Le recensioni della redazione QLibri

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    14 Aprile, 2015
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UNA CITTA' E IL SUO POPOLO

«Dietro la storia di ogni omicidio, come dietro a qualunque storia, ce ne sono molte altre» tale affermazione a mo’di premessa in“La tana del bianconiglio” costituisce una sfida alla convenzione del giallo: la rivelazione dell’assassino non richiede molto abilità allo scrittore quanta ne esige il mettere insieme in un disegno coerente tutte le azioni che direttamente o indirettamente portano all’omicidio. Fedele a questo presupposto l’autore Francesco Facchinelli, classe 1980, lascia nell’ombra fin quasi alle ultime pagine gli elementi convenzionali del thriller quali la personalità della vittima del crimine e quella, spesso speculare, degli indiziati dell’assassinio, per concentrarsi piuttosto su una panoramica del luogo, il Parco Sempione a Milano, dove viene trovato il cadavere della giovane uccisa. Il libro di fatto ambisce a essere il ritratto del lato oscuro di una città contemporanea: Parco Sempione è infatti il cuore vivo della metropoli lombarda, è il posto ove convergono tutte le sue contraddizioni ed è infine il suo “cuore di tenebra”. Ed ecco nel romanzo in uno stile scarno, ove predomina il periodo dal respiro brevissimo da sceneggiatura cinematografica, ci viene presentato il popolo del parco nelle figure esemplari, la cui vicenda, sfiora, da lontano o da vicino, l’azione delittuosa: le convergenza restano oscure fino alla fine, e leggendo ti chiedi cosa c’entrino due monelli, un barbone logorroico e colto, un mafioso russo, un ristoratore rovinato dal gioco, una coppia di innamorati, una prostituta albanese e il suo redentore, con la ragazza trovata morta nel parco, di cui lo scrittore pare essersi dimenticato. In realtà il guazzabuglio nella mente dell’assassino fa da collante al girovagare delle anime partorite dalla città corrotta: ma alla fin fine cosa lo spinge? Arduo comprendere, ma nulla di stupefacente, per un libro dedicato, oltre che a Tarantino e Jung, al Luigi Pirandello di “Uno nessuno e centomila”.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    13 Aprile, 2015
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Un noir “sentimentale”

Essendo un amante del noir, la prospettiva di leggere per la prima volta un autore che negli ultimi tempi sta riscuotendo un enorme successo nel genere, mi intrigava molto.
Campione di vendite, a Hollywood stanno facendo carte false pur di accaparrarsi i diritti sulle sue opere, per farne trasposizioni cinematografiche. Una cosa è certa, almeno in “Sangue e neve”, Jo Nesbo dimostra di essere una vera e propria miniera d’oro per il cinema, e lo classifico tra quegli autori che quando scrivono un libro, in realtà stanno scrivendo tacitamente anche il copione di un film. Una trama coinvolgente e scorrevole, carica di tensione e popolata da personaggi interessanti. Lo stile dell’autore è di quelli che si lascia leggere con estrema facilità.

In “Sangue e neve” avremo a che fare con un killer “sentimentale”, che risulta essere un personaggio interessante nonostante le difficoltà logistiche che la sua personalità presenta; quella del killer, almeno nella mia testa, non è una professione per un “sentimentale”, è un po’ come pensare a un ingegnere aerospaziale ignorante. Nonostante ciò il personaggio suscita empatia, e la storia che ci si presenterà davanti agli occhi è quella di un thriller-noir di buon livello. Jo Nesbo ci porta a esplorare le strade innevate di Oslo, che nel suo scenario glaciale darà vita a una sporca faccenda di malavita, tra boss dell’eroina e della prostituzione; killer senza scrupoli eppure con un tratto tenero e umano; uomini e donne disposti a tutto pur di raggiungere l’agognato potere. Alla scoperta dei lati sadici dell’essere umano, disposto a tutto quando si tratta della propria sopravvivenza, provando un oscuro piacere nell’essere colui che detiene il potere sul destino di un altro; ma anche alla scoperta degli angoli più lucenti che hanno sede in quel controverso organo chiamato cuore, spolverando quel troppo spesso denigrato sentimento chiamato amore. L’amore, quello vero, non strettamente legato al desiderio carnale; qualcosa di più alto, puro e difficilmente riconoscibile. Questo libro vi coinvolgerà con il suo ritmo incalzante e i suoi colpi di scena, facendo nascere probabilmente la voglia di vederne una trasposizione cinematografica; gli ingredienti per un buon thriller ci sono tutti e Jo Nesbo si è rivelato un ottimo “chef”. Certo, Oslo non sarà Los Angeles e Olav, il protagonista, non sarà Rust Cohle (True Detective), Bud White o Dudley Smith (L.A. Confidential), ma risulta comunque come un personaggio da ricordare, almeno per la sua particolarità.

“Mi piaceva aspettare. Mi piaceva il lasso di tempo tra il momento in cui prendevo la decisione e quando agivo. Erano gli unici minuti, le uniche ore, gli unici giorni della mia vita verosimilmente breve in cui ero qualcosa. Ero il destino di qualcuno.”

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James Ellroy
Noir
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Libri per ragazzi
 
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Virè Opinione inserita da Virè    12 Aprile, 2015
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Breve racconto piacevole anche per adulti

Come primo libro mi ritrovo a recensire un racconto per ragazzi, scritto da un'insegnante molisana che vuole riportare l'attenzione sul problema dell'inquinamento ambientale. Ci troviamo in Molise, piccola terra dell'Italia centrale e per questo spesso dimenticata, ma che offre un bellissimo paesaggio, molto simile a quello del vicino e ben più noto Abruzzo. Proprio sulle sue montagne, sfruttando il vento che le accarezza, si moltiplicano le installazioni di pale eoliche e lo scopo dell'autrice è far riflettere su come queste grosse costruzioni finiscano per rovinare la bellezza di quelle terre. Il libro si apre con la prefazione di Italia Nostra, associazione per la salvaguardia e la conservazione dell'ambiente e del territorio in Italia, che da anni si batte per una migliore regolamentazione riporta interessanti approfondimenti sull'argomento, anche dal punto di vista normativo.
Passando alla trama, siamo di fronte ad un racconto breve e dal finale abbastanza prevedibile, ma nonostante ciò si legge con piacere. Protagonista è una bambina amante della montagna e dei boschi che si ritrova alle prese con familiari adulti dal carattere molto diverso tra loro e pertanto con opinioni divergenti. Quello che ho trovato interessante è che, pur trattandosi di un racconto di poche pagine, i personaggi presenti sono tanti e l'autrice è in grado di caratterizzarli con grande maestria al punto di farne una presentazione degna di una saga familiare di centinaia di pagine. Questo è un grande punto di forza, che compensa pienamente la trama un po' scarna, che però ben si adatta alla brevità della narrazione e si rivela utile allo scopo per il quale si è scelto di scrivere.

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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    11 Aprile, 2015
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Ieri ed oggi, l'io nel mio

Candidato al Premio Strega 2015, il nuovo romanzo di Vinicio Capossela si apre presentandoci una serie di incontri tra realtà e fantasia. “A chi appartenete!? Cosa andate cercando?” sono le prime domande a cui l'io narrante protagonista viene posto da queste personalità dai caratteri mistici e alternativi. E tra un avvenimento e l'altro l'autore ci invita, pagina dopo pagina, ad intraprendere un viaggio alla ricerca di noi stessi, delle nostre radici, dei nostri perché; ci induce a sormontare un percorso tortuoso nella “terra della memoria”, “dei padri” perché soltanto così possiamo scoprire il nostro ruolo, le nostre origini, soltanto così possiamo dare un senso alla nostra esistenza.
Gli accompagnatori nonché custodi della massima sono personaggi dai nomi altisonanti, dalle caratteristiche improbabili, dalle sembianze straniere per la mente concreta, sono individui che si fanno chiamare “Mandarino “pasciatore di uomini”, Totara, Cazzariegghio, Pacchi pacchi, Testadiuccello, Camoia, la Marescialla, Scatozza “domatore di camion”, Parrucca, Suonatore e tanti altri ancora, sono soggetti che nella loro stranezza racchiudono saggezza. Ed infatti qual è il ruolo di queste enigmatiche figure se non quello di ragguagliare il viandante, metterlo in guardia dai pericoli che la vita riserba, dall'invitarlo a riflettere su una verità che tanto ci riguarda quanto più è fuori dalla storia.
Che cos'è il Paese dei Coppoloni, in quale meandro di mondo esso si trova? Questa è un altra delle ambiguità da scoprire e svelare. La ricerca continua in un passato che torna a popolare di misteri e splendori quel caos che ognuno si porta dentro, quegli enigmi, quelle incertezze che ciascuno coltiva nel proprio io e con cui ogni giorno deve convivere nonché accettare. Ecco perché le parole degli incontri casuali con questi personaggi non devono essere sottovalutate poiché rappresentano per il viandante, così come per il lettore, sapienza e spunto di riflessione, sono insegnamenti tra le righe di quel che potrebbe essere, di quel che è stato e di quel che sarà.
Simbolicamente sono quindi due i messaggi che Vinicio vuol trasmetterci: la patria, l'attaccamento alla terra in primis ed il mito in secundis. Il romanzo parla di luoghi chiamati casa, di radici, di memorie, narra di ambienti che possono essere scritti e descritti così bene soltanto da chi li ha vissuti e lo fa con un linguaggio sporco come la terra che lo ha formato, uno stile che riesce a catturare gli odori, i detti, le storielle, i paesaggi e dunque il mito. Quest'ultimo elemento ci permette di staccarci dalla concretezza e, un po' come nell'universo Dantesco, di viaggiare nell'Aldilà, in ciò che siamo stati per ricordarci che quel che siamo oggi è il risultato dello ieri, che quella decadenza minimalista che nell'attuale dimostra un totale disinteresse nei confronti delle origini e che nel testo è rappresentato dalla “fuffa” letteraria, non può cancellare il risultato di una storia che si è consolidata negli anni e nei secoli, non può eliminare i percorsi di auto-conoscenza propri di ogni individuo. E' un invito al vivere il presente nel rispetto del passato e con l'insegnamento per il futuro.
Dal punto di vista linguistico Capossela mette in discussione anche la consuetudine stilistica e lo fa da un lato aprendo una intima discussione sulla parola eco notoriamente di genere femminile e che al contrario nel dialetto, nella lingua parlata è maschile, non a caso si suol dire “il primo eco”. A tal riguardo, per essere più chiara, vi riporto un breve estratto:

“Il dialetto nostro, a saperlo praticare, è bello pure se difficile… è una lingua che viene dall’osco e poi dai latini, e si è mescolata con il greco, l’ispanico, il francese, l’inglese… che tanti nel tempo hanno imposto la lingua e le tasse. È diventata un pane di forno, che diversi semi lo gonfiano, però tiene un sapore che altre non hanno, e già ad arrivare al paese di fronte il parlare sa diversamente, e quasi non ci si intende più… sarà stata forse la natura arroccata dei paesi che vigilano ognuno sull’altro, e per raggiungerli bisogna molto camminare come io ancora mi prodigo a fare”.

Dall'altro lato aprendo una intima riflessione riguardo alla strofa:

– “… Ma fratello mio caro, – iniziò lui – le strofe non escono e restano per sempre immutabili, ma ognuno col tempo ne prende e ne aggiunge, che a tutti appartengono e a nessuno, e cambiano il dorso della lingua, come i serpenti la pelle, e attraversano paesi, e chi può sapere chi è stato il primo a mettere una strofa per terra, da costruirci sopra una casa?” – Ed ancora: -“… Come i canti che una volta uditi mi suonano dentro e che affido ad altri cantando. I canti che seguono rotte antiche, e vagano, e vagano il mondo pure loro. Cambiano il pelo della lingua, ma continuano il giro senza fermarsi. Come fanno le greggi che si portano dietro il pastore, che pure crede di esserne il padrone. Cambiano nome i canti, e tramutano un poco la melodia, ma non il moto d’animo che li ha originati. Tanti ne ho sentiti. Come gli inquieti erano, così le canzoni transumano, dietro le pezze dei vagamondo” – .

Ed è infine un urlo di ribellione verso l'omologazione dei popoli che ha raggiunto il suo ultimo tassello con quella globalizzazione che non tollera etnie, razze, dialetti, la mente che pensa.

- “Dopo averle ascoltate aprì la lettera e indagò assorto la dura calligrafia che aveva inciso la carta. Poi sospirò: …. – Mandarino! Mandarino! Si preoccupa e con ragione, che le vacche pascolano e le campane suonano. E quelle terre che avevano preso a forza, ora languiscono al vento. Ma per lui non ho consiglio. Soltanto è che col mercimonio si dividono le strade, battute poco o molto, e se pure rifornisce paesi, non ci sarà chi potrà rifornire a lui! Chi vuole mangiare solo, s’affoca. Se si è sposato la Rrobba, ora se la tenga stretta. Buona famiglia ha fatto. Ma la nota di banca a consumo, consuma cuore e cervello. Chi cerca il danaro, il danaro lo affamerà. I soldi sono buoni, ma noi non siamo buoni. I debiti aggravano debiti, e si vendono i debiti e non il grano. È con l’interesse che è nato il mercimonio. Vogliono fare nascere i soldi dai soldi, come dalla terra nasce il grano per la trebbia. Vogliono far lavorare i soldi e non le braccia, e col Contributo si sono lasciate vuote le terre, e incolte” –.

Il romanzo è composto da una serie di brevi racconti e questi, sommati, formano la storia. Ognuno è scritto con un linguaggio erudito, arcaico, talvolta ridondante e con evidente fanciullesca allegria. Il genere ricorda Sepulveda seppur intriso di una diversa retorica, di neologismi, di simbolismi, di metafore proprie dell'immaginazione che soltanto un compositore-scrittore può avere ed è di conseguenza agli antipodi rispetto a Baricco; è un testo che va letto piano piano perché il senso c'è ma nella forma espressiva scelta non è immediato, va capito, va gustato un poco alla volta così da comprenderlo e da non arrivare alla conclusione “ma dove vuoi andare a parare caro Vinicio? Cosa volevi dire?” e dunque finire con l'abbandonare il componimento.

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siti Opinione inserita da siti    10 Aprile, 2015
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Un narciso invecchiato

Matteo Collura, pur avendo esordito come scrittore con il romanzo “Associazione indigenti” , è meglio conosciuto come giornalista e autore della biografia di Leonardo Sciascia “Il maestro di Regalpetra” oltre che per numerosi altri libri, la maggior parte dei quali dedicati alla sua terra d’origine, la Sicilia. Ha scritto anche una versione teatrale del romanzo di Sciascia “Todo modo”.
Con questo romanzo si direbbe torni alle sue origini, in tutti i sensi, non solo perché riprende in mano la forma romanzo ma perché pare ripercorra tutta la sua personale formazione dagli esordi come pittore- nel romanzo si fa riferimento ad alcune opere d’arte e al loro significato emblematico rispetto alla vicenda narrata- ma anche perché propone una sorta di selezione di citazioni che ne fanno apprezzare la sua ricca formazione letteraria e non solo. Cita inizialmente Manzoni per toccare Pirandello, Borges, Pasolini, Brancati ma tanti altri senza tralasciare il filosofo Emil Cioran,l’onirico Fellini di “8 e mezzo”, piuttosto che Lucrezio, Machiavelli e Kant.
Censire le citazioni e indagarle nella loro valenza di significato porterebbe senza ombra di dubbio a tracciare un quadro più fedele della “filosofia” che sottende questo, perché no, gradevole romanzo.
Si parla, a dispetto del titolo, di Italo, Italo Gorini, 83 anni, sul limitar della vita.
Un vincente che si prepara alla sua unica sconfitta: la morte, affrontandola razionalmente e col suo bagaglio culturale il quale gli permette di darsi risposte a domande che una fede non sentita non gli permette di ottenere. Ha un figlio, disoccupato o meglio perennemente occupato dal suo smartphone, una sorella e una cognata, anche loro anziane, ed è vedovo da cinque anni. Da quel momento, complici anche gli anni che lo costringono alla sedia a rotelle, seppur ancora capace di stare in piedi, vive in casa senza mai uscire, al suo cospetto una cameriera e una badante romena. Il brillante professore universitario, divenuto tale per un caso della vita, è un narciso invecchiato che irride tutti e tutto per demonizzare forse la sua paura più grande: la morte. Si impara a conoscerlo, a volergli bene con tutti i suoi limiti e difetti, a seguirlo nella ennesima lectio magistralis, a chiedersi come riuscirà ad avvicinarsi alla morte.
Il romanzo è tripartito ma in maniera diseguale a partire dalla pagina cento o giù di lì ci sono alcuni colpi di scena e delle evoluzioni nella storia che sono però affidate, volutamente, ad un numero esiguo di pagine. Ciò che c’era da raccontare è stato già abbondantemente detto prima, nelle ultime pagine ci vengono quindi incontro le riflessioni scaturite da una lettura veloce e gradevole. Ci si ritrova a riflettere e a rivivere scenari già noti con le loro possibili esponenziali ripercussioni in un domani non troppo lontano. L’Italia conterà (me compresa) , in prevalenza, popolazione anziana che non so se avrà la fortuna di avere una badante e/o una cameriera o, ancor peggio, i figli vicini. Unica consolazione, come Italo,sarà per me, riconoscendo il mondo ormai estraneo al mio limite temporale, farmi vanto e scudo con le mie letture.
La badante? Un dettaglio in una storia attualissima che si pone a paradigma di tante esistenze.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    04 Aprile, 2015
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Più film che libro

Fausto Brizzi è regista, sceneggiatore e produttore cinematografico e da poco "improvvisato" scrittore; questo è il suo secondo romanzo.

Ho iniziato con questa premessa perché arrivata alla fine del libro, più che aver letto un buon libro, mi sembrava di aver letto il copione "o quasi" di una commedia all'italiana.

Brizzi con "Se mi vuoi bene" affronta una delle malattie più diffuse in Italia e non solo: la depressione.
Una malattia spesso sottovaluta da chi ti sta intorno, ma che nel depresso è devastante.

Questo, appunto, è quello che succede al protagonista, Diego Anastasi, avvocato di quarantasei anni, divorziato e soprattutto depresso.
Non voglio aggiungere altro sulla trama perché il romanzo è molto banale e prevedibile.

Per quanto riguarda il contenuto, come accennavo prima, l'argomento trattato è moto importante e delicato, ma la scelta dello scrittore mi ha lasciata un pò perplessa.
Capisco l'ironia e la leggerezza, lo sdrammatizzare, ma qui si esagera; troppa superficialità, non si analizzano fino in fondo gli stati d'animo dei personaggi e si passa da un argomento ad un altro voltando pagina.

Posso concludere con: Fausto Brizzi non è ancora riuscito bene a distinguere un libro da un film; avevo già letto di qualche perplessità sul suo primo libro che non ho letto e che dopo questo al momento non prendo in considerazione.

Al buon lettore serve di più, non solo perché è esigente, ma perché è consapevole.

Lo consiglio a chi cerca una lettura leggera, prevedibile e non impegnativa.

Buona lettura!

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    27 Marzo, 2015
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Fitta nebbia

Sono nato il 30 ottobre 1947, all’imbrunire, brandello di carne rigettato con furia da un altro corpo, concepito 9 mesi prima da un soldato reduce dalla più grande guerra combattuta su questo pianeta e da 6 anni di campo di concentramento, e da una domestica non più giovane, sventrata al momento del parto dalla mia grossa testa infelice. Sono morto il 30 ottobre 2010, nel cuore della notte, investito da una macchina mentre camminavo per strada succhiando un tronchetto di liquerizia e fantasticavo.
L’ incipit precipita il lettore nel romanzo, una specie di Divina commedia, di viaggio nel caos primordiale che si articola in tre parti: il proemio dei morti, il proemio dei vivi e il proemio degli increati.
In un certo senso il romanzo per la tematica potrebbe ricordare vagamente Unamuno (Nebbia) nel suo esplorare il rapporto tra creatore e creatura, ma mentre Unamuno è un filosofo e persegue le sue riflessioni con una logica ferrea, Moresco è un poeta, un visionario e le sue sono visioni, incubi, sogni, deliri.
“Noi siamo quelli che hanno sognato e che adesso sono sogni, noi siamo tracimati nei nostri sogni, se non eravamo prima dei sogni e se adesso non siamo sogni che sognano di essere sogni.”
La scrittura di Moresco è un flusso di “incoscienza”. Non c’è un briciolo di affettazione o di autocompiacimento nella sua scrittura. Antonio vuole incernierare il lettore e trascinarlo dentro le sue visioni, senza l’obiettivo di capire la vita o la morte ma di annullarle (soprattutto la vita). La vita è un luogo buio, è la vera selva oscura mentre la morte descritta nel proemio dei morti ha un suo calore e colore, è un luogo accogliente e pieno di energie positive e costruttive e vitali. L’amata Pesca è la guida nel viaggio tra vita e morte, tra creazione, distruzione fino al ritorno nell’increazione, beato mondo delle possibilità. Moresco ha un modo molto romantico di vedere le cose. Chi ama è al di sopra della vita e della morte.
Nel romanzo ci sono finiti anche personaggi storici come Lenin, Aldo Moro ecc… Ma anche loro hanno ruoli distorti come dentro un sogno. Le figure più belle sono quelle di Moro, di Pasolini, della Callas (se ho capito bene) e i morti bruciati che diventano nel proemio degli increati delle lucine, qualcosa di bello, dei portatori di speranza.
Il proemio dei morti è un viaggio tutto di corsa nel mondo dei morti che inizia appunto il 30 ottobre 2010 (morte dell’autore). Non si capisce verso dove l’autore corra e perché: all’inizio sembra che corra per sfuggire alla resurrezione, che corra verso strati sempre più profondi di morte. (Ma alla fine invece risorge.) Alcuni morti corrono verso la resurrezione dalla morte che viene dopo, altri verso la resurrezione dalla morte che viene prima, altri non vogliono risorgere ma il motivo delle scelte non è mai chiaro (almeno a me), per cui parlare di scelte è azzardato. Il moto dei morti assomiglia al moto browniano dei gas, un moto caotico. Moresco chiude gli occhi, apre il suo terzo occhio e descrive al lettore quello che vede con questo straordinario occhio: un flusso di immagini bellissime. Il proemio procede al ritmo tribale e incalzante dei tamburi percussivo e ossessivo suggerito dal ripetersi di certe parole o frasi (vita, resurrezione, morte, morte, morte) o da certe immagini. Il ritmo coitale dei morti, che genere sciami sismici nella faglia tra vita e morte è ossessivamente ricordato. Bellissimo il palazzo che pulsa al ritmo di un cuore a causa dell’impulso percussivo coitale di milioni di morti, le città con le luci nere che si creano e si disfano, i fiumi sotterranei e le cascate di liquido seminale fluorescente, la pioggia nera martellante, e alla fine, finalmente, la neve (ovvero liquido seminale in fiocchi), bianca come il velo da sposa di Pesca, l’amata dell’io narrante che lui insegue per tutto il romanzo che è tutto scritto in un’unica frenetica, inarrestabile corsa. Questo proemio non è da leggere, nel senso che non ha una trama, ma da guardare e da ascoltare come una serie di immagini o una canzone: mi ha ricordato il film su Salgado Il sale della terra. Moresco sottolinea il fatto che la vita nasce dalla morte, ne è una parentesi, che la morte è creativa e costruttrice mentre la vita è distruttrice, la storia dell’uomo è fatta di guerre, di violenze, di una folle corsa verso la morte così come dentro la morte c’è una folle corsa verso la vita. Le due faglie si attraggono all’infinito. La continua tracimazione tra vita e morte, morte e vita è giustificata e causata dall’amore.
Nel proemio dei vivi il ritmo rallenta molto. Non è più un canto tribale ma un una nenia che culla il lettore e lo fa entrare nel mondo dei ricordi dell’autore. Nel mezzo dei ricordi si inserisce anche la terza guerra mondiale tra vivi, morti e immortali. Anche questa parte non sembra un romanzo ma un canto in cui il ritmo non è dato tanto da parole ripetute ma da frasi e domande che ricorrono ossessivamente rendendo la scrittura ipnotica e, immagino, autoipnotica per l’autore. In questa parte Antonio mi è sembrato come un bambino che abbia costruito la scatola magica capace di ridimensionare e rimpicciolire i ricordi sgradevoli e di rivivere all’infinito quelli belli: inquadrare la vita come una parentesi tra due (almeno due) morti serve a focalizzare il pianetucolo vita in un universo brulicante di morte. I ricordi: la madre, la casa piena di merde di gatto, la violenza del padre sono rimpiccioliti in questo modo di osservarli come impatto emotivo.
“Perché io credo che tutta la nostra vita e tutto il nostro mondo siano dentro una prigione buia, perché io non riesco a stare dentro questa prigione buia, perché cerco di tenere accesa una lucina in tutto questo infinito buio, perché cerco disperatamente un passaggio nella cruna della mia vita, nella vita e nella morte del mondo, perché non ci può essere assoluzione da una simile colpa, perché questa colpa non sta sullo stesso piano di ogni possibile assoluzione.”
Antonio ci fa entrare in alcuni ricordi lasciando la sensazione di essere una persona senza pelle, che espone al lettore i suoi pensieri, tutti, senza protezione (ad esempio l’immagine della madre massacrata di botte che l’io narrante vorrebbe medicare). La scrittura ha un ritmo ossessivo ma suscita tenerezza per certi passaggi. Strano l’ambiente del seminario, a tratti inquietante come ambiguo è il personaggio del seminarista Gatto. C’è un capitoletto in cui i seminaristi si guardano aspettando le vivande dalla giostrina delle suore con una tensione tipo Mezzogiorno di fuoco tanto che il lettore si aspetta che le monache facciano arrivare delle bombe a mano anziché la frutta. Tra tutti i ricordi l’amore per Pesca viene continuamente rivissuto. La scatola magica permette all’io narrante di rivivere questo amore infinite volte in un eterno presente, un amore immortale che vuole come condizione per continuare a esistere l’assoluta mortalità dei protagonisti. Alla fine, Pesca sarà l’unico ricordo che rimane (con la scelta del protagonista di increarsi). Moresco non ha simpatia per il mondo dei vivi. Un mondo pervaso da uno spirito distruttivo e di morte. Un posto dove tutto corre verso la morte. Più simpatia c’è per la morte, ma tra i vari tipi di morte Moresco predilige quella che viene prima: l’increazione. Nell’increazione i germi della vita non si sono ancora manifestati.
Nel proemio degli increati, bellissimo, il creatore, il distruttore e l’increatore si fronteggiano. L’io narrante parla con la voce di dio. Già dalle prime righe si intuisce tutta la simpatia dell’autore per la creazione:
“”Sia la luce!!”, ho detto all’inizio. E la luce fu. E io mi sono preso in faccia una scarica di 300000 chilometri al secondo di fotoni di luce che hanno cominciato a tormentare, a sfigurare, a bruciare, a evidenziare e a inventare e a creare i contorni e le linee di contenimento del mondo.”
Bellissima la figura di dio che si sente solo e che non sa bene cosa va facendo con questa creazione.
In tutto il romanzo abbiamo un creatore e un distruttore, un dio e un demonio che si scambiano i ruoli e che non hanno una connotazione precisa di bene e di male. Ai due si contrappone alla fine l’increatore, il dio migliore, che cancella non solo i brutti ricordi ma riavvolge il nastro della malriuscita creazione, con una sola eccezione, quella della prima donna che nell’ultima pagina del romanzo, quella in cui l’increatore stesso scompare, mi pare sia ancora presente. Moresco non riesce proprio a liberarsi della donna.
Certamente il romanzo non è una lettura semplice. Non è una lettura per tutti o certamente non è adatta per chi ama seguire una storia. Per chi ha letto gli incendiati o fiaba d’amore che il romanzo ricorda molto per alcuni spunti, bisogna dire che qui la trama è molto più rarefatta. E’ una lettura diversa, visionaria e allucinata. A me è piaciuto moltissimo il proemio dei morti e quello degli increati mentre ho faticato e patito con quello dei vivi. Non è un romanzo da leggere d’un fiato ma con l’avvertenza: non superare le dosi consigliate, sia per la forma della scrittura (ossessiva e ipnotica) sia per il contenuto. In ogni caso non credo che ci sia un altro autore con le stesse intuizioni e i livelli di scrittura che raggiunge Moresco in alcune pagine. La scrittura non è mai artificiosa e affettata. E’ come leggere una lunga poesia, anzi un canto.

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Genesi, Divina Commedia, Nebbia, gli incendiati, la lucina Fiaba d'amore.
Andrebbe letto dopo gli esordi e i canti del caos.
Consiglio a chi non conosce l'autore di iniziare con la Lucina, Fiaba d'amore e gli incendiati.
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Racconti
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    24 Marzo, 2015
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Quotidianità: il bicchiere mezzo vuoto

“Una mia amica mi ha detto che fa yoga all'aperto. E prima di cominciare si cosparge di autan, a causa delle zanzare. Ma l'autan e lo yoga possono coesistere? Non sono in contraddizione?”

Minime riflessioni sui momenti “piccoli” della vita, visti dal versante del disagio, delle manie, dell'insoddisfazione, della routine, del dubbio...
Riflessioni argute o simpatiche, come quella citata sopra.
Altre meno originali, magari ricordi di un'età (e del suo abbandono progressivo legato alla crescita) oppure semplici riletture della ben nota “Legge di Murphy”.
Infine scampoli di libro banali e poco divertenti (come la vicenda del genitore che ha da qualche anno in casa un bimbo giapponese e nemmeno sa il perché, salvo acuire tutti i sensi quando il piccolo lancia il suo “uatà” a preannunciare un'aggressione a chi gli capiterà a tiro: più divertente a riassumersi che a sorbirsi).

Di Francesco Piccolo, negli ultimi tempi, ha riscosso un certo successo il volume “Il desiderio di essere come tutti”. Questo libro, invece, rappresenta l'altra faccia di “Momenti di trascurabile felicità”, edito sempre da Einaudi nel 2010.
“Trascurabile” non è che un contrario di memorabile. E la lettura in questione è proprio così: senza pretese, a tratti impalpabile, perfetta per il viaggio di ritorno in metro (all'andata si ha ancora la forza di leggere qualcosa di più impegnativo).
Fortemente da sconsigliare a chi conserva uno o più manoscritti di buona fattura nel cassetto e non riesce a vederli pubblicati neanche per sbaglio: invece che ad un momento di trascurabile infelicità potrebbe approdare ad una più duratura crisi di nervi...

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    24 Marzo, 2015
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Una società per soli giovani

Il termine “rottamazione” da parecchi mesi è entrato nelle case degli italiani; non parliamo di automobili alla fine della loro vita dopo chilometri di strada macinata, bensì di uomini e donne da collocare fuori dalla vita pubblica, in una sorta di riposo a tempo illimitato per fare spazio al nuovo che avanza.
Prende le mosse da questa idea di rinnovamento la scrittrice Lidia Ravera, per tratteggiare una storia dal sapore amaro che impone al pubblico uno scenario aberrante, futuristico sì, ma intriso di immagini stranamente realistiche.
Il concetto di rottamare l'essere umano viene esasperato e spinto all'estremo per creare un racconto-limite, per disegnare ipotetiche strade che l'uomo potrebbe spingersi a percorrere, calpestando sentimenti, pensieri, valori, morale, insomma il cuore e la mente.
Quello offerto dalla Ravera è un paese programmato per utilizzare i propri cittadini finchè giovani, energici, produttivi e ricettivi, per poi destinarli ad un ritiro forzato dalla scena sociale, familiare, lavorativa.
Un mondo dittatoriale, molto vicino a quello orwelliano; asettico, freddo, brutale.
Crolla il valore del nucleo familiare, della vita di coppia, dei progetti per un futuro che verrà gestito da altri, sfumandosi tra le nebbie dell'annichilimento e della disperazione.

Con questo nuovo romanzo la Ravera cavalca l'onda di talune concezioni moderne, estrapolandole da certi filoni di pensiero politico per allargarle alla vita intesa in senso lato.
Cosa succede se un uomo giunto alla soglia dei sessant'anni viene considerato “scaduto” come un cibo guasto, come una batteria esausta?
Come crescono e come maturano i giovani senza avere al proprio fianco il sostegno di persone d'esperienza?
Può essere un futuro plausibile e migliore dell'attuale quello che preveda l'allontanamento coatto dell'anziano, del padre, del nonno?
La scrittrice non fornisce risposte, ma il lettore le desume strada facendo, addentrandosi con rabbia e insofferenza tra le pagine.

Il tema è forte e ben percepibile, tuttavia a tratti si avverte un certo calo di intensità narrativa, come se qualche falla si aprisse ed annacquasse il contenuto.
La trasposizione del malessere attuale in un quadro sociale futuro non è semplice da realizzare senza scivolare su terreni già battuti, detto ciò l'intento di Lidia Ravera è discreto nel proporre idee e immagini che è auspicabile che una società evoluta non raggiunga mai.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    23 Marzo, 2015
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Sono la Sposa giovane, dissi

Se un padre sceglie con cura l'abito immacolato al battesimo della sua creatura, con che diritto potrei mai cambiarne il colore, svelarne gli strati di tessuto piu' nascosto che lui aveva deciso di celare? Ecco perche' di questo volume che non anticipa null'altro che titolo e una singola riga in quarta di copertina mi sforzero' di non dire tutto quello che  posso.
Se l'autore esordisce con una fastidiosa ostentazione della lingua italiana, se l'esagerazione non premia e pare un formulario di frasi forzatamente pensate, strutturate , macchinose e inutilmente agghindate, poi , grazie al cielo, egli entra nella storia e si scorda di dover dimostrare la sua proprieta' linguistica. O forse era solo un trucco ( il baro sa barare ) , e passiamo al talento.
A quel talento tipico di Baricco di modellare in un mondo probabile personaggi tangibilmente improbabili. O vice versa. 
La Sposa giovane bussa alla porta, travolta lei, travolti noi in una atmosfera surreale eppure sensata, centrifuga di sensualita', di eccesso, di follia, di solitudine, di malinconia e di sentimento.
Un libro al netto bivio del giudizio, sara' amato o odiato, eppure credo che il fascino del dubbio, l'inevitabile curiosita' possa unire i lettori in un'unica platea.
 Nulla e' scontato, nulla e' chiaro , e' assolutamente necessario addentare le  pagine e ingoiarle con foga delirante, alla ricerca di un senso che sembra non esserci eppure se ne sente forte il sapore , masticando.

Un romanzo che forse non arriva subito e se così fosse sarebbe nel modo sbagliato. Se depuriamo pero' la situazione dalle scorie del "non arriva" e di" arriva sbagliato", ci accorgiamo che lo abbiamo amato. Cercato e voluto , vissuto e desiderato.
Che ci e' restato attaccato addosso, sulla pelle idratata da uno strato leggero di sudore amazzonico, dopo un inverno Polare.

"Sono la Sposa giovane, dissi."

Nonostante non mi stesse piacendo, poi me ne sono appropriata avidamente, stordita e compiaciuta.
Bello, buona lettura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    22 Marzo, 2015
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L'AMBIGUO MALE

Che strano malanno è l’amore! Ti viene in mente leggendo il thriller psicologico della giornalista Sabine Durrant. I fatti nudi e crudi ci sono presentati in parallelo dai due protagonisti, Zach, pittore dilettante, e Lizze, bibliotecaria in una scuola di Londra. Si sono conosciuti tramite un annuncio su Internet, si sposano, hanno un rapporto tormentoso, causa la patologica gelosia dell'uomo, fino a quando lui muore in un incidente stradale. Tuttavia il sospetto/ certezza che sia ancora vivo e che voglia continuare a esercitare il suo dominio su di lei ossessiona ogni attimo dell’esistenza di Lizze e la induce a ripercorrere le tracce del passato di Zach e a scoprire atroci verità. Questa la trama, lineare, senza guizzi né di stile né nell’intreccio: l’angelo salvatore delle grigia e sciatta zitella inglese, giorno per giorno, si rivela un mostro. In fondo una vicenda prevedibile, come attestano le cronache dei telegiornali e le infinite trasmissioni su maschi carnefici. Per questo motivo dispiace che alla scrittrice sia mancato il coraggio o la capacità di percorrere fino in fondo la strada indicatagli dai suoi stessi personaggi: la gente «sputa sentenza sul dolore, lutto, rapporti malati e violenti, la forma mentis della vittima. Forse dovrebbero prestare più attenzione a me» commenta cosi infatti la sua stessa storia Lizze, sottintendendo che l’alchimia che teneva avvinti, imprigionandoli in una ragnatela inestricabile, lei e il suo torturatore nasce da una zona oscura della psiche, irraggiungibile dalla ragione, scarsamente illuminata dal mediocre talento artistico di lui.. Ciascuno è dunque proiezione della mente dell’altro, ciascuno fa dono di sé all’altro: non è così che ci raccontano l’amore?

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a chi ama i gialli psicologici dallo stile scorrevole.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    21 Marzo, 2015
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MORIRÀ?

“La banda degli Amanti”, l’ultimo di Carlotto, è arrivato all’ultima pagina. Prima o poi, doveva accadere. Ho centellinato questo romanzo per assaporare fino all’ultima goccia la compagnia dei suoi personaggi, che meritano la nostra attenzione: ci parlano senza pudore di noi, dei nostri orrori quotidiani.

L’Alligatore è tornato, dopo anni di assenza. Ha deciso di rimettere insieme i pezzi del suo cuore da bandito, consumato da una lunga guerra e da una tragedia. Finisce in un’altra guerra, perturbante perché combattuta da mondi diversi: un’occasione ghiotta per i lettori che già li hanno conosciuti, ma separatamente.

Il mondo dell’Alligatore è pericoloso, romantico. Il sangue scorre insieme alla passione. Il cuore fuorilegge che lo anima non appartiene più al nostro tempo, ma è grande, enorme. Se ne frega delle mode. Rispetta il dolore, rispetta il suicidio. Rispetta gli amori segreti. Soprattutto, rispetta le sue regole, che sono forza e debolezza, croce e fondamenta.

“Le vostre patetiche regole del cazzo.”
Il mondo di Giorgio Pellegrini è diverso. Qui il rispetto non esiste. Qui conta solamente il potere, il controllo. Giorgio Pellegrini è sadico, perché l’unico modo di essere sicuri di controllare un essere umano è farlo soffrire. È “una fogna brulicante di progetti perversamente geniali”, che si nutre della sofferenza altrui. “Narcisista perverso” da manuale, si distingue per creatività, intelligenza e consapevolezza: sa riconoscere il vero amore, quindi gode nell’umiliarlo, sfotterlo, distruggerlo. Figurerebbe bene nella distopia orwelliana, ma si ambienta anche meglio nel nostro presente.

Diverso anche il mondo del commissario Campagna, dello sbirro onesto nonostante tutto, dell’uomo semplice amorosamente attento al suo piccolo cosmo famigliare. Un mondo circondato da nemici. Un mondo amaro. Senza illusioni. Il commissario fa finta che la gente abbia una qualche considerazione del suo lavoro, ma non ci crede. Non osserva scrupolosamente le regole, ma non perde mai di vista i suoi principi.

Sullo sfondo, miserie e immondizie del Nord Est italiano, orfano dei suoi splendori fasulli. In un angolo lontano scintilla il mondo dei veri ricchi, quelli che si spartiscono davvero la terra e la torta: un mondo minuscolo, viziato dai privilegi, privo di sentimenti. Questo è il mondo dell’avidità, quella autentica. Forse è il peggiore.

Il confronto tra i personaggi, sostenuto dai dialoghi densi e da uno stile che aderisce al contesto, innesca suspense e tensione, accende il ritmo. Ancora più interessanti le domande, i dubbi che accompagnano il gioco e le danze. Chi morirà? Chi vincerà? Ammesso e non concesso che ci sia vita, che la vittoria abbia un senso.
Dovrai scoprirlo da solo, carissimo lettore.
“La rogna è tua.”

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    20 Marzo, 2015
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Iniziazione sulle rive della Martesana

L’adolescenza è certamente, nella vita dell’essere umano, il periodo più difficile, più sofferto, meno compreso. Viene quasi spontaneo chiedersi perché nell’arte figurativa venga rappresentata così raramente l’età adolescenziale, mentre ci si sofferma assai spesso sull’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, come nello stupendo dipinto di Klimt, “Le tre età della donna”. Quel periodo di transizione che conduce, attraverso incertezze, complessi e ribellioni all’esuberanza giovanile, appare forse così sfuggente e a volte persino imbarazzante nella sua complessità, da indurre spesso a sfumarlo nell’età precedente e in quella successiva.
Recentemente il mondo letterario ha prestato un’attenzione particolare al mondo dei teen-agers, ed è infatti con sensibilità e grande efficacia espressiva che nel suo ultimo romanzo “ Il regno degli amici”, Raul Montanari ha raccontato la storia di un piccolo gruppo di adolescenti che si incontra in un luogo abbandonato in mezzo allo squallore della periferia milanese, sulle rive del naviglio della Martesana, all’inizio degli anni ottanta.
La casa abbandonata vicino al canale soprannominata “Il Regno” diviene il rifugio in cui Demo, Fabiano, Elia e Velardi si riuniscono per ascoltare la musica dei Led Zeppelin, fumare spinelli, leggere giornaletti porno. È il luogo della libertà, il cui simbolo è il mangiacassette Aiwa, è il luogo dell’emancipazione e della trasgressione delle regole imposte dai grandi, il luogo dell’evasione dal mondo esterno. In questa sorta di isola felice compare Valli, che sarà l’elemento destabilizzante, colei che metterà in discussione i vincoli di amicizia e lealtà. E il Regno, microcosmo segreto, cambierà per sempre la personalità e i rapporti tra i giovani amici. Qui troverà asilo la bellezza e la violenza, l’amore e la tragedia.
Così nel breve spazio di tempo di un’estate il processo di iniziazione alla vita si è compiuto e il destino di un gruppo di ragazzi prende una strada diversa da quella prospettata. Ciascuno dei protagonisti imparerà che “nel bene e nel male ci si abitua a tutto”. Sarà l’amara lezione della vita che li porterà a ridimensionare anche gli episodi più dolorosi per poterli affrontare con lucidità e coraggio.

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Romanzi
 
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SARY Opinione inserita da SARY    20 Marzo, 2015
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L'uomo

Nate è uno scapolo indefesso in una New York frenetica, affermato professionalmente, apprezzato dagli amici, ricercato dalle donne, presuntuosamente intelligente e stimatore di sé stesso. I rapporti stabili lo tediano, approfondire i rapporti personali spingendosi oltre l’appagamento fisico del momento lo infastidiscono. Un via vai di amanti, di eccitamenti iniziali, di rotture, di pianti altrui e sensi di colpa propri. Ma non è che stando più attento Nate, in mezzo ad una vasta gamma di esemplari, troverà quella che lo inchioda?
Un viaggio nel cervello maschile, un trattato sulla psiche femminile. Cosa pensano gli uomini quando vedono una donna? Cosa scatta? Nella staffetta del corpo umano sappiamo cosa parte per primo. E la donna come si comporta? L’autrice, tramite il personaggio da lei ideato, filosofeggia e si cala nei panni dell’antropologa, sciorinando un sapere, una cultura e una capacità di ragionamento effettivamente alti, peccando un filino di pedanteria e arrivando a conclusioni già ampiamente note e archiviate (neanche troppo lusinghiere nei confronti del mascolo). Il titolo accattivante promette una lettura sobria e curiosa, fin dalle prime pagine si è coscienti dell’illusione. Sulla capacità di scrivere nulla da obiettare, è una giornalista in carriera che collabora con importanti testate, sagace e disincantata, ma non una penna ammaliante. Il contenuto è, invece, insipido, a tratti pruriginoso per il clima sconfortante e per la personalità di Nate, perennemente impegnato in soliloqui pseudo intellettuali e in critiche sul quoziente intellettivo del gentil sesso. La differenza la si poteva fare condendo il tutto con un pizzico di verve, una manciata di umorismo, o addirittura con un briciolo di passione, dosando gli ingredienti il lettore avrebbe potuto gustare pathos e coinvolgimento leccandosi anche le dita.
Voleva forse essere una ironica descrizione dell’uomo, il risultato è invece un romanzo che lascia il tempo che trova.
Concludendo, osannato dalla critica, bocciato dalla sottoscritta, consigliato a chi non ha ancora capito le differenze sostanziali tra i sessi e coltiva vane speranze di empatia con l’uomo.

“Le donne hanno un bisogno fisico di stare in coppia proprio come gli uomini hanno un bisogno fisico di orgasmi. E’ un imperativo che determina la loro stessa natura. Gli uomini, al contrario, vogliono stare in coppia proprio come le donne vogliono un orgasmo: a volte, e nelle circostanze adatte.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    18 Marzo, 2015
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Il cuore nero di un’America in guerra

“Perfidia” fa da apripista alla seconda “tetralogia di Los Angeles”, rispolverando personaggi già visti nella prima tetralogia, che vanta tra le sue file un capolavoro del calibro di “L.A. Confidential”.
“Perfidia” non ha una trama intrigante come il capostipite della serie che lo precede, ma a mio modesto parere compensa questa mancanza con la perfetta caratterizzazione di una Los Angeles sconvolta dall’ingresso in guerra degli Stati Uniti, in seguito al famoso attacco di Pearl Harbor. Tutto si oscura, tutto diventa caos; odio razziale, corruzione e omicidi imperversano per le strade. Come sempre, Ellroy tinge le sue storie con colori cupi e smorti; seppure Ellroy non eccella nella descrizione degli ambienti, colma questa mancanza con il suo fantastico modo di raccontare i fatti, rendendo il tutto più visivo e permettendo al lettore di scrutare l’oscurità dilagante nei luoghi in cui si svolgono le vicende. Bisogna ammettere che lo scrittore tende a mettere fin troppa carne a cuocere, ma nonostante questo bisogna anche concedergli il merito di riuscire a mantenere una coerenza indistruttibile, nonostante l’immensa mole di eventi che si susseguono nelle pagine che scrive (che non sono poche). Eventi a cui non tutti riuscirebbero a reggere a causa della loro profonda crudezza; ma in fin dei conti qui si parla di noir, e il noir non è adatto ai deboli di stomaco.

L’inizio di “Perfidia” è scatenato dalla morte di una famiglia giapponese. Tutti gli indizi sembrano condurre al suicidio “rituale”. Un caso semplice? Niente di più sbagliato; impossibile immaginare in anticipo gli intrighi che si nascondono dietro le quinte, celati ulteriormente dal vile attacco di Pearl Harbor, che oltre a provocare numerose vittime, ha sconvolto le menti di un intero continente. E’ nel momento dell’attacco che l’America si tinge di nero. Essa mostra al mondo la profonda indignazione nei confronti di Hitler e della sua guerra; si disgusta quando scopre l’ignobile fine che il nazismo ha riservato alla innocente razza ebraica. Eppure nasconde tra i suoi confini atrocità molto simili, riversando il suo odio verso la razza giapponese, senza distinzioni, anche nei confronti di quelle persone che in fin dei conti sono americane in tutto e per tutto, anche se con tratti somatici differenti. Licenziati, insultati, malmenati, uccisi; come se fossero stati loro ad ordinare l’attacco; come se fossero stati loro a manovrare quegli aerei; come se fossero coinvolti in quella sporca faccenda in ogni modo possibile. In realtà, nel loro cuore, molti di quegli uomini la disapprovano.
Ellroy ci disegna l’America in guerra, ma ci mostra l’altra faccia della medaglia.
Un’America che, incupendosi, rende luminosi i limiti dell’essere umano, che si lascia facilmente andare al razzismo indistinto e ad istinti animaleschi.
All’immagine degli eroici Alleati che intervengono coraggiosamente per porre fine alla follia nazi-giapponese, si contrappone l’immagine di un’America vista dall’interno, dal retroscena, fuori dai tanto decantati campi di battaglia. Forse lo scenario sarà un po’ meno sanguinoso, ma vi assicuro, è decisamente più cupo e oscuro.

“L’apocalisse imminente non è colpa nostra. Noi siamo stati buoni cittadini e non sapevamo che sarebbe giunta.”

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L.A. Confidential.
Noir.
Romanzi incentrati sulle guerre mondiali.
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Racconti di viaggio
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    17 Marzo, 2015
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Benvenuti in India

L'India degli opposti, dove la ricchezza ostentata si mischia alla miseria piu' brutale. Grandi palazzi e catapecchie di stracci, uomini d'affari in abiti eleganti e mendicanti sudici. Bollywood ed i matrimoni combinati, il Taj Mahal lucidato fino all'ultimo mattone ed i mercati sepolti da nugoli di mosche. Corruzione, violenza che si intrecciano coi sorrisi dei bambini, con gli occhi pudici delle donne. L'India e' sicuramente un Paese che affascina molti, eppure uno di quei tanti viaggi non per tutti, da escludere come meta alla cieca.
Così Raffaella Milandri, viaggiatrice solitaria, fotografa e attivista per i diritti umani ci propone un diario di viaggio utile e dilettevole, scandito da un linguaggio ai limiti del colloquiale. Insomma scordatevi i tecnicismi da Lonely Planet e immaginate di essere seduti davanti ad una tazza di tè con un'amica appassionata, che per ore vi intrattiene con un'avventura di tanti volti in cinquemila chilometri . Un percorso on the road dal budget limitato, nessuna soluzione preconfezionata per i turisti  ma un autista compagno di viaggio, alloggi basici e pasti consumati in "trattorie" o da venditori di street food sotto tutela di una buona dose di vaccinazioni ( e di un buon grado di coraggio, aggiungerei io ). 
Da Delhi all'Orissa fino a raggiungere le tribù indigene dell'Niyamgiri, minacciate da una grande installazione mineraria che espropria terre, disbosca, avvelena risorse naturali e porta nuove malattie tra la gente. 
"Cronache per veri viaggiatori " e' un piacevole involucro che racchiude un'avventura, e' una raccolta di appunti da cui trarre suggerimenti , e' testimonianza e denuncia di violazione dei diritti dei piu' deboli, nonche' una breve ma intensa raccolta fotografica di volti e luoghi che Raffaella Milandri  sa cogliere al meglio, nella loro bellezza esotica ed essenziale.
Da leggere prima di optare per un viaggio in India, per capire cosa si potra' trovare , nel bene e nel male. Buona lettura.

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Romanzi
 
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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    13 Marzo, 2015
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Arriva come una carezza, scuote come un tornado

L'immaginario borgo di Alento è destinato allo sfacelo e all'abbandono. In nefasto sposalizio con il potere erosivo dell'acqua la terra frana, divorata giorno dopo giorno insieme alla memoria di chi in quel paese -posizionato dalla fantasia dell'autrice da qualche parte nel sud Italia- ha abitato, vissuto, amato, odiato, sognato, per poi congedarsi dalla vita senza clamore.
Estella è la voce narrante, ex monaca fuggita prima da genitori castranti e poi da un dio incomprensibile, finita a lavorare presso una delle poche famiglie benestanti del paese.
Qui conosce l'intelligente e cinico Marcello: spalla ora amorevole, ora rissosa, incarnazione di un rammarico intuibile ma mai chiaramente esplicitato.
Marcello è un turbinare di emozioni suggerite e non consumate, mortificate dalla sotterranea misantropia di lui e soprattutto dalla missione di cui Estella si è fatta carico. Ovvero quella di ricordare chi non c'è più, di tenere a mente il significato dell'ennesima crepa su un muro, della buca più grande nello sconnesso acciottolato del paese, di quel particolare sbecco nei gradini di una scala di pietra. Tutto sotto la pacata ed eterna egida dell'olmo della piazza principale, maestoso nel suo essere tutt'uno con quella terra capricciosa amata attraverso radici vigorose, in chiara antitesi con le persone che hanno vissuto intorno a lui, incapaci di ancorarsi saldamente a quel suolo sempre più traditore.

Alento vive ancora, ovviamente attraverso Estella, sorta di linea Maginot umana in strenua difesa contro la dimenticanza, ultimo generoso e amorevole baluardo prima dell'oblio.
La protagonista sacrifica la sua vita, si sottrae ad essa pur di poter continuare a donare splendore a ciò che è stato, a far rivivere i momenti salienti in cui il pur tormentato borgo pullulava di vita. I fantasmi del passato tornano regolarmente a farle visita nonostante siano amareggiati, delusi, sconfitti da esistenze affrontate storte e ora non più raddrizzabili.
Carmen Pellegrino eccelle in eleganza linguistica, gioca sensualmente con le parole narrando di una donna che (per timore di vivere? per pura generosità? o perchè semplicemente ha così voluto il destino) si immola nelle vesti di memoria storica, incurante che l'eredità raccolta possa essere fagocitata dal fango dopo la sua morte.
Una donna impavida con i calcinacci minacciosi come cappello, i muri pericolanti a cingerle il corpo in un abito di insostenibile pesantezza e scarpe scivolose, fatte di terra disfata dalla pioggia.
L'umanità estrapolata è pulsante nonostante le vite presentate siano spesso semplici come il luogo e il tempo che abitano. La malinconia, la nostalgia, l'amore, si ergono negli aneddoti su cui "Cade la terra" non lesina: c'è l'idealista deciso a mettere a tacere per sempre la favella, il progressista accogliente con l'avanzare della tecnologia e non con i suoi affetti, la donna disillusa e vessata dal marito, il piccolo sogno del banditore orbo, il commerciante orgoglioso dei propri figli mandati agli studi e poi al fronte, fino a ritrovare la vecchina generosa che nelle lettere del figlio cerca la forza di tirare a campare, perchè nel ricordo c'è tutto, senza di esso non c'è vita.

Carmen Pellegrino è una voce incredibilmente soave ed avvolgente. E' scrittrice ed abbandonologa, ovvero persona alla ricerca dell'ultimo barlume di vita sotto forma di reminiscenza in ciò che è ormai morto, tralasciato. Per questo motivo ama aggirarsi per luoghi fatiscenti; siano essi case, stazioni, teatri e luna park ormai in balia del logorio prodotto dal tirannico scorrere del tempo. E lì tra quelle macerie, la ruggine, i ferri divelti, i cocci e la polvere individua il lascito di coloro che furono.

Arriva come una carezza e scuote dentro come un tornado, "Cade la terra" è un signor libro, un debutto folgorante in cui la lingua italiana si sposa mirabilmente alla tradizione agreste e alla forza dei sentimenti.

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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    12 Marzo, 2015
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ANNOIARSI CON CARRERE

"Carrere sulla religione, che delusione"
(IL SOLE 24 ORE)

Il romanziere (non mi sento di chiamarlo scrittore) colloca le vicende di questo libro nel I secolo d.C. (anche se numerose sono le incursioni nel presente e nella biografia dell'Io narrante stesso), tempo in cui inizia a diffondersi il Cristianesimo e nascono le prime comunità di fedeli che cercano di vivere con coerenza il messaggio partito dai luoghi della Terra Santa.
Fra i protagonisti, Luca (l'evangelista Luca) e Paolo (l'apostolo Paolo). L'argomento è di per sé affascinante e molto interessante. Però anche gli argomenti sommi possono essere trattati in modo superficiale, col rischio della banalizzazione. E' proprio ciò che accade in questo romanzo, fose complice un'infelice traduzione. Tant'è.

Pensiamo a quando il lettore, a proposito di Luca, s'imbatte in espressioni come: "A vederlo non gli si danno due lire"; "man mano che si scalda parla sempre più in fretta". A pronunciare tali amenità non è un 'catechista per caso' , bensì un autore i cui libri vengono collocati in vetrina.
Anche su Paolo la creatività letteraria cade a picco: "Quando si è alzato, Paolo non ci vedeva più". Viene narrato inoltre che "Paolo si spazientisce e in quattro e quattr'otto esorcizza la posseduta" ; però "la guarigione della schiava posseduta non va giù ai suoi padroni".
Ci viene anche ricordato che, durante le riunioni dei primi Cristiani, "nessuno va a letto con nessuno".
Pure i riferimenti alla mitologia classica ricordano l'atteggiamento di certi insegnanti che, ingenui e incauti, puerilmente pensano di 'essere moderni' e di sapersi rapportare agli studenti con espedienti di cui non riconoscono la portata involutiva. Leggiamo, infatti, che Dio, per gli ebrei, "non è un donnaiolo come Zeus. Non s'interessa alle ragazze, soltanto del suo popolo". L'autore sembra quasi pungolarci: "Trasponiamo, sceneggiamo, non dobbiamo aver paura di darci dentro. Calipso è (...) quella che ogni uomo vorrebbe farsi".

Abbiamo parlato di linguaggio. In un'opera letteraria in particolare, ma ovviamente non soltanto, 'la forma è il messaggio' : l'aspetto contenutistico ci perviene attraverso la forma, che ne veicola, modificandoli, connotazioni ed effetti.
"Come la circoncisione, anche i pasti erano un punto delicato" : diciamo in modo netto che, per chi ama la letteratura, leggere frasi di questo livello è perlomeno deprimente. Basta così.

A questo punto, mi pare superfluo dire che si tratta di una narrazione esteticamente brutta, artisticamente carente perfino nella parvenza, con una scrittura che colloca questo libro non in un ambito letterario, bensì semplicemente fra la merce che si vende e si compra.
Per correttezza, devo dire che nell'ultima parte si avverte un miglioramento, quando il ricorso alle fonti si fa più consistente. Però il volume ha 428 pagine e, citando Leopardi e non solo, ' tutto il resto è noia ' .

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Belmi Opinione inserita da Belmi    10 Marzo, 2015
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La gioventù scritta da una giovane scrittrice

Ho letto molti romanzi sui giovani, ma questo mi ha particolarmente colpito perché è diretto, chiaro e vissuto.

Alice Ranucci sa cosa sta scrivendo e di cosa sta parlando perché in primis è lei una "giovane", infatti ha solo diciassette anni.

Con la sua scrittura, la Ranucci, ci catapulta in una realtà che per molti è lontana e difficile da giustificare, perché così distante da noi e dai nostri tempi.

Claudia, la sua protagonista, è una ragazzina romana di sedici anni che ci racconta il suo percorso, di come gli eventi possono modificare la vita e che in fondo al tunnel può esserci la luce per tutti.

Ci racconta delle abitudini dei ragazzi, di come pur vivendo in "branco", rimangono sostanzialmente soli. Di come sia difficile farsi accettare e di come l'omologazione venga vista come una virtù e non come una dimostrazione di poca personalità.

Il ruolo dei genitori è sempre più arduo; da un giorno ad un altro si ritrovano a guardare il proprio figlio e a non riconoscerlo più.

E' un libro che consiglio, spesso con il mio lavoro mi ritrovo a contatto con i giovani e questo libro mi ha aiutato a comprendere un pò di più le loro dinamiche e alcuni dettagli che mi erano sfuggiti.

Un romanzo breve (169 pagine) ma intenso; in queste pagine l'autrice ci parla della sua generazione in maniera chiara, diretta e senza "peli sulla lingua".

Può essere un ottimo libro sia per i più giovani, ma anche per i loro genitori. Può aiutare molto.

Vi lascio con una bellissima frase:

"Ero un merluzzo morto di fame che si imbatte in una briciola di pane in mezzo al mare. Si sente fortunato, quel merluzzo. Mica si chiede se in mezzo a quello strato soffice nel quale ora sprofonda i denti potrebbe essere nascosto qualche amo, e perché mai dovrebbe, che ne sa."

Buona lettura!!!

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Marzo, 2015
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Il tempo che fu.

Le opere di Sepulveda si distinguono sempre per l'originalità e l'inconfutabile stile. Con la sua indiscussa capacità narrativa l'autore cileno riesce a donar vita alle parole tanto che per chi legge è impossibile non farsi rapire dagli avvenimenti e riflettervi sopra.
Generalmente queste sono caratterizzate da alcuni tratti comuni identificabili in una esposizione fluente improntata sul racconto fiabesco, a cui segue una morale che determina nel concreto la meditazione del lettore ed il lascito dello scrittore.
Nel caso de “L'avventurosa storia dell'Uzbeko Muto” esistono notevoli elementi differenzianti. In primo luogo il componimento è composto da una serie di racconti tra loro scindibili e dunque leggibili anche separatamente, seconda di poi Sepulveda abbandona la tecnica espositiva del rapporto uomo-animale (noto nella cd. Trilogia dell'amicizia) per abbracciare gli anni del milite, della giovinezza, degli ideali, del tempo che passa.
Le vicende hanno come protagonista il Cile e i suoi abitanti, nel caso del racconto che dà il titolo al romanzo l'ambientazione si sposta nelle lande sovietiche, per i restanti scritti la terra d'origine del narratore domina incontrastata. Cospicui sono i riferimenti storici e politici presenti nel testo, il letterato riesce con semplicità a descrivere il quadro istituzionale del tempo, ad esprimere il patriottismo per la terra natia e lo fa in crescendo poiché prima vengono esposti i fatti della gioventù cilena vicina degli anni '60 dove protagonisti sono l'ingenuità dell'uomo, i sogni, le bevute con gli amici, le inquietudini sentimentali, seguono gli sconvolgimenti che hanno toccato il paese negli anni '70 uscendo anche dalla visione patriottica per dar spazio allo scenario internazionale (in particolare cubano e coreano), culminando infine con un duplice tributo al Che e brevi cenni agli anni 2000.
E tra un avvenimento storico e l'altro, sorriso e nostalgia si impossessano del lettore che è invitato a riflettere sull'essere umano, perché se da una parte vi è l'individuo quale soggetto privo di scrupoli accentuato nella sua indole bellicosa, dall'altra vi è il suo altruismo, il suo non arrendersi dinanzi ai problemi, la sua voglia di cambiare il mondo, la sua generosità.
Adatto ad un pubblico maturo desideroso di rivivere – nel bene e nel male – gli anni che hanno lasciato il segno nella nostra epoca attraverso quel sottile humor proprio di uno dei più versatili novellieri contemporanei.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    10 Marzo, 2015
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Épater le bourgeois

Épater le bourgeois, letteralmente sbalordire il borghese, questo il motto con la quale Chris e Toni passano le loro giornate da sedicenni nei sobborghi di Londra degli anni sessanta. Un manierismo pseudo intellettuale per ridicolizzare i malcapitati, ma con classe. Amanti delle donne e del sesso, dell’arte, alla ricerca di una vita non convenzionale, immersi in letture di livello.
Un romanzo sull'evoluzione della vita. Sedici anni l’età in cui si crede di avere tutta la vita in pugno, da giovani ci si inventa un futuro, si iniziano a percorrere strade che crediamo ci portino chissà dove, e forse è anche giusto che sia così. In alcuni casi si cresce, si fanno esperienze che non ci aspettavamo e le teorie che pensavamo fossero incise nella pietra lentamente si infrangono. I primi veri Amori, quelli che pensiamo siano per sempre, che mascherano altri sentimenti, o la voglia di trasgredire di evadere. Le esperienze sessuali, quelle che ci rendono grandi, quelle da raccontare agli amici, quelle esperienze che avvalorano, almeno temporaneamente i nostri assiomi giovanili. Si pensa che la vita in fondo sia proprio quella, avere diverse esperienze, figuriamoci una famiglia, figuriamoci un lavoro convenzionale.
Nella storia raccontata c’è un bivio alla quale il protagonista svolta, e questa svolta è fonte di rottura, di crescita forse, sicuramente di cambiamento, come se una luce si fosse accesa all'improvviso. In altri casi questa luce forse non si accenderà mai, e si continuerà a vivere di una eterna fanciullezza, fedeli alle regole originali, le stesse che valevano a sedici anni, a questo punto non si può concepire la “monotonia” di una vita di coppia, l’addossarsi obblighi e doveri.
Ma ognuno ha la sua vita, quella che si è scelto, io credo la vita che ci ha scelto, ci si ravvede e si capisce che l’Amore e la Vita non sono teorie, non sono concetti né tanto meno assiomi, sono un trascorrere, sono un esserci più che un essere. Si capisce che ha più valore osservare un figlio che dorme, che cresce, ha più valore l’amore che l’innamoramento, ha più valore la linearità che non la tortuosità di una vita che vogliamo a tutti i costi complicarci.
Un bel romanzo, lineare e pulito, il primo di Barnes, edito in Inghilterra nel 1980 e solo adesso in Italia, un libro divertente a tratti, ma che lancia diversi spunti di riflessione, si nota in esso una certa nota acerba rispetto al più famoso: “Il senso di una fine”, ma ritengo che sia altrettanto piacevole.
Molto francese nell'impostazione, mi riporta alla mente, come in altri casi, lo stile realista della nouvelle vague.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    08 Marzo, 2015
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Fisionomie e... delitti

Bellano. Birce è la terza figlia di Arcadio e della Serpe, i custodi del santuario di Lezzeno, ed ha in faccia una curiosa voglia di colore azzurro. Quando la voglia vira verso il rossastro (per afflusso di sangue, si sostiene), Birce inizia a far cose strane, sembra inebetita, parla in una lingua che ricorda il latino ma non lo è, sparisce per ore intere senza che nessuno sappia dov'è finita (neanche lei stessa, in verità).
Pavia. Cesare Lombroso è in città per tenere una conferenza che illustri le sue teorie, bollate da un certo mondo accademico come “parascientifiche” (per non dire di peggio). Eppure – anche contro i consigli di sua figlia Gina – in quel momento non disprezzerebbe di avere al suo fianco Eusepia Palladino... non la migliore scelta per contrastare le critiche che si addensano sulla sua persona, visto che la Palladino non è una scienziata ma una medium.
Torino. Nalla sala anatomica dell'università, il dottor Ottolenghi – l'uomo più vicino a Lombroso in qualità di suo fidato assistente – sta eseguendo una prima analisi del corpo di una giovane e povera fioraia morta ammazzata, in attesa di poter fare una completa autopsia. D'improvviso, dal vestitino con cui il cadavere è giunto all'obitorio, spunta fuori un biglietto che contiene qualcosa di simile ad una formula matematica.
Bellano. Villa Alba riapre dopo tanto tempo i battenti, essendo stata acquistata da Giuditta Carvasana, che nessuno conosce nella zona. La curiosità delle donne di paese è aumentata dalla confidenza che la nuova arrivata pare avere con il rettore del santuario di Lezzeno...

Con la collaborazione del criminologo Massimo Picozzi – psichiatra e coautore del libro –, Andrea Vitali tira le fila di una storia ambientata nella vitale Italia di fine '800, tra atmosfere paesane e strani personaggi (come quelli che all'epoca popolavano le spigolose teorie criminologiche di Lombroso).
Da un punto di vista contenutistico, l'autore è bravo ad indirizzare una vicenda tutto sommato esile su una sponda intrigante (e furbesca) che mescola paranormale e thriller: la scoperta di biglietti, contenenti misteriose formule matematiche, indirizzati a morti o vivi – questi ultimi evidentemente in pericolo – ricrea un'atmosfera da giallo, negata e rinforzata (al tempo stesso) da una sottile vena umoristica.
Ma è sulle scelte di forma che Andrea Vitali dà il meglio: da una parte – e questa è una dote innata – il suo stile di scrittura ha un piacevole scorrevolezza; dall'altra egli sceglie di spezzettare i vari fili della vicenda in un numero enorme di “minicapitoli” (ciascuno lungo non più di tre pagine), laddove altri avrebbero invece proposto un'alternanza più ordinaria. In alcune parti questo espediente narrativo sembrerà un po' esagerato, ma nel complesso regala varietà e originalità al racconto.
Alla fine, una lettura che scivola via leggera, e incontra il clou quando sette persone – di cui fino a quel momento si seguono alternativamente le vicende – si ritrovano sedute insieme ad un tavolo.

Un'ultima menzione all'esilarante titolo: “La ruga del cretino”, che viene richiamata un paio di volte (e di sfuggita) nel libro, non può non avere a che fare con le teorie di Lombroso sulla lettura della personalità umana attraverso l'osservazione delle caratteristiche fisiche dei soggetti.

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    06 Marzo, 2015
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Una maglia color del cielo

Comincio col dire che probabilmente questo è il libro la cui recensione è risultata per me come la più difficile da scrivere. Non perché sia complesso o altro, ma perché in queste pagine c’è una parte di me, la mia Malattia, la mia Passione, e mantenere un’obiettività è difficile. Tra queste pagine c’è Napoli, tra queste pagine c’è Il Napoli; quella squadra dalla maglia azzurra che tanto fa gioire e disperare i suoi sostenitori. De Giovanni è uno di quei “Malati”, e lo si capisce da ogni pagina, da ogni lettera di questo libro piacevolissimo, che trasuda napolitanità da ogni singola fibra di carta. Mi sono innamorato del suo stile ironico, che non scade mai nel banale né diventa mai demenziale. Davvero notevole.

Le accoglienti pareti di un bar piazzato in uno dei tanti vicoli di Napoli, diventano ogni giorno scenario di uno spettacolo oltremodo variegato. Il Professore, alle soglie della pensione, decide di scrivere un libro che racconti quelle che sono le emozioni e gli argomenti predominanti nella vita quotidiana delle persone. Per trovare ispirazione, si rifugerà nel bar di Peppe, dove prenderà spunto dagli argomenti di quei clienti che si susseguono numerosi. Con sua enorme sorpresa, gli argomenti convergono su una cosa e una soltanto, la Partita della domenica, e “Il resto della settimana” non è altro che l’interludio tra l’una e l’altra; un interludio fatto di commenti sulla partita appena giocata, di paure e speranze su quella successiva. De Giovanni ripercorre in maniera geniale i momenti memorabili della storia azzurra, romanzandoli e raccontandoli in un modo che tocca il cuore, o almeno ogni cuore che sia tinto d’azzurro. Ma è un libro consigliato anche a chi non segue il calcio, perché può rendere più chiaro perché questa passione possa essere così morbosa e contagiosa, e lo fa tramite uno dei popoli che fa del calcio il proprio amore incondizionato: il popolo napoletano. Quale esempio migliore? Quello per il Napoli è un amore morboso che all’occhio di un osservatore esterno può apparire eccessivo, ma è un amore genuino che non comprende soltanto il calcio in sé per sé. Sarà pur vero che in fin dei conti si tratta soltanto di ventidue giocatori che corrono dietro a un pallone, ma qualcosa di più profondo e significativo si nasconde dietro quello che all’occhio disattento e disinteressato è solo un semplice sport giocato da semplici squadre. Il Napoli è un modo per tirare fuori, anche se per novanta minuti soltanto, il selvaggio che reprimiamo per un’intera settimana; il Napoli è un filo azzurro che unisce una moltitudine di esistenze e le accomuna rendendole una cosa sola; il Napoli è il mezzo con cui una città troppo spesso denigrata ingiustamente può avere la sua piccola rivalsa; il Napoli è uno dei pochi modi che i napoletani hanno per dire al resto del mondo: “Ci siamo anche noi, e guardate bene cosa siamo capaci di fare per amore”.
Complimenti davvero a Maurizio De Giovanni, ha tutta la mia stima e ammirazione.

“Sarà l’attenzione, la spasmodica tensione di sessantamila persone concentrate su un unico punto; sarà la passione immensa di un popolo che ha un milione di problemi, ma che cerca nell’effimero del pallone un attimo di gioia pura; sarà il desiderio spasmodico di non tornare alla tristezza, alla malinconia. Sarà.”

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Consigliato a chi ha letto...
Un must per i napoletani, imperdibile per i tifosi del Napoli. Parola di napoletano tifoso del Napoli.
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Romanzi storici
 
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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    05 Marzo, 2015
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Tra finzione e realtà

L’ultimo lavoro della Oates è decisamente un’opera particolare, purtroppo non ho altri parametri di riferimento essendo il primo libro che leggo di questa scrittrice. Lo stile di scrittura è articolato e prolisso, il romanzo si muove tra ambientazioni gotiche, eventi ed esseri malefici. La storia è scritta dal punto di vista di uno storico che narra le vicende percorrendo i sentieri tracciati da documenti, diari e lettere che non fanno parte di documentazioni ufficiali, ma che danno evidenza degli eventi raccontati. L’università di Princeton e l’omonima cittadina sono sicuramente le ambientazioni predominanti della storia, una storia che vuole essere un pout-pourri di personaggi veri e personaggi inventati, in sottofondo la storia degli Stati Uniti di inizio ‘900, quella vera; in primo piano “Il Maledetto”.
In un periodo in cui apprezzo esageratamente l’essenzialità ho voluto cimentarmi con questa lettura, che mi è risultata poco fluida, poco lineare e un po’ scomoda, ma questo è e rimane una mia personalissima sensazione del momento.
Nonostante tutto l’idea di mischiare verità e finzione, introducendo forti tinte gotiche e demoniache mi è parsa una bella idea, personalmente avrei snellito le svariate divagazioni, ma devo comunque sottolineare la grande cultura dell’autrice e la sua capacità di tenere viva l’attenzione nonostante le molteplici divagazioni, soprattutto nella prima metà del libro.
Bella in particolare la caratterizzazione di un personaggio, uno di quelli veri, interessante l’inserimento e il richiamo a personaggi letterari e a scrittori dell’epoca.
Nel complesso un libro particolare, un po’ pesante per i miei canoni di piacere, ma con una idea molto interessante e ritengo ben sviluppata. Un testo che non mi ha suscitato particolari emozioni, ma che mi ha sicuramente tenuto attento.
Grazie alla sapiente narrazione ho percepito “Il Maledetto” come un aria malsana, una situazione mai ben definita, un fluido invisibile e mortifero, per questo ritengo che la Oates abbia fatto un gran lavoro di caratterizzazione, e di descrizione delle atmosfere. Un monologo finale mette un po’ di chiarezza, forse si tratta di una denuncia urlata, sotto forma di sermone, un lunga metafora non troppo mascherata, un urlo di protesta della scrittrice, o forse è solo un finale come tanti altri.

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Romanzi
 
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    03 Marzo, 2015
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La forza dell'amore in una striscia di terra desol

È un romanzo toccante, coinvolgente e commovente pur nella crudezza descrittiva di certi brani, l’ultima opera di Susan Abulawa.
Con un’originale tecnica narrativa che vede ogni capitolo preceduto da una brevissima introduzione affidata al personaggio di Khaled, l’adolescente colpito dalla sindrome “locked in” che non gli permette di comunicare con l’esterno, e che lo lascia sospeso nel blu, tra il cielo e il mare, l’Abulawa ci descrive il mondo dei profughi palestinesi rifugiati nella striscia di Gaza, dopo la distruzione della città di Beit Daras da parte degli israeliani. Una saga familiare che copre parecchi decenni e segue le sorti dei numerosi membri della famiglia. Un romanzo epico, in cui il coraggio e la forza delle donne violate e umiliate dal nemico, la dignità e la fermezza dei giovani presi prigionieri e torturati sono temi fondamentali.
Nella desolazione dei campi profughi, tuttavia, i sentimenti resistono, acquistano nuovo vigore, altre vite vengono a popolare un mondo senza prospettive sicure, in cui persiste una speranza incrollabile in un futuro migliore. Sono le donne la colonna portante di questa società maschilista, che con sacrificio, dedizione e coraggio affrontano la fame e la povertà, mentre i bambini percorrono i tunnel scavati sotto terra per fare contrabbando di ogni tipo di merce. Ed è agli spiriti ginn, a Sulayman, che ci si rivolge nei momenti in cui più si ha bisogno di conforto, o quando si vuole allontanare il malocchio. La superstizione in questo contesto storico e sociale diviene un’esigenza comprensibile, non tanto legata a un sottosviluppo culturale, quanto a un’umana necessità di speranza e fiducia. E la vita non è più facile per quelli che riescono a emigrare, come nel caso di Nur e del nonno che aveva coltivato fino alla fine il sogno di tornare nel suo paese.
Con sobrietà e dignità, Susan Abulhawa descrive la sofferenza collettiva e individuale d’un popolo che da decenni non conosce pace, racconta la sua forza, la costanza con cui riesce a ricostruire ciò che la guerra distrugge : “La speranza non è un soggetto/non è una teoria./E’ una dote.”
Bellissimo è l’ultimo brano affidato alla voce narrante di Khaled, ormai nel blu, nei colori, fuori del tempo, tra il cielo e il mare, nel cielo di Gaza, in Palestina.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    27 Febbraio, 2015
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Variponti.

« [..] Sono un asino greco, color asino, altezza media, pancia bassa, schiena curva, occhi non so, età tre quarti, ex isolano, ex randagio, inutile, adottato». Questo è Raimond, o almeno è ciò che crede di essere. Per tutta la vita il suo lavoro è stato quello di “portare pesi” condizione che lo faceva sentire appagato, nel posto giusto. Ogni giorno il suo operato permetteva di costruire qualcosa, di raggiungere un obiettivo e questo infondeva in lui quel senso di gratificazione che può darti solo il saperti utile. Poi la svolta. L'età che avanza e tutto cambia. Non sei più un asino costruttore, le ginocchia non ti reggono e così ti mettono a trasportare le valige dei turisti, tu pensavi che non se ne sarebbero accorti perché facevi di tutto affinché solo di notte dolore fosse libero di manifestarsi, ed invece no, loro lo hanno notato e ti hanno spostato. E proprio quando credevi che avresti concluso li la tua carriera – nonché vita – ecco che ti ritrovi sul “mezzo blu” e sai che in qualsiasi momento utile sarai scaricato in qualche luogo: sei un randagio.
Intanto che queste considerazioni si fanno spazio nell'animo di Raimond un oggetto alto quanto un cartone di latte compare in lontananza. Ma che cos'è? Avanza a passo spedito eppure... eppure... carta? Ma siamo sicuri? Un libro? Si, è proprio lui. Il suo nome è Res e non ha intenzione di lasciare il nostro asinello sul suo tanto amato ciglio della strada, Variponti è la loro destinazione: in quell'angolo di Mondo tutti sono inutili ma felici. Su uno dei prati che lo compongono legherà con Garibaldi, il ciuchino burbero, riservato, cinico e deciso che insieme a Res si riscoprirà essere il compagno di avventure perfetto per il nostro demoralizzato protagonista, ma farà anche conoscenza della ballerina del carillon piangente, dei trapiantatori di primule, dei guardatori della luna, dei principi azzurri, dei tagliatori di meloni, degli scollatori di francobolli, degli scalatori, dei costruttori di aquiloni, dei cantori, dei pittori, dei letterati e di... Guglielmo anche detto Gulli o Ulligulli. E' proprio questo bambino di undici anni che spingerà Raimond a riflettere poiché questo; è l'emblema del timore di reagire, è l'impersonificazione di quel dolore silente determinato dalla prepotenza altrui, è colui che a testa alta cerca di far valere le sue ragioni civilmente e che finisce con l'essere preso di mira dai bulli della scuola, colui che viene mangiato dal Mondo. E Raimond questo non lo sopporta. Vuole far capire a Guglielmo che lui deve sempre combattere, non solo quando in mano ha la spada della scherma, ma anche quando ne è privo. Nessuno deve approfittarsi di lui e della sua timidezza, non deve aver paura di far valere le sue opinioni, deve anzi farsi coraggio ed uscire dal guscio che si è costruito.
Ma per poter far comprendere questo a Guglielmo, deve essere lui stesso il primo a riflettere su se stesso. Deve accettare il fatto che una parte della sua vita è trascorsa ma che la sua fine non è ancora giunta, di tempo ne ha ancora e altre avventure lo aspettano. Non è inutile, si sente semplicemente tale. La mutevolezza della realtà è un dato di fatto, una certezza ma noi non siamo inutili, il nostro passare a qualcosa è servito.

“E' sempre così, il ciglio: si prende tutta quella polvere, la trattiene. Lo fa per regalarci un segno,il segno che ci siamo mossi, che la nostra vita è vera, che non è stato tutto un nulla il nostro passare. Per questo è bello sedersi sul ciglio di una strada, ora l'ho capito meglio: perché tocchiamo il segno che esistiamo, che siamo stati vivi, almeno per un po”.

Ed ama leggere perché quando le parole scorrono dinanzi ai suoi occhi prova dei sentimenti, inoltre la lettura lo fa sentire un altro, lo fa sentire tutti. Egli è al tempo stesso Sandokan e Madame Bovary, ma anche Robin Hood, Cyrano de Bergerac, Don Chisciotte, il Principe ma anche il Povero, Robinson Crusoe, il commissario Maigret, la fata turchina etc etc poiché solo questa può trasportarlo in quei mondi così lontani dove il dolore per il passato non esiste più, dove non vi è il timore del tempo che passa e dell'inutilità che sopraggiunge, vi è soltanto l'adesso ed il lascito di un racconto che ti ha cambiato la vita, che resterà con te per sempre. Ama i tre moschettieri, si sente ognuna di queste personalità ricamate sulla pelle ed in particolare il passaggio in cui il padre dice al figlio « Con il coraggio, non dimenticate, con il coraggio soltanto un gentiluomo oggi si fa strada. Chiunque trema un attimo, lascia forse sfuggire l'esca che, proprio in quell'attimo, la fortuna gli tendeva». Sii coraggioso, sembra sussurrare al lettore « se non tremi, la prendi al volo l'esca » perché sempre ispirandosi al classico citato « Siete giovane, dovete essere coraggioso per due motivi: primo, perché siete guascone, perché siete mio figlio ».
Sulla falsa riga di una favola la Mastrocola ci regala un romanzo ricco di contenuti e di riflessioni. Stilisticamente ben scritto, con linguaggi calzanti per ogni personaggio che viene introdotto, l'autrice dona al lettore un racconto breve ma intenso da gustarsi un poco alla volta, piano piano e senza fretta. Il lascito di questo testo non è forse immediato quanto indelebile. Sembra chiederci Raimond: - “cos'è che riempie davvero la nostra vita? Sentirsi inutili non è alla fin fine altro che una condizione mentale?”- . E chissà forse l'inutilità è soprattutto un sentimento ma chiunque può trovare quella scintilla di vita proprio con quel qualcosa di inaspettato. E perché no, alla fin fine potrebbe giungere a riscoprire persino sé stesso o magari a trovarlo per la prima volta.. E come accade ai protagonisti di questa storia potrebbe capitare anche ai suoi lettori.


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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    25 Febbraio, 2015
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PROTOCOLLI SOCIALI. INCOMPRENSIBILI.

La letteratura e il cinema accompagnano la psicologia nel comprendere meglio la natura umana, le sue complicazioni, le sue differenze: film come Rain Man ci hanno consentito di avvicinarci al mondo dell’autismo, una condizione in cui la mancanza di empatia si combina, nei casi di “alto funzionamento”, a capacità logiche e cognitive superiori. Anche la sindrome di Asperger, un altro disturbo dello sviluppo vicino all’autismo, inizia a farsi conoscere grazie alla narrativa. Il protagonista di questo romanzo, però, pur avendo capacità cognitive superiori e scarse competenze empatiche e sociali, non soffre di alcun tipo di disturbo.

Don Tillman, australiano, professore di genetica e barman provetto, ha passato anni difficili a causa della sua eccentricità, ma ora è felicemente sposato. Il suo modo di essere può essere etichettato “Nerd”, oppure, all’italiana, “un secchione sfigato”. Gentile, generoso, onesto fino al midollo, si adatta a mentire (male) soltanto per amore. Riconosce le sue difficoltà sociali, adora sua moglie e i suoi amici, “si sbatte” per aiutarli e renderli felici e, nonostante le sue scarse capacità di empatia, è perfettamente in grado di provare emozioni, anzi, spesso le prova troppo intensamente. Avvicinarsi al suo mondo, agli equivoci e ai fraintendimenti provocati dal suo modo di essere può essere divertente, ma anche molto triste, quando il non capire provoca dolore. E, sempre, fa riflettere.

Il ritmo della narrazione è diseguale, a volte rallenta perdendosi nei dettagli, oppure sono azione e dialoghi ad accelerare troppo, ma la qualità della lettura non ne risente: basta la grandezza dei personaggi a rendere coinvolgente questo romanzo. A prima vista, un lettore superficiale può credere di trovarsi di fronte a una galleria di stereotipi: “l’Assistente sociale”, “la Rockstar”, “la Psicologa”, “la Sguaiata” e, ovviamente, “il Nerd”. Ma lo stereotipo si limita alla facciata, che esplode in briciole e in risate durante la narrazione: possiamo definirli falsi stereotipi, personaggi creati apposta per sbugiardare etichette e generalizzazioni.

Il nostro Nerd possiede una grandezza inimitabile. Non è la prima volta che Don ci offre il “resoconto scientifico” dei suoi progetti d’amore, ma anche se lo conosco soltanto dal suo secondo romanzo, sono convinta che la serie merita di diventare molto più lunga. In questo romanzo, il Nostro ha dovuto provare a se stesso, a sua moglie e alla società di essere in grado di fare il padre: un’esperienza tragicomica, che punta il dito proprio contro l’insensibilità di chi non ha problemi di competenze sociali.

Rain Man è un film famosissimo, ma ancora molti non sanno che l’autismo non è indifferenza, ma eccesso di sensibilità. Eppure, alla fine, arriva un vecchio film, La vita è meravigliosa con James Stewart, che rivela la natura generosa e salvifica del nostro protagonista.
“Se mi trovassi su un aereo che rischia di precipitare, vorrei che ai comandi ci fosse una persona come Don.”

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siti Opinione inserita da siti    23 Febbraio, 2015
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Solo se

Versilia – Forte dei Marmi.
Il mare, le ville dei nuovi ricchi russi, l’atmosfera del paesaggio marino fuori stagione.
Protagonisti il quarantenne Sandro e i suoi amici, tutti inesorabilmente fuori stagione. Vivono di espedienti - Sandro fa il supplente solo per audacia materna - e rappresentano una generazione fallita.
Serena, altra quarantenne, madre di due figli è la declinazione al femminile.
I ragazzi, compreso un bielorusso reduce da Chernobyl, hanno invece chi per un verso chi per un altro caratteristiche che dovrebbero richiamare la diversità: Luna è albina, Luca ha doti intellettive e caratteriali straordinarie, Zot ha un passato e un presente fuori dal comune.
Il mare porta nelle loro vite le onde e unisce i loro destini.
Ho letto faticosamente tutto il romanzo la cui trama cerca di intrecciare i fili di queste esistenze attraverso un alternarsi di punti di vista che riescono veramente genuini solo, a mio parere, nell’ottica maschile di Sandro. Il linguaggio è scurrile e accompagna il vuoto delle esistenze tristi e meschine rappresentate, la lingua italiana è l’abdicazione della norma a favore della lingua parlata caratterizzata da negazione assoluta del modo congiuntivo, da risoluzione di ogni subordinata affidata al che completivo e da un lessico di base.
Ho apprezzato l’ironia dell’autore nella rappresentazione di tale realtà e confesso che mi ha strappato qualche sorriso, non ho apprezzato invece le deboli metafore (dall’onda in giù) che reggerebbero l’impianto e in effetti non ho colto proprio l’impianto narrativo in sé, non ho nemmeno amato i personaggi.
Ne consiglio la lettura solo se:
- si ama Genovesi
- si cerca una lettura scanzonata
- si apprezza un’ironia pungente, alternativa
- ci si ritiene uno spirito libero.
Non mi ci ritrovo affatto ma ciò non toglie che per altri lettori potrebbe essere una lettura gradevole.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    21 Febbraio, 2015
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La vita di Libero Marsell

Cover di forte impatto, foriera di tante ipotesi per il pubblico e titolo altrettanto audace.
Così si presenta l'ultima uscita editoriale di Marco Missiroli, giovane autore con alle spalle ottime prove di scrittura.

Addentrandosi nella lettura di “Atti osceni in luogo privato” si avverte l'intenzione dell'autore di esplorare nuove strade espressive.
Prima di volgere lo sguardo critico al romanzo, occorre precisare che la valutazione complessiva del testo è destinata a correre su binari differenti a seconda che il lettore sia al primo incontro con l'autore oppure se trattasi di lettore avvezzo allo stile di Missiroli.

Il romanzo partorito dalla penna di Missiroli probabilmente nasce da un'idea complessa e ambiziosa, quella di plasmare un protagonista assemblando schegge di vita dall'infanzia all'età adulta, toccando zone oscure, delicate e intime, come la sfera emotiva e sessuale.
Il protagonista cresce attraverso la narrazione, costringendo il lettore ad assistere all'evoluzione di una coscienza, all'analisi introspettiva di un giovane che deve comprendere la vera natura della sua anima e del suo essere uomo.
Un percorso difficile da rappresentare, facendone percepire al lettore tutto il carico di sofferenza, di stordimento, di insoddisfazione, sfiorando momenti di ilarità e momenti di crisi, scivolando tra le pieghe sottili della morale.
Missiroli porta in scena lo struggimento interiore di un giovane il cui corpo prende vita come entità distinta e altra rispetto alla coscienza.
La sostanza dell'impianto narrativo è innegabile, ma nel complesso poco godibile da parte di un pubblico che viene destabilizzato con troppe citazioni sessuali.
La sfera intima viene battezzata come fulcro narrativo eppure qualcosa sfugge e langue nel racconto della vita del giovane Libero, in quanto alcune immagini forti e private sembrano stonare se collocate in una prospettiva più ampia, una prospettiva che vuole ricostruire gli step formativi inanellando decine di citazioni di autori, testi letterari, arie musicali e opere cinematografiche.

E' riconoscibile il desiderio di evolversi da parte dell'autore, tuttavia il sentiero percorso si allontana dallo splendore di “Senza coda”, “Il buio addosso” ed “Il senso dell'elefante”.
In questa nuova sperimentazione Missiroli perde la sua lucidità espressiva secca e tagliente, la sua capacità di esprimere un sentimento con una parola, fotografando storie destinate a rimanere indelebili.

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Romanzi erotici
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    20 Febbraio, 2015
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Di Erotico c'è solo la copertina...

Ci sono fenomeni inspiegabili, talmente incomprensibili per la ragione umana che probabilmente sono destinati a rimanere tali in eterno: non so, immaginate per esempio il mistero che avvolge la nascita dell'universo, il bing bang, le enormi forze di gravitazione generate dai buchi neri, la particella di Dio e chi più ne ha più ne metta...
Ma quello su cui sicuramente nessuno scienziato al mondo, vivente o di prossima generazione, troverà mai una spiegazione logica è: perchè migliaia e migliaia di donne hanno comprato e apprezzato '50 sfumature di grigio' ? E, non soddisfatte, hanno persino riempito le sale cinematografiche di mezzo mondo per rivivere in 2D l'avventura erotica che vede coinvolti Anastasia Steele ed il famigerato Mr.Grigio, al fine di cogliere meglio tutte le sue sfumature, forse non troppo evidenti sulla carta..
E se vi chiedete cosa c'entri in questo commento il romanzo di E.L. James, per gli amici Erika, ahimè, purtroppo un collegamento c'è.. perchè quel romanzo ha contagiato come un'epidemia la quasi totalità del genere femminile occidentale e, come la più temibile delle pestilenze, non solo infetta la mente delle povere malcapitate ma genera anche untori.
Come la nostra Sara Bilotti, untrice.. ehm scusate, scrittrice al suo esordio (se si esclude una serie di racconti) col romanzo L'oltraggio, che sappiamo già essere il primo di una trilogia.. eh già, perchè analogamente al ceppo virale delle sfumature, anche questa variante nostrana si diffonderà in tre ondate successive.
Ma non vorrei soffermarmi sull'autrice, la cui scaltrezza nell'approfittare dell'onda mediatica scatenata dal successo della collega Erika è quasi ammirevole, a mio parere.
Vorrei invece soffermarmi sulle lettrici, per capire, se possibile, come si possa rimanere affascinati e farsi coinvolgere da tali romanzi.
Ho sempre ritenuto estremamente difficile scrivere un romanzo erotico, non è affatto semplice sollecitare quelle corde della psiche (e non solo) facendo uso esclusivo delle parole e senza scadere nella volgarità. Richiede una scelta accurata dei termini, richiede una profonda conoscenza dell'animo umano e delle sue reazioni, al maschile e al femminile, saper raccontare una storia che sia in grado di generare una 'tensione' erotica. A pensarci bene è sicuramente più semplice suscitare sensazioni di paura, terrore, forse perchè più 'comuni' e meno legate alla sensibilità individuale.
Ho sempre immaginato però che la chiave del successo per romanzi di questo genere sia nella costruzione di una trama in cui la lettrice (escludo volutamente i lettori, perchè statisticamente poco interessati a questa categoria letteraria) possa calarsi come in un sogno e viverlo come tale, dando libero sfogo alla sua fantasia; non è quindi fondamentale l'ambientazione, potrebbe anche essere fantastica, surreale, è importante a mio parere la caratterizzazione dei personaggi che dev'essere quanto più possibile vicino alla realtà.. ed in questo forse gli autori giapponesi rappresentano l'eccellenza.
Per questo mi chiedo come possa aver ricevuto tanto successo un romanzo come "50 sfumature di grigio", in cui la protagonista Anastasia si presenta come una studentessa americana di 21 anni, bellissima e vergine... vergine?!? a 21 anni, in America, Washington, vergine?!?! E già per questo sarebbe da inserire nel guinness dei record..
Ma come se non bastasse, Anastasia sembra quasi del tutto analfabeta in materia sessuale.. insomma una vera 'rincoglionita' .. perdonatemi il termine .. al cui confronto persino la compianta Lucia Mondella degli sposi promessi sembrerebbe Moana Pozzi.
E per finire, cosa fa Anastasia? S'invaghisce del belloccio, ricco ed impenetrabiile Mr. Grey che le sottopone alla firma un contratto di schiavitù sessuale...
Allora io mi chiedo: come può una donna immedesimarsi in Anastasia? Come può trarre piacere o un qualsiasi altro tipo di sensazione, che non sia ribrezzo, da una storia simile?
Il romanzo di Sara Bilotti segue la stessa scia: la protagonista femminile, Eleonora, è una donna 'ovviamente' attraente, che dopo l'ennesima delusione amorosa si rifugia presso villa Bruges, nell'agro fiorentino, dove dimora l'amica di infanzia Corinne col suo compagno Alessandro, il signor Grey di turno, che di sfumature ne ha davvero tante essendo reduce da un trauma infantile molto grave.
A ciò si aggiunge anche Emanuele, fratello di Alessandro, ancor più sfumato di lui e quindi altrettanto seducente. Potete quindi immaginare le difficoltà di Eleonora nel districarsi tra tante sfumature mascoline, tanto più che la nostra Eleonora, onore all'Italia, a differenza di Anastasia Steele, non è certo una verginella.. anzi sembra continuamente sollecitata da desideri sfrontati che farebbero impallidire la ninfomane più accanita.
Ad onor del vero, devo quindi ammettere che nell'Oltraggio di Sara Bilotti non stona tanto l'assurdità dei personaggi (nonostante io faccia immensa fatica ad immaginare, per esempio, una donna con la personalità di Corinne, o meglio dovrei dire assenza di personalità) ma si avverte una carenza di stile, il racconto molto spesso è piatto e ripetitivo e non coinvolge neanche nei momenti più 'caldi'.
Dubito che i due sequel mostreranno maggiore spessore letterario, quindi rinuncio nel prosieguo della storia consapevole che rimarrà così insoddisfatta la curiosità di scoprire come evolveranno gli intrecci amorosi in villa Bruges (anche se, tenendo conto che si tratta di una trilogia e che la protagonista Eleonora già mostra una particolare predisposizione per i triangoli erotici, un pronostico sarebbe facilmente ipotizzabile).

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    18 Febbraio, 2015
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Come donna insoddisfatta

In copertina quella scritta ROMANZO, per sottolineare che non si tratta di biografia e neppure di biografia romanzata. Effettivamente il breve testo non ne ha pretesa, seppur esso segua a grandi linee l'itinerario della vita di Dante.
Direi che gli elementi per catturare la mia attenzione fossero al completo: un autore di spessore nel settore, gia' curatore e biografo dell'Alighieri in Mondadori. Un protagonista che catalizza sempre l'attenzione e poi quell'incipit che si sofferma su Beatrice , la Musa per eccellenza.
Purtroppo ad alta aspettativa corrisponde altrettanta delusione quando l'esito della lettura e' negativo, quindi eccomi motivare il mio commento piu' emozionale che critico, perche' al mio cuor non si comanda quando e' scontento.
Il racconto si propone di concentrare l'attenzione su quello che fu il rapporto tra L'Alighieri  e Bice Portinari, il rimuginare del poeta sull'incontro di bambini e poi la palpitazione che diviene convulsione per le strade di Firenze, quando occasionalmente incontra quegli occhi verdi e beati. E ancora la morte come privazione terrena che trasforma la donna in entita', Bice che gia' in poesia era Beatrice ora lo sara' soltanto, musa e non piu' in terra.
Scrivo deliberatamente propone perche' non intento dire  ottiene. Fondamentale per il buon esito di un romanzo e' per me un fremito, l'incontro con la vivacita' dei personaggi, dei luoghi, delle vicende, delle passioni.
Ebbene qui seppure la scrittura sia scorrevole, senza onere ma anche senza onore, la narrazione resta piatta, non decolla. Mi e' parso di osservare i cenci medioevali di un burattino inerme, senza movimento di legno e bambagia, figuriamoci poi della carne che trasforma l'oggetto in verita' narrativa, di quella proprio non si puo' parlare. 
L'evoluzione da prosa statica a emozione, sentimento, evocazione, scenografia a mio avviso manca completamente in questo libro. Se poi stiamo parlando di Dante Alighieri, il sommo poeta italiano , e dell'amore platonico piu' cantato sospirato idealizzato al mondo capite bene che queste pagine prive di nerbo mi hanno sorpresa. Sorpresa e annoiata in una nebbiosa coltre di insospettabile disappunto. Che peccato.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    16 Febbraio, 2015
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Le anime mute della Vicarìa

La ruota degli esposti di Piazzetta dell'Annunziata, a Napoli. Il posto dove “vengono alla luce” (anche se è notte... specie se è notte) i neonati illegittimi. I figli di nessuno.
Da lì è “partito” Antimo. Ed è ritornato nessuno, ora che le sue “quattro ossa gracili con poca carne malnutrita attorno” giacciono nella cassa. Il biglietto che vi è provvisoriamente attaccato riporta la dicitura “Vegliardo ricoverato al Serraglio”. Ma quella mano venuta fuori dalla bara – nel corso dei precari movimenti dei becchini del Camposantiello – dice d'improvviso un'altra cosa.
D'ordine della legge, il lenzuolo viene scoperto: un bambino che non è più tale, un nudo corpicino da seppellire dentro una bara destinata ad altri (o no?), e con la gola coperta da una fasciatura eseguita con estrema perizia. E' lo stesso tutore della legge a suggellare: “Bello 'sto fatto? E' partito vecchio e se n'è arrivato creaturo?”
Responsabile di quella fasciatura è il dottor De Consoli: il medico che esegue con scrupolo e senza troppe domande le sue incombenze al “Serraglio”, purché gli sia consentito di adescare qualcuno dei giovani orfani che vi abitano (e lì “carne fresca” se ne trova eccome!).
Responsabile del buco sotto il bendaggio è Giovanni Florino: l'implacabile comandante del “Serraglio” che ivi dispensa giustizia e ordine (entrambi in modo sbrigativo), ancor più incattivito dal suo sangue malato, una corsia spianata verso l'aldilà.
Responsabile della risoluzione di quella brutta faccenda è Gioacchino Fiorilli, il commissario nominato alla Vicarìa, quartiere centrale e malfamato: un uomo razionale ma determinato, incapace di passare sopra all'uccisione di un bambino di dieci anni, quand'anche sia un “serragliuolo” come Antimo era.

Vladimiro Bottone costruisce una storia cruda, dura (come accade quasi sempre quando si racconta della miseria), condita di speranze pidocchiose e malasorte. In tale cornice, la figura del commissario Fiorilli si erge per dirittura morale e pietà umana; ma forze e correnti avverse, nella Napoli del 1841, sono troppe per qualunque uomo solo.
Il vocabolario del volume è contornato di espressioni napoletane (non così tante da mettere in difficoltà il lettore a cui tale dialetto non è familiare, ma alcune sottigliezze linguistiche andranno per costui senz'altro perse). Lo stile vi si adegua, nel suo essere di livello ma sincopato (permeato da una ricercatezza che, visto il tema, appare in certi punti eccessiva).
Il vero capolavoro di questo libro, tuttavia, risiede nella sua principale ambientazione: il mastodontico “Albergo dei poveri”. Il nome ne fa intuire tutte le intenzioni caritatevoli a beneficio di orfani, di malati e mutilati, di esseri sfortunati o miserabili. Ma restano appunto intenzioni, se si pensa che l'edificio è conosciuto dai napoletani come “il Reclusorio” o “il Serraglio”: una di quelle strutture inventate per garantire l'isolamento tra un “dentro” e un “fuori” quando non le si vuole far credere prigioni (ciò che in realtà sono).
Un altro punto a favore del romanzo è nello spessore dei personaggi: oltre a quelli già menzionati, restano impressi Emma Darshwood – l'insegnante di musica dell'Albergo, un lampo di misericordia nel buio della generale strafottenza per ogni sentimento di umanità – Antonio Pennariello – l' “altra metà” del commissario Fiorilli, destinato a bilanciarne il rigore con la praticità di chi si è fatto uomo in strada – e Federico Dominianni – l'alto funzionario che assicura al commissario il massimo appoggio, come se attraverso di lui la città abbia deciso improvvisamente di smentire la noncuranza per le sorti dei suoi figli più deboli. Personaggio si manifesta la stessa Napoli: caritatevole quanto impotente, adagiata sulla sua povertà, acclamatrice di una Fortuna che si fa divinità benefattrice nei numeri delle estrazioni del lotto, pullulante di zone come la Vicarìa...
In tutto ciò, l'unico vero neo del romanzo diventano i due ultimi capitoli, che introducono dal nulla un nuovo personaggio, e tuttavia non paiono aggiungere alcunché ad una storia già completa.

Una doverosa aggiunta storica: l' “Albergo dei Poveri” esiste davvero, e a Napoli ancora domina incontrastato l'intera area di piazza “Carlo III” (il sovrano spagnolo che lo fece costruire). L'essere una delle più grandi costruzioni del '700 europeo, e l'aver smesso (fortunatamente) di garantire le “funzioni” raccontate nel libro, lo fa sembrare un gigantesco dinosauro imbalsamato... che tuttavia, con la sua spettacolare maestosità, riesce ancora ad incutere timore.

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Hugo ("I miserabili", "Notre Dame de Paris"), Verga ("I miserabili"), Dostoevskij ("Delitto e castigo"), i racconti sulla Londra del tempo dello squartatore e ogni altro sui popolani e le loro miserie (compreso qualche spunto di Conan Doyle).
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    14 Febbraio, 2015
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In viaggio con Lord Byron

La medicina legale italiana è molto diversa da quella che vediamo nelle serie televisive: lo sa bene anche Alessia Gazzola, giovane medico legale che ha inventato Alice Allevi, la versione italiana di tante eroine letterarie e televisive nate dopo l’enorme successo di CSI (Crime Scene Investigation).

Le colleghe anglofone che l’hanno preceduta sono decisamente belle, più o meno aggressive e spesso eccentriche. Alice è diversa: più vicina a Sex in the City che a Bones, a Sophie Kinsella che a Patricia Cornwell. Bella e buffa e tenera e con tutta la freschezza dei suoi ventisette anni, la specializzanda Alice ci propone la medicina legale in salsa rosa. Perché no? A parte qualche espressione in cui diventa un po’ troppo zuccherosa, la formula funziona.

Appassionata di shopping e di misteri, la Nostra partecipa con grazia ufficiosa alle indagini dell’ispettore Calligaris, combina guai, scopre colpe e altarini. Adora la medicina legale, ma anche la sua cara nonnina. Non è una secchiona, anzi: si fa beccare mentre cerca la risposta giusta su Google. L’Amore, naturalmente, non manca: innamorarsi dell’uomo che sembra giusto le sembra irrazionale, così si perde dietro i soliti belli e impossibili. L’ironia, sempre molto soft, condisce la ricetta con una nota leggermente piccante.

“Una lunga estate crudele” è il primo romanzo della Gazzola che ho letto: l’introduzione consente di entrare facilmente nel personaggio e nella seria. Il ritrovamento del cadavere di un attore scomparso da decenni. Il tentato omicidio di una donna ricca e dolcissima. La storia d’amore di un’orfanella zingara. Non ci si perde nei casi seguiti da Alice: la trama è semplice, resa più interessante dalle digressioni amorose della nostra legal pulzella. Le descrizioni degli ambienti e dell’abbigliamento, sempre accurate, aiutano l’identificazione senza appesantire.

Un prodotto interessante, di buona qualità, che senza sangue e senza orrori consente anche di imparare qualche dettaglio interessante sulla materia. Il ritmo è andante ma non troppo, spinto da qualche sorpresa e da una suspense non molto tesa, ma costante. Così, tra una vacanza radical chic e un intermezzo erotico, la morte diventa lieve, anzi vitale.
“Sarò sempre grata alla medicina legale di avermi insegnato quanto assurdamente e velocemente la vita possa finire. E per questo, di avermi spinta ad amarla di più.”

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Romanzi autobiografici
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    09 Febbraio, 2015
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MACERIE INTERIORI

Ismet Prcic è emigrato dalla Bosnia in guerra e ora alle soglie del terzo millennio si trova nella California meridionale: ma chi è Ismet Prcic? E’qualcuno che è stato tradito proprio da se stesso, quando nel 1995 la BBC gli fa vedere da uno schermo televisivo in Inghilterra le immagini di un Paese il suo, la Jugoslavia, mentre viene soppresso dalla crudeltà della Storia. Nel momento in cui la sua città, Tuzla, la famiglia, il primo amore e il suo mondo tutto se ne sono andati in frantumi sotto le bombe e i colpi dei cetnici, lui ha voltato loro le spalle, rifiutandosi di assistere a un‘agonia irreversibile. Tuttavia andarsene non ha significato salvarsi ma semplicemente condannarsi a una condizione di esule in una terra dove persone e cose non riescono ad avere consistenza e stabilità. “Schegge” è lo sforzo forse vano di tornare indietro, di recuperare ciò che è perduto, di trasformare l’assenza in presenza: l’impresa sconfina nel delirio, nell’allucinazione, giacché il ricordo, il rimpianto di non esserci stati possono essere pagine scritta, rievocazione, diario intimo ma non vita reale. Questo processo di interiorizzazione di un evento bellico percepito sotto pelle più che vissuto rende originale la rappresentazione delle guerra: le macerie di cui si parla in “ Schegge” sono nell’intimo, sono i sensi e l’animo a essere ridotti a un cumulo di rovine, crolli di città e stragi restano sullo sfondo ridotti a pochi cenni essenziali. Ecco perché le memorie disordinate di Ismet si confondono con quelle di un suo alter ego, Mustafa, incarnazione del senso di colpa o ricordo di un soldato conosciuto per caso e mai dimenticato: Mustafa l’esperienza delle trincea l’ha vissuta, è stato costretto dai cetnici a tagliare la gola al fratello per non essere ucciso. Ismet e Mustafa siano o no la medesima persona fanno parte di un’umanità che intraprende “ viaggi epici dal nulla al nulla” nella speranza che “ ci sia qualcuno, qualcosa là fuori”, che quando sdraiati sulla schiena guardiamo il cielo quello sia il “volto di Dio”.

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A chi è interessato alla guerra che ha dilaniato la ex jugoslavia venti anni fa. E' anche un bel romanzo di formazione e descrive in modo originale il trauma degli eventi bellici.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    04 Febbraio, 2015
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Noir d'Autore

Bruxelles. Un giovane squattrinato e una donna, un'entraineuse vestita da gran dama, sono in una stanza d'albergo. In quella attigua c'è un ricco uomo d'affari, con una valigia piena di banconote, diretto alla stazione.
Così inizia la vicenda di questo ennesimo libro di Simenon che, oltre ad essere il padre di una notissima produzione seriale, ha scritto anche molti altri testi, spesso con talento.

L'autore è qui ai vertici delle sue capacità, quasi a livello dei suoi capolavori "Il Presidente" e "L'orologiaio di Everton".
La struttura del romanzo è collaudatissima : tutto trova il proprio incastro e non c'è nulla di superfluo.
La prosa,asciutta ed efficace, si caratterizza per il notevole grado di leggibilità. La tensione è continua. C'è un delitto che porta già con sé il suo castigo; poi una pensione a conduzione familiare con alcuni personaggi appena tratteggiati e contornati di silenzio, qualcuno invece non facilmente dimenticabile, quasi epico.
Spesso sono gli stessi semplici gesti quotidiani a comporre il filo inquietante che percorre ogni pagina, ogni riga. A volte l'atmosfera di un evento viene invece anticipata con una frase ad effetto. "Quel che accadde dopo fu dirompente come un colpo di pistola esploso in mezzo alla folla".

Se qualcuno avesse in mente "Delitto e castigo" di Dostoevskij, il confronto sarebbe a tutto svantaggio di Simenon, perché qui è proprio l'approfondimento psicologico-esistenziale a mostrare carenze. Non che manchi totalmente: ci sono gesti o sguardi rivelatori, ma tutto risulta circoscritto; lo scavo interiore non fa parte di questo orizzonte.
Borges diceva che " la letteratura consiste, non nello scrivere esattamente quello che ci si propone, ma nello scrivere in modo misterioso e profetico qualcosa che va oltre quello che ci si era proposti ". Non possiamo dire che ciò sia avvenuto.
Per gli amanti del genere giallo/noir, penso però che questo libro sia veramente imperdibile.

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Romanzi
 
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    02 Febbraio, 2015
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Buio

"Avevo ventisette anni. Per ventiquattro nel mondo. Poi sette mesi nel fianco della montagna con la Principessa del caffè. Tre mesi di nuovo fuori, a trasportar cose, poi due anni e due mesi da solo."
Chi scrive è un carcerato, condannato all'ergastolo per aver tenuto sotto sequestro una giovane donna e per aver poi ucciso in carcere una guardia. Anonimo; a chi importa il suo nome? Non è che un uomo, o forse neanche più quello, perchè la prigione e l'isolamento annullano la vita. In un lungo flusso di coscienza, il protagonista-narratore ripercorre i giorni tutti uguali del carcere, dando voce a pensieri straordinariamente lontani dalla quotidianità, ma straordinariamente umani. Ci si aspetta di trovare dei "cattivi", ma entrando nel mondo descritto dal protagonista lo scarto col reale si fa sempre più marcato, tanto da indurre il lettore a riconsiderare i giudizi verso questo. Buono e cattivo non esistono, o almeno non come li conosciamo. La narrazione attraversa i momenti cruciali della vita del carcere: il ritorno con la mente alle azioni commesse e alle proprie vittime, i difficili rapporti con carcerati e carcerieri, la solitudine interiore e l'assenza d'intimità, l'attaccamento alle cose, ai pensieri e ai dolori, la speranza nel futuro. Il narratore scava a fondo nella sua coscienza, descrivendo senza filtri i pensieri che percorrono la sua mente nel tempo senza fine dell'ergastolo.

"Fuori c’è un sacco di gente che dopo i cinquant’anni si ammazza, perché ha capito che il mondo non si aspetta piú niente da loro. Tolto l’eredità, forse. Qui invece col fine pena a sessant’anni pensi di avere ancora tutto da fare. Di poter diventare astronauta, ballerino, imprenditore. Perché dietro hai poco. Come se le cose della vita stessero in un sacco, dove non puoi vedere, ma senti che pesa e comunque, se hai tirato fuori cosí poco, qualcosa dev’esserci rimasto. Tutta la vita non consumata dev’essersi conservata, in qualche modo, da qualche parte. Dovrà arrivare. Non può essere evaporata semplicemente passeggiando, dormendo. "

Decisamente un'intuizione originale e dal notevole potenziale quella dell'autore; unico piccolo neo il linguaggio, forse troppo monocorde, ma d'altronde funzionale a riprodurre il continuo circolo e ricircolo dei pensieri di un carcerato.
Certo, l'impatto del lettore col nuovo mondo non è facile: il lettore all'inizio si sente quasi spaesato, in un ambiente irreale, ma man mano che si procede il libro si rivela un crescendo d'emozioni, tanto che, girata l'ultima pagina, forte sarà la sensazione di aver concluso un viaggio e di esser uscito da un freddo buio.

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siti Opinione inserita da siti    02 Febbraio, 2015
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Con il linguaggio dei fiori

"Pimpinella, n. f.. Pianta erbacea
perenne della famiglia delle Rosacee,
con infiorescenze generalmente rosse.
Nel linguaggio dei fiori, offrire una
pimpinella significa:" Sei il mio unico amore."

Scritto da un pubblicitario apprezzato, ora romanziere noto al pubblico francese e non per il successo di "Le cose che non ho", questo romanzo breve parla di un amore fedele.
Chi ha provato il vero amore sa che non lo tradirà mai e chi ha avuto la fortuna di incrociarlo in giovane età, sa quanto sia prezioso. Tradire questo amore significherebbe tradire se stessi.
La storia è presentata da Louis, in ottica tutta maschile, quando il protagonista è ormai adulto. Ripercorre quindi la nascita di un amore, non corrisposto, di lui, ragazzo, orfano di padre e dalla sensibilità vicina al mondo femminile. Un ragazzo che sa aspettare anche quando i fatti sembrerebbero smentirlo, un ragazzo che sa capire, un uomo che sa accogliere per imparare poi a convivere con un'inquietudine che accompagna l'amore.

Sebbene lo spunto narrativo sia gradevole, si nota una certa labilità nella struttura breve che non riesce ad accogliere quelle caratterizzazioni che sarebbero state necessarie per rendere i personaggi più vivi. In particolare ho trovato quasi abortito un personaggio, la madre-vedova, la cui delicatezza nel rapporto col figlio è lasciata solo all'immaginazione del lettore.
Ne consiglierei la lettura in particolare ai ragazzi a partire dai sedici anni quando i primi turbamenti d'amore rendono complesso districarsi fra le coetanee soprattutto se attratte da mondi adulti ed esperienze inebrianti.
Un gesto semplice, un patrimonio emotivo ( se i genitori lo hanno educato alle emozioni), uno sguardo sincero al proprio io sono sempre una priorità da non tradire per garantirsi un vero amore.

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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    30 Gennaio, 2015
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Meglio sempre soli piuttosto che mai

Sono piuttosto numerose, nonchè sospette, le analogie tra questo romanzo e "Il mistero di Oliver Ryan" firmato da Liz Nugent; parecchi argomenti collimano in maniera imbarazzante rendendo un fastidioso straniamento.
Lasciando però da parte le sterili polemiche, facendosi scivolare addosso il subdolo dubbio e andando a concentrarsi sul lavoro di Arango, si può affermare con certezza di trovarsi di fronte a un thriller di buona fattura, senza dubbio "pompato" eccessivamente da certa critica.
Si parla di Henry Hayden, romanziere di grido, ricco, bello, amato un po' da tutti per il savoir faire e per il fascino misterioso. Allo stesso tempo sfuggente, gelosissimo della sua privacy, amico di pochi, forse di nessuno, se non per proprio tornaconto.
In realtà è un principe della menzogna, con una vita fatta di pura illusione; la più grande bugia concerne il lavoro, ogni best seller pubblicato col suo nome è opera della moglie. Costei donna controversa, per nulla ingombrante, innamoratissima e devota al consorte.
L'uomo è invece un approfittatore della peggior specie, un vile segnato dall'infanzia difficilissima coincisa con la segregazione in orfanotrofio dopo la sparizione della madre e la morte del padre.
Lo sfarzoso castello di carte però viene messo in pericolo dal vento scatenato dall'editor Betty Hansen, amante del fasullo scrittore ora in attesa di un bimbo. Inutile dire chi sia il padre, inutile dire che i buoni propositi di Henry di fare ammenda finiscano in fondo al mare, nel vero senso della parola. Per una serie di circostanze manovrate da un destino ora contrario, ora favorevole, gli eventi prendono una piega inattesa, finendo con il degenerare sotto una coltre di bugie infinite e l'urgenza di cautelarsi con ogni mezzo, anche il più estremo.
La determinazione del protagonista è invidiabile, come quando demolisce mezza casa per far secca la martora nascosta nelle intercapedini della soffitta; animaletto simbolico, a cui Henry associa il proprio decadimento, comprendendo quanto sia vicino al baratro di quella scogliera dove tutto è cominciato.
Sascha Arango si distingue per lo stile asciutto e sempre piacevole, per la capacità di incuriosire e collegare senza stridenti frizioni i fatti. Inoltre riesce a far digerire al lettore un personaggio così deplorevole; l'autore materializza con efficacia il fascino di questo farabutto, ne scandaglia l'animo in profondità portando a galla delle incertezze, delle piccole sfumature che in fin dei conti lo rendono umano, fallace, malinconico, anche se mai assolvibile.
E' il fascino del male, del proibito, dell'uomo che ha fregato tutti proprio quando la vita lo stava fregando, ma ora il passato presenta il conto, ed Arango ci trascina in un vortice nero dall'incedere sicuro.
Come dicevo qualcuno ha definito "La verità e altre bugie" una specie di capolavoro. A mio modesto parere siamo in presenza di un buon libro, nulla più, non certo uno scritto destinato a restare come è stato (esageratamente) affermato.
Tenendo quindi basse le aspettative il divertimento è assicurato, soprattutto se in precedenza non si è letto di Oliver Ryan...

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    30 Gennaio, 2015
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Una famiglia tutte le famiglie

Iniziamo a leggere questo romanzo e rimaniamo letteralmente senza fiato, completamente assorbiti dalla lettura del primo capitolo, rimaniamo costernati e affranti, quasi come se un amico o un parente ci avessero annunciato una loro tragedia.

Un romanzo d’esordio molto intenso e denso di contenuti, una scrittura efficace con un ritmo piacevole, i personaggi sono molto caratterizzati e pieni, vivi e concreti. Non mi sento di confermare o smentire gli accostamenti fatti tra la Mathis e altre grandi scrittrici americane, ma per quello che ho letto posso sicuramente affermare che si tratta di una ottima scrittrice, solo il tempo e sui futuri lavori potranno “emettere sentenza”.

La storia è quella di una famiglia, una storia lunga un sessantennio, una famiglia numerosa, come numerose sono le vite narrate, ogni capitolo è una vita, è un dolore, una difficoltà. Tanti racconti a comporre l’intera storia, a raccontare negli anni i rapporti famigliari, gli affetti difficili e i traumi subiti. Il romanzo è ben contestualizzato alla storia americana del secolo scorso, calato nella realtà del razzismo, della miseria e della povertà, delle difficoltà di emergere in una società che non accetta la diversità, della mentalità razzista attuata e resa “normalità”. L’autrice esprime, in una scena in particolare, l’atteggiamento di alcune “vittime” di questa discriminazione, un atteggiamento di paura, quasi di accettazione e rassegnazione, fino a raggiungere il limite di voler metabolizzare il fatto di essere inferiori in quanto di colore, o peggio ancora, come troppo spesso si dice, negri. La rassegnazione di non voler reagire, di sottomettersi allo strapotere bianco, tutto questo è molto presente in tutta la storia e risulta essere il filo conduttore di tutta la vita di questa famiglia, o almeno di buona parte di essa. Le ragioni di tanta sofferenza, di tanto dolore però non sono solo dovute al razzismo, nascono forse da un desiderio di rivalsa, dalla voglia di elevarsi che improvvisamente si scontrano con uno dei più grandi dolori che un padre e una madre possano vivere.
La miseria che strappa via il cuore, che non lascia il tempo di vivere, che fa prendere decisioni difficili, che una volta prese fanno ancora più male e spingono sempre più in basso l’animo umano.
Una madre che non riesce a dare l’amore che i figli si aspettano, perché travolta dalla vita, dalla società, da amori sbagliati o mal vissuti.
In questo romanzo si racconta di una famiglia che in realtà è la storia di molte famiglie, ogni figlio è una tribù, è il dolore che tante altre famiglie hanno vissuto e purtroppo vivono anche oggi. In questa chiave credo sia utile leggere questa storia, diversamente si rischierebbe di banalizzarla, pensando quanto possa essere inverosimile una concentrazione di tante sciagure e desolazioni famigliari.

Un uno che è tutto, e il tutto che si concentra in uno solo, condensato di vite che arrancano, che si spezzano e mai si ricostruiscono, o che si perdono e prima o poi si ritrovano in una forma diversa. Un libro che ci dice che, nonostante tutto, una vita è sempre una vita, e che i rapporti con i figli portano dentro qualcosa che è connaturato nella sostanza umana, non credo sia una questione di sangue o peggio ancora di responsabilità, ritengo che sia il nucleo indivisibile dell’essere, la più intima, sacra e microscopica parte che garantisce la vita.

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SARY Opinione inserita da SARY    26 Gennaio, 2015
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Indagini valdostane

Cime innevate, alpeggi, aria pungente, un paesaggio da cartolina natalizia violentato dalla cattiveria umana che si insinua tra le stradine, si inerpica sui sentieri e sparge il suo seme.
Il vicequestore Rocco Schiavone, romano burbero allergico ai climi rigidi, spedito ad Aosta in punizione a causa dei metodi poco ortodossi praticati durante il servizio reso allo Stato, ha tra le mani un caso dai contorni incerti. Tutto ha inizio da un incidente stradale mortale, un fatto di apparente ordinaria tragedia, l’evolversi della vicenda porta alla luce altri crimini ed altre realtà sconcertati. Ce la farà Schiavone insieme alla sua striminzita squadra a chiudere positivamente il caso?
La serie di Rocco Schiavone, ideata da Antonio Manzini, odora di Montalbano in versione romanesca, ci sono somiglianze caratteriali e professionali; infatti, il Vicequestore è pungente, sboccato, geniale, appassionato di donne, ironico, testardo, le operazioni le svolge seguendo un suo personalissimo metodo al limite della legalità extra protocollo standard, giungendo a volte a conclusioni sconclusionate. Anche l’ambiente del commissariato ricorda quello di Vigata (sosia di Catarella e Fazio compresi).
La trama è articolata, il finale garantisce un seguito ed in generale la sostanza è interessante, con qualche parentesi rosa. Il linguaggio utilizzato da Schiavone/Manzini è farcito di imprecazioni, che unito al suo vizio segreto, fumare gli spinelli, non gli dona onore per il ruolo stesso che ricopre. La particolarità del protagonista, con pregi e difetti, rischia di non aggradare tutti i lettori e per i fedeli seguaci di Camilleri potrebbe essere una potenziale delusione.
Per cogliere appieno i particolari e l’essenza del romanzo è consigliabile leggere i precedenti.
Concludendo, è un giallo dai toni smorzati che non manca, però, di piacevolezza.

“I ricordi se ne vanno, amore mio. Giorno per giorno, tu magari non te ne accorgi ma se ne vanno. Quelli belli e quelli terribili. Se li ingoia la notte, e si vanno a mischiare coi ricordi degli altri. Non li ritrovi più, neanche se ti ci impegni. Fino a quando anche tu diventerai un ricordo. E allora tutto ti sarà più facile.”

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Maso Opinione inserita da Maso    23 Gennaio, 2015
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Ostriche e libertà di astensione

Che casualità. Proprio l’atra sera, seduto a gambe incrociate su un plaid, vedevo lo sguardo di un caro amico che si fissava su di me mentre sillabavo per l’ennesima volta, neanche fosse una profezia azteca: “perle ai porci!”. Perle. Perle come simbolo di una preziosità che non può essere compresa. Perle, tante altre volte, come simbolo di un’ambiguità che può essere travisata, deformata, decontestualizzata, mascherata e definitivamente utilizzata da un mammifero con capacità decisamente superiori a quelle di un suino, ma certamente con meno buonsenso. L’ominide, ahinoi, sa servirsi della perla-ambiguità per scopi ben diversi rispetto a quelli previsti da chi ha aperto l’ostrica.
Nel nostro caso, il pescatore di ostriche, o meglio di huîtres, si occupa di letteratura. È uno scrittore, si chiama Michel e sembra avere una predilezione per quel filone letterario che dagli inizi del Novecento proietta e inchioda il genere umano in un tempo a lui prossimo, degenerato e irrecuperabile. Tale predilezione non impedisce di mettere in luce l’acquisita competenza di genere del signor Houellebecq. Ma l’acquisizione di una cultura letteraria specifica, come del resto anche quella sull’opera di Huysmans e degli autori francesi del XIX secolo, non può, a parer mio, dirsi tale se da essa non si sono tratti e messi in pratica i principi fondativi del genere stesso. Uno dei fondamenti strutturali che accomuna una fetta sostanziosa della letteratura distopica è quello che riguarda l’ambientazione socio-politica della vicenda narrata. Il fatto che i maestri del genere non si siano quasi mai cimentati nella narrazione di avvicendamenti contestualizzati su scenario reale (e per reale si intende esistente, con persone esistenti) non ha creato il minimo dubbio al signor Houellebecq. Dubbio che invece, a parer mio, si sarebbe dovuto porre ad ogni battuta della prima stesura del suo romanzo. I maestri del genere, come i maestri -indiscutibili fiaccole di sapienza e competenza- di ogni altro genere, sono tali perché a loro sono riconosciuti meriti incontestabili, perché non compiono errori nella pratica del loro mestiere. Perché sanno attenersi a un buon gusto che, in casi specifici come questo, si sarebbe dovuto esprimere nella scelta di un quadro sociale, geografico e antropologico non politicizzato, non veridico, non travisabile, non utilizzabile per altri fini. Il signor Houellebecq fa letteratura, scrive di letteratura, ma dimostra, nella mia personalissima opinione, di aver imparato ben poco da essa e da chi prima di lui l’ha fatta senza compiere errori così grossolani.
Scrivere di un popolo e della sua sottomissione ad un altro popolo, porre l’accento su diversità, tradizioni vissute come restrizioni, buttare nella mischia qualsiasi cosa faccia polverone, non importa a quale prezzo, non importa a quale deformazione siano costrette le fonti. Tutto un’insieme di azioni che sono consentite da quella che viene definita “libertà di espressione”, la più sacrosanta, la più millantata, la più sventolata. Lo spauracchio più radicato e verbalmente ineccepibile, la lapide conficcata nel terreno e mai più smossa. Parlare della Francia sarebbe troppo facile, e sarebbe troppo sbagliato. E sarebbe troppo pretenzioso da parte mia, che, invece, mi limito ad esaminare la bordura, la linea sfrangiata di una situazione nazionale ed extranazionale che presenta un quadro di una complessità incommensurabile, e per questo solo ipoteticamente dissertabile. La passamaneria che cinge tutto, come accennavo, riguarda la libertà di esprimersi. In questa rientra tutto, un tutto che prevede anche la negazione. Se la libertà di esprimersi è tale, allora essa contiene anche la libertà di non esprimersi. Una libertà che, per quanto paradossale, può essere esercitata nel medesimo modo. Non un’autocensura, non una mortificazione della propria opinione. Solo un semplice ragionamento che verte su quanto sia opportuna, in nome di una libertà che è possibile esercitare in quanto diritto inalienabile, la divulgazione di una tematica sufficientemente ambigua da poter essere fraintesa da una percentuale di audience priva delle competenze necessarie per discernere la fantasia dall’istigazione all’emarginazione e all’odio razziale. Anteporre la propria libertà di parola (ribadisco, incontestabile) alle conseguenze cui quest’ultima può portare, conseguenze tangibili, fisiche in quanto indiscriminatamente violente nei confronti di quella che nel 2015, nel mondo reale, è ancora una minoranza; fomentare involontariamente la diffidenza verso ideologie la cui credibilità è già gravemente minata.
Tutto questo, pur sembrandomi lampante, non è ovviamente esplicito. Tutto questo riguarda la libertà. Libertà che, nella mia opinione e nel’opinione di chi me l’ha inculcata, è mia fino a che non incontra quella dell’altro. Libertà che è rispetto, il cui esercizio non deve ledere l’altrui incolumità. In questo, nella giustificazione in cui si sa di potersi rifugiare, nella certezza di una tutela costituzionale e democratica, mi sembra si annidi la gravità e la leggerezza con cui viene utilizzato il mezzo letterario, di una potenza incontenibile se lanciato nel mezzo di un grumo di tensioni contrapposte e in via di cedimento. Sono certo che nessuna delle mie elucubrazioni, niente di simile e similmente polemico fosse nelle intenzioni dell’autore. Ma scrivere significa anche questo, significa sviluppare una coscienza del mezzo letterario stesso e di ciò che esso è in grado di fare qualora non fossimo in grado di controllarlo o di presumerne le conseguenze. Significa, inoltre, assunzione di responsabilità. Significa saper essere opportuni, possedere un’onestà intellettuale e una coscienza che abbiano potere su di noi e che regolino le nostre scelte, le nostre azioni, le parole che escono dalla bocca con troppa velocità. La parola leggera, la più esecrabile, la parola senza peso, la parola che esce senza che le si attribuisca un portato oculatamente soppesato. Le parole leggere si possono dire a gambe incrociate su un plaid mentre si fuma qualche sigaretta; non, certamente, all’interno di un medium di rilevanza globale che si prevede di lanciare in un lago di benzina.


Mi sembra opportuno, vista la preponderanza di argomentazioni personali, scusarmi sia con chi avrebbe necessitato un approfondimento maggiore degli elementi formali del romanzo di Michel Houellebecq, sia con chi si senta urtato dalla trattazione di tematiche sensibili. Ribadisco il carattere personale delle mie affermazioni e la mia più serena apertura al dialogo.

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Romanzi
 
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    21 Gennaio, 2015
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Pulsione meccanica

Dalle premesse e da come il libro stesso si auto presenta, mi aspettavo molto di più sinceramente. Mi aspettavo di entrare nei meccanismi che portano un giovane ad abbandonare la propria terra per affrontare una nuova sfida e conoscere, scoprire di più se stesso. Mi aspettavo di vedermi descritto questo salto nel buio, cosa si perde e cosa si trova. Invece, a parte le primissime pagine e qualche flash, che però decisamente si perde nel leggere, mi sono ritrovata un giovane che si trasferisce in Montana per fare da guardiano in un albergo, trova una macchina ed impazzisce per questa macchina. E, sinceramente, anche se assicuro che la trama è questa, devo ancora crederci anch’io che tutta la storia ruota attorno a questa Bentley. Di tutti i secondi significati che far rinascere questa macchina può aver comportato, di tutti i parallelismi, sinceramente non ho condiviso molto. Per me è stata solo una fredda descrizione di una pulsione meccanica. Ed il fatto che sia stata fredda non ha niente a che vedere con il clima del Montana.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    19 Gennaio, 2015
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Leggere si legge

Un video  trasmesso su Youtube racchiude alcuni istanti di vita di una donna: delle calze che scivolano sulla gamba, un cucchiaio che sprofonda nel barattolo del gelato, un'iniezione di insulina.
Non sono attimi autorizzati, sono attimi rubati. Sono per la polizia di Stoccolma il campanello d'allarme che strilla nell'anticamera di un nuovo, straziante omicidio. Davanti alle immagini della vittima predestinata Margot Silverman e' la nuova incaricata dell'indagine, esperta di serial killer e stalker.
Il caso si complica e l'omicidio non resta isolato, la squadra investigativa si affina accogliendo lo psichiatra Erik Maria Bark, specializzato in ipnosi post traumatica , per approfondire la scena del crimine compromessa da un marito in stato di shock.
Il dettaglio affiora, il dottor Bark riflette sulla postura del corpo prima che venisse spostato. 
La registrazione della seduta viene cancellata, l'ipnotista mentendo comunica alla squadra che nulla e' emerso. Eppure un brivido gli ghiaccia la colonna vertebrale...

Intreccio corposo, talvolta i collegamenti sono un po' troppo eccessivi. Diciamo che spesso invece di essere assorbiti nella realta' dell'invenzione letteraria si ha la netta sensazione di essere davanti a un mero lavoro di prospettiva abilmente steso a tavolino. Cio' non toglie che  nonostante le forzature la lettura sia appassionante. I Kepler non fanno mancare nulla e da buoni commerciali infilano tutto cio' che possa soddisfare un ampio bacino di utenza: colpi di scena, movimento, turbe mentali, una storia d'amore, il sesso tradizionale, il sesso estremo - sia in versione chic che in versione choc -, e così via.
Non amo particolarmente questa concezione eccentrica del thriller e la parte centrale mi ha cullata su un'altalena di picchi verso l'alto ma anche di inevitabili oscillazioni annoiate verso il centro della terra, certo e' che la parte finale e' di livello e ripristina un giudizio medio alto sull'opera complessiva.
Curiosa la sinossi dell'edizione italiana che si focalizza su un tal appartenente a una ricca famiglia svedese che ha perso la memoria. Nell'accozzaglia di nomi ed eventi di questo romanzo non ho idea di chi si tratti, preoccupante. Probabilmente necessito di una seduta di ipnosi per ricordare, o di qualcuno che cerchi quel nome su un e-book, per pace mia. Grazie e buona lettura.

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Romanzi autobiografici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    17 Gennaio, 2015
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Viaggio nella memoria

Peter Lantos prima che autore è un medico specializzato in malattie neuro-degenerative.
Ungherese di nascita e inglese d'adozione, ha raccolto la storia della sua vita e della famiglia nel volumetto intitolato “Tracce di memoria”.

Il dottor Lantos ha vissuto da bimbo la deportazione a Bergen-Belsen ed in altri campi di lavoro insieme ai genitori; la sua tenera età ha fatto in modo che tanta parte delle immagini e dei ricordi si sfumassero, perdessero consistenza. Nasce quindi il desiderio di consolidare i frammenti del passato scrivendo una sorta di diario di ricostruzione per non perdere memoria di quelle tracce sbiadite che sono pezzi di vita.
Lantos sembra lontano da certi intenti e circuiti editoriali speculativi, la sua narrazione è avulsa da istinti rabbiosi e spettacolari; si percepisce la voce di un uomo che voglia riunire i pezzi di puzzle disgregatosi nell'età dell'infanzia, età in cui gli eventi si subiscono, età in cui il calore familiare è tutto.
Peter ha perduto la sicurezza del nido familiare a sei anni, affrontando una mutilazione ed un trauma che il tempo non può sanare; tuttavia la sua voce, pur riportando alla luce eventi storici aberranti quali le persecuzioni razziali e l'olocausto, rimane composta, instaurando un dialogo col lettore alquanto pacato, privo di spunti di odio e vendetta.
Oltre a qualche breve accenno alla vita da deportati, di cui la scarsa memoria ha fatto sì che egli attinga ad altre fonti, tanta parte del racconto parla del paese natale e delle sorti dell'Ungheria durante il secondo conflitto mondiale e anche dopo. Una storia politica complessa di cui c'è tanto da raccontare.

E' una lettura che va affrontata per il valore umano del suo contenuto, per ascoltare ancora una volta una storia “particolare” che costituisce un tassello della Storia mondiale “generale”.
Narrazione scorrevole e gradevole per scrittura, fanno del diario di Lantos un momento di riflessione e di conoscenza adatto a qualsiasi genere di lettore.

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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    15 Gennaio, 2015
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Marianna Sirca

Risale al 1915 la pubblicazione di “Marianna Sirca”.
I protagonisti delle opere della Deledda appartengono sempre a classi sociali ben definite e distinte, impermeabili tra loro; padroni e servi costituiscono una costante, ma in questo romanzo appare un'ulteriore “specie”, il bandito.
Argomento funesto quello del banditismo, fenomeno strettamente radicato tra le pieghe dell'aspro territorio sardo, di cui l'autrice fornisce un volto ed un nome.
Il bandito non è solamente un ricercato, un uomo relegato alla clandestinità e al compimento di azioni contro legge, è un uomo che brucia di passioni, che lancia una sfida al destino per liberarsi dal giogo di una vita da esiliato.
Il volto del bandito è quello di Simone Sole, il cui cognome cozza contro le tenebre scese sulla sua vita.
Il volto della giovane donna piegata alla volontà impostale dalla famiglia possidente è Marianna, vittima di un ruolo e di consuetudini sociali che esaltano la smania di ricchezza a scapito della felicità.
Due personaggi nitidi come scatti fotografici, espressione di un realismo narrativo suggestivo e coinvolgente, due vite che cercano il riscatto, che lottano con fermezza per strappare al fato un briciolo di fortuna e di amore.
La solitudine è palpabile e spessa come una cappa, toglie il fiato e ammutolisce il lettore.
Solitari i cuori così come le lande silenziose del nuorese, percosso dai gelidi venti invernali ed imbiancato da candida neve.
Un romanzo in cui l'elemento naturale è parte integrante della narrazione, giungendo a fondersi con gli stati d'animo e gli umori dei personaggi, creando un flusso di immagini ed eventi in stretta simbiosi.
Con “Marianna Sirca” Grazia Deledda conferma le sue doti narrative raccontando una storia che arde di passioni, che anela gioia, che spezza le catene del pregiudizio verso certa umanità, che parla di un territorio ruvido e percorso da forti contrasti.
Capolavori le pennellate di colore, le sensazioni olfattive persistenti, gli struggimenti emotivi e gli immancabili colpi di coda del destino.

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Romanzi
 
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Gennaio, 2015
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Only connect.

Only connect. Proprio il sottotitolo dell’opera “Casa Howard” di E.M.Forster, che Eco pone all’inizio di “Numero zero”, è la chiave di lettura del suo ultimo originalissimo romanzo.
Protagonista della storia è un giornalista desideroso di affermarsi che viene ingaggiato come ghost writer dal direttore d’un giornale perché racconti, a nome suo, l’anno di lavoro speso a preparare un quotidiano che non avrebbe mai visto la luce.
Sin dalle prime pagine si evidenziano i rapporti a volte ambigui, a volte compromettenti tra editore e direttore, si capisce come la libertà di stampa possa venire spesso condizionata, se non tradita, da valutazioni di interesse e opportunismo. È il direttore Simei, che si rivela immediatamente nella sua dimensione truffaldina, a svelare a Colonna, il protagonista, alcuni trucchi per condizionare l’opinione del lettore. È così che si spiega l’uso delle virgolette per introdurre frasi di persone intervistate su un certo argomento, quando non si abbiano fonti attendibili, avendo cura di inserire per ultime le opinioni su cui si vuole dirottare l’attenzione. Traspare qui un sostanziale disprezzo per il lettore medio che per l’editore e il direttore è ghiotto di pettegolezzi e mostra un’età mentale d’un dodicenne. È il vero giornalismo “trash”.
Tra gli inconsapevoli redattori convinti di lavorare per un giornale vero, spicca la figura di Braggadocio. Il nome di questo personaggio è di per sé indicativo di ciò che l’autore si appresta a descrivere. Il significato, infatti, di braggadocio evoca un’idea di millantatore, di spaccone. Un espediente, questo, molto usato nella letteratura di tutti i tempi. Anche un mezzo per prendere le distanze da ciò che si sta per raccontare, specialmente se l’argomento presenta qualche lato scabroso. È Braggadocio, infatti, che racconta una storia che si rivela esser “la storia” dell’Italia dalla cattura di Mussolini fino al 1992. Si percorrono così i fatti più importanti accaduti in questo periodo e ben noti, facendo riferimento all’operazione Gladio, alla P2, al tentativo di golpe Borghese, all’assassinio di Papa Luciani, al rapimento Moro e moltissimi altri tristi episodi di terrorismo, tra cui la strage di piazza Fontana e dell’Italicus. Tutti questi fatti nefasti apparentemente episodi singoli con singole matrici vengono da Braggadacio connessi a un solo unico movente che ne sarebbe stata l’origine. Egli effettua una sorta di sinapsi di ogni singolo evento.
In definitiva con quest’opera, sia pure affidata alla forma del romanzo, che alla fine si colora di giallo, Eco insinua nel lettore il sospetto che tutto ciò che gli è stato raccontato da certa stampa e da certi organi di informazione, possa nascondere sempre in sé un’altra verità. -“ I giornali non sono fatti per diffondere, ma per coprire le notizie”- afferma Braggadocio.
C’è dunque da chiedersi come ci si possa difendere da una disinformazione costruita a tavolino. L’unica possibile risposta può risiedere nell’emancipazione dall’ignoranza, nel rifiuto della rinuncia e della rassegnazione.

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Romanzi
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    13 Gennaio, 2015
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Annalena Bolsini

Annalena ha cinque figli e un marito morto, una famiglia numerosa da mantenere e tanta speranza nel cuore.
Romanzo della Deledda scritto subito dopo l'assegnazione del premio Nobel, romanzo che non riesce ad emozionare come altri, neppure dopo giorni dalla sua lettura.
Sembra quasi che cambiando l'ambientazione cambi anche l'atmosfera, come se da quella penna, intrisa di emozione quando descrive la sua Sardegna, divenisse arida e priva di anima lontano da essa.
Il soggetto del racconto è molto simile ad altri: il figlio maggiore torna in licenza e finisce con l'innamorarsi di chi non deve.
Da qui una serie di eventi si susseguono riproponendo i temi cari alla Deledda, il senso di colpa soprattutto.
Lo stile è molto fresco, moderno e riesce in questo modo a sopperire ad una mancanza di ritmo e vivacità nella trama.
Ciò per cui questo romanzo, di sicuro non il migliore dell'autrice, rimane importante è il tema del lavoro e di quanto esso possa essere importante nella vita di ognuno.
Il fulcro della storia sembra essere questo aspetto della vita della famiglia.
Se in "La chiesa della solitudine" il tema di fondo sarà la malattia e in "Elias Portolou" era la tentazione e l'assenza di forza di volontà, qui la dedizione e l'abnegazione alla terra prende il sopravvento, quasi a voler dare un lieto fine a "I malavoglia" raccogliendo quel piccolo barlume di speranza che Verga cerca di far scorgere al lettore.
Se letto in quest'ottica il romanzo appare ancora più moderno e più attuale, proponendo un tema non privo, ancora oggi, di una forza evocativa potente.
Il lavoro è qui inteso davvero come qualcosa di nobilitante e salvifico, qualcosa per cui sudare e in cui credere, in cui sperare e per cui pregare, il succedersi delle stagioni, la sua importanza nella buona riuscita del accolto vengono descritte con una forza evocativa che manca del tutto alle vicende umane, quasi a voler rendere universale la componente naturalistica del mondo, ma non quella umana, come se la Deledda potesse descrivere e raffigurare l'Umanità solo descrivendo la sua Sardegna ed e perdesse quella capacità, così dolce nella sua schiettezza quando i personaggi descritti appartengono al continente.
Una Deledda diversa, più fredda, un romanzo meno riuscito, ma comunque piacevole.

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Letteratura rosa
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    13 Gennaio, 2015
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PRIMA O POI QUALCOSA DI BELLO SUCCEDERA'...

Le parole chiave sono speranza e ottimismo, credere che ci sia qualcosa di buono e di bello che ci aspetta, che prima o poi arriverà, quella opportunità o quella occasione che aspettavamo da tempo.
Appena ho concluso la lettura mi è venuta in mente proprio la parola speranza, nell’amore, nel futuro, nella famiglia e nell’amicizia.
L’autrice di questo bellissimo romanzo riesce sempre a creare delle storie che riescono a colpire nel profondo il lettore, lo emozionano e lo accompagnano all’interno della storia e non lo lasciano andare nemmeno quando il libro finisce.
Jojo Moyes è una scrittrice inglese, che mi aveva già rapita con il romanzo ”Io prima di te” che lessì l’anno scorso.
Jojo, riesce a raccontare attraverso la sua penna, delle storie d’amore che non sono mai banali e che ti entrano nell’anima, come in questo caso dove abbiamo come protagonisti Jess e Ed.
Jess, giovane mamma single, ha due figli Tanzie un piccolo genio della matematica e Nicky, un adolescente che sta affrontando un periodo difficile.
Ed Nicholls,invece, è un uomo d’affari che non si preoccupa degli altri, pensa solo a guadagnare e a se stesso ma quando viene sospeso dal lavoro con l’accusa di insider trading dovrà rivedere la sua vita e iniziare a guardarsi dentro.
Per un caso del destino i due si incontrano e si inizieranno a conoscere.
La scrittrice descrive dei personaggi agli antipodi, che non potrebbero essere più diversi, con vite e abitudini differenti, riusciranno a trovare un punto in comune?
Jess una ragazza di 27 anni che resta incinta prima della maggiore età, decide di crescere e allevare la figlia, Tanzie. Anche quando il suo compagno la lascia, non si dà per vinta e si rialza, trovando vari lavori per riuscire a mantenere la sua famiglia. Lei ama moltissimo i suoi figli e farebbe di tutto per aiutarli e per farli stare meglio e realizzare i propri sogni, ma alcune volte la realtà non è così facile. E’ giusto arrendersi o è meglio continuare a lottare?
Nicky, l’altro figlio della donna, in realtà è nato dal rapporto tra il suo ex e la sua precedente compagna, lo accoglie con sé e lo considera come suo figlio. Lo cerca di aiutare come può ma il ragazzo soffre molto a causa del bullismo.
Infatti , Nicky viene continuamente preso in giro dai suoi compagni di scuola e da uno in particolare, che lo minaccia e lo picchia.
Il bullismo e anche il cyberbullismo sono dei temi molto attuali, ne sentiamo parlare al telegiornale, su internet e nei giornali e sono causa di molti problemi tra i giovani d’oggi. Sono vittime del bullismo i cosiddetti “sfigati” oppure i ragazzi che sono considerati diversi, non perché in realtà lo siano, ma perché non vogliono integrarsi ad un gruppo conformato di persone e al loro stile di vita.
La diversità accresce la società non la indebolisce. Sempre.
A tutti noi è capitato a scuola di essere presi in giro per qualcosa, tutti indistintamente io per esempio perché usavo gli occhiali e quando ero piccola non erano molti utilizzati, ora invece sono di moda e vengono usati anche se non c’è un problema reale.
Mi ricordo ancora cosa mi dicevano e quanto mi faceva male, mi sentivo diversa da loro, ma per fortuna non mi sono mai scoraggiata.
Si, ancora oggi non ricordo bene quel periodo, ma mi è servito per essere più forte e pensare che essere diversi è bello e che è meglio non essere omologati alla società ma pensare con la propria testa.
Questo per dire che Jojo ha saputo parlare di questo argomento con la massima delicatezza possibile, anche se affrontare questi problemi non è facile e anche la stessa Jess in qualche occasione non sapeva come comportarsi.
Tanzie, invece la figlia di Jess, è dotata di grande talento, la matematica per lei non ha segreti, è una piccola bambina prodigio.
Lei ha un dono, e questo andrebbe valorizzato ma se il talento non è supportato anche da un sostanzioso aiuto economico alcune volte non si può sviluppare al meglio.
O forse no,alcune volte basta solo quello?Il talento va incoraggiato o si può andare avanti solo con la propria tenacia, e con la convinzione che solamente con le tue forze ce la puoi fare?
A completare la famiglia di Jess, c’è il cane Norman, un’ enorme massa di pelo e dolcezza che accompagna i vari protagonisti nella storia.
Invece, poi troviamo Ed, è un personaggio che all’apparenza non ha problemi, può avere tutte le donne che vuole, ha un bel lavoro e guadagna molti soldi.
In apparenza, appunto, è separato, è sostanzialmente solo e un giorno la sua vita è sconvolta da uno scandalo nella sua azienda.
Fino a che punto gli errori piccoli o grandi che siano possono avere delle conseguenze sulla persona che gli ha commessi?
Alcune volte bisogna riconoscere i propri limiti e le proprie debolezze, cercando ugualmente di capire dove si è sbagliato e cercare di risolvere il problema, dichiarando le proprie colpe e facendo della buona autocritica.
Jojo Moyes, descrive i suoi personaggi a tutto tondo, in tutte le sue sfaccettature raccontando tutti gli aspetti della loro vita con le loro insicurezza, debolezze, paure, angosce ma anche nelle cose che gli fanno sorridere ed emozionare.
Jojo, nei romanzi che ho letto, descrive delle ragazze comuni, come noi, Jess lo è, come anche Louisa nell’altro libro, delle persone moderne che vivono con difficoltà, che affrontano la crisi sia lavorativa che di sentimenti, che però sono forti, si sollevano da sole e riescono sempre a trovare una soluzione e ad affrontare la vita con il sorriso.
La scrittrice, è madre, e solo una mamma può descrivere così bene l’amore che si prova nei confronti di un figlio, credo che abbia raccontato questo sentimento con estrema delicatezza e dolcezza, senza mai scadere nello sdolcinato.
Un romanzo che consiglio perché vi troverete di fronte una storia d’amore non comune, strana, ingarbugliata, inedita e sicuramente inattesa e non prevedibile.
Non vi aspetterete di restare colpiti così tanto da un libro, che vi rapirà per alcuni ore e giorni della vostra vita ma che una volta finito non vi lascerà più andare.

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Classici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    10 Gennaio, 2015
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La madre

Nulla eguaglia il rapporto viscerale che si instaura tra una madre e un figlio; su questo solido mattone Grazia Deledda costruisce una storia di lacrime, sofferenze e passioni.
Come di consueto è l'aspro territorio sardo ad accogliere tra i propri luoghi i protagonisti del racconto; anime sole, chi per un motivo chi per un altro, eppure cuori che ribollono di ardore passionale.
Una madre le cui mani sono consunte dalla fatica, poche gioie e tante rinunce, in nome di una piccola felicità fugace che le ha lasciato in grembo un figlio da crescere e da sfamare.
Un figlio amato nonostante le avversità di una vita grama, deciso a percorrere la strada della vocazione religiosa.
Quando tutto sembra scorrere per il verso giusto, l'autrice lacera la veste della normalità per dare voce agli istinti umani, giusti o ingiusti, naturali o torbidi.
La maestria dell'autrice confeziona un romanzo in cui l'evoluzione temporale degli eventi pian piano rallenta, avvolgendo i protagonisti in tinte cupe e notturne, in uno stato emotivo in cui la luce non filtra più; è il tempo dello struggimento, dilaniante e corrosivo, è il tempo delle riflessioni sulle conseguenze delle proprie scelte, è il tempo della chiusura dei conti che la vita impone inesorabile a ciascun individuo.

“La madre” è un romanzo piuttosto breve, possiede una trama succinta, ma l'intensità del contenuto è poderosa. Rispetto ad altri scritti l'elemento naturale del territorio sardo tanto caro all'autrice, è meno presente in nome di una maggiore evidenza degli stati emotivi, colti con struggimento e forza evocativa.
La Deledda sente la necessità di portare alla luce le forze embrionali più genuine e naturali dell'essere umano, siano esse generate dall'istinto siano esse forgiate dagli usi e dai costumi della terra che li ha generati.
Una lettura che costituisce un tassello importante sia per apprezzare gli scritti deleddiani sia per addentrarsi nel panorama letterario del secolo scorso.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    09 Gennaio, 2015
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Crepe

Esiste un essere umano che sia privo di punti deboli? Se c’è una cosa certa al mondo è che la risposta a questa domanda è no. “La Relazione” di Andrea Camilleri racconta la disperata ricerca del punto debole di un semplice uomo, Mauro Assante, da parte di un misterioso gruppo di persone apparentemente senza scrupoli e con la chiara intenzione di distruggerlo. Mauro è un ispettore bancario e sta scrivendo una relazione su un istituto che egli stesso ha ispezionato e che ha mostrato d’avere più che dei semplici problemi legali. Sarà proprio durante la stesura di questa relazione che la vita di Mauro si sconvolgerà al punto da diventare impossibile, diventando palcoscenico di inspiegabili eventi. Alla ricerca di quella crepa nel suo animo.
Il libro si lascia ben leggere e scorre via veloce, grazie anche alla mole ridotta e ai caratteri abbastanza grandi. Lo stile di Camilleri è molto scorrevole e coinvolgente, accompagnato da una buona dose di tensione e qualche colpo di scena. Di certo un personaggio come Montalbano non sarebbe potuto uscire dalla penna di uno scrittore qualunque.

Quel che è noto è che siamo creature fragili. Basta ben poco a distruggerci, giusto una buona dose di cattiveria unita a un animo volenteroso. Una volta preso di mira non v’è scampo per chi, come il protagonista, non accetta compromessi, o almeno non tutti. L’oblio si spalanca di fronte ai nostri occhi eppure ci ostiniamo a non volerlo vedere, illudendoci che la vita sia ricca di equivoci e che tutto vada sempre per il verso giusto. Ci ostiniamo a credere che persone capaci di ogni cosa pur di salvaguardare il proprio interesse non possano esistere, soltanto perché noi stessi non ne siamo capaci. Chiamiamola ingenuità, ma sarebbe più appropriato chiamarla stupidità. Persone di tal sorta esistono, e sono in grado di penetrare nelle più profonde crepe della nostra anima, sulle quali infieriranno in modo da farci crollare miseramente. Quando la realtà dei fatti ci viene sbattuta in faccia è quasi sempre troppo tardi e ci troviamo a fare i conti con le spesso tragiche conseguenze. Quando tutto è perduto, diverse sono le reazioni, variano da uomo a uomo, e la reazione del metodico e pacato Mauro Assante vi stupirà. Dalla breccia che hanno trovato nel suo animo, verrà fuori una bestia che fino ad allora era stata celata nell'oscurità.

“C’è un signore che gira per Roma, dalla mattina fino a notte inoltrata. E’ un cinquantenne distinto, sempre con la cravatta, cortese e gentile. Si vede da lontano un miglio che è una persona perbene.”

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Andrea Camilleri.
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