellare, come io faccio con le mie sculture. - E perché non provi a lasciarglielo fare? - Perché un’opera non si cambia, Viola. Tutt’al più si rivela nel tempo”.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    05 Novembre, 2014
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Femme 100%

Incredibile Irene, non sbaglia un colpo. Vengo dalla lettura dei racconti di un Nobel e di un Pulitzer ma devo dire che con Irene non c'è confronto. Pur non amando i racconti, non ho avuto l'impressione di leggere dei racconti, qualcosa cioè di limitato rispetto a un romanzo, la descrizione di un momento, di un episodio particolare di una vita. Al contrario, i racconti di Irene sono dei veri concentrati che racchiudono un’intera esistenza e a volte l’esistenza di madri messa al confronto con quella delle figlie, descritta a pennellate rapide, in modo ancora più coinvolgente e efficace che in un romanzo. Ogni racconto è in realtà, per come funziona, per come è concepito, un piccolo romanzo.
Le pagine proprio perché poche devono essere rapide, espressive, e anche lo stile è curato, plasmato per rendere meglio l’accendersi e lo spegnersi dei desideri nell’arco del grande albero di Natale della vita umana.
“La felicità… Sì, a vent’anni la felicità mi sembrava qualcos’altro, più terribile, più vasto, ma i desideri, meravigliosamente si ridimensionano, diventano più accessibili a mano a mano che si avvicina la fine di tutti i desideri.”
Come sempre Irene rende alla perfezione l’animo femminile (e non solo) e ogni racconto scava dentro almeno un personaggio, sviscerandone sogni, aspettative, delusioni e speranze.
“La ricchezza di cui traboccava il suo cuore, i ricordi, l’amore, l’oblio tutto ciò che la rendeva una donna diversa dalle altre, una donna tra mille altre, tutto questo fa sì che un essere, al di là dell’aspetto fisico e dello stato civile, sia anche un’anima, tutto questo restava invisibile, inesprimibile…”
…inesprimibile ma non per Irene.
Nel primo racconto la scrittura prende una forma che non è la solita, frasi brevi, frasi interrotte. Un modo di scrivere che, credo, andrebbe particolarmente a genio alle nostre scuole di scrittura ma che non ha niente di affettato, in cui la rarefazione della parole e la brevità delle frasi, i tempi dei verbi o la loro mancanza sono un modo per evocare emozioni, per rendere il passare fulmineo del tempo di una vita.
Il lettore riesce a tenere in mano una vita o più vite, di madri e figlie in modo da confrontarle, osservare la bellezza dei desideri irrealizzati, l'inutilità dell'arrabattarsi per la propria felicità che in tutte le vite resta un miraggio.
“Ma vede, la fama è un frutto amaro che si raccoglie solo dopo che l’albero è caduto.”
Guardando intere esistenze condensate nelle poche pagine di un racconto si tocca la malinconia, la disperazione che è la musica di queste esistenze, ciò che le rende belle, intense ai nostri occhi di lettori. Anche la velocità del tempo, il passaggio da illusione a disillusione è reso alla perfezione dalla struttura del racconto. E, comunque i racconti sono tutti, tutti bellissimi. Il secondo, Ida, racconta l'ascesa di Ida Sconin diva di cabaret, stella dello spettacolo fino a un'età mai specificata ma che immaginiamo molto avanti nel tempo. Il lettore riesce a trovarsi nudo, sui tacchi a spillo, di fronte alla tribuna strapiena di gente urlante a rivivere, nei due minuti in cui Ida scende i gradini della scalinata, l'intera sua triste vita votata e sacrificata, il lettore può ben dirlo, alla carriera e al successo. Tutti i rapporti umani o quasi sono stati finalizzati a ottenere un vantaggio in termini di carriera, ogni uomo potente è stato trattato da Ida come lui voleva essere trattato.
“ Fra le tante donne che prendeva e mollava una dopo l’altra, sono stata forse l’unica a procurargli il genere di sofferenza che desiderava.”
E il lettore si chiede se ne sia valsa la pena. Quella vita strappata a morsi, quell'ambizione cieca e sorda e senza pietà. Il guardare queste vite condensate pone il lettore in una posizione privilegiata per tirare delle conseguenze per sé.
Ogni vita è in qualche modo sprecata e per questo interessante. I vecchi guardano i giovani imbucare la loro stessa strada facendo gli stessi errori, guidati dalle stesse illusioni. I giovani non hanno interesse per le vite dei vecchi barbogi.
“Non capisce più. Sono arrivata troppo tardi. Ieri sarebbe stata attenta, partecipe, ma oggi ha già un innamorato, la sua vita. Una ragazzata, ma che importa? Lei ne è totalmente presa. E io? Cerchiamo invano, chiamiamo invano, E non c’è un cuore che comprenda il nostro. Non una mano che si tenda verso di noi.”
In un certo senso questi racconti, proprio per la loro brevità, perché ci si ritrova sotto gli occhi in poche pagine una intera vita, inducono il lettore alla riflessione su cosa conta e sul valore dei desideri e delle ambizioni.
“In fondo è tutto quello che abbiamo, questo calore umano.”
La raccolta è chiusa dalla immancabile figura della madre-orchessa, che cannibalizza i figli per ottenere dalla loro vita le soddisfazioni che non è riuscita a tirare fuori dalla propria.
“Non c’è nulla di più pericoloso del desiderio insoddisfatto di una donna. Perché farà in modo che i suoi figli mangino a sazietà i frutti che a lei sono stati negati, e non importa se sono indigesti: li costringerà a inghiottire la buccia, la polpa, il nocciolo tutto fino a soffocarli.”
Tuttavia, il racconto ha un taglio felicemente ironico e chiude nel modo migliore la raccolta.
“Cerca di innamorarti solo di donne felici ragazzo mio.”
Certo, viene da chiedersi che cosa avrebbe potuto scrivere Irene se fosse vissuta fino a 80 anni.

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altri Irene. Oltre a questo, consiglio David Golder.
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    03 Novembre, 2014
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DOCILMENTE BRILLARE

La porta chiusa.
L’elaborazione del lutto non è un processo lineare. Ricostruire un mondo nuovo è un processo lento, che richiede tempo, e pazienza. Il dolore è inevitabile, sempre, anche quando dietro la porta chiusa ce n’è già un’altra, molto più splendida, già aperta. No, per quanto il portone che ci aspetta sia invitante, non basta.

La nostalgia.
La nostalgia per la montagna, il paradiso perduto, si accende soprattutto nei sogni, quando il corpo riposa e il mondo esterno è tagliato fuori: allora le emozioni si esprimono liberamente e il profumo della bellezza che non c’è più stordisce e ferisce, con il peso tagliente dell’assenza.

La montagna e la città.
La montagna appartiene al passato, vive soltanto nel ricordo. Là le abitudini, il lavoro, gli affetti e la forza meravigliosa degli eventi naturali spazzavano via la tentazione di rinchiudersi, ad ascoltare soltanto le proprie voci interiori. La tutto era vita e profumo e consistenza: ognuno lasciava le sue tracce, ogni gesto e ogni tragitto acquisivano e davano concretezza.
La metropoli è diversa: può produrre uno spazio illusorio, in cui il dolore non esiste, in cui l’esistenza non lascia tracce. Ma anche qui c’è la possibilità di costruire una vita nuova, di trovare una nicchia vitake in cui lasciare delle impronte: accettando la sofferenza del distacco, la nuova porta si apre e conduce all’amore, all’amicizia, ai semplici rapporti di cordialità. La strada dei negozi, un luogo di incontri pacifici, è un’esperienza nuova, un’atmosfera di piccole gioie, timidi sorrisi, minuscole magie. Anche la scoperta di nuovi modi di cucinare costruisce qualcosa di buono, che lascia tracce gradevoli.

La pazienza.
Il ritmo di questo romanzo è poco romanzesco per i nostri palati occidentali. Noi siamo abituati a trame ricche e coinvolgenti, che conquistano l’attenzione del lettore, la trascinano via di corsa, la lasciano sospesa per poi travolgerla con un finale mozzafiato.
Qui non c’è azione, non ci sono inseguimenti, non c’è tensione nemmeno nel dolore: i personaggi e le loro emozioni si aprono come fiori, il dramma è già vissuto e il suo alone si dissolve.
La protagonista si muove a minuscoli passi tra passato e futuro, la sua lenta ricostruzione si nutre di minime osservazioni, piccole esperienze, luci e penombre. La pazienza si rivela la virtù necessaria per il riadattamento e la scoperta, perfino nel rapporto con gli oggetti: non bisogna mai aver fretta di scartare un regalo.
“Se li tratti così, gli oggetti assumeranno un carattere tanto sgraziato quanto il tuo modo di fare.”
La pazienza, la grazia è fondamentale anche nel coltivare i nuovi affetti: ci vogliono rispetto, e comprensione, e generosità. Risparmiarsi per paura di soffrire, invece, è sbagliato: la vita immune dal dolore è solo un’illusione. Così la protagonista trova la via giusta e conquista con forza paziente e generosa il nuovo amore, i nuovi amici, la nuova attività.

La nuova vita.
“ ...tu sai esercitare una forza che parte dal basso e poi a un certo punto s’impone. L’unico mondo che tu conoscevi e amavi era quello della montagna dove vivevi con tua nonna, Quindi, adesso che sei in città, stai cercando di crearne un simulacro attraverso noi. Proprio come un bambino che riproduce il mondo con dei cubi di legno.”
Piano piano, la nuova costruzione merita di riuscire, se la forza non è usata in modo egoistico.

Questo è il secondo libro di una quadrilogia: “Il Regno”. Un lungo viaggio sulle meschinità splendenti della vita.

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Yami Opinione inserita da Yami    02 Novembre, 2014
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Droghe, sesso e niente più

"La bestia non corre" rappresenta il ritratto di una società allo sbando, popolata da individui senza dignità che conducono vite disordinate, prive di uno scopo e di una direzione; una realtà di stampo maschilista, in cui ogni individuo vive per se stesso, nel proprio cieco e ottuso egoismo, in un mondo distorto e offuscato da svariati tipi di droghe e alcolici; un mondo popolato da persone il cui unico interesse è appagare il piacere dei sensi ricorrendo a sostanze che ne alterano la percezione e abbandonarsi al sesso senza sentimenti e senza inibizioni.
Le vicende narrate ripercorrono momenti vissuti dal protagonista in varie fasi della sua vita, partendo da una giovinezza spensierata, condotta tra vizi e abusi, fino alla scoperta di una malattia degenerativa (nel testo indicata con l’appellativo “Bestia”) che, come anticipato dalla trama riportata nella quarta di copertina, “condizionerà inevitabilmente la sua esistenza". In realtà di tale malattia che da persino il titolo al romanzo non si fanno che pochi, semplici accenni, come se si parlasse di un banale raffreddore. C’è, giusto per avvisare il lettore, ma non influisce più di tanto sullo stile di vita del protagonista: i condizionamenti di cui si parla nella scheda di presentazione del libro non esistono affatto dal momento che Riccio continua ad affogare negli eccessi come se nulla fosse, senza rallentare più di tanto i ritmi.
Per cui, se da un titolo e da una trama del genere vi aspettavate di leggere una storia in cui, dopo essersi abbandonato a ogni tipo di vizio, il protagonista è costretto a una battuta d’arresto a causa di una malattia che gli permette di maturare mentalmente e spiritualmente, sappiate che vi sbagliate di grosso: in Riccio non cambia nulla, il protagonista non impara nulla dai numerosi errori e la storia finisce così com’è cominciata, ovvero con una carrellata di incontri sessuali tra lui e le sue “amiche di sesso”.
Le ragazze, a volte molto giovani altre volte mature e procaci, vengono descritte come oggetti “scopabili”, sempre pronte e ben disposte ad aprire le gambe e la bocca per concedere se stesse e/o dare piacere a qualunque partner occasionale, senza rispetto per se stesse e per il proprio corpo. Sono solo organi riproduttivi ambulanti, strumenti di piacere pronte ad accogliere le richieste degli uomini e a servire le loro voglie anche senza trarne particolare godimento personale.
Nella sua storia, infatti, tutto ruota attorno alle droghe e al sesso: Riccio e i suoi amici non mangiano, non bevono e non respirano altro che fumo, pasticche, polveri e alcolici di vario genere. Come si legge nella scheda di presentazione " Il lettore impara involontariamente a preparare la droga per lo spaccio, comprende gli effetti delle sostanze assunte da Riccio e dagli altri personaggi che popolano il suo ambiente e assiste alle performance sessuali dei protagonisti."
Per Riccio e la sua compagnia, una serata tranquilla è “solo sesso, cocaina e qualche birra”.
Se la presenza di certi passaggi ed elementi possono talvolta considerarsi funzionali a comprendere il livello di degrado dei valori dei personaggi che si muovono sulla scena, il continuo soffermarsi sulle descrizioni dettagliate dei vari rapporti sessuali fa sorgere il dubbio che per l’autore ogni scusa sia buona per soffermarsi proprio su di essi, utilizzando il gergo tipico di chi frequenta gli ambienti in cui circolano droghe e alcolici e un linguaggio crudo e spesso volgare, ricorrendo a descrizioni inutilmente minuziose e dettagliate degli apparati genitali e delle reazioni degli stessi agli stimoli tattili. Sembra di leggere un porno anziché un romanzo che ambisce a “ripercorrere momenti di una gioventù spensierata fino alla acquisizione di una nuova consapevolezza del senso della vita”: tale consapevolezza non viene acquisita, come già detto il protagonista non subisce alcuna evoluzione, resta fino alla fine un ragazzo immaturo che fugge da una vita che gli sta troppo stretta (la malattia in tutto ciò non rappresenta nemmeno un problema al raggiungimento dei suoi scopi) e prende tutto quello che può, continua a vivere per appagare i suoi sensi e il suo ego.
Come se non bastasse, in un passaggio si sfiora la blasfemia: si può essere credenti oppure no, si ha la libertà di far esprimere ai propri personaggi un’opinione o un pensiero contrario a figure o credi religiosi qualsiasi, ma nel fare ciò si dovrebbe sempre cercare di portare rispetto verso coloro che credono in tali figure: rivolgersi a queste con frasi volgari e dissacranti, anche se inserite in un contesto di “finzione”, denota mancanza di sensibilità e attenzioni verso il lettore.
La narrazione scorrevole ed elementare permette di leggere l’intero volume in un solo pomeriggio, tuttavia quest’unico pregio non solleva la qualità del contenuto. il romanzo non contiene un messaggio o una morale, anzi descrive la totale mancanza di morale e valori e nel farlo si limita a riferire vicende personali in cui squallore e dissolutezze rappresentano la normalità. Al contrario, fornisce informazioni accurate sui processi di taglio, consumo e spaccio delle droghe, che non sono propriamente utili, facendo apparire il consumo delle stesse quasi accettabile, normale, facile e senza conseguenze.
Di storie come questa, purtroppo, ce ne sono fin troppe nella vita reale e, a meno che non siano accompagnate realmente da un’evoluzione o un cambiamento che permetta al lettore di acquisire nuove consapevolezze e informazioni che possono arricchire la sua persona, queste restano fini a se stesse, non lasciano niente.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Novembre, 2014
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Nihal e Sennar.

Le imprese di Nihal contro Aster il Tiranno sono ancora impresse nei cuori degli abitanti del Mondo Emerso nonostante l’immenso arco di tempo ormai trascorso dalle sue gesta. Il suo ricordo è vivo nelle leggende che da padre in figlio si tramandano tra la popolazione eppure, quando un misterioso cantastorie si presenta in una locanda narrando prodezze mai descritte nelle Cronache e dunque sconosciute ai ricordi dei clienti presenti, la sua presenza è più forte che mai, è come se essa si fosse materializzata in quel luogo con tutta la sua dirompente potenza, come se dalla sconfitta del dittatore fossero trascorsi solo pochi giorni.

Sulle note familiari di un liuto il romanzo si apre con una neonata Nihal che, scampata alla ferocia dei fammin che avevano attaccato l’accampamento in cui i suoi genitori Karna e Makthar risiedevano in cerca di pace e serenità, viene salvata dall’apprendista Soana che, scortata dal prode e amato Fen Cavaliere di Drago Alucarth, conduce la piccola nel luogo più sicuro di sua conoscenza: la casa del fratello Livon.

La seconda strofa del romanzo ha come protagonista una Nihal adulta che, madre del piccolo Tarik frutto dell’amore da sempre nutrito verso Sennar, si è ormai ritirata nelle Terre Ignote e mentre la nostra eroina continua a dedicarsi allo studio delle arti della guerra per puro e semplice piacere come se si trattasse di una sfida tra corpo e mente, il compagno prosegue con i suoi studi delle arti magiche. Tutto sembra tranquillo nelle vite dei due protagonisti, i giorni scorrono lieti tra i primi insegnamenti al piccolo Tarik e l’amore dirompente e profondo nutrito tra i due coniugi, fino a quando un misterioso avvenimento sconvolge la pace tanto desiderata e faticosamente conquistata. Sin dal rientro di Sennar dalla visita di studio alle cascate sacre Nihal aveva notato in lui dei cambiamenti sempre più marcati e preoccupanti. L’uomo sta lentamente ed inesorabilmente morendo e sua moglie farà di tutto per salvarlo da ciò che lo sta conducendo all’oblio.

Tra la seconda e la terza strofa vi è un vero e proprio salto temporale, le vicende si svolgono a ben 100 anni di distanza dagli avvenimenti narrati nel precedente "canto", la nostra eroina questa volta è chiamata in aiuto da un villaggio in difficoltà, un popolo conosciuto e da sempre con lei alleato ma anche incapace di difendersi. Così quando viene fatta richiesta di un guerriero forte e prode al mago elfico rinnegato dal suo popolo per i suoi blasfemi poteri, il sortilegio evoca Nihal.

Ma chi è questo misterioso cantastorie? E perché conosce gesta oscure alle Cronache e al popolo? Che sia tutto frutto della sua fervida immaginazione?
Con un linguaggio semplice ma accattivante l'opera della Troisi conferma il suo indiscusso talento e, nonostante a tratti sia intuibile e prevedibile quale sarà lo sviluppo della vicenda, non è da meno ai precedenti capitoli della saga.
Adatto tanto ad un pubblico adulto che ai ragazzi perché con la dolcezza con cui l'autrice racconta rende piacevole il romanzo a tutti. E' consigliabile inoltre a chi ha già letto i precedenti volumi della Trilogia per una questione di facilità di lettura ma questo non deve precludere a chi non conosce le avventure di Nihal e Sennar di venire "in contatto" questo episodio perché la scrittrice lo ha strutturato in modo tale che tutti, anche i profani, siano in grado di avvicinarsi al mondo fantastico senza difficoltà, pur se "al primo appuntamento".
Buona lettura.

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a chi ha letto le opere della Troisi e in generale a tutti.
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    31 Ottobre, 2014
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UN INVERNO IN BILICO

Gerusalemme, inverno 1959-60. Un ragazzo universitario di 25 anni, alle prese con una ricerca, che non riesce a concludere, intitolata "Gesù visto dagli ebrei". Il giovane, "barbuto (...), timido, sensibile, socialista, asmatico, propenso tanto all'entusiasmo quanto alla precoce delusione", recentemente lasciato dalla ragazza, è affascinato dalla figura di Gesù ("perché gli ebrei non hanno voluto accoglierlo?") e ossessionato da quella di Giuda. Il tema del tradimento affiora spesso fra le pagine.

Un annuncio sul giornale: "A studente celibe (...) dotato di competenza storica, offronsi alloggio gratis e modesto stipendio mensile in cambio di cinque ore serali di compagnia a settantenne invalido, colto ed eclettico (...) bisognoso di conversazione".
Nella casa, oltra al vecchio, vive una donna con tutti i suoi segreti che, almeno in parte e con gradualità, si sveleranno.
Questi tre personaggi, con le loro ossessioni, paiono bastare al racconto; gli altri stanno sullo sfondo: qualcuno vivo, qualcuno morto.

Ovviamente c'è la questione israeliana (come potrebbe essere altrimenti?): la nascita dello Stato ebraico e gli scontri con gli Arabi, a contendersi quel territorio di vitale importanza non solo economica, ma politica, religiosa, culturale, simbolica.
La vicenda è ambientata oltre mezzo secolo fa, ma il libro è recentissimo (in Italia è uscito da pochi giorni, nella pregevole traduzione di Elena Loewenthal): si avverte la problematicità attualissima di quella terra in cui l'autore è nato e vive tuttora.
Amos Oz, lo sappiamo, non è in posizione neutrale sulle questioni del suo Paese, anzi ha scritto pure testi di saggistica sull'argomento, per cui le sue idee sono ben conosciute: è un teorico del "compromesso", del "cercare di incontrare l'altro a metà strada"; insomma è un pacifista. Non si pensi, però, che questo libro sia un saggio di idee volte in narrativa; anzi..., in un'intervista, lo scrittore sostiene un presupposto letterario, che attribuisce a Lawrence: "per scrivere un romanzo bisogna saper presentare con uguale credibilità cinque o sei punti di vista diversi". E ci riesce, anche se i protagonisti sono solo tre.

L'autore è un maestro di stile, qui ad un livello altissimo: una scrittura austera, cioè priva di fronzoli o leziosità; scrittura che procede senza sforzi, anche se sappiamo, come dice A. Piperno, "non c'è niente di meno spontaneo della spontaneità letteraria. Anzi, la spontaneità è una conquista", degli artisti autentici, diremmo noi.
In questo romanzo di interni, i dettagli si fanno penetranti. Anche gli splendidi squarci di paesaggio, semplici e solenni, offrono emozioni che toccano qualcosa di profondo e indelebile, talvolta con "una luce di miele (...) la luce che accarezza Gerusalemme nelle giornate d'inverno", oppure "luce invernale, luce di pini e pietra"; "i neri cipressi oscillavano come in quieta devozione" e nel silenzio "si sentono quasi respirare le pietre".

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letteratura israeliana
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Ottobre, 2014
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“Riparare è molto più eroico di costruire”

Il romanzo si apre su una descrizione della città di Palermo vista dall’alto, all’alba, quando la luce ancora incerta ne altera i colori, ma la rende ancora più seducente e smagliante. Di fronte allo spettacolo in chiaroscuro dei tetti e del riflesso di luce che giunge dal mare, Federico, il giovane protagonista del romanzo, pensa all’arte del Caravaggio. E sarà proprio il chiaroscuro l’elemento dominante nel racconto, l’alternarsi di spazi di speranza a spazi di disperazione nella vita dei personaggi.
Qui , in questa città ricca di arte, custode di tradizioni e culture antiche, si sono radicati abuso e sopraffazione, sfruttamento e violenza. L’opera coraggiosa di 3P, come veniva affettuosamente chiamato Padre Pino Puglisi, è volta al recupero dei giovani più diseredati, di bambini abbandonati e adolescenti dediti al furto e alla prostituzione. In lui è una volontà, un desiderio e l’ambiziosa aspirazione a spegnere il fuoco dell’inferno che circonda i suoi ragazzi. L’inferno esiste ed è sulla terra e Federico lo imparerà a sue spese nel momento in cui coraggiosamente deciderà di aiutare Don Pino. L’amore per Lucia lo sosterrà nell’impegno.
Ciò che convince in questo romanzo è la capacità dell’autore di non abbandonarsi più del necessario a riflessioni religiose. Certo il personaggio di Don Puglisi non può prescindere dalla sua professione di fede, ma visto attraverso gli occhi dell’adolescente laico Federico, risulta più convincente e più coinvolgente il suo impegno ad aiutare i più deboli. È quasi un ritorno a un Cristianesimo delle origini che si libera della retorica ecclesiastica e agisce con dedizione e generosità. Ed è questo che convince, io credo, anche il lettore più laico. Perché in fondo Padre Pino intendeva solo restituire all’uomo quella dignità di cui era stato privato, e alla morte la tragicità di cui era stata spogliata. Come sacerdote non eccede in superflue prediche ma rende i sacramenti aderenti alla realtà. Con questo spirito raccoglie la confessione di Francesco, che diventa vera catarsi, cancellazione del suo inferno interiore.
“Riparare è molto più eroico di costruire” – queste le parole di Don Pino a Serena, volte a persuaderla a non arrendersi. E in fondo questa era sempre stata la sua missione, portata avanti con tenacia e perseveranza, quella tenacia che sua madre riconosceva con ammirazione come un aspetto del suo carattere, quando diceva: “Disse la goccia alla roccia, dammi tempo che ti percio”.
Dal punto di vista stilistico, la prosa è piuttosto ridondante, per l’uso frequente di figure retoriche, ma ciò che altrove può senz’altro essere considerato un difetto, qui diventa quasi naturale, visto l’argomento, affrontato e portato avanti con passione. D’altronde laddove si è accennato al chiaroscuro per descrivere i colori della città al primo risveglio, non appare fuori luogo un uso frequente dell’ossimoro, proprio per sottolineare i contrasti che esistono nei luoghi e nelle persone che li abitano.
Non a caso proprio Federico, che aspira a diventare poeta, dice del suo stile e della sua tendenza all’esagerazione barocca : “Del barocco amo l’arguzia, la metafora che sloga la realtà e il grande gioco delle parole con cui sfidarla d’azzardo”
Un romanzo coraggioso con il quale Alessandro D’Avenia intende celebrare la figura di Don Puglisi e ricordare il suo amore per quel quartiere degradato, Brancaccio, e il suo impegno per sottrarre quella parte di umanità diseredata e dimenticata all’inferno dell’abuso e della violenza del passato e del presente per traghettarla verso un futuro di dignità e di rispetto che inferno non è.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    29 Ottobre, 2014
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In caduta

Prendi le cascate piu' famose, uno strapiombo americano dove la gente si diletta in luna di miele, o si suicida : Niagara.
Prendi un truffatore/inventore che all'apice della sua carriera stila statistiche meteorologiche, tra una fuga e l'altra : Smith.
Prendi un mezzo fallito, che come il padre vorrebbe recuperare dal fiume corpi vivi, invece raccatta solo cadaveri : Wesson.
E dire Smith & Wesson e come dire il Gatto e la Volpe, una coppia di fatto, non ci si puo' esimere dalla tresca in particolar modo se la musa ispiratrice e' Rachel ,giovane e delusa, che cerca di emergere nella vita attraverso il violento ribollire del Niagara in una primavera del 1902.
Ultimo e non meno importante aggiungo io Alessandro Baricco che normalmente emoziona, colpisce, scalfisce, si fa ricordare. Qui tutt'al piu' si lancia in caduta libera, per atterrare - giusto per restare in tema - in un poco auspicabile buco nell'acqua.

Scritto come una sceneggiatura, il libro conta dialoghi brevissimi ed interlinee fenomenali, così che chi poco legge ancora di meno stringe, si liquida in un'oretta tra una perplessita' e l'altra.
Ambientazioni piuttosto superficiali, trama inconsistente, gergo a tratti scurrile, sforzandosi di essere ilare l'autore talvolta fa sorridere, ma non basta. Bella l'idea di censire la vita della gente per immortalare una cronologia del meteo, ma tolto questo cosa resta ?
Direi che avendo letto quasi tutti i suoi romanzi questo e' indubbiamente il peggiore, figlio di un'idea potenzialmente considerabile sì, ma vacua e ben poco sviluppata.
Diciamo che per quanto si scavi nel cilindro del mago, non sempre si agguanta un coniglio, talvolta capita di inumidirsi la mano con uno spruzzo d'acqua evanescente.
Anche il Niagara evapora.

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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    23 Ottobre, 2014
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L'uomo dal cuore di gatto

Frank è un gatto, lui stesso si etichetta così, e con il felino condivide la sorniona indifferenza, spesso confusa con la malvagità.
Ma Frank non è malvagio, semplicemente è un cinico. È diventato cinico, o lo è sempre stato? Impossibile dirlo, forse qualcosa ha fatto scattare in lui un interruttore che non aspettava altro che essere attivato, fatto sta che ora Frank è un autentico bastardo, o almeno si comporta da tale. E gli piace pure.

Giorgio Mosetti, l'autore, ci coinvolge così nella vita di questo suo odioso protagonista, talmente detestabile, disgustosamente immorale, da impedire a chiunque di schierarsi con lui. O forse non proprio. Qualcuno parteggia per Frank, qualcuno crede ancora in lui. Ed è lo stesso Mosetti. Ma non come narratore onnisciente, super partes, come un burattinaio. Niente di tutto ciò. Mosetti si lancia letteralmente nell'azione, diventa personaggio, esorcizzando sé stesso in un Giorgio di carta ed inchiostro, sicuramente più idiosincratico di quello reale.

Riuscirà il buon Giorgio, scrittore naif, a salvare Frank, il suo nuovo amico e allo stesso tempo figlio, in quanto generato dal suo cervello, dalla sua penna?

Il romanzo, molto breve, riesce eccellentemente a tenere focalizzata l'attenzione del lettore sulla vicenda di Frank, che sembra portare ad un'ovvia conclusione, completamente stravolta nel finale degno del migliore Stefano Benni.
Un libro davvero sorprendente, fresco e piacevole, nonostante qualche errore (spero) di battitura da far accapponare la pelle.

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Dottor Niù di Stefano Benni
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Sydbar Opinione inserita da Sydbar    22 Ottobre, 2014
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Il cacciatore del buio

Questo finalmente è un thriller. Scritto da chi di thriller ne capisce e soprattutto da chi conosce le dinamiche riferite alle forze di polizia ed alle loro procedure.
Diciamo che sotto il sole nulla di nuovo, trattasi del serial killer inafferrabile e brutale, inseguito dallo SCO e poi dai ROS. Certo ordinaria amministrazione per chi legge questo genere ma il nostro autore ha uno stile narrativo e descrittivo degli eventi davvero all'altezza della sua fama. Poi aver utilizzato i "penitenzieri" ed "Il tribunale delle anime", sempre intrigante.
Bravo Donato hai messo a segno un gran bel libro che non fa rimpiangere nulla dei concorrenti americani né di quelli scandinavi.
Capitoli brevi e soprattutto sapientemente descrittivi di una Roma affascinante.
Omicidi seppur cruenti mai banali e sempre spiegati nella loro psicologia d'intento.
I protagonisti sono eroi e vittime allo stesso tempo e questo li rende molto umani e credibili, in fondo si tratta pur sempre di esseri umani con dei sentimenti e degli istinti ed emozioni.
Eccellente l'illustrazione del bene e del male e del perchè delle loro reciproche esistenze.
Sicuramente l'autore continuerà su questo filone con cui sta ottenenso ottimi risultati.
Un romanzo credibile, molto attuale, che conferma Carrisi come uno degli autori italiani più in forma del momento.
Buona lettura a tutti.
Il Syd

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Thriller soprattutto i precedenti dello stesso autore
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    21 Ottobre, 2014
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Paladini is back

Lo avevamo lasciato tra le pagine di Caos Calmo, tra amplessi consumati selvaggiamente, solitarie panchine fuori dalla scuola di Claudia sua figlia ed infinite liste di tutto e di niente.
E rieccolo il Paladini, addio a Milano e benvenuto a Roma, al nuovo equilibrio bastano poche ore per tramutarsi in miraggio; quando il mondo inverte la rotazione, chi lo ferma piu'. Nella sventura l'uomo cambia, o crolla, o si redime. 
Le terre rare sono un nocciolo prezioso ed esclusivo il cui accesso non e' immediato o banalmente raggiungibile, bisogna distruggere il contenitore per sfiorare il nucleo, la faccenda non e' indolore.

Sandro Veronesi mi e' sempre piaciuto, anche se talvolta le controindicazioni non sono mancate. La sua prosa e' scorrevole, padroneggia un umorismo sfrontato ma efficace, riesce ad essere realistico e toccante all'occorrenza. 
Certo a Terre Rare bisogna essere preparati, il gergo non e' esattamente compatibile col protocollo da collegio di monache svizzere che non ho mai frequentato, Pietro Paladini gia' lo conoscevamo, esemplare di maschio ben radicato in quel non muto cameratismo che spesso plasma gli uomini all'incedere di una femmina di determinati attributi.
Narrativa da intrattenimento, carente di bon ton, essa propone uno humor che si sofferma sui controsensi della  societa', bighellonando nelle vicende tragicomiche del nostro protagonista. E fin qui troviamo esattamente quello che ci aspettavamo.
Purtroppo poi pero' il racconto e' spesso dilatato in monologhi ed elucubrazioni che rallentano il ritmo oltre la soglia della noia, senza contare quella zecca tra le pagine che mortifica piu' del resto: una bestemmia in un libro e' un elemento inaccettabile, a mio avviso. Sebbene l'improperio fosse lecito e compatibile a quel frangente, di male parole ce ne sono fin troppe, uno scrittore dovrebbe avere la capacita' ed il buon gusto di virare su qualcosa di tollerabile. Io la chiamo decenza e su questo punto sono irremovibile, non mi sento di bocciarlo ma non lo ricomprerei affatto. Peccato.

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    18 Ottobre, 2014
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Just a man and his will to survive...

C'è una canzone di qualche anno fa, Eye of the tiger dei Survivor (famosa anche perché parte della colonna sonora di Rocky 3 e 4), che recita: "Just a man and his will to survive".
Ecco, nel romanzo di Mankell, non c'è la tigre bensì il leopardo.. ma lo sguardo rimane lo stesso.. e mentre scorrono le pagine del libro, man mano che ci si addentra nel cuore del romanzo, si avverte sempre più la sua presenza, invisibile, silente ma sempre in agguato.
E' uno sguardo magico, forse perché assorbe la magia, il mistero e la forza primordiale di cui il continente africano è intriso, incanalandola poi nell'anima di chi si scontra con quello sguardo provocando una scossa ed una trasformazione incisiva nella personalità, come mai sarebbe stata possibile in altri luoghi o altre circostanze.
Il romanzo di Mankell racconta proprio questo: la metamorfosi radicale subita da un giovane ragazzo svedese, Hans Olofson, che per una serie di circostanze si trova catapultato in un mondo ostile ed affascinante allo stesso tempo come solo il continente africano può essere.
Premetto subito che ho amato questo libro di Mankell per due motivi principalmente: primo perché leggendolo ho provato spesso la sensazione di ... volare, concedetemi il termine: ero praticamente lì, con Hans, a suo fianco, sia quando ancora ragazzo vagava tra le foreste svedesi alla ricerca di se stesso sia quando, raggiunta la maggiore età, decideva di estendere la ricerca oltre oceano: la descrizione di quei luoghi è talmente precisa ed efficace da renderli tangibili, potevo vedere e sentire quello che lui vedeva e sentiva.
Poi perché penso sia impossibile non provare istintiva empatia per Hans Olofson: ciascuno di noi, infatti, chi prima chi dopo, ha vissuto quel senso di estraneità, di non appartenenza al mondo che lo circonda, di insoddisfazione e malcontento verso tutti e tutto tipico dell'età adolescenziale e che spesso sfocia in un desiderio incontenibile di evasione, senza una meta in particolare purché sia il più lontano possibile dal luogo in cui è vissuto sino allora, improvvisamente divenuto troppo angusto, quasi asfissiante, una gabbia opprimente che paralizza ogni ambizione tramutandola in velleità, in un sogno irrealizzabile:
"Oggi, la mia vita è un'escursione in giorni colorati d'irrealtà. La vivo come se non fosse nè la mia, di vita, nè quella di un altro. Non riesco e non fallisco in quello che mi prefiggo di fare."

Ma non tutti hanno il coraggio e la forza di evadere, molti soccombono, si annullano, si adeguano.
Hans invece no, non potrebbe mai farlo.. per lui l'evasione non è una possibilità, è una necessità.
Figlio di un marinaio, un avventuriero che ha trascorso la sua gioventù solcando oceani e respirando a pieni polmoni aria ricca di iodio, ha ereditato dal padre quella passione viscerale per il mare, il calore del sole e terre lontane disperse nell'immensità degli oceani, terre che sinora ha potuto visitare soltanto facendo scorrere il dito sulle cartine e mappe che il padre gelosamente conserva.
Ma Hans non ha nessuna intenzione di seguire il destino del padre che, ironia della sorte, si è ritrovato a vivere come boscaiolo in un paesino sperduto nel cuore delle fredde foreste svedesi e passa il giorno segando alberi, quasi nella speranza di scorgere il mare, quegli orizzonti azzurri che non potrà mai dimenticare: "Il mare. Un'onda verde-blu che si muove verso l'eternità."
Hans sin da piccolo sogna di sradicare l'abitazione in cui vive, togliere gli ormeggi e spingerla lungo le rive del fiume con la speranza che possa sfociare prima o poi nel mare.. e non appena l'età glielo consente non può esitare: fugge, evade.. gli basta un pretesto, assurdo a pensarci bene, il sogno non realizzato di una sua amica che diventa ora il suo sogno, la sua meta, sconosciuta, lontana ma circondata dal mare. L'Africa.
E sono queste, a mio parere, le pagine più belle di tutto il romanzo: quelle in cui si respira l'afa e la calura ed i sensi sono invasi dagli odori e colori del continente africano. Mankell riesce in modo impeccabile a farci vivere il viaggio di Hans in prima persona, le sue paure, i suoi dubbi, il senso di smarrimento inevitabile che avverte nel momento in cui sbarca dall'aereo che lo ho portato sin lì, in un mondo completamente diverso da quello in cui viveva ed in cui non è facile adattarsi, perché è un mondo abbandonato a se stesso, senza un ordine, senza un'organizzazione, dove la civiltà sembra congelata in uno stato primitivo e lui, uomo bianco nella terra dei neri, non può fare a meno di sentirsi odiato, additato, discriminato.
"Qui va tutto per il verso contrario, pensa. Se qualcuno pulisce, lo sporco si diffonde ancora di più."

Per questo le convinzioni di Hans traballano, quella che prima gli sembrava una necessità, quasi un obbligo nei confronti di se stesso, l'unico modo per crescere e costruire il suo futuro, adesso gli sembra una pazzia.
Poi un giorno, per una combinazione di eventi, Hans incrocia gli occhi del leopardo.. ed allora assume la consapevolezza di come il suo destino sia quello di vivere e morire in quella terra.
Non può fuggire, non può arrendersi perché se lo fa ora lo farà per sempre.. si rialza, rinasce e costruisce la sua nuova casa e la sua nuova vita, nel cuore del continente africano, dove gli ultimi coloni bianchi sentono sempre più forte il desiderio di indipendenza dei neri e di cui ne avvertono le sfumature sempre più marcate di odio, insofferenza e quasi vendetta per la condizione di schiavitù sino ad allora subita.
Ha paura, Hans, per la sua vita ed il suo futuro.. solo in un paese ostile, accecato da anni di soprusi e che non può dimenticare l'umiliazione a lungo perpetrata... a poco servono le buone intenzioni di Hans, il suo desiderio di ridare dignità e non solo libertà ad un popolo allo sbando, del tutto incapace di gestire l'indipendenza acquisita almeno sulla carta.
Ma la metamorfosi è compiuta ormai e guardandosi allo specchio Hans vede riflesso lo sguardo del leopardo.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    18 Ottobre, 2014
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Torino 1848

L'ultimo romanzo di De Cataldo intitolato “Nell'ombra e nella luce”, nasce probabilmente dall'idea di attingere al passato per mettere in scena una vicenda a tinte gialle capace di sfociare in uno spaccato storico ben definito ma potenzialmente adattabile ad altre epoche.

Il romanzo è dedicato alla città di Torino immortalata nel biennio 1846-1848; Carlo Alberto è al potere, lo scenario politico è spaccato tra reazionari e democratici, il conte di Cavour fa capolino tra le pagine, un vigoroso carabiniere reale si muove per difendere la sicurezza della città, un oscuro diavolo incappucciato sparge sangue sull'acciottolato torinese.

La trama è veramente scarna e il lettore fatica a captare l'intento sotteso alla storia narrata; troppo spesso affiora la sensazione di un lavoro che vada cercando affinità con la Storia raccontata dai Wu Ming.
Veleni e intrighi politici, congiure e montature, manovre astute e losche per sobillare il popolo.
I buoni e i cattivi, gli assassini ed i difensori della legge.
Tutti elementi che nelle mani di De Cataldo non si accorpano a dovere, rimangono nebulosi e freddi dando vita ad un lavoro fugace e sotto tono.
Scrive bene De Cataldo, quindi il problema è confinato all'impianto narrativo.
Per raccontare un pezzo di Italia o di Storia in genere con una carica simile a quella del collettivo bolognese, occorre progettare un racconto dalla struttura più solida e forse più complessa.

La sostanza del romanzo è al di sotto delle aspettative di un lettore esigente o semplicemente di un lettore voglioso di assaporare un storia intrigante, ben ambientata e coinvolgente.
Rimane il ricordo di un romanzo dalla buona scrittura, ma dall'impatto debole.
Quello storico è un genere arduo in cui avventurarsi, auguriamo all'autore di trovare nuova linfa e di poter dedicare la propria penna a nuove storie.

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Maso Opinione inserita da Maso    16 Ottobre, 2014
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La Signora e il suo setaccio

E va bene. Ce l’hai fatta, Joanne. O preferisci Joe? Va beh, facciamo J.K. Perdona la confidenza, ma ho un po’ temuto, e nel bel mezzo di questo oblio, di questo vasto senso di perdita provocatomi da un brutto libro mi sono sentito vicino alla tua sorte. Ma stavolta ci siamo, te l’avevo detto che t’avrei aspettato, e credo ne sia valsa la pena.


Credo ne sia valsa la pena. La signora Rowling ha fatto quello che pensavo avrebbe dovuto fare anche nella prima occasione (“Il richiamo del cuculo”), ovvero regolare la pressione sul pedale della frizione per non far sobbalzare la macchina. In questa occasione il suo milionario piedino ha saputo essere notevolmente più delicato sul pedale, e la marcia non ha grattato. L’ha innestata con un movimento molto più fluido, tanto quanto quello della sua eroina Robin Ellacott che in questo nuovo episodio si rivela un’esperta pilota. E forse quel piedino è stato mosso da un sentimento più genuino, più ponderato e più gradevole, un sentimento a metà tra l’onestà e la voglia riparatrice che sfocia nel mezzo espressivo. Un’onestà che ha portato la signora Rowling a proporre un romanzo, “Il baco da seta”, che fa della meta-letteratura un modo per redimere, per espiare e sdrammatizzare la triste vicenda che ha avuto come protagonista il primo volume di questa nuova serie e il clima gelido con cui venne accolto, un anno orsono. Inutile rivangare il passato, e quelle che il sottoscritto aveva descritto come fantasmi di speculazioni. La nostra beniamina propone finalmente una meditazione più accurata e più sincera, che prende spunto da un’accadimento autobiografico per impostare una trama basata sul mondo complesso e a volte menzognero, lo abbiamo visto coi nostri occhi, dell’editoria e del mestiere dello scrittore. E la più onesta delle considerazioni che la Rowling ci pone sotto gli occhi, sebbene in sordina, riguarda innanzitutto la banalità di presentare un libro che racconta di un altro libro. La legittimazione avviene in questo modo, zittendo il lettore che sbuffa di fronte all’ennesimo tentativo narrativo che verte sulla narrazione stessa. Lo ammette, è banale, sorpassato, visto in tutte le salse. E noi lo sappiamo, ma sappiamo anche che questa signora ha bisogno di ingranare, ha bisogno di tempo per conquistarsi il cuore del lettore. Ha bisogno che la si lasci lavorare, e basta. E’ la sua modalità d’azione, è graduale, è metodica, ritengo non ci sia bisogno di tirare in ballo i suoi trascorsi, nemmeno di nominarli. Sappiamo che sa farlo. J.K. Rowling, anche questa volta non ha scritto un capolavoro, non ha fatto alta letteratura e non ha la minima pretesa di farlo. Semplicemente inizia a scaldarsi. Prepara la pappa che ci sfamerà per i prossimi dieci anni. Auguriamoci che sia sempre più dolce, considerata la partenza a base di fiele.
“Il baco da seta”, per quanto mi riguarda, è un romanzo sostanzialmente riuscito. Se il luccicante universo dell’alta moda non si addiceva particolarmente alla prosa dell’autrice, suonando un po’ troppo falso, un po’ troppo pantomimico, quello dell’editoria pare invece più affine e meglio indagabile da parte della Rowling, che di case editrici deve averne viste parecchie. Basta lustrini, basta servizi fotografici e diatribe estetiche. La scelta è quella di giocare in casa. Ma l’omicidio letterario, fortunatamente, non sembra prendersi molto sul serio, non è il fulcro vero e proprio della narrazione, e proprio per questo il romanzo scarta al momento opportuno e si allontana rapidamente da una scontatezza che lo avrebbe annientato: nulla al confronto delle incrinature alla base de “Il richiamo del cuculo”. E altrettanto fortunatamente, i personaggi iniziano a camminare da soli, ormai referenziati e lasciati a loro stessi, capaci di intrattenerci con una presa più veritiera e confidenziale sia tra loro che con chi li guarda muoversi nella loro Londra novembrina. Cormoran Strike investiga sulla scomparsa di uno scrittore dai gusti letterari particolarmente macabri, che non lesina ai propri lettori scene di incesto, sbudellamenti, androginie, mutazioni sessuali e perversioni erotiche inaccettabili. Uno scrittore, Owen Quine, che farà la fine –atroce- del personaggio del suo inedito, e impubblicabile, nuovo romanzo. Su questo investiga Strike, affiancato dalla presenza sempre più scalpitante dell’assistente Robin che, stufa di essere relegata ad una scrivania, preme per un lavoro sul campo.
La Rowling, ad ogni modo non prende posizione. Si distanzia notevolmente, e con palese pertinacia, da tutta quella tradizione di thriller filologici che negli ultimi dieci anni hanno monopolizzato il mercato letterario globale. Ci hanno affascinato, inutile negarlo. Ma, in questo caso, l’aplomb britannico della Lady decide di essere superiore a tutto quello scartabellare tra polverosi documenti che è diventato parte integrante del lavoro del giallista. Rowling è benevola e ieratica al medesimo tempo. Scrive con ironia e non ha la benché minima intenzione di ficcare il naso in qualche arcano manoscritto nel IX secolo per trovare un simbolo sfacciatamente pagano o una lugubre citazione satanista solo per costruirci sopra un bestseller con cui pagarci le bollette. Neanche per sogno. Troppa polvere, troppo Hogwarts, basta calamai, basta pergamene. Al diavolo. Lei si inventa tutto. Rowling non ha sfogliato nemmeno un albo illustrato. Ed è qui che sta la discriminante. Gradita o meno, qui sta la differenza tra un’autrice con determinati trascorsi e l’ultimo degli scrittori che si seppellisce nella sezione “esoterismo” della libreria del centro. Il totale distacco dalla metodologia filologica, il disprezzo per l’elegia e per la verbosità dell’occultismo, qui, in questo urlato “non ne ho bisogno”, si cela la differenza che intercorre tra chi rovista e chi usa i propri mezzi. Qui si capisce quanto diverso sia la “costruzione” di un mondo dalla “rievocazione” di uno trascorso. Sono due abilità differenti che in questo caso non si incontrano ma che sono in grado di esaltarsi vicendevolmente. Sono due linee d’azione parallele e distanti che mantengono una dialettica sussurrata con il quale riescono a soddisfare la superficie marezzata e volubile che rappresenta i gusti di un audience sempre più esigente. Non credo si tratti di prendere una posizione, si tratta semplicemente di capire i diversi piani su cui si muove la letteratura e la meta-letteratura. Certo, Rowling manca di mordente storiografico, manca di date, di coincidenze che solo attraverso uno studio cattedratico si possono intrecciare. Ma non credo sia importante. Ciò che conta è che la Signora ci abbia dimostrato che la mente è ancora lucida, che ancora si muove. Forse non con l’agilità di prima ma pur sempre con vivacità. Ed è con questa mente che, seppure con un taglio sobrio e fumoso, riesce a costruire un thriller genuinamente piacevole, in cui il semplicismo viene infine a configurarsi come una scelta ben precisa piuttosto che come un’insicurezza.
Rowling, in definitiva, sta al suo posto. Lo scranno è più stabile, la tavola più ampia, le portate in aumento. Se ne sta lì, non si confonde con gli invitati, la Signora. Sorride amabilmente, ammicca a molti, ma non si fa intaccare da niente e nessuno. Tutto, prima o poi, passa attraverso il suo setaccio. E perdoniamola se le maglie erano ancora un po’ larghe, si era solo all’inizio. Noi attendiamo il bicchiere della staffa. Lo sapiamo tutti, in fin dei conti, che l’ultima bevanda servita dalla nostra anfitriona verrà filtrata con la seta.

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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    15 Ottobre, 2014
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Il Re compiace il popolo

Schematico, è il primo aggettivo che mi balena in mente durante e dopo la lettura di "Mr. Mercedes", ultima fatica letteraria di Sua Maestà Stephen King.
Che il nostro abbia perso lo smalto dei tempi d'oro è cosa da tempo assodata, seppur in questo caso riesca con l'arcinota e inconfondibile impronta stilistica ad appagare (parte) dei fans di vecchia data e a catturare l'attenzione di potenziali neofiti.
Sicuramente il nuovo bestseller partorito dalle fervida mente dell'autore non è certo un romanzo improponibile, semmai è piuttosto convenzionale, rispettoso di una classicità narrativa corrispondente a King e dalla quale molto raramente lo scrittore del Maine prende le distanze.
In parole povere l'autore rischia il minimo indispensabile, non si rinnova conoscendo bene i gusti dell'affezionato pubblico.
Elabora in modo fittizio personaggi, figure e location equivalenti a stereotipi ben camuffati nell'ennesima contrapposizione manichea tra male e bene. Nella prima fazione milita un serial killer di crudeltà quasi ottusa, nella seconda i soliti personaggi la cui rettitudine (e la simpatia sapientemente tratteggiata a tavolino) portano direttamente a guadagnarsi una porzione di paradiso e ad ingraziarsi la sintonia con il lettore.
Si avverte un'evidente mancanza di sfumature in buona sostanza, ma King, pur non cesellando di fino, riesce comunque a strutturare qualcosa di discretamente rielaborato.
Non è un horror con presenze soprannaturali, trattasi di una crime story in cui l'assassino mostra problemi comuni a tanti "colleghi" deviati ormai ben noti al grande pubblico: infanzia difficile con traumi annessi, rapporto morboso con la madre, assenza della figura paterna e chi più ne ha più ne metta.
Di certo è il modus operandi a fare la differenza, piuttosto calcolatore, anomalo nell'eclatante "mise en scène", tanto da risultare un personaggio non proprio banale.
Viene contrapposto a tre figure più convenzionali: Holly, anch'essa affetta da turbe mentali e vessata da una madre dispotica, il giovane Jerome dalla parlata sciolta e dalle utili conoscenze informatiche e quindi il protagonista, paradossalmente il più scontato della combriccola, ovvero Bill, ex detective sovrappeso, depresso e sull'orlo del suicidio.
Solito Ka-Tet versus Male atavico e incommensurabile, una costante di King, comunque ancora capace di inquietare e tenere sulla corda. Lo fa sbizzarrendosi mediante una Mercedes lussuosa, un veleno per talpe, un camioncino giocattolo; tutti elementi particolari sfruttati alla grande, peccato si perda in digressioni romantiche improbabili e soprattutto in lungaggini (solito viziaccio!) poco utili all'economia del racconto.
C'è anche uno sguardo al sociale, l'incipit notevole per crudeltà ci sbatte in faccia il lato più tremendo della crisi economica divoratrice di ogni sicurezza rinnovata (ma non troppo) a fatica dopo l'11 Settembre. Ci sono anche l'ossessione per la tecnologia con il desiderio di restare al passo coi tempi, e il fanatismo dei teenager per band musicali di dubbio valore artistico.
L'epilogo è di discreta fattura, nulla da tramandare ai posteri.
Zio King sa ancora farsi voler bene, le sue storie difficilmente deludono (anche se negli ultimi anni i casi non sono mancati e qui siamo vicini al precipizio), da qualche tempo però - penso a "Doctor Sleep" e in misura maggiore a "Joyland"- sembra aver ritrovato una discreta vena creativa, ben lontana dai fasti del passato ma sufficiente per assicurargli ancora a lungo la corona di Re del brivido sul capoccione.
Pare sia il primo romanzo di una trilogia.

Buona lettura.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    15 Ottobre, 2014
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Eravamo 4 amici al Bar...

In questa nuova avventura di Malvaldi i 4 vecchietti (Aldo, Gino, Ampelio e Pilade) sono alle prese con un nuovo e misterioso caso: una donna, Vanessa Tonnarelli, è misteriosamente scomparsa in seguito ad una aggressiva lite con l’ex marito Gianfranco Benedetti, uomo dal quale la donna risulta essere legalmente separata ma effettivamente non solo ancora convivente, ma anche, collaboratrice e socia nella gestione di un agriturismo.
Le vicende sono narrate nella località “Pineta” e si svolgono intermante nel “Barlume”, il bar gestito da Massimo con l’aiuto della banconiera Tiziana. La neocommissaria Alice Martelli di cui sappiamo che «era elbana, che era laureata in fisica oltre che in economia e che era single» e che «aveva un bel cervello, che era in grado ci cambiare umore con la velocità di una pulce che salta, e che si drogava di capuccini», prontamente si interessa al caso credendo senza indugi alle parole dei 4 vecchietti perché consapevole che la realtà di una cittadina è ben diversa da quella di una metropoli; le voci che corrono hanno sempre un fondo di verità. E qual è il modo migliore per la diffusione di informazioni? Due sono gli strumenti consigliati:
1) il cd. «enunciato noto come Teorema Fondamentale del Pettegolezzo (o TFP),» che « costituisce il nocciolo della complessa teoria del gossip, e comprenderne il significato è di fondamentale importanza per chiunque voglia farsi i fatti degli altri con efficienza» nel caso di conoscenze occasionali;
2) «[…..] il professionista delle chiacchiere da bar» che « invece, sa che per far viaggiare velocemente una malignità di qualsiasi tipo è necessario parlarne alle persone che conosciamo appena e che incrociamo sporadicamente per quei quattro discorsi superficiali tanto utili per rendersi conto che abbiamo tutti gli stessi problemi, chi più chi meno»,
Suddiviso in undici capitoletti il romanzo scorre rapido tra le mani del lettore che viene immancabilmente rapito dalle vicende a ritmi di “giri di boa” e “cambio-scena” inaspettati ma perfettamente calzanti. Scritto con un linguaggio forbito ed alternato con un vernacolo tosco-pisano; il libricino offre al lettor-detective risate, riflessioni, inflessioni amorose e un po’ di sano relax dalle peripezie giornaliere che ognuno quotidianamente affronta. L’unica difficoltà nella lettura può riscontrarsi proprio nell’uso onnipresente della carenza Toscana, cosa che se da un lato ne è l’ inconveniente dall’altro ne è il tratto distintivo e maggiormente apprezzabile.
La serie del “Barlume” è attualmente composta da 5 opere, questa è nello specifico la quinta ed ultima uscita ma può tranquillamente essere letta senza dover rispettare l’ordine cronologico di pubblicazione. Un romanzo sinceramente simpatico, capace di far ridere di gusto e squisitamente piacevole da leggere.

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Consigliato a chi ha letto...
a tutti coloro che non hanno letto i precedenti capitoli della serie del "Barlume" e a chi invece già li conosce e dunque ha presenti le seguenti opere:
- La briscola in cinque,
- il gioco delle tre carte,
- il re dei giochi,
- la carta più alta

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    11 Ottobre, 2014
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La durezza della vita

E' giovanissima Valentina D'Urbano, eppure una buona linfa narrativa le scorre nelle vene.
Alla sua terza prova, l'autrice si propone di andare al di là di ciò che definiamo degrado sociale, di porre l'attenzione sulle persone, dentro le case, tra quelle intimità domestiche difficili e disagiate.

Una periferia maledetta dove l'erba non cresce più, palazzi fatiscenti fuori controllo, visi torvi e grigi come le mura dei caseggiati, giovani la cui scuola è la strada che li sostenta con attività illecite; un mondo retto da regole dure e inflessibili, un mondo di cui porti il segno nel dna fin dalla nascita, il mondo che ti ha partorito e a cui devi appartenere.
Quell'altro mondo, quello “normale”, dove si lavora con onestà, dove ci si crea una famiglia in piena regola, è troppo lontano, inarrivabile.
Lo spaccato disegnato dalla D'Urbano è aspro, vivido ma senza superflue forzature; la sua penna si concentra sugli occhi e sul cuore di Alan, Anna, Valentino e Vadim.
Fratelli, figli di padri diversi, ma incatenati da un legame che va oltre la dedizione e l'amore, un legame viscerale fino a creare una barriera contro gli uragani di una vita complicata e fuori dai binari.
Il pathos creato da Valentina nel ritrarre la vita amara e coraggiosa dei suoi protagonisti è notevole; il freddo dei luoghi e dell'anima si schianta contro il calore di questi giovani perduti.
Quella dell'autrice non vuole essere un'operazione per giustificare un certo genere di vita; vuole essere il raccontare una storia a tuttotondo con la consapevolezza del male che si annida in tanti contesti sociali, ma allo stesso tempo vuole essere un invito a non fermarsi alla superficie della problematica, perché dietro al termine “degrado” comunemente usato, ci sono dei volti, dei nomi, delle storie, ci sono dei cuori marci e dei cuori da salvare, ci sono persone intenzionate a perseverare e ci sono persone che vorrebbero trovare il sentiero per evadere da quella gabbia.

Un buon romanzo, una scrittura moderna, ricca di dialoghi conditi da un gergo prettamente giovanile; un romanzo che riesce ad arrivare al cuore di chi legge, senza stupire con note eclatanti ma portando tra le righe tanta quotidianità di gesti e di pensieri.
Tanti giovani autori si cimentano su tematiche sociali attuali, tra questi a pieno titolo possiamo annoverare la D'Urbano, che con la sua ultima storia, immortala un pezzo della nostra società e delle nostre città.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Ottobre, 2014
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Almaio

Alma: Intensa. Concentrata. Profonda.
Antonia: Testarda. Determinata. Molto incinta.
Una madre e una figlia, il dolore di una perdita e la voglia di risolvere quel mistero che ormai si cela da ben 34 anni è la molla di partenza di questo quarto appassionante romanzo di Daria Bignardi. Ferrara. Alma ha solo 17 anni quando propone al sedicenne fratello Marco, detto Maio, di provare, solo per una volta, l’eroina. Non doveva essere più di un gioco, un’esperienza, una cosa stupida da fare in gioventù per sentirsi forti, liberi, audaci nel passaggio tra i risultati di un anno scolastico e l’altro. Ma per Maio quello è stato solo il primo dei tanti “buchi”. Fino al giorno della sua tragica scomparsa. Era un fine settimana, Francesca la madre dei ragazzi, sveglia la giovane col timore che potesse essere successo qualcosa al figlio. “Hanno trovato due ragazzi morti di overdose questa notte e Maio non è ancora rientrato” – dice – “[..] Questo vuol dire che c’è in giro una partita troppo pura”- aggiunge. E se fosse successo qualcosa anche al fratello? Il giorno trascorre inesorabile ma di Marco nessuna traccia. Di lui non si sa e non si saprà mai più niente. Il vaso è ormai rotto; la famiglia si disintegra, 1000 e uno pezzi si sparpagliano inesorabili. Sei mesi dopo un altro duro colpo: il suicidio del padre. Altri 6 mesi dopo la morte della madre sconfitta da un carcinoma in soli due mesi. Nell’arco di 365 giorni Alma ha come unica compagnia il senso di colpa, per il resto è completamente sola. Un po’ per amore, un po’ perché vi identifica la figura paterna che ha perso ma che al tempo stesso non ha mai avuto sposa Franco, si trasferisce a Bologna e dalla loro unione nasce Antonia, detta Toni. All’oscuro di tutto fino al sesto mese della sua gravidanza la ormai trentenne non riesce a capacitarsi da un lato di come sia possibile che un mistero del genere sia stato custodito per così tanto tempo e dall’altro desidera scoprire i misteri di quel passato celato ma ormai rivelato, coltiva in sé la speranza di poter far chiarezza sulla scomparsa dello zio e di riuscir a dar sollievo ad Alma. Informa Leo, padre del bimbo che porta in grembo, che ha intenzione di recarsi a Ferrara e l’uomo, poliziotto, contatta un suo collega del luogo, Luigi D’avalos, dell’arrivo della sua compagna chiedendogli la cortesia di aiutarla per quanto possibile.
Lo scenario muta. Siamo a Ferrara, una città calma e tutt’altro che caotica, dove tutti si conoscono e sanno ogni segreto dell’altro, una cittadina ricca di quei tesori celati ogni sera dalla nebbia, la stessa che ha favorito la scomparsa di Marco. Come nei suoi romanzi polizieschi Toni inizia le ricerche dello zio e si stupisce di quanto riesce a denudare dall’inconfessato, tanto su Maio quanto sulla sua famiglia.
Incontra Michela, la prima fidanzatina di Marco, conosce la sua primogenita Isabella e si scontra con più realtà. Fino a che tutto inizia a prendere forma, i pezzi del puzzle principiano a combaciare, la nostra quasi-madre arriva al suo “tutto è successo perché”, “Maio è”.
L’opera di Daria Bignardi è come un magnete per un metallo: attrae il lettore e lo ipnotizza sino a che non è giunto a conclusione. Scritto con una penna ineccepibile, le pagine scorrono rapide alternando la narrazione tra le due protagoniste ed affrontando tante tematiche, non solo quella del dolore e del senso di colpa determinati dalla scomparsa del fratello tossicodipendente.
Le quinte si aprono abbracciando l’Italia in tutte le sue forme. Il passato ed il presente vivono e rivivono nel cuore e nell’animo del lettore, i protagonisti sono delineati con cura pur sé con tratti essenziali. Se da un lato viene presentata la relazione matrimoniale tra un uomo e una donna che si amano da sempre ma che appartengono a due mondi distinti e che sono incapaci di completarsi a vicenda, dall’altro abbiamo la realtà della coppia di fatto che ci viene mostrata nella sua semplice concretezza. La ricerca perpetua e naturale di quell’amore puro che si estrinseca nella sua genuinità fa da cornice alla narrazione e si contrappone alla paura di sé stessi e delle proprie reazioni. L’amore spasmodico nutrito tra i due fratelli ricorda a tratti quello sentito tra fidanzati, le piccole gelosie, il desiderio di non lasciare che l’altro si avvicini ad altri mantenendo quella dimensione di “nucleo”, è talmente reale che chiunque vi si può raffigurare. L’amore indissolubile che lega madre e figlia è come quel filo rosso che mai potrà spezzarsi: qualsiasi cosa accada, i due corpi, le due menti, le due anime sono collegate da un senso di affetto ed amore incondizionato. La figlia non può non correre dalla madre nel momento del bisogno come la madre non può non aiutare la figlia in difficoltà. L’autrice non è immune nemmeno dalle tematiche ad oggi più dibattute quali l’ateismo, il credere, le diverse fedi religiose e con grande delicatezza ci mostra ogni diversa verità, senza mai forzare l’una o l’altra.
Un quadro dell’Italia di ieri e di oggi. Al suo quarto romanzo Daria Bignardi ci offre una lettura piacevole, intrigante e ben costruita. La trama è scandita con ritmi incalzanti, le parole scorrono rapide senza mai risultare farraginose, le tematiche trattate sono varie ed offrono più prospettive di osservazione al lettore che se da un lato si sente nel 2014 dall’altro viene trasportato in quel degli anni ’70 e rivive o scopre un mondo che forse non ha mai veramente conosciuto o osservato. La parte conclusiva del libro è il “giro di boa” tanto atteso che affronta un nuovo scenario e trova risposta ai suoi interrogativi. Buon finale anche se intuibile. Un romanzo diverso dal solito, di cui mi sento di consigliare la lettura.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
a tutti, a prescindere dalle opinioni che si possono nutrire sull'autrice e indipendentemente dalla lettura delle precedenti opere.
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