Le recensioni della redazione QLibri

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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    23 Giugno, 2015
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Quel gran oratore del Cardo

Pensieri, riflessioni, insegnamenti, ricordi di una vita giunta (forse) alla grande svolta. Cardo, criminale noto tanto al sottobosco malavitoso quanto alle autorità, figlio di emigranti nella Torino del boom economico, attende in auto il momento buono per colpire, per dare concretezza a quel riscatto sociale inseguito per una vita e mai pienamente concretizzato.
Anche se le soddisfazioni non gli sono mai mancate: soldi, tante donne, una leonessa a fargli da bodyguard e una carrozzeria assurta a crocevia dei più loschi affari della malavita torinese.
Il suo è un monologo senza freni, inframezzato dalle telefonate strampalate del suo complice; tale Sergio, ovvero il palo, una sorta di gemello criminale del Catarella di "Camilleriana" memoria.
Tra uno squillo e l'altro nell'angusto abitacolo Cardo si racconta ad un non meglio specificato interlocutore sapientemente celato fino all'epilogo.
Il disvelamento del misterioso individuo provoca l'ultimo di una lunga serie di sorrisi alimentati da trovate divertenti. "Onora il babbuino" infatti appartiene a quella felice schiera di romanzi cui è difficile non voler bene, perchè si prestano a leggersi in un fiato e sanno raddrizzare anche l'umore più nero o allontanare la preoccupazione più gravosa.
Le risate sono garantite mentre una sorta di bizzarra ma indubbia integrità morale - stile gangster vecchio stile- e perle di "saggezza" imparate sulla maestra strada fanno a pugni con un qualunquismo galoppante dettato da ragionamenti repellenti, null'altro che figli degeneri della nostra epoca.
Luoghi comuni su rom, neri e omosessuali si sprecano, odiose pubblicità diventano un vero mantra ossessivo, il tutto sciorinato attraverso uno stile linguistico amabile anche se rozzo, infarcito di parolacce e al tempo stesso pregno di un'irriverenza che ricorda il miglior Welsh sfumato in territori surreali in cui Benni sguazzerebbe con piacere.
Cardo tratteggia un mondo profondamente cambiato da quando arrivò con (imbarazzante) famiglia al seguito alla stazione di Torino. Il nostro parte dalla sua infanzia per delineare i motivi di una ribellione allora embrionale, sfociante in una netta ma rispettosa contrapposizione col padre riverito esponente delle forze dell'ordine.
Brevi capitoli dal secco incedere riferiscono di questa vita avventurosa, ove soprattutto si sghignazza navigando nel nonsense tra aneddoti d'ogni genere: fulgidi esempi sono quelli del babbuino Papio e del suo anziano proprietario o di un allenamento della Juventus in cui tra nani e leoni il nostro protagonista lasciò il segno.
Romanzo leggero e divertente, in cui il filone noir viene affrontato con piglio dissacratorio e caricaturale per raccontare di un personaggio controverso, deviato, ma a suo modo cristallino seppur ottuso e delinquenziale, in perenne bilico tra ridicole assurdità e ferocia.

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Racconti
 
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    22 Giugno, 2015
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What might have been and what has been

“What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.”
Sono versi, questi, tratti dal primo dei Four Quartets dal titolo Burt Norton di T.S.Eliot, ai quali viene spontaneo pensare leggendo la raccolta di racconti di Murakami Haruki, recentemente pubblicata da Einaudi con il titolo “Uomini senza donne”. Le sette storie, infatti, hanno un filo conduttore comune, pur essendo assai diverse tra loro, che si identifica con lo straordinario senso del tempo, con la consapevolezza dell’irreversibilità degli eventi accaduti che vanifica la ricerca di una felicità terrena, e induce a rifugiarsi in una sfera fantastica.
Tutti questi sette racconti descrivono, infatti, storie ai limiti della realtà, o meglio storie che peccano volutamente di razionalità. Anomalo è il comportamento di Kafuku (Drive my car) che decide di diventare amico dell’amante della moglie, dopo la morte di lei, per capire qualcosa di più su una donna che credeva di conoscere alla perfezione, come anomalo è il rapporto di amicizia che lega Kitaru e Aki e che coinvolge anche Erika (Yesterday). Sono legami destinati a interrompersi e a finire in una recondita e sofferta parte della memoria. Molto significativa è la libera e arbitraria traduzione che Aki fa dei versi della canzone dei Beatles, “Yesterday”: “Ieri è l’altro ieri di domani, il domani dell’altro ieri.” Il tempo dunque, come elemento fondamentale e imprescindibile in tutta la narrazione. Irrazionale e alquanto assurdo, appare nel terzo racconto la tesi del dottor Tokai secondo la quale ogni donna è dotata di un organo indipendente che le permette di mentire. È tuttavia proprio l’incapacità di Tokai di prendere decisioni e stabilire rapporti duraturi che lo condanna a una morte per inedia. Come non pensare al “I would rather prefer not to” del Bartleby di Melville?
Sempre in relazione al tempo si snoda il racconto Sherazade, ispirato alle Mille e una notte. Il procrastinare all’infinito la conclusione della storia raccontata da Sharazade a Habara crea una dimensione irreale, che sarà rifugio per il protagonista. “Perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse.”
Anche Kino, il personaggio centrale della storia successiva, tradito dalla moglie, si rifugia in uno spazio e in un tempo che sembrano sospesi. “Il mondo era un immenso oceano privo di punti di riferimento e Kino una barchetta che aveva perso carta nautica e ancora” Egli non riesce infine più a ricollegarsi alla realtà.
È “Samsa innamorato” il racconto che meglio esprime, tuttavia, l’esigenza di Murakami di rappresentare un mondo assurdo in cui è difficile orientarsi e ritrovare i valori tradizionali. Qui è La metamorfosi di Kafka, che offre l’ispirazione allo scrittore giapponese. L’assurdo è il tema centrale ed è in ogni caso la condizione in cui si dibatte l’uomo.
Uomini senza donne sono dunque coloro i quali non riescono ad avere rapporti stabili e duraturi, in un mondo in cui di stabile e duraturo è rimasto ben poco.
Ogni racconto è narrato al ritmo d’una musica di successo, che siano i Beatles o jazzisti afroamericani come Ben Webster, Coleman Hawkins o Billie Holiday, o che sia il tema del film di Denver Daves “Scandalo al sole”. Le numerose fonti di ispirazione di matrice occidentale e la predilezione per la musica anglo americana, fanno sì che Murakami Haruki sia uno scrittore particolarmente gradito alla cultura eurocentrica, pur conservando tutte le caratteristiche della cultura del suo paese.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    22 Giugno, 2015
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A C.u.b. non piaceva stirare

Lupita ha un passato di dolore, Lupita e' testimone di un omicidio che non ha saputo evitare , Lupita entra in casa e immerge in acqua insaponata i pantaloni intrisi di urina. Accende il ferro da stiro e avvolta da una nuvola di vapore si abbandona al profumo di biancheria che la riporta all'infanzia e alla pace dei sensi.
Sapientemente piazzate le osservazioni fugaci di testate di un certo spessore in quarta di copertina, attraente la collocazione messicana del testo, mediamente quotata la scrittrice nei lavori precedenti, diciamo che il tentativo era plausibile. Purtroppo l'esito della lettura e' stato abbastanza scioccante e fatico a comporre quattro righe sensate che sintetizzino tanta banalita'.
Trama scarna ha lo spessore di un colabrodo, personaggi alla stregua del ridicolo sia nella forma che nel contenuto, dialoghi patetici, questo e' un prodotto il cui intento e' di fondere tre elementi accattivanti: una storia di vita potenzialmente drammatica ed appassionante, un giallo potenzialmente misterioso, una location potenzialmente appetibile. Il punto e' che tali elementi sommati rendono un gran poco senza la capacita' e la destrezza di coniugazione e sviluppo in cui dovrebbe sapersi destreggiare l'autore. Insomma promettere tutto per poi non stringere nulla. 
La penna scorre senza grossi intoppi, carina l'idea di inserti riguardanti la tradizione messicana, diciamo che in ogni libro le aspettative dettano legge sull'esito.
 Ecco quindi se cercate un libercolo da spiaggia senza troppe pretese da alternare alle solite riviste di gossip forse Lupita vi potrebbe anche piacere .

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Letteratura rosa
 
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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    21 Giugno, 2015
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Audrey si è "persa". Finding Audrey

Impossibile non farsi conquistare dal nuovo personaggio della Kinsella, la quale, per l'occasione, ha deciso di cimentarsi nella stesura di un genere diverso dal solito chick lit che l'ha portata al successo.
"DOV'È FINITA AUDREY?" è uno spassoso young adult. Sarà forse perché in questo romanzo c'è qualcosa di più autobiografico che negli altri? Forse anche gli hobby e le tematiche della Kinsella sono cresciuti con lei adattandosi alla sua personale esperienza di vita. Come sappiamo Sophie Kinsella, oltre ad essere una scrittrice di bestseller di fama mondiale, è anche una moglie ed una madre ... di cinque figli. Quindi, come lei stessa dice, dedicando questo libro ai suoi figli, è merito della sua famiglia se questo nuovo romanzo è un accattivante ed ottimo risultato.
Si resta conquistati da Audrey, quattordicenne in lotta con il mondo, dopo che il mondo le si è rivoltato contro. La storia narra le vicissitudini di Audrey e della sua famiglia ad un anno da un terribile evento che l'ha coinvolta quando frequentava la vecchia scuola. Il problema è quello attualissimo del bullismo. Audrey era ed è una ragazza splendida che ha suscitato apprezzamenti, tentativi di emulazione, ma anche invidie, attacchi e pesanti minacce. Scampata a quel "qualcosa di brutto", come lei lo definisce, Audrey è tutt'altro che serena: è in terapia per vincere gli attacchi d'ansia e di panico che non le permettono di condurre una vita serena e avere contatti con il mondo esterno. Per i suoi familiari e i vicini di casa è diventata "la diva", poiché copre i suoi bellissimi occhi azzurri con dei grandi occhiali scuri, con i quali si protegge dagli altri e si rinchiude nella prigione delle sue insicurezze. Soltanto il piccolo e tenerissimo fratellino Felix ha il privilegio di contemplare i suoi occhi da quando Audrey si è "persa".
È difficile essere adolescenti nel mondo globalizzato, ma è negli affetti che tutti abbiamo i nostri veri punti di forza. Per il resto, la vita è come un grande diagramma cartesiano che aggiorniamo di giorno in giorno. Può capitare di andare su e giù, ma l'importante è che la scala sia in salita.
"La vita è questo, salire e poi scivolare più giù, e ricominciare a salire. Le scivolate non contano. L'importante è che il percorso nel suo insieme vada più o meno verso l'alto. È il massimo che si può chiedere."
È uno young adult che alterna momenti in cui si ride ad altri in cui ci si commuove, momenti di puro humour a spunti di riflessione. È un romanzo spensierato e leggero che insegna i trucchi per guarire dai primi, piccoli problemi della vita. È una lettura piacevole, un ottimo romanzo d'intrattenimento, destinato a scalare i vertici delle classifiche.

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altri romanzi chick lit della Kinsella, ma è aperto ad una interessante novità ...
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Gialli, Thriller, Horror
 
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cuspide84 Opinione inserita da cuspide84    19 Giugno, 2015
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OCHE ALLA DERIVA

Una donna. Una famiglia. Una casa. Una vita. Dieci oche grasse in cortile.

Una donna sola. Una famiglia lontana da cui si è allontanata. Una casa sperduta in un paese sconosciuto. Sette oche grasse in cortile.

Una donna con le sue pastiglie, le sue domande, i suoi perchè e le risposte ai suoi interrogativi. Una casa che sa di vecchia, della vecchia che ci abitava prima; una casa che sta iniziando a rinnovare, a partire dal giardino. Sei oche in cortile.

Una donna che si taglia i capelli per non essere riconosciuta, ma da chi, visto che nessuno la conosce in quel paese? Una casa che ora ha due nuovi inquilini, un ragazzo e un cane, Sam, che la tratta come una sua simile. Cinque oche.

Natale. Un albero addobbato con palline e luci natalizie. Una cena da preparare, un regalo sotto l'albero. Quattro oche.

Una cartolina con una scritta: Arrivo.

Una donna che nasconde e cancella ogni sua traccia.

Una donna sola su un materasso. Quattro oche in riverente attesa.

Un libro veloce, schietto, insolito. Un libro che non ti aspetti, un finale non narrato che lascia l'amaro in bocca, la voglia di combattere che piano piano si perde per strada, nostalgia, malinconia, tristezza, delusione, forza, coraggio... tutto in un'unica donna.

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Romanzi
 
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    18 Giugno, 2015
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Infinito amore e infinito odio

Calista ha il volto della debolezza e la mente di una giovane strappata alla sua giovinezza da un amore trascinante. Pilar ha la voce della forza di una giovane capace di strapparsi al suo destino predisposto in un luogo dalla mentalità arretrata.
Calista vede le certezze della passione che l’aveva travolta crollare sotto i colpi del marito Alexandros, violento, e della sua opprimente famiglia, che non fa che accentuare la sua solitudine interiore. Pilar vede le certezze del suo mondo di indipendenza crollare sotto i colpi di un amore sbagliato che la tradisce quando ormai è troppo tardi.
Calista vorrebbe scappare, ma non ci riesce ed è costretta a farlo quando non vorrebbe, pagando al caro prezzo di lasciare i suoi figli un destino apparentemente avverso nella sua lotta segreta col marito. Pilar scappa da un figlio indesiderato, ma per tutta la vita rimpianto e disperatamente cercato.
Calista riesce, pur in una costante disperazione, a ritrovare se stessa e a riportare l’amore nella sua vita, ma ancora una volta la tragedia torna nella sua vita per due volte, guidata dal caso e dalla vendetta. Pilar riesce, pur in una costante inquietudine, a conservare la speranza che la porta a perseguire con insistenza le sue apparentemente utopiche ricerche dall’insperato lieto fine.
Calista, ormai vinta dal mondo e dalla vita, libera il razionale ma terribile odio accumulato nel corso di tanti anni difficili. Pilar, vincitrice sul mondo e sulla vita, libera l’amore per troppo tempo accumulato e inopinatamente messo da parte.

Catherine Dunne realizza una suggestiva trasposizione in prosa di quella che potrebbe essere tranquillamente la trama di una tragedia greca, alla quale ricorrono diversi e certamente non casuali riferimenti rintracciabili nei nomi (richiamanti la mitologia) o nei contenuti (errore, vendetta, pentimento, passione, caso). Avvincente e interessante nello svolgimento, ottima nella caratterizzazione degli inconfondibili personaggi definiti dalla loro parola e dal loro atteggiamento, la storia è tenuta insieme dal fil rouge che collega amore e speranza alla vita, con l’immancabile intervento del caso imponderabile che unisce e mette infine a confronto due donne di spiccata sensibilità e intelligenza, che non sanno quanto le loro vite abbiano rischiato di incontrarsi.

Per Calista, la fine è un nido vuoto, dove nulla è ormai rimasto.
Per Pilar, la fine è una vita ritrovata, al prezzo di un enorme segreto nascosto.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    17 Giugno, 2015
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Un thriller… nella norma

Michael Connelly è uno di quelli che in libreria ce lo hai sempre sotto agli occhi: vuoi perché commercialmente appetibile, vuoi perché ha sfornato una marea di libri, vuoi perché effettivamente bravo. Questo autore ha un po’ di tutte queste cose; è bravo, ha sfornato una marea di libri, e il suo genere è molto apprezzato dai lettori contemporanei, un genere nel quale Connelly è notevolmente preparato. A dire la sincera verità però, con “La scatola nera” non ha sfondato. Forse a causa di una scrittura non proprio fluida (soprattutto all’inizio), o forse per una trama un po’ scarna e priva di colpi di genio o di passeggiate fuori dagli schemi. Diciamo che questo è un thriller di buon livello, ma rispetto al quale non si possono avere enormi pretese o aspettative. E' vero, l'autore in certi tratti ha dei buoni spunti, dovuti anche alla grande esperienza da scrittore di genere, ma ho la sensazione che avrebbe potuto proporci qualcosa di più anche per come ha lasciato cadere alcune situazioni senza dar loro una conclusione. Non so se vorrà farne un seguito, ma forse sarebbe stato più efficace chiudere ogni cerchio in questo libro specifico, anche se comunque ciò che viene lasciato in sospeso non riguarda il caso al centro di questa storia. Magari qualcuno non se ne accorgerà nemmeno, ma a un lettore pignolo queste cose non sfuggiranno.

Nel 1992 a Los Angeles scoppiano dei tumulti, la città viene messa a ferro e fuoco e diventa scenario di saccheggi, distruzione e addirittura di omicidi e regolazioni di conti. Tra i morti, una giornalista danese, Anneke Jespersen, del cui caso si occupa inizialmente il nostro protagonista, il famigerato Harry Bosch. Nel caos generato dai tumulti però, molti di quei casi vengono archiviati, compreso quello della povera giornalista, che verrà ripreso solo vent’anni dopo dallo stesso Harry Bosch, che la considererà una sorta di sfida personale contro le ingiustizie del mondo. In queste pagine lo accompagneremo nelle sue accurate ricerche da detective esperto e appassionato, e nel corso della sua indagine si troverà di fronte ad avversità di ogni sorta: dal rischio di essere espulso dal corpo di polizia a quello di perdere la vita faccia a faccia con i suoi avversari.
Tra ex militari dal dubbio passato, poliziotti burocrati e interessati soltanto alle statistiche e un protagonista che probabilmente contribuisce da solo a mantenere vivo l'interesse, ci troveremo davanti a un thriller che in fin dei conti è nella norma e, come recita la copertina, è diventato best-seller N°1 negli USA. Ora la vera domanda è: basta davvero così poco?

"Bosch annuì. Abbassò lo sguardo sulla scrivania, sulle foto infilate sotto il piano di vetro. Casi e volti. Guardò la foto di Anneke Jespersen e di alcune altre vittime. Quelle delle quali ancora non aveva parlato."

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Fantasy
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    15 Giugno, 2015
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Intrighi e misteri.

Londra, due novembre 1880. Hugo Farquhar siede da solo al tavolino sito al centro del salotto, lo sguardo fisso davanti a sé. E' in attesa. Sa che ben presto la sanguinaria Lydia Van Leyden, il giovane e di belle speranze Lord Frederick Nightngale, la perfetta antitesi di quest'ultimo Lord Vyvyan Rosebery ed il drammaturgo di dubbio talento e scarso successo Gregory Carlston si presenteranno alla sua porta per quella che si dimostrerà essere la partita di Bridge più cara della loro vita.
Entità alquanto dubbie saranno i loro avversari e quanto misteriosi questi si dimostreranno quanto alta sarà la posta in palio. Fra sogno e realtà Alastor, il Vendicatore; Azazel, il portatore di devastazione; Behemoth, il Leviatano; Belfagor, il lussurioso e quell'ultimo raffinato visitatore; una creatura così stranamente umana e insieme così innaturale, dagli occhi dal taglio leggermente obliquo verso il basso e un colore magnetico tra il verde e il dorato, alchimia perfetta che rende difficile distogliere lo sguardo; si congederanno dai nostri avventurieri con un monito veritiero quanto insidioso:-”Non crediate che ogni vittoria sia veramente tale”-.
Venezia, 1895. Ironia della sorte ben tre dei giocatori della squadra di Hugo Farquhar sono morti. Il loro sangue è stato versato sul presupposto stesso delle loro richieste. Due i sopravvissuti agli intrighi e alle tentazioni. Il rocchetto, nello specifico, è ancora nelle mani del nostro manipolatore protagonista la cui richiesta non era infatti atta a soddisfare una propria necessità bensì a dare una speranza al fratello minore John Farquhar, affetto sin dalla tenera età di una forma particolarmente aggressiva di tisi, una malattia la cui esistenza era stata originariamente negata dal padre del malato per orgoglio e di poi diagnostica in tempi troppo avanzati per poter cercare una cura ancora efficace. Per la medicina del tempo il minore dei Farquhar non ha speranze, è condannato a morte certa.
Il brillante Sterling Maynard, cultore specializzato negli studi su Tiziano, è stato inviato nella veste di spia inconsapevole dal professor Edgar Martens, uomo di dubbia moralità e profittatore della sua posizione di rilievo nonché ricattatore di facoltosi studenti da cui esige pagamento in natura, alla residenza di Lord Farquhar onde approfondire le sue conoscenze sull'oggetto delle sue ricerche nonché di carpire involontariamente informazioni su quel mistero che ha portato il protagonista ad allontanarsi dalla politica, dalla posizione di rilievo, dalla terra natia. E senza volerlo Maynard si ritroverà preda della tela del ragno del suo ospite, in un sogno che poi forse tanto immaginazione, un gioco della mente non è.
Stilisticamente il romanzo soddisfa molteplici esigenze. Si presenta dotto, erudito, scorrevole, minuzioso nei particolari e capace di ricreare perfettamente le atmosfere ottocentesche a cui siamo stati abituati dagli autori del tempo. Contemporaneamente incuriosisce il lettore che paragrafo dopo paragrafo è affascinato dal componimento e vuol conoscere del mistero. L'impostazione ricorda quella dei grandi classici inglesi e russi sia dal punto di vista della suddivisione in parti, intervalli, capitoli, sezioni, paragrafi che dal linguaggio adottato.
Nonostante l'esploratore riesca a figurarsi parte del finale l'attenzione resta vigile perché spronata dalla curiosità di conoscere dell'epilogo. La pecca che ho riscontrato è nella eccessiva prolissità. Lo scritto funziona, affascina e cattura chi legge ma nella seconda parte l'autrice avrebbe potuto semplificare, sintetizzare invece di dilungarsi su dettagli fuorvianti o secondari alla narrazione se non altro perché così facendo destabilizza il lettore non audace, lo induce a fare una pausa dalla lettura, lo sfianca (considerate che si tratta di un testo di quasi 53o pagine). Resta comunque un buon romanzo, completo e ben strutturato.

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a chi cerca un romanzo tra sogno e realtà ben strutturato e dal linguaggio erudito.
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    14 Giugno, 2015
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Nuovi brutti tempi

Un curioso movimento delle parti apre il romanzo : la parte quarta di cinque funge da incipit e contiene in sé l’epilogo della vicenda che si andrà a leggere. Il finale vero e proprio , quinta parte “INFINE”, suggerisce sviluppi futuri e in un gioco metaletterario un nuovo processo di scrittura.
Due antagonisti, due amici, due mezzo parenti e una ragazza danno l’avvio alla narrazione: sono Domenico Guiso , Cristian Chironi e Maddalena Pes. Rappresentano le nuove generazioni delle famiglie Chironi e Guiso - la ragazza è un chiaro elemento di rottura - e in una sorta di resa dei conti sono la cartina al tornasole di una spietata degenerazione di valori, di costumi, di sentimenti, di famiglia.
Terzo volume dunque per una saga familiare che attraversando il tempo e i tempi porta il lettore ad una riflessione sugli anni più recenti della nostra storia. Vive di un’autonomia di lettura che lo rende facilmente fruibile anche a chi non ha letto i due precedenti “capitoli”. Offre una storia gradevole ma amara.
Lo stile di scrittura è efficace e veloce, spesso caratterizzato da dialoghi fulminei e inframmezzato da punti fermi che fanno avvertire l’assenza di periodi di una certa consistenza. Si avverte l’amore profondo per la Sardegna rappresentata soprattutto nei suoi aspetti paesaggistici e culturali: il profumo di Sardegna, le sue città, la sua strada statale. Traghetti e aerei che faticosamente ci allontanano dalla nostra terra per poi farci tornare con i nostri nuovi vissuti partecipi di una storia millenaria di cui siamo invisibili particelle. Letteratura regionale alla base della rappresentazione e della riflessione che si vuole offrire: difficile non riconoscere il debito a Satta de “Il giorno del Giudizio”. Opera nel complesso gradevole e avvincente ma nulla più.

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Stirpe
Nel tempo di mezzo
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Romanzi
 
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2.3
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    11 Giugno, 2015
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Come scrivere (involontariamente) racconti

In un anonimo pomeriggio, Arthur Friedland carica sull'auto i tre figli – Martin, avuto dalla prima moglie, e i gemelli Eric e Ivan – e li porta con sé ad assistere allo spettacolo di un ipnotista: per i figli si tratta di una straordinaria esibizione, per il padre soltanto di un intrattenimento per ragazzini.
Sino a quando lo stesso Arthur viene chiamato sul palco: Lindemann, l'ipnotista, spiega che lo stato di trance non fa altro che rafforzare nelle persone i propri desideri mai messi in atto. Fatto sta che, al termine dello spettacolo, il padre riaccompagna i ragazzi alle rispettive case, prosciuga il proprio conto bancario, prenota un volo e sparisce.
Martin, Eric e Ivan sono troppo piccoli per capire cosa sta accadendo. E' solo dai libri pubblicati nei due decenni successivi che realizzano come il padre, per insondabili ragioni legate a quella seduta di ipnosi, abbia deciso di inseguire il proprio sogno di diventare uno scrittore. Con successo. Mentre loro tre, fra alterne fortune, si ritrovano uomini.

Con il suo ultimo romanzo, Daniel Kehlmann prova a narrare la storia di una famiglia tenuta in sé da un comune denominatore volutamente esile: la figura di un genitore assente in spirito e corpo. Ma, poiché il filo non tiene, realizza suo malgrado una raccolta di sei racconti.
Il primo, dal titolo “Il grande Liebemann”, è la vicenda di un padre e di tre figli come già riassunta sopra.
“La vita dei santi” è la storia di Martin, il primogenito diventato prete sebbene più appassionato a questioni filosofiche che religiose... oltre che al “cubo di Rubik” (lo spigoloso oggetto meccanico-matematico che spopolava negli anni '80).
“Famiglia” vorrebbe essere una riflessione sull'avvicendarsi delle generazioni ma non è che un godibile intermezzo non troppo collegato al resto.
“Affari” è la storia di Ivan, il gemello divenuto consulente finanziario, principalmente per un unico e ricco cliente: il signor Klussen. I problemi iniziano quando scoppia la crisi finanziaria e Klussen chiede conto di alcune operazioni su titoli.
“Della bellezza” narra dell'altro gemello Eric, della sua smania di divenire un grande pittore e di come, invece, si ritrovi compagno di vita del vecchio Eulenbock (lui sì assurto a fama grazie alla pittura). Alla sua morte ne diviene principale amministratore dell'opera artistica.
Infine il sesto capitolo, “Stagioni”, che costituisce il (malriuscito) tentativo di riannodare l'intera vicenda, dopo il colpo inferto dalla malasorte ad un membro di quella singolare famiglia.

Vi è, in tempi recenti, una tendenza letteraria a scomporre e ricomporre vicende di vita sottraendo loro linearità. Se il tentativo riesce, si possono avere dei capolavori letterari dell'ultima ora, ma più spesso i risultati sono poco edificanti. Pare essere il caso di questo libro, che ha il torto ulteriore di non sfruttare alcuni spunti ammirevoli (si veda il capitolo “Famiglia”), finendo per regalare davvero poche emozioni.
Da segnalare, infine, un riferimento “ingannevole” nella terza di copertina, dove la vicenda è così sintetizzata: “Kehlmann racconta tre fratelli (e un padre assente), tre impostori, ognuno a suo modo, che hanno saputo crearsi un'esistenza quasi normale. Ma quando scoppia l'estate della crisi finanziaria del 2008, gli incubi diventano reali e si spalanca l'abisso pronto ad inghiottirli”. Niente di tutto questo: la crisi finanziaria entra solo relativamente nel racconto, e non spalanca nessun particolare abisso (il fratello messo peggio riuscirà persino a trarne beneficio). Perché, allora, stilare un “coccodrillo”?

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Gialli, Thriller, Horror
 
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cuspide84 Opinione inserita da cuspide84    10 Giugno, 2015
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NOVA NOBILITAS ROMANA

In una Roma dei giorni odierni, accaldata da temperature estive, vivono le loro vite i protagonisti di questo libro:

Sveva è una giornalista alle prime armi, che si divide tra lo scrivere il pezzo che può finalmente porla sotto una nuova luce agli occhi del suo direttore e il capire cosa vuole il suo ragazzo Roberto dalla loro storia;

Alessandro, professore di Antropologia passa le sue giornate tra lezioni all'università, lezioni di arti marziali e lezioni di storia antica cui lo sottopone periodicamente il padre, Paolo Altieri, noto amante di pezzi unici e rari che narrano nel loro silenzio storie lontane e sconosciute ai più;

Giovan Battista Morelli, toscano di nascita, romano di adozione, ha un negozio di antiquariato che nasconde misteri in ogni suo angolo più nascosto.

Ed è proprio un'antica stele fenicia la causa di tutto: ma cosa potrà mai centrare un pezzo da museo con una scomparsa, un rapimento e un omicidio?

Antichi cunicoli sotterranei si apriranno sotto i nostri occhi e verranno percorsi dai nostri piedi increduli e insicuri: un mix tra Indiana Jones, Django e La mummia, con un finale inaspettato che lascia il lettore a bocca aperta, perchè oltre a non aspettarsi un retroscena del genere, ahimè, la storia non finisce qui, anzi... nelle ultime pagine si apre lentamente il sipario a una nuova avventura di cui si possono solo conoscere i protagonisti e la location in cui si svolgerà il sequel di questo thriller dal gusto antico.

Il libro si apprezza soprattutto per la storia e per i monumenti, spesso veri e unici protagonisti indiscussi; la trama è ben delineata, peccato per un po' di confusione e di fretta, che vengono fuori in alcuni capitoli, e per la fine che è davvero nebulosa: sono chiare si alcune cose, ma altre no e, ahimè, da nessuna parte si era percepita la presenza di un seguito!

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per chi ama Roma e le sue verità nascoste, per chi ama gli intrecci e le storie di società segrete che si tramandano leggende millenarie di generazione in generazione!
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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    10 Giugno, 2015
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GENERAZIONI NASCOSTE

Dopo aver letto le 655 pagine di Leonardo Padura, cubano classe 1955, ti capita di arrivare alle medesime conclusioni, a dir vero ovvie, a cui arriva il protagonista del romanzo il disincantato ex poliziotto Conde: la storia e la vita sono un groviglio di fili, « in cui non si sapeva mai dove determinate fibre si incrociassero e si annodassero per dar forma ai destini delle persone e persino delle storie dei paesi». Vi è dunque un filo conduttore che lega eventi lontani fra loro nello spazio e nel tempo, la ricostruzione certosina offerta da “Eretici” lo ribadisce nelle diverse parti di cui è suddiviso il romanzo: religioni, ideologie e regimi totalitari si oppongono all’arte e agli artisti, in quanto nelle loro opere essi esprimono l’anelito dell’essere umano alla libertà di scelta ossia di essere “eretici”. Il centro del dramma è dunque un quadro di Rembrandt raffigurante il Cristo. Lo porta a Cuba nel 1939 una nave, su cui sono imbarcati i proprietari, i membri della famiglia Kaminsky, che assieme ad altri ebrei cercano scampo dalla Germania nazista. Ai profughi viene impedito lo sbarco, neppure altri Paesi li vogliono(ti ricorda qualcosa?) e l’imbarcazione riporta indietro verso i forni crematori i suoi passeggeri. Chi fine ha fatto la preziosa tela? Essa ricompare nel 2007 a Londra e Elias Kaminky parte per Cuba, per conoscere la verità sulla storia della sua famiglia, a cui il quadro è legato. Ad aiutarlo nell’indagine trova Conde. Scavare nel passato è impresa ardua: la scomparsa del Cristo è indissolubilmente connessa ai delitti della Cuba degli anni 30 e del regime di Batista. Ma la tragedia si ripresenta uguale al di là delle epoche e dei contesti: carnefici spietati e vittime indifese riempiono le pagine di documenti dimenticati, basta disseppellirli dall’oblio. Così nelle peripezie del quadro si riflettono le sofferenze e i tradimenti subiti da tutti coloro che ne sono venuti a contatto a cominciare, nell’Amsterdam del 1647, da chi lo ha dipinto, lo stesso Rembrandt, e da colui che vi è dipinto, il giovane ebreo Elias aspirante pittore contro i dettami della religione, fino all’adolescente ribelle Judy uccisa nella Cuba del 2008. A tirare le file del tutto è il disilluso Conde, la cui sofferta visione fa da filtro a un ritratto dell’isola della rivoluzione di Fidel Castro. Ai fortunati che si salvano, la Storia concede solo di essere «generazione nascosta».

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gli altri romanzo di Padura Fuentese..e gli scrittori cubani in genere che parlano della situazione del loro paese
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Romanzi autobiografici
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    09 Giugno, 2015
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Susanna

Se in linea di massima le  biografie esaltano il percorso di una vita unendo l'evolversi dei fatti all'incedere della personalita', nell'ultimo lavoro di Susanna Tamaro troviamo prevalente la biografia di un'anima, di un carattere, di un cuore, di una mente.
In brevissimi capitoli, che mediamente si collocano in un paio di pagine, afferriamo l'individualita' di Susanna, quel suo modo di essere che fin da piccola l'ha caratterizzata e che oggi sceglie di condividere con il grande pubblico. 
Così la bambina amava pantaloni e magliette invece che le piu' consone gonnelline, preferiva giochi piu' maschili alle bambole. E poi i lunghi silenzi o i pianti ingiustificati, tratti che la unsero come soggetto anomalo e problematico . Invece la diversita' non era tanto un segno di sottrazione quanto una addizione di attributi che la rendevano piu' se stessa che mai. 
Il tempo sereno trascorso nell'oblio della contemplazione della natura, una spiccata sensibilita' che la portava a recepire come sua la sofferenza altrui: un malato, un gattino morente, una carota calpestata. 
Il racconto si dipana in riflessioni frequenti sull'evolversi di questa societa' bulimica di assenteismo, dove il sociale diviene network, dove le linee guida si chiamano media, dove i sensi sono sempre piu' otturati da auricolari e display. L'umano filtrato da uno schermo perde umanita' mentre l'omologazione affonda il secchio nel pozzo dei desideri.
 E ancora il viaggio spirituale della scrittrice in una fede che cerca il supporto dell'assoluto ovunque esso sia , nella religione come nella natura.
Bella e scorrevole la scrittura, il libro non e'un lavoro indimenticabile ma si legge velocemente e piacevolmente, a maggior ragione per chi condivide  una buona fetta del cuore pensante di Susanna. Buona lettura.

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    07 Giugno, 2015
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La terra dell'odio

Sebastiano Vassalli pubblica in questi giorni un piccolo saggio per ricordare i cento anni di storia dell'Alto Adige annesso all'Italia.
La data esatta del centenario cadrà nel 2019, ma l'autore si prepara con questo scritto che non ha la pretesa dell'esaustività, ma fissa i tratti salienti di un pezzo di storia politica e sociale complessa e dolorosa.

Per chi conosce Vassalli attraverso la lettura dei suoi precedenti romanzi, troverà tra questa manciata di pagine un volto prettamente giornalistico, lontano dalla colorata ed intensa vena narrativa che lo contraddistingue.
Spogliato della veste di narratore, l'autore fissa in tappe e volti precisi, il percorso storico dell'annessione e del post annessione di un popolo, le linee politiche succedutesi nei decenni, analizzando per sommi capi l'evoluzione della “questione Sud Tirolese” dal periodo fascista ai giorni nostri.

Scorrono in maniera veloce, senza scivolare in una eccessiva pedanteria politica, personaggi come Ettore Tolomei, voce del pensiero fascista e braccio esecutore in loco durante il Ventennio, Silvius Magnago e l'indipendentista Andreas Hofer.

La lettura de “Il confine” ha il pregio di ricordare uno spaccato importante della storia del nostro paese, divenendo ottimo strumento per i giovani di oggi che poco possono attingere dai testi scolastici sull'argomento. Naturalmente Vassalli offre degli spunti che devono essere trampolino per approfondimenti.

Come classificare il testo; una ricostruzione schematica degli eventi che hanno toccato l'Alto Adige, di facile lettura per un vasto pubblico, tuttavia per chi segue Vassalli da sempre, una volta giunti all'ultima pagina si viene colti da un senso di vuoto.
Manca il cuore, il pathos, manca quella vena calda che passa attraverso gli occhi della gente comune.

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Melandri: Eva dorme
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Romanzi autobiografici
 
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siti Opinione inserita da siti    06 Giugno, 2015
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L’ultimo debito

Boris Pahor, scrittore sloveno di cittadinanza italiana, nato nell’agosto del 1913, prossimo a compiere 102 anni, è la Storia che può ancora parlare, ricordare e testimoniare. In realtà lo ha fatto per molto tempo: è autore di una trentina di volumi, anche se il suo nome viene più facilmente associato a “Necropoli” la cui prima edizione in lingua italiana fu quella pubblicata dal Consorzio Culturale del Monfalconese . Questo romanzo autobiografico sulla sua prigionia a Natzweiler-Struthof è stato scritto nel 1967 e tradotto in venti lingue, Fazi editore ha avuto il merito di riproporlo nel 2008 all’attenzione dell’Italia.
“Triangoli rossi” nasce invece da una sorta di risentimento verso una Memoria parziale, quella degli ultimi tempi che ricorda ma ripercorre sempre gli stessi sentieri omettendo una parte di storia meno conosciuta ma altrettanto dolorosa. Boris Pahor fu arrestato nel 1944 dopo aver prestato servizio militare nell’esercito italiano fino all’8 settembre del ’43 quando rientrò clandestino a Trieste per aderire alla resistenza slovena. Fu arrestato da sloveni collaborazionisti proprio nella sua città e fu internato per motivi politici: il suo numero venne dunque associato al triangolo rosso che nel sistema dei contrassegni nazisti indicava i prigionieri politici ma in realtà ,molto più semplicemente ,ogni oppositore al nazionalsocialismo.
Si racconta in quest’opera un genocidio misurato in termini di vite umane certo, ma partendo da un primitivo genocidio culturale, quello compiuto ai danni di una minoranza annessa all’Italia con Il Trattato di Rapallo del 1920 e progressivamente snazionalizzata durante il ventennio fascista. Si racconta altresì di una geografia di confine che ha visto il nazifascismo occupare la Slovenia nel 1941 e che alle misure della “circolare 3C” la quale prevedeva rastrellamenti, internamenti, deportazioni, esecuzioni sommarie ha risposto con una forte Resistenza.
I continui rimandi a eventi già narrati nelle sue precedenti opere permettono di collocarli, grazie ad un ricco ma essenziale apparato di note, con una certa sicurezza e si ha l’impressione di percorrere a ritroso una vicenda personale e storica insieme.
Non si leggerà nel dettaglio di orrori, si prenderà atto invece dell’esistenza di campi di concentramento atipici per collocazione geografica ( montagna: 800 metri organizzato con la tecnica del terrazzamento, uno per tutti), di intellettuali morti per un ideale, di giusti dimenticati e sconosciuti ai più, di uomini che da internati riuscirono a sabotare il volo di morte e distruzione dei V2 che erano costretti a creare in gallerie scavate nel sottosuolo, di trasporti forzati da un campo all’altro, di ultimi e precipitosi sfollamenti finiti in tragedie immani.
Il volume è agile e snello, ricco di informazioni, strutturato in tre parti funzionali: prima parte- la mia esperienza, seconda parte- gli altri lager nazisti, terza parte- i campi fascisti, segue l’elenco delle carceri, in Slovenia e in Italia, da cui si veniva deportati nei campi.
Ogni breve capitolo che descrive i campi termina con la sezione PER APPROFONDIRE: nome del sito da visitare, indirizzo completo, numero di telefono e fax, sito internet.
Boris Pahor ha potuto così sdebitarsi con tutte le persone incontrate nei campi di concentramento e che in qualità di interprete e di infermiere non ha potuto aiutare “a evitare il sadico torchio del male”.

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Necropoli
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Romanzi
 
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    05 Giugno, 2015
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AL LIMONE!

Non avevo mai letto ancora nulla della consistente produzione narrativa (Trainspotting è l’opera più famosa) di Irvine Welsh, nato in Scozia: l’impatto con la sua sporca Edimburgo e i suoi sporchi personaggi è stato forte. Tra episodi grotteschi e squarci commoventi, l’autore ci accompagna in un viaggio nel suo mondo di bassifondi, dove l’umanità si mostra fetente e sublime, comica e tragica.

Terry Lawson, il protagonista principale, ha una personalità complessa: tassista truffaldino per necessità; attore porno per diletto; spacciatore per arrotondare. Padre e nonno a tempo perso, la sua ricetta per curare i mali del mondo e le complicazioni affettive è semplice e, in molti casi, potrebbe risultare efficace: whisky, coca e sesso, sesso e ancora sesso. Sex addicted felice, non disprezza i gruppi di auto aiuto: l’ambiente ideale per incontrare anime gemelle con cui fare, ovviamente, sesso. Al limone!

La grande, grossa, simpatica canaglia, edonista per sfuggire alle complicazioni, sarà messa alla prova da un destino più canaglia di lui, che scoperchierà il meglio e il peggio che ribolle sotto godereccia semplicità. Accompagnato da un imbianchino fragile di intelletto ma ricco di umanità e da un milionario americano dalla fede rampante, il Nostro vivrà una lunghissima rutilante avventura: sperimenterà la mistica del golf e del whisky; sventerà un suicidio; si imbatterà in un omicidio per caso; scoprirà torbidi segreti di famiglia e infine cadrà in vicende dove l’incesto non sembrerà certo il peggiore dei mali. Al limone!

Anche Edimburgo, con i suoi pessimi modi e il suo clima “crudo”, è uno dei personaggi più importanti della narrazione: i suoi abitanti, veri scozzesi (da non confondere con i seri ed efficienti inglesi) affrontano l’uragano DùPalle (metafora del referendum) così come affrontano la vita: barricati nei pub, senza prenderla sul serio, sfottendola e sfottendosi, fumatori contro sniffatori. Al limone!

Linguaggio molto parlato, scurrile quanto basta, si mantiene vario e non troppo monotono grazie all’alternarsi continuo delle voci narrative, che passano dalla lieve voce esterna dell’autore ai protagonisti, immersi fino al collo negli eventi, che narrano e si raccontano in prima persona e senza risparmiarci intercalari, bestemmie e scelte lessicali estreme.

La narrazione ci obbliga ad affrontare i lati più grotteschi dell’esistenza, senza risparmiarci un umorismo cupo e pesante; ma i personaggi sono vitali e ben descritti fin sotto la pelle e la storia è grande, ben raccontata. Non mancano nemmeno i risvolti poetici e commoventi.
“Ma se uno c’ha buon cuore certa gente ci vuole piantar dentro un coltello. Quel buon cuore lì, lo vedono come una loro vittima, come il cerchio di mezzo delle freccette.”

Si ride, in questo romanzo dal sapore nero, boccaccesco, mai superficiale. Una storia importante, che si potrebbe centellinare e assaporare con calma se il linguaggio e i sapori non fossero sempre così accesi, passando con salti bruschi dall’asprezza alla truculenza, dal miele al sangue. Un pasto particolare, consigliato soprattutto, ma non soltanto, a lettori e stomaci forti.

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Classici
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    03 Giugno, 2015
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Piccolo mondo moderno

Piccolo Mondo moderno – Fogazzaro

Se il passato, quando ancora è presente appare così duro e difficile non si può non trovare una speranza nel futuro che apparirà allora così roseo e ricco di doni per i figli e solo quest'illusione potrà dare la forza di vivere e sopportare, ma forse è bene portarsela nella tomba quest'illusione.
Con questa sensazione ho chiuso il volume, naturale continuazione di “Piccolo mondo antico”, in cui è narrata la vita di Pietro Maironi, figlio di Franco e Luisa.
Il tratto autobiografico che Fogazzaro ha dato a tutta la vicenda non riesce a donare quella vivacità che invece risulta esserci nel precedente volume; i personaggi seppur numerosi e interessanti sono risultano incisivi e i protagonisti, Pietro e Jeanne appaiono superficiali, pur volendo interpretare sentimenti molto profondi.
Ciò che si va a rappresentare è un mondo moderno pieno di intrighi e meschinità, ma ricco e agiato che si pone in netta contrapposizione con un mondo antico in cui la povertà dilagava, ma la forza delle idee e dei valori vinceva su tutti, vera colonna vertebrale di una società che si stava formando.
Sono molti i livelli sul quale si svolge la narrazione, politico, sociale, personale, ma nessuno di questi appare ispirato, così come nessun tema risulta davvero importante, anzi sembra che tutto venga oscurato dalla crisi del protagonista che cerca in modo disperato la propria strada senza trovarla, combattendo con sentimenti contrastanti.
Le parti del racconto che sfiorano la poesia e che trasmettono emozioni sono quelle in cui si ritrovano le atmosfere di Oria, il piccolo cimitero con le lapidi, la corrispondenza tra Franco e Luisa, il resto appare freddo, lontano, inutile.
Analizzando più in profondità questa scelta stilistica, così lontana dal precedente non può non sorgere il dubbio che l'autore abbia voluto sottolineare il degrado a cui il mondo tende, allo stillicidio di valori che non potrà essere fermato se non con la fede.
Molte volte durante la lettura si scorge la volontà di analizzare gli animi dei personaggi, ma è chiaro che qualcosa non funziona, non riescono a far breccia nell'immaginario; tutto il mondo politico, per esempio, appare soltanto meschino, triste e ancora una volta inutile.
Non si può non consigliarne la lettura perché in ogni caso, emozioni a parte racconta uno spaccato della nostra storia ed è anche attraverso di esso che si può forse imparare a comprendere un po' meglio il nostro presente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    03 Giugno, 2015
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La fabbricante di angeli e altri misteri a Fjällba

Ottavo romanzo e ottavo omicidio per la coppia investigativa Erica Falck e Patrick Hedström.
Ormai sono una coppia felice anche nella vita: lei, scrittrice di successo; lui, poliziotto presso il locale commissariato; una figlia e due gemelli, tutti al di sotto dei quattro anni.
La loro routine quotidiana si mescola agli efferati omicidi che avvengono tra i fiordi.
Ancora una volta, l'ambientazione, suggestiva e privilegiata, è Fjällbacka, nell'arcipelago svedese.
In quest'indagine, IL SEGRETO DEGLI ANGELI, come in tutti i gialli di Camilla Läckberg, i misteri si sovrappongono e le storie dei personaggi si intrecciano nel presente e nel passato.
Se la coppia Erica e Patrick è in perfetta armonia, sua sorella Anna e Dan non se la passano più tanto bene e così pure i personaggi secondari protagonisti di questa intricata indagine.
Lei, Ebba, ne ha passate tante, ma è intenzionata a ricominciare daccapo e vuole farlo con suo marito, anche se è veramente difficile stargli vicina. Fanno ritorno a Valö, la splendida isola dell'infanzia di Ebba, affacciata sulle casette bianche e le rocce scoscese di Fjällbacka, nell’idillio dell’arcipelago svedese. Con suo marito, vuole impegnarsi nel progetto comune di rimettere a posto la colonia che le appartiene e che non ha più rivisto dal giorno in cui, una vigilia di Pasqua di molti anni prima, il 1974, la sua famiglia scomparve nel nulla, lasciando dietro di sé solo una tavola apparecchiata a festa e una bambina di un anno che vagava smarrita.
Nessuno fu mai in grado di stabilire cosa fosse realmente accaduto e cosa ne fosse stato di quella famiglia, apparentemente normale, come tante altre.
Anche questo è un mistero che da sempre stuzzica la curiosità di Erica Falck, la quale, ora che Patrick se ne deve occupare, è entusiasta all’idea di poter riprendere in mano la sua personale indagine su quell’oscura storia.
Ebba è in pericolo: qualcuno vuole farle capire che deve assolutamente allontanarsi da Valö.
C'è un segreto da scoprire, mescolato a violenza e rancore, e qualcuno teme che possa venir rivelato.
Patrick non la vorrebbe tra i piedi, ma Erica riesce sempre ad escogitare qualcosa per non rimanere in disparte.
Inoltre, la storia di Ebba non è legata soltanto a quell'evento, ma anche ad una sua antenata, la quale, all’inizio del secolo scorso, a Fjällbacka venne soprannominata "la fabbricante di angeli" a causa dei suoi riprovevoli crimini.
Questi sono tutti i punti di partenza da cui si dipana un interessante intreccio, seguendo la scia di sangue lasciata dagli eventi, pronta a macchiare le acque incontaminate dei fiordi.
C'è davvero tanto in questo nuovo, sempre molto complesso, ottavo thriller della Läckberg, che mescola efferati delitti a sereni ritratti di famiglia. La Läckerg, però, ci insegna che c'è sempre qualcosa che va oltre le apparenze. Nonostante la trama avvincente, che unisce eventi di fantasia a fatti di storia svedese, i misteri sono talmente tanti che qualcuno resta in sospeso. Forse è una strategia narrativa della Läckberg che ha già delle idee per un prossimo romanzo. Nel frattempo, tiene accese su di sé tutte le aspettative del suo pubblico di lettori, desidero di metterne insieme i tasselli nella prossima indagine.

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La principessa di ghiaccio
Il predicatore
Lo scalpellino
Il bambino segreto
La sirena
Il guardiano del faro
L'uccello del malaugurio
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Romanzi
 
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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    01 Giugno, 2015
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La magia delle cose semplici

Non ci siamo persi neanche questa volta, siamo rimasti nel quartiere, accanto a tutti i personaggi di questo delizioso racconto. Un uomo, Deragane, distaccato dalla società, isolato, sicuramente solo e nostalgico, altri personaggi che in qualche modo riescono a ridestarlo.
La memoria e il tempo sono ancora una volta le chiavi di questa storia, sono chiaramente un simbolo distintivo di questo eccezionale scrittore francese, Modiano scrive ancora con estrema semplicità, un tratto pulito, essenziale, diretto e conciso. La grandezza delle sue opere non risiede in leziosi trucchi strabilianti, si rimane a bocca aperta grazie alla semplicità delle sue parole, che una dopo l’altra compongono un concentrato di immagini, sensazioni, ricordi e sentimenti.
Modiano ci stupisce ancora una volta giocando con il tempo, ci fa vedere Parigi in diversi periodi storici, e lo fa come se fosse possibile una contemporaneità cronologica. Le sue fotografie sono lampi di luce colorata che imprimono la nostra immaginazione, non è necessario che ci descriva nulla, ha la magia di trasmetterci tutto con pochissime parole.
Un giocoliere che si destreggia con birilli fatti d’aria, il tempo scorre avanti e indietro, sprazzi di memoria si affacciano qua e là nel tentativo di ricostruire una storia o parte di essa, o una nuova interpretazione di quello che è realmente accaduto. L’amore, il ricordo spesso difficoltoso, doloroso, la nostalgia e l’abbandono, tutti temi presenti in questo brevissimo romanzo, gli stessi temi presenti in molte altre opere di questo straordinario autore.
E’ importante sottolineare il fantastico connubio tra tempo e memoria, due aspetti correlati, tanto importanti per la nostra esistenza quanto difficili da miscelare insieme in una storia. Facilissimo sarebbe perdersi tra gli infiniti corridoi di Kronos e Mnemosine, se non fosse per la guida e l’estrema maestria di questo grandissimo scrittore, ci tiene per mano e ci accompagna fino alla fine, non ci racconta tutto, vuole che parte di noi entri nella storia e per quanto mi riguarda ci riesce.
Si può avere la sensazione di non aver capito tutto, ma si rimane affascinati quando si capisce che in realtà Modiano ci ha invitato nella sua storia, ci ha lasciato libertà di interpretazione e ci ha spinto a riflettere, fornendoci semplicemente una chiave.
Adoro leggere Modiano perché ogni volta instilla in me una molteplicità di immagini, senza descrivermi praticamente nulla, mi stimola la fantasia e l’immaginazione, mi suggerisce domande, mi fa pensare, non mi regala un quadro già dipinto, mi fornisce tutte le istruzioni per farlo come piace a me.
Straordinario.

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Romanzi
 
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3.3
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Belmi Opinione inserita da Belmi    31 Mag, 2015
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Piacevole, ma mi aspettavo di più

Iniziare a leggere un libro sapendo che l'autrice è un ex insegnante di lettere, almeno nel mio caso, mi aveva un pò suggestionato ed ero già pronta ad un determinato stile.

Invece Margherita Oggero mi ha sorpresa; ho trovato uno stile leggero, piacevole, in alcuni casi un pò sfrontato ed ironico ma ben fatto, con la scelta dei vocaboli non casuale, ma con cognizione di logica.

L'autrice ci racconta della sua Torino, anche se non da molto peso alla collocazione geografica, a parte alcune specifiche, potevamo benissimo essere in qualsiasi altra città del nord o perlomeno io non ho riconosciuto la Torino che ho visto.

Quello su cui invece punta l'autrice è la distinzione di classe sociale. I due protagonisti sono Marta e Michele (il romanzo è un alternarsi dei pensieri dei due).
Marta è archivista; fa parte della "Torino bene", ha un buon lavoro trovato grazie anche agli agganci del padre cardiochirurgo e frequenta persone del suo ambiente.
Michele è un "terrone" che si è trasferito da piccolo al Nord con la famiglia, per poi rimanere ad abitare con il nonno. E' un uomo che si è fatto da solo (ed anche grazie al sudore del nonno barbiere) e dopo la laurea in Ingegneria, ha deciso di seguire il suo sogno ovvero quello di guidare i Frecciarossa.

Come mai la vita di queste due persone socialmente diverse si incrocia? Semplice, sono dirimpettai ed entrambi hanno la passione di tenere d'occhio l'altro.

E' un romanzo che ho trovato molto piacevole come lettura, però se avete notato, come contenuti mi sono tenuta piuttosto bassa.
Con lunghe digressioni, la Oggero ci racconta la vita dei due, ognuno con i suoi traumi, andando a focalizzarsi su punti a mio avviso meno incisivi, tralasciando altri che avrei preferito più approfonditi.

Nel suo "minestrone" inserisce tantissimi ingredienti, forse anche troppi, senza portarne molti a fine.

Insomma, da una ex insegnante di lettere mi aspettavo qualcosina in più. Comunque il romanzo è piacevole, si legge velocemente (223 pagine), e pur essendo una copertina morbida non è economico. La nota positiva è che è la prima volta che mi trovo a leggere di un protagonista che guida i Frecciarossa.

Vi lascio con questa frase:

"Il tarlo del legno scava paziente e silenzioso labirinti di gallerie, lasciando a testimone della sua presenza il quasi impalpabile rosume. Così fa l'ossessione: nasce inavvertitamente, occupa uno spazio minimo nella mente, poi si ingrandisce, proliferazione di curiosità. attrazione sgradita ma irrinunciabile".

Buona lettura!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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2.3
Stile 
 
3.0
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    30 Mag, 2015
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Non fate il nome di Izzo invano...

Forse la mia sarà una voce fuori dal coro ma questo nuovo romanzo di Bruno Morchio non mi ha entusiasmato e credo che ben presto finirà nel dimenticatoio della mia memoria, considerata la scarsa incisività della storia e dei personaggi.
E prima che ciò accada mi affretto a descrivervi brevemente la trama: il Greco è un agente segreto, o meglio dovrei dire ex agente segreto, perchè dopo aver militato per diversi anni nel cosiddetto nucleo Gamma, un gruppo di sicurezza nazionale dell'intelligence italiana, decide di ritirarsi a vita privata in seguito alla morte della moglie a causa di un incidente stradale, poco fortuito ma ben programmato - secondo il Greco - da chi aveva interesse ad allontanarlo dalle indagini che aveva intrapreso e che avrebbero dimostrato coinvolgimenti di personaggi di spicco della sicurezza nazionale in traffici di scorie radioattive verso il nord Africa.
Il Greco non avrebbe certo rinunciato alle sue indagini e, soprattutto, non avrebbe lasciato impuniti gli assassini di sua moglie se fosse stato solo, se non avesse un figlio di pochi anni da far crescere e proteggere.
Decide quindi di abbandonare la sua attività, si ritira col figlio Alessandro in un isolato casolare della Toscana lontano dalla città in cui avevano vissuto fino ad allora, Genova, col solo scopo di mantenere Alessandro al sicuro.
Tuttavia il Greco sa benissimo che la vendetta è un piatto che va servito freddo e sa anche che non potrà essere lui a servirlo, visto che una grave malattia lo porterà entro pochi anni alla morte.
Sceglie perciò di lasciare un 'testamento' al figlio, un testamento che pretende morte e vendetta, ma non la impone, dovrà essere Alessandro a decidere se portarlo a termine o rinunciare.
In realtà il Greco ha lasciato al figlio anche un'eredità ben più cospicua: infatti negli anni trascorsi nel casolare in Toscana ha sottoposto il figlio ad una vera e propria educazione militare, tramandandogli tutta la sua esperienza e la sua conoscenza nell'ambito dei servizi segreti, e addestrandolo all'uso delle armi e delle più letali tecniche di combattimento.
Il Greco ha quindi trasformato il figlio in una vera e propria macchina da guerra, lasciandolo però all'oscuro del vero motivo per cui ha fatto ciò.
Immaginate quindi lo stato d'animo di questo ragazzo, Alessandro, che trascorre gli anni della sua adolescenza riducendo ai minimi termini il contatto sociale per dedicarsi a continui allenamenti fisici o battute di caccia col padre per affinare la sua mira e la sua abilità nel colpire a morte.
E' solo con la scomparsa del padre che Alessandro scopre la ragione di tutto ciò, è solo allora che scopre la verità sulla morte della madre sino ad allora associata ad un maledetto incidente stradale ed invece voluta ed architettata dai nemici del Greco.
E non ha dubbi Alessandro, non ha ripensamenti: tocca a lui ora finire quello che il padre ha iniziato, tocca a lui portare a compimento il testamento del Greco.
La storia entra così nel vivo dell'azione, Alessandro torna nel capoluogo ligure dove ancora vivono gli altri componenti del nucleo Gamma verso i quali sono indirizzati i sospetti del padre e ha così la possibilità di mettere in pratica tutti i suoi insegnamenti, architettando un piano che lo porterà alla verità e alla vendetta promessa.

Alcuni hanno paragonato l'autore di questo romanzo, Bruno Morchio, a Jean-Claude Izzo, il padre della ben nota trilogia marsigliese iniziata con Casino Totale: ecco, questa mi sembra una vera eresia.
Ho letto e amato la trilogia marsigliese e posso quindi affermare che l'unica caratteristica in comune tra le due opere è quella di aver ambientato la storia in città che potremmo quasi considerare 'gemelle', dal punto di vista storico e culturale, città antiche, il cui splendore, la cui vera anima non è in superficie, ma è nei vicoli, nelle stradine intorno al porto, nei quartieri più difficili e malfamati; non per niente Izzo scriveva: 'Non c'è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Marsiglia non è una città per turisti.'
Ma i romanzi di Izzo sono capolavori del genere noir, Izzo è quasi un poeta quando descrive la sua Marsiglia, i suoi colori, l'odore dei pastis e delle birre sui tavolini lungo il porto, i versi dei gabbiani, la sua luce al tramonto... Izzo rende viva la sua città, la descrive con una tale musicalità che se ne scorge veramente l'anima, impossibile non rimanerne affascinati.
Ed i personaggi dei suoi romanzi sono quasi alter-ego della città, sono marsigliesi e come tali ne mostrano tutte le sue peculiarità, sono passionali, violenti, cupi ma veri.
Niente insomma a che vedere con i personaggi di Bruno Morchio: lo stesso Alessandro, il Greco junior, in confronto a Fabio Montale (protagonista della trilogia marsigliese) sembra quasi una macchietta.
E poi la storia: tralasciando il finale che a mio parere rasenta quasi il ridicolo, ho faticato molto a digerire alcune parti del racconto. Degli esempi? Non appena giunto a Genova, Alessandro dopo un'amichevole chiacchierata con uno dei vecchi amici di suo padre, decide sapientemente di piazzare una 'potente microspia' nella cintura dell'ignaro malcapitato.
E su quanto poi Alessandro riuscirà ad intercettare grazie a questa microspia si basa gran parte della sua indagine. Ora, anche supponendo che Alessandro dopo tanti anni di allenamento sia diventato un abile borseggiatore/manipolatore tale da riuscire a piazzare una microspia in una cintura senza destare il minimo sospetto, pur supponendo che l'uomo in questione abbia la sensibilità di un elefante tale da non sentire un oggetto estraneo nella cintura, ma come posso accettare che questa microspia funzioni per giorni e giorni senza il minimo problema? Devo quindi dedurre che l'uomo con la microspia nella cintura sia stato costretto dall'autore ad indossare gli stessi pantaloni per tutta la durata del romanzo?
Ed ancora un altro esempio: l'addetta alle intercettazioni è nel romanzo un'amica di Alessandro, un'altra vecchia conoscenza del Greco nonchè anch'ella membro del nucleo Gamma, la quale durante le conversazioni telefoniche con Alessandro per riferirgli il riassunto delle intercettazioni tramite la suddetta microspia si preoccupa di non fare nomi ed indirizzi essendo la linea poco sicura ma non esita ad usare un vocabolario tipicamente siciliano, essendo tra l'altro l'unica siciliana del gruppo e quindi sicuramente individuabile senza il minimo dubbio!!!
Insomma, che dire, se i nostri servizi segreti fossero così .. ingenui, consentitemi il termine, sarebbe più conveniente ed economico per tutti chiudere baracca.

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Piuttosto leggetevi la trilogia marsigliese di Jean-Claude Izzo...
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    30 Mag, 2015
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Marco lo sceneggiatore

Un inedito Sandro Veronesi propone un saggio sul Vangelo di Marco letto senza mai porsi il Problema: cioè senza mai pronunciarsi sul contenuto e sulla sua verità. Il Vangelo viene letto come la sceneggiatura di un film d'azione, film da cui vengono sottratti tutti i contenuti cioè le parole pronunciate da Gesù e riportate soprattutto dagli altri Evangelisti. Vengono osservati solo i fatti e la loro sequenza come in un film di Tarantino: gli spostamenti, i miracoli, fino al tradimento, all'arresto, alla morte, alla sepoltura e alla resurrezione con l'apparizione alle donne di Gesù. L'ossatura del Vangelo viene analizzata passaggio per passaggio e lo sceneggiatore viene identificato: è il ragazzino di 13 anni che fugge nudo dall'orto degli olivi durante l'arresto di Gesù (come non solo Sandro Veronesi, ma molte fonti affermano).
L'abilità del ragazzino come sceneggiatore nel coinvolgere e convertire il suo pubblico viene ampiamente dimostrata. La sceneggiatura è perfetta. Ma c'è un problema che non viene affrontato apertamente e resta sullo sfondo. Un film può essere convincente ma raccontare una storia assolutamente di fantasia. Può essere coinvolgente ma non per questo convincerci della realtà dei fatti. I contenuti (quelli che sono riportati più largamente da Giovanni) non sono mai discussi o affrontati nel saggio volutamente. Il Vangelo è guardato solo come macchina da conversione. In ogni caso, anche escludendo il messaggio contenuto, il Vangelo di Marco come sceneggiatura per un film d'azione porta allo stesso nodo: vero o falso. O Gesù ha addestrato i discepoli alla perfezione, premeditando ogni cosa, anche la sua morte,scegliendo le persone più adatte a scrivere o tramandare la sua storia così come lui voleva che fosse riportata (cosa estremamente difficile vista l'accertata ottusità dei discepoli), oppure bisogna credere a quanto raccontato.
A me sembra che Sandro sia partito sposando in cuor suo la prima ipotesi. Ma poi, strada facendo, credo che si sia reso conto che era altrettanto improbabile della seconda, che si sia appassionato al personaggio Gesù, fino a desiderare o a immaginare che la sua storia potesse essere vera e non solo bella. Certo, se non fosse vera, bisogna riconoscere che Gesù è stato il più grande editor di tutti i tempi nell'intravedere nel ragazzino 13enne che si portava dietro, lo scrittore della sceneggiatura che avrebbe appassionato le teste dure dei romani, abituati a ben altri spettacoli, fino a convertirne buona parte.
In ogni caso avvicinare un Vangelo fa sorgere una marea di interrogativi cui non è facile rispondere, pur prendendolo alla larga come Sandro cioè senza entrare nel cuore dei contenuti e analizzando solo alcuni aspetti.
Per come la vedo io, il "non dirlo" aveva un significato non strategico ma di dirigere il riflettore verso le parole, quelle che soprattutto l'amico del cuore, l'Evangelista Giovanni, ha riportato nel suo Vangelo. Leggendolo si capisce perchè il miracolo era invece meglio "non dirlo".

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Altri saggi sul Vangelo. Tra i romanzi consiglio Getsemani e La gloria di Berto (anche se ne ho un lontano e bel ricordo).
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    30 Mag, 2015
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La giovinezza non è nella carne

Dopo l’immenso successo de “La grande bellezza”, Paolo Sorrentino prova a mantenersi sulla cresta dell’onda con “Youth – La giovinezza”. Quella che mi appresto a recensire è la sceneggiatura del film, dunque non ci troviamo alle prese con un romanzo vero e proprio, anche se quasi come tale questa si legge e la lettura risulta abbastanza piacevole. Certo non ci si possono aspettare approfondimenti o digressioni che non siano strettamente “visive”. Sta di fatto che, sono sincero, questa lettura ha stimolato in me la voglia di vedere il film, accendendo la curiosità di scoprire come il grande Michael Caine ha interpretato l’interessante protagonista di questo romanzo, l’ormai vecchio ma ancora acclamato musicista Fred Ballinger.

In un lussuoso albergo sono riunite tante personalità tanto diverse eppure così simili tra loro, seppure non si sa ben dire perché. Musicisti, registi, sceneggiatori, attori, calciatori (credo che Sorrentino ci abbia regalato una versione esageratamente obesa del grande Diego Armando Maradona). Il contenuto si può in parte intuire dal titolo; ci troveremo di fronte a una profonda riflessione sugli stati d’animo che pervadono l’uomo nelle diverse fasi della vita, ognuna incarnata da alcuni dei personaggi presentatici, padroni di un destino individuale differente eppure accomunato da qualcosa che è caratteristico di un punto preciso dell’esistenza umana. Ed è chiara una cosa e una soltanto: la giovinezza non è nella carne, ma nella mente. I giovani vedono tutto vicino, e stanno guardando il futuro, mentre i vecchi vedono tutto lontano, ma stanno guardando il passato. La vecchiaia porta con sé la tendenza a guardare soltanto il passato, a ricercarlo come un rifugio; oramai è troppo tardi per occuparsi del futuro, ne è rimasto talmente poco che non varrebbe nemmeno la pena preoccuparsene. Meglio cullarsi nei piaceri del passato. Ma è proprio nel momento in cui si crede che sia troppo tardi per fare qualsiasi cosa che si cessa di esistere, che si smette di vivere, che si diventa realmente “vecchi”. Bisogna sognare, inseguire, agire indipendentemente da tutto, anche dalla carne inclemente che non può evitare di deteriorarsi, ed è quella la vera giovinezza.
Giovinezza è la voglia e la determinazione a continuare ad essere.

"In mezzo ai fiumi delle saune e dei bagni turchi, corpi nudi di tutte le età sembrano morti e abbandonati, in controluce, al caldo, al sudore. Corpi tonici e lucidi, corpi abbondanti e rotondi, corpi vecchissimi e sfasciati. Così è fatta la fatica del benessere. Così, alcuni provano ad allungare il futuro e a inseguire goffamente il passato della giovinezza."

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    29 Mag, 2015
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Cultura e società

Un romanzo breve ma denso di contenuti, l'ultima opera di Carlo Repetti. Un racconto che può offrire molteplici interpretazioni, a livelli diversi, dal più semplice al più complesso. E in questa particolarità risiede il suo maggior interesse. Già nel titolo il riferimento al minuscolo colibrì, che nella lingua spagnola è conosciuto come picaflor, troviamo una volontà esplicita dell'autore di dare una connotazione di delicatezza e esclusività al luogo in cui si svolge l'azione. Una delle caratteristiche, infatti, di questo minuscolo e bellissimo uccellino è di poter volare velocissimamente, girando e persino capovolgendo il suo delicato corpicino durante il volo e di fermarsi agitando vorticosamente le ali sui fiori per succhiarne il nettare con il suo lungo becco appuntito. Picaflor, questo paese in un angolo sperduto del mondo, dunque, come il colibrì, ha alcune specifiche capacità di adattamento alle situazioni e alle necessità della vita. E' qui che il protagonista Giorgio, un uomo giunto alla soglia dei cinquant'anni, con un passato di mediocrità alle spalle, viene invitato quasi perentoriamente, a recarsi da un personaggio a lui sconosciuto e di cui conoscerà l'identità solo una volta raggiunta la meta. Quasi malvolentieri, dunque, Giorgio intraprende questo viaggio lunghissimo,prima attraverso i cieli, poi per terra su bus malridotti, infine sull'acqua in traghetti antiquati. Qui il tema del viaggio, come percorso indispensabile per giungere alla conoscenza, tanto caro alla letteratura di tutti i tempi, si carica di simbolismo e di fascino. Ed ecco Picaflor, un paese quasi sospeso nel nulla e nel tempo, rimasto isolato dal resto del mondo dopo il crollo dell'unico ponte che ad esso lo collegava. Ogni personaggio qui incontrato ha una sua precisa dimensione, un definito carattere. Sembra dunque di essere immersi in un ambiente di favola, con una ben definita distinzione tra buoni e cattivi, dove Giorgio incontra Petra, la principessa dei suoi sogni. Ed è certamente questo il primo e più semplice livello di lettura di questo romanzo. Ma la favola, come sempre, cela significati ben più profondi. L'isolamento di Picaflor dal resto del mondo ha fatto sì che i più deboli soccombessero ai più prepotenti, che la cultura, vista sempre in questi casi, come pericoloso mezzo di emancipazione e veicolo di ribellione, venisse repressa con la significativa distruzione di ogni libro o testo scritto. L'arte per esistere ha bisogno di uno scambio continuo con il nuovo, con mondi diversi e l'isolamento di Picaflor porta all'inaridimento di ogni forma di espressione, all'estinzione delle idee. Compito di Giorgio è dunque quello di ricostruire il ponte distrutto, per dare nuovo slancio e nuova vita a un popolo ormai chiuso in se stesso, condannato alla malinconia e al rimpianto, un impegno morale a cui Giorgio non sa sottrarsi e che con difficoltà riesce a rispettare. Ed è a questo punto però che sorge in Giorgio l'interrogativo più inquietante. Se l'isolamento condanna all'estinzione delle idee e in definitiva della libertà, il continuo scambio, il benessere portato all'estremo, un certo progressivo allentamento dei costumi possono portare alla degenerazione della società , alla sua corruttibilità.
Il ponte di Picaflor come il vaso di Pandora. La scelta si pone dunque nell'alternativa tra un mondo chiuso e isolato, che rischia di immiserirsi e un mondo aperto all'innovazione e allo scambio più difficile da controllare e gestire. La risposta sta al lettore, che si sa, non è unico.

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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    29 Mag, 2015
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I Greci degli anni ’50.

Un uomo si è ucciso. Era metà greco, metà tedesco: la sua famiglia di sinistra era fuggita in Germania per sfuggire alle persecuzioni, ma lui era tornato armato di ottimi progetti, buone intenzioni, tanto entusiasmo. La sua avventura è finita male. Non ci sono dubbi, si tratta di un suicidio: eppure, qualcuno ha scritto all’ambasciata tedesca che è stato assassinato. In seguito alla sua morte, si verificano diversi omicidi, rivendicati da un gruppo che si firma “i Greci degli anni ’50”?

Chi sono costoro? I figli, i nipoti, i nonni dei greci di allora? Famiglie di destra o di sinistra? Di certo, vantano una nostalgia per un senso dell’onore e della legalità che non esiste più, ma allora, negli anni ’50, esisteva ancora.

Il caso capita in un periodo difficile per il commissario Charitos. La sua famiglia è in difficoltà economiche. La crisi gli ha tagliato lo stipendio, e lo costringe a muoversi sui mezzi pubblici. Anche l’ambiente in cui lavora è pieno di insidie. Come se non bastasse, alcuni attivisti di Alba Dorata hanno mandato in ospedale sua figlia, un avvocato che difende gli immigrati. Lui è un poliziotto, ma Alba Dorata è infiltrata anche (e pesantemente) nella polizia, quindi il lavoro di sua figlia non è molto ben visto da alcuni colleghi. Il video dell’aggressione finisce online, rivendicato con un testo che esprimente brillantemente gli ideali della nuova destra nazionalista europea:
“Questa è Caterina Charitou, avvocato e figlia di un commissario che difende clandestini negri contro i greci. Il suo paparino, da sbirro che è, avrebbe dovuto spiegarle che è un tradimento, perché nessuno è sopra la Nazione e sopra i greci. Chiunque la pensi in questo modo veda come è stata punita e sappia cosa lo aspetta.”

Che cosa ci aspetta? Che cosa succederà se la crisi peggiorerà? A cosa ci porteranno l’odio razzista e l’ignoranza?Leggere questo libro può aiutarci a immaginarlo.

Il giallo è ben scritto e non è soltanto un giallo: narra anche, con efficace e lieve semplicità, la storia di una famiglia, la storia di un paese, la storia di una crisi. Per noi italiani rappresenta l’occasione, non troppo scomoda, di rivederci in uno specchio non troppo deformante. E di pensare al nostro futuro.

La Grecia, con una crisi più grave della nostra, potrebbe rappresentare il nostro futuro: ad Atene i ristoranti del centro sono vuoti e il problema del traffico non esiste più. Ma questa è soltanto la superficie: c’è ben altro. Tanto per cominciare, la scuola è diventata a pagamento e le famiglie sono costrette a indebitarsi per far studiare i figli. Questo punto è fondamentale, nelle rivendicazioni dei Greci degli anni ’50.

Eh sì, la Grecia non è soltanto il nostro (possibile) futuro, ci ritroviamo anche il presente. Anche qui, nella culla della civiltà occidentale, l’immigrazione è forte; anche qui gli immigrati sono stati trasformati, seguendo un copione vecchissimo e collaudato, nel capro espiatorio ideale; anche qui, c’è chi ci guadagna e chi sfrutta la situazione. Anche qui, l’abilità dell’autore nel narrare guasti e contraddizioni sociali è ammirevole.

Il commissario Charitos conduce una brillante indagine con mezzi di fortuna, anche perché il rigore all’americana delle serie televisive non se lo può permettere: i poliziotti si portano a casa i bossoli e non collaborano. Qui manca tutto: l’aria condizionata, la benzina e le auto. Qui siamo in Grecia, bambole: le efficientissime banche dati online dei tecnici FBI rimangono favole da fantascienza. Le risorse e la solidarietà in famiglia, il buon senso e una puntuale conoscenza della storia greca: queste sono le armi che portano alla “soluzione” del caso.

Soluzione? Le virgolette sono d’obbligo, perché non siamo sicuri che i Greci degli anni ’50 siano stati sconfitti. E il peggio è che non ce lo auguriamo. Il fattore umano è decisivo e rappresenta un elemento dello specchio da non trascurare: osserviamo con cura il nostro riflesso, lasciamoci catturare da un altro stile Mediterraneo. Il ritmo non è troppo brillante, qualche ripetizione si fa sentire; ma la narrazione pulita conquista prima la curiosità, poi l’attenzione, infine l’identificazione del lettore. Seguiamo le avventure del commissario Charitos: il tragitto è piacevole e la cucina greca non è mai stata così appetitosa.

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altri gialli, altri romanzi greci, altra buona letteratura "di genere".
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    29 Mag, 2015
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Cara terra mia

La misteriosa morte di un amico, occasione di vita mancata, riporta Irma, studentessa universitaria, da Bologna a Cividale dove la sua breve permanenza occasionale, benché lì abbia ancora il padre, si trasforma in un soggiorno più lungo e involontario. Il biglietto di ritorno alla sua vita non può essere obliterato prima di un viaggio all’inferno sotto l’ombra della mantella del diavolo che, scomodato ai tempi dell’edificazione del famoso ponte della cittadina, non vuole saperne di lasciare quella amena e selvaggia terra.

Cividale del Friuli, richiamata al lettore per la sua importanza storica- Forum Iulii in epoca romana, primo ducato longobardo in Italia, Civitas Austriae nella marca Orientale dei Carolingi, relegata successivamente dalla sua stessa natura a terra di confine nelle epoche successive, viene caratterizzata abilmente da un suggestivo amalgama di passato e presente. Si fondono dunque nella narrazione tratti caratterizzati da un bieco e sinistro provincialismo, con riferimenti ad un passato che si perde nella storia più recente (fascismo, seconda guerra mondiale, disgregazione della ex-Jugoslavia) per affondare nelle leggende. Protagonisti un diavolo beffato o le krivapete (dallo sloveno kriv = curvo, ritorto e peta = tallone) creature femminili della tradizione orale delle valli del Natisone utilizzate come spauracchio per i bambini allo scopo di tenerli lontani dai pericoli, prima di tutto quelli rappresentati dai luoghi selvaggi, rupi e torrenti, che caratterizzano quelle terre.

La stessa protagonista subisce una sorta di caccia alla strega mentre il passato: una mamma morta in circostanze misteriose, un padre premuroso ma enigmatico, un nonno innominabile, riallaccia i fili col presente scandito da morti violente e frequenti. Dimensione del reale e atmosfere oniriche si mescolano in una narrazione fluida ma finemente narrata il cui valore aggiunto, aldilà dei gusti personali poco inclini al noir, rimangono indubbiamente l’ambientazione e lo stile fine e ricercato.

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Classici
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    29 Mag, 2015
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Piccolo mondo antico

L'aria fredda ed umida del lago di Lugano sembra avvolgere la mente del lettore, quasi incatenandolo alle vicende di questo piccolo mondo, fatto di uomini e donne che vivono, amano, soffrono, subendo gli echi della storia, alcuni ignari di ciò che accade, altri protagonisti, altri ancora fieri della propria meschina vita fatta di avidità di cuore e di denari.
Fogazzaro unisce molti elementi narrativi in questo denso romanzo, la componente storica pur rimanendo sullo sfondo fa da tessuto connnettivo di tutta la vicenda, il canovaccio su cui si stende la trama che prende vita a partire dai personaggi così ben delineati da sembrare vivi.
Ognuno di essi nell'intreccio delle loro vite non assume mai atteggiamenti non in linea con la personalità che Fogazzaro ha voluto disegnare loro addosso e allora ecco che la donna voluta come protagonista, Luisa Rigey, è moderna e forte, pronta a difendere ad ogni costo le proprie idee.
Luisa ha un carattere fiero, è intelligente, ha un modo del tutto personale di credere in Dio, la sua fede, però, non è lineare, non è indottrinata dalla Chiesa, crede, ma lo fa a modo suo e non capisce il marito che invece ne possiede una cieca, così come la madre.
I due ragazzi contraggono un matrimonio di manzoniana memoria; come Renzo e Lucia decidono di sposarsi nottetempo, col favore delle tenebre, nascosti da tutto e da tutti, ma Franco Maironi a differenza di Renzo deve combattere contro la nonna, ricca e nobile che non vede di buon occhio questo matrimonio tra un nobile e una borghese.
Le vicende che da qui si susseguono disegnano una trama fatta di tragedie e di cattiverie, di menzogne, di atti vili e spregevoli, ma a risaltare e a rimanere impressi nella mente sono i personaggi, che non sono mai descritti nel fisico, ma solo nel carattere e in modo sapiente l'autore riesce a far penetrare le loro sensazioni sotto la pelle del lettore soprattutto nelle fasi più drammatiche.
Luisa e Franco, l'amato zio Piero, l'odiata Marchesa Orsola, la dolce Maria interagiscono tra di loro in modo così semplice e naturale che pur essendo, la vicenda, ambientata in un passato remoto a noi lettori contemporanei sembra dimostrare l'univesalità dell'animo umano, come i rapporti tra le persone rimangano i medesimi attraverso il tempo e lo spazio, come le tragedie possano sconvolgere le menti più razionali e come la fede possa aiutare, più della ragione, più della fantasia, più della speranza ad affrontare il dolore più grande.
Non tutto il romanzo è a tinte scure, un barlume di speranza si intravede alla fine, anche se incombe, ancora una volta lo spettro della morte e della solitudine che sembra caratterizzare la vita della povera Luisa.
La sapiente penna di Fogazzaro riesce a fondere insieme molti elementi, rimanendo su quello che può essere definito un romanzo contemporaneo, pur risentendo in qualche modo del tempo; è senza dubbio necessaria una contestualizzazione storica per comprendere a pieno i pensieri dei personaggi.
Pur essendo il primo volume di una tetralogia risulta completo, per le vicende narrate e del tutto frubile anche come volume singolo.
La lettura è consigliata, soprattutto per come il personaggio di Luisa riesce a penetrare nella mente e a svegliare degli istinti che forse sembravano perduti!

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Romanzi
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    27 Mag, 2015
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A QUALE DESTINO DOVREMMO CREDERE?

“Il destino è quella porta socchiusa da cui ogni tanto puoi sbirciare. E allora vedi che nulla avviene per caso e che tutto ha un senso, anche quando sembra non averlo”.
Anch’io mi sono sforzata, e non poco,a cercare di dare un senso alla storia che avevo appena terminato di leggere ma non l’ho ancora trovato.
Siamo a Londra, dove troviamo Ornella una donna di mezza età che lavora in una libreria chiamata “Italian Bookshop” e che ha avuto una vita alquanto burrascosa e complicata ma che è sempre riuscita a rialzarsi.
Arriva in Gran Bretagna vent’anni prima per dimenticare e lasciarsi alle spalle la vita che aveva e anche suo marito.
Sembra interessante, mi sono detta, ma in questo libro ho trovato veramente poche cosa da salvare, forse solamente la copertina che è indubbiamente molto carina.
Sicuramente l’autore scrive molto bene quindi anche se di per sé la storia non mi è piaciuta sono riuscita o meglio mi sono trascinata fino alla fine. Non si è creata nessuna empatia ne con la protagonista ne con nessuno dei personaggi secondari.
La Patti l’amica milanese o più che altro una sorella per Ornella, sembra aver in tasca la soluzione dei problemi ma secondo me non ha idea di cosa fare per aiutare la donna. In più dovrebbe risollevare l’amica, darle forza invece è sommersa dal pensare ai suoi problemi.
Diego, ragioniere napoletano da poco a Londra, viene assunto per risollevare la libreria ma l’autore tende a sottolineare molte volte la sua bellezza e la sua simpatia, che io tra l’altro non ho ritrovato nella pagine, le sue battute non facevano ridere.
Clara, la collega di Ornella ha da sempre dell’astio nei confronti della donna, si sente ormai più inglese che italiana e ha abbandonato il caffè per il tè. Un personaggio non rilevato.
Bernard, il vicino di casa di Ornella un uomo che non ho capito, ne ho ancora decifrato.
Mr George, un anziano signore che si ritrova da anni nella stessa panchina di Ornella e che ascolta e consiglia la donna nell’affrontare al meglio le sue disavventure. Ama Calvino e ama la lettura, forse l’unica persona credibile della storia.
Ho odiato il fatto che Ornella si sia inventata un’intolleranza alimentare all’origano, originale direte, io penso solo che sia patetico.
Ornella e la Patti ma quanto bevono queste donne?Per tutto il libro sembra ripercorrere il ritornello del “beviamo qualcosa”?
Ma dalla trama sembrava che fosse importante risollevare le sorti della libreria, però questo fatto è del tutto marginale rispetto al raccontare la vita di Ornella e dei personaggi a lei legati.
I temi che si sviluppano sono anche interessanti, ricostruire la propria vita, darsi una seconda possibilità, il passato difficile da dimenticare e da affrontare, l’amicizia e l’amore.
Ma sembra che in questo libro si parte con una storia e poi al capitolo successivo ne inizi un’altra del tutto diversa, non legata per niente alla precedente.
Non c’è un inizio e una fine sembrano dei pezzi buttati là e messi insieme, dove troviamo in tutto il libro una serie di clichè riguardo gli italiani che potevano essere risparmiati.
Mi dispiace molto dire queste cose anche perché ho letto nei ringraziamenti finali che è una storia vera, ma non sono riuscita ad entrare in quello che l’autore ha raccontato e ad affezionarmi ai personaggi, lo avrei voluto fare ma Luca secondo me non è riuscito a coinvolgermi, sebbene ci fossero tutte le premesse possibili.
I personaggi che lui ha creato sono spenti, senza sale, senza qualcosa da scoprire, il lettore non ha stimoli a continuare a leggere e alla fine mi sono chiesta a che destino dovrei credere?
Essendo il primo libro che leggo di questo autore mi sono informata molto su di lui, ammetto la mia ignoranza nei suoi confronti.
Non so effettivamente quale sia il suo stile, che nella quarta di copertina leggo che sia inconfondibile ma che non sembra essere quello che c’è in questo romanzo. Non ho trovato uno stile frizzante o ironico mi sembrava solamente piatto.
Ornella è una donna che ha sofferto molto però non sono riuscita a capirla, a inquadrarla, almeno fino a quando non rivede suo marito. E’ un personaggio che non mi ha lasciato emozioni sebbene avesse avuto una vita veramente difficile,lontano dalla sua famiglia, in un paese straniero ma che ha scelto di cambiare per poter ricominciare.
Una cosa mi ha colpito che la vera Ornella ha detto che la libreria l’ha salvata e quindi doveva salvarla, solo che purtroppo l’attenzione del libro e del lettore andava più verso altre cose, tralasciando l’imminente chiusura della libreria.
Luca Bianchini non è riuscito a creare una storia che ti rimane nel cuore e alla fine del romanzo non ti resta nulla solo che un gran senso di vuoto e spaesamento.
Spero di ricredermi su questo autore e che questo sia stato solamente un libro che io non sono riuscita a capire.

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Meglio leggere qualche altro libro di Luca Bianchini......
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Mag, 2015
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Daniele Cortis

Il romanzo “Daniele Cortis” si posiziona tra le opere meno lette ma più rappresentative di Fogazzaro.
Ritrovarsi tra le mani questo piccolo impolverato testamento letterario, ha ancora una valenza oggi?
E' talmente mutata la sensibilità e la visione del mondo da parte dell'uomo moderno che sorge spontaneo domandarsi se egli abbia la possibilità di percepire e cogliere quello che l'autore voleva trasmettere al pubblico ben un secolo fa.

Avvicinarsi alla lettura del testo richiede un pizzico di preparazione, almeno per contestualizzare il periodo storico fotografato tra le pagine, ricordando che gli scritti di Fogazzaro non possono essere disgiunti dal clima politico del tempo.
Siamo nell'ultimo ventennio dell'Ottocento, il panorama letterario propone il romanzo storico ed il romanzo realista, ma Fogazzaro vuole percorrere una terza via, quella del romanzo contemporaneo.

Anche “Daniele Cortis” è uno spaccato del tempo, una storia di vita politica che abbraccia una storia sentimentale.
Daniele è uomo politico, pregno di ideali e sogni da realizzare, per fondare una corrente innovativa che funga da elemento di coesione tra i monarchici ed il mondo cattolico.
Mondo complesso e fumoso quello politico, oggi come ieri, rappresentato con precisione e puntualità; un mondo in cui anche l'autore vuole credere, facendolo vivere in maniera intensa ai suoi personaggi, non senza complotti, bagarre e sconfitte.
Ma la “contemporaneità” cui ammicca Fogazzaro fa sì che la letteratura non tralasci il campo del sentimento, dove albergano passioni e struggimenti, relazioni lecite e illecite, rapimenti dell'anima pronti ad evadere dai binari della moralità ( del tempo).
Ad oggi, fanno sorridere le critiche mosse contro tali rappresentazioni di amori passionali, dandoci conto dei principi morali dell'epoca, qui cristallizzati ed incorniciati come ritratti datati.

Tutto l'intero romanzo è un bel dipinto, da contemplare senza fretta, concentrandosi sui particolari, immergendosi in un tempo che non c'è più, in atmosfere socio-politiche lontane, in vicende amorose delicate e suggestive.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    26 Mag, 2015
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Malombra

Dopo “Piccolo mondo antico” Malombra è il titolo forse più conosciuto della produzione letteraria di Fogazzaro.
Se pensiamo che l'anno di pubblicazione è lo stesso de “I Malavoglia” di Verga, per chi legga entrambe le opere si manifesteranno le radicali differenze, portando alla luce un periodo letterario in cui scorrono in parallelo tante correnti.
Ogni autore percepisce il presente in base alla propria sensibilità e si fa portavoce dell'attualità e del contesto sociale alla propria maniera.

In Malombra l'autore vicentino infonde uno spirito prettamente decadente, innestando ad un nucleo
narrativo centrale più sotto-nuclei, generando un intreccio corposo ed un po' barocco, complicato e arzigogolato.
La forza trainante del romanzo sta tutta nel tormento amoroso, destinato a sfociare come un fiume in piena in follia, in tragedia, in annullamento psico-fisico.
I personaggi camminano sul filo sottile che divide lucidità e ottenebramento, sia esso dovuto a passione o a fede in un ideale, religioso o politico.

Non è agevole seguire i sentieri tratteggiati da Fogazzaro, uscire da una storia di vita ed entrare in altre, entrare in comunione con protagonisti diversi tra loro e travolti ciascuno da un destino inesorabile piuttosto cupo.
Cupe anche le ambientazioni, la natura, i paesaggi ed i palazzi, come fossero specchio dell'interiorità degli uomini che le vivono.

Oggi la percezione che si ha di un simile romanzo è fatta di numerose sfumature.
In primis è innegabile il valore di un simile scritto per ricordare un segmento importante della nostra storia della letteratura.
Interessante desumere dalla lettura la sensibilità di un autore che scava nelle passioni dei suoi personaggi, percorrendo le vie del cuore e della mente, attratto dal tema dello spiritismo e del mistero, senza tralasciare il sentiero tracciato dalla fede religiosa, esplodendo in un connubio dalle fattezze intricate.
Qualche passo del romanzo mostra una penna che perde di lucidità, assumendo connotati pomposi e ridondanti, quasi sentinella di una perdita di controllo della trama narrativa.
Ma contestualizzando il periodo socio-storico di cui è figlio, rimane un lavoro da conoscere e da apprezzare per gli aspetti letterari e sociali che può riportare alla luce.

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Autori italiani
 
Produzione letteraria 
 
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silvia t Opinione inserita da silvia t    25 Mag, 2015
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Introduzione alla lettura di Antonio Fogazzaro

Dopo tanti anni aveva deciso che fosse arrivato il momento di prendersi una vacanza, da tutto: quindici giorni lontano dal lavoro, dalla sveglia e soprattutto dalla mancanza di tempo.
Si recò in stazione con il suo fido zaino in spalla e il biglietto in tasca, la sosta all'edicola era d'obbligo poiché era la più fornita di fumetti arretrati e capitava spesso che trovasse dei numeri che mancavano ad una delle tantissime collezioni incomplete e che gli facevano compagnia mentre ondeggiava verso mete più o meno lontane.
Entrò e iniziò a rovistare in quella specie di santuario, in cui pareva si fossero dati appuntamento tutti gli albi meno comuni, per caso, scorse con la coda dell'occhio un volume che pareva appartenere ad un tempo ben più antico di quello contemporaneo, si avvicinò e lo prese tra le mani, lo sfogliò e si accorse che era la ristampa anastatica, voluta per i centocinquanta anni dell'unità d'Italia, di un volume del 1861 il cui titolo era "Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale", quasi nello stesso momento la voce metallica annunciava l'arrivo del suo treno, senza pensare lo prese e lo pagò, così quel giorno, invece delle immagini disegnate, ad accompagnarlo fu quel linguaggio aulico che gli riportava alla mente lunghe mattinate trascorse ad ascoltare noiose lezioni di storia in compagnia di Cavour, Napoleone III e Bismarck.
Salì sul vagone, scelse un posto e si sedette, iniziò a leggere quel volumetto, mentre il treno lo portava in Veneto, sul Lago di Garda, in un periodo in cui i colori stagionali vertevano al giallo e la temperatura era prossima a scendere: sperava che dalle rive del lago si alzasse quella lieve umidità che penetra nelle ossa e che genera emozioni così profonde.
Mentre scorreva le pagine dai caratteri antichi, nel suo scompartimento la pace finì, si sedettero due signori, che misero le valigie nel vano apposito e iniziarono a discorrere: prima di sport, commentando gli anticipi di campionato e come degli allenatori navigati suggerivano le loro soluzioni per una partita che sarebbe, di sicuro, risultata vincente, poi iniziarono a parlare di politica.
Gli venne un tuffo al cuore, dopo pochi minuti di involontario ascolto; i loro discorsi apparivano serrati, fitti di analisi, economiche, sociologiche, anche pertinenti, ma mancava del tutto una cosa: la fede in un ideale.
Più li ascoltava, più quel libretto sembrava urlargli che c'era stato un tempo in cui gli uomini credevano, in cui morivano per degli ideali, per delle idee che non avrebbero mai viste realizzate, ma che sapevano incarnare la giustizia.
Il tempo passava e la meta si avvicinava, la sua mente, per un'associazione di idee richiamò un romanzo che aveva letto nello stesso periodo delle noiose lezioni di storia: Piccolo mondo antico di Fogazzaro.
Forse furono le sponde di quel freddo lago, forse i discorsi così vuoti degli sconosciuti viaggiatori, forse quell'unità d'Italia per cui molti morirono, ma le immagini di quel libro si fecero vivide e una volta sceso cercò una libreria, cercò il titolo, scelse una panchina e pagina dopo pagina lo divorò e alla fine, sentì che ancora molto c'era da fare, ma che se c'era stato un tempo in cui gli uomini facevano della politica la loro vita e per essa potevano immolarsi, allora, ancora oggi era giusto credere e riscoprire degli ideali e forse il modo migliore per farlo era proprio attraverso le pagine di quel libro.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    22 Mag, 2015
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L'economia mondiale secondo lo schema Ponzi

Il libro ha un incipit narrativo bellissimo, 100 pagine strepitose in cui J. Volpi presenta Jorge Volpi, il protagonista della vicenda: intelligente, cinico, spregiudicato, bastardo, amorale. Un personaggio straordinariamente affascinante. Il libro è scritto in prima persona e vedendo le note biografiche di Mondatori riportate sulla copertina del libro, per un attimo mi è venuto il dubbio che esistessero due diversi Volpi, lo scrittore e questo genio della finanza-scrittore per sbaglio, anzi per crack. (Invece no, si è scritto pure la falsa biografia). Ma se J. Volpi (l’unico che c’è) sarebbe in grado di scrivere un sicuro capolavoro di narrativa, si capisce ben presto che non è certo la narrativa il suo principale interesse ma la conoscenza dei fatti. Dopo le prime 100 pagine viene fuori la vera natura del romanzo: un testo divulgativo e impegnato, nonostante il protagonista della vicenda, J. Volpi appunto, non si presenti come un campione della morale. La storia si dipana seguendo due strade: le imprese del genio della finanza J. Volpi, consulente della J.P. Morgan e della Long Term Capital Management e quelle di suo padre Noah, accusato di comunismo, e morto probabilmente suicida prima della nascita di Jorge. Jorge vuole cercare la verità sul padre, sapere se era o non era una spia russa. Accuse vere o accuse false, dunque? In realtà la narrazione segue due piste apparentemente divergenti di cui si intravede presto il denominatore comune: l’economia mondiale. Noha Volpi, infatti, è stato il braccio destro di Harry Dexter White, anche lui accusato di rapporti con Mosca. E White è colui che ha discusso nel 1935 con il britannico Keynes, il più grande economista del pianeta, il piano per il dopoguerra. La discussione tra i due è presentata come un incontro di pugilato. La vittoria di White su Keynes è scontata nonostante il profilo molare e la genialità dell’avversario siano decisamente superiori. White pone dunque le basi per il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Si scoprirà che tali basi sono state poste da una spie sovietica.
L’esausto Keynes dirà dopo il match con White: “Sono andato a Savannah per incontrare l’economia mondiale e ho incontrato un tiranno”. Il tiranno non è White ma gli USA. La sconfitta del giusto Keynes costituisce il peccato originale dell’economia mondiale, in realtà ormai dittatura USA . Il male però non si ferma lì. Quello era solo il primo round.
Volpi, spiega nel suo modo cinico e con grande chiarezza lo strapotere della finanza sull'economia Usa e quindi sull'economia mondiale: come la finanza sia diventata un grande tavolo da gioco (d’azzardo) dove è possibile accumulare senza alzare un dito straordinarie quantità di capitali. Del resto questo è possibile solo in un regime capitalista che crede nella libertà degli investimenti. Libertà per modo di dire. Il mondo della finanza non è mai stato adeguatamente regolamentato. I geni della finanza hanno introdotto alcuni tipi d’investimento estremamente pericolosi come i derivati. Lo swap in particolare è un sistema di scambio per cui i gestori di due diverse attività commerciali possono scambiarsi i profitti (ma non la gestione) della rispettiva attività per un anno se ritengono (prevedono) che l’altrui attività sia più proficua della propria. L’estensione della possibilità di fare derivati con swap sul debito ha permesso alle banche di fare prestiti azzerando (almeno in teoria) i rischi. Questo ha portato a invadere il mercato con i mutui subprime creando la bolla immobiliare. Il fatto di poter ridistribuire con titoli così pensati i buchi di bilancio ha fatto sì che il bilancio di un istituto di credito potesse venire cammuffato permettendo agli istituti di investire più soldi aggirando l'obbligo di tenere una parte (da calcolare in base al debito) del loro denaro in cassa. Il fatto che le banche non abbiano di fatto limiti alla possibilità d’investimento e il fatto che i derivati (e non solo) abbiano avvelenato il mercato ha fatto e fa sì che gli istituti siano sempre più intoccabili, in quanto un loro crollo costituirebbe una minaccia all’economia mondiale e avrebbe conseguenze difficilmente prevedibili. Del resto di fatto in America abbiamo avuto degli esempi: il fatto che la Federal Reserve sia dovuta intervenire a tutela di alcuni istituti di credito, è di per sé vergognoso. Ma anche il non intervento (come nel caso del fallimento della Lehman Brothers) è stato altrettanto pericoloso. Ormai l’economia mondiale e la finanza sono strettamente avvinghiate e non si può separare l’una dall'altra. Facile dire che non si sarebbe dovuti arrivare a questo punto. Ma arrivati a questo punto perché non si fa niente nemmeno ora? Siamo in una democrazia o in una plutocrazia (come dice Volpi- il protagonista della storia all'inizio del romanzo) dove chi ha i soldi prende di fatto ogni decisione che conti?
“Nessuno voleva sapere. E così con una delle decisioni più spaventose mai prese da una camarilla di politici, il segretario al Tesoro, il presidente della Federal Reserve e il presidente della Federal Reserve di New York- con l’assenso di Bush figlio- si strinsero nelle spalle e permisero che il mastodonte (cioè la Lehman Brothers) precipitasse rumorosamente verso il nulla. A loro sembrò un atto di giustizia. Di giustizia poetica, suppongo, perché la manovra risultò infinitamente più dannosa e durevole di quanto sospettassero quei cretini. Le ossa della Lehman erano corrose dai nostri pericolosi derivati finanziari e le metastasi intaccarono tutti i sopravvissuti: Aig,Merril Lynch, J.P: Morgan, Chase, Godman Sachs, Citibank e la loro infinita pleiade di sorelle. Inclusa la JV Capital Management, ovviamente. Un contagio senza precedenti, o meglio, il più grande trasferimento di capitale dalla classe media ai milionari mai orchestrato. Perché al di là dei fallimenti e delle bancarotte,dell’ostentato suicidio di qualche dirigente e della depressione di qualche funzionario del Tesoro, i magnati quasi non ne soffrirono. Dirò di più: lucrarono sulla crisi quanto prima avevano lucrato sulla bolla, e tranne qualche capro espiatorio (come me), conservarono i loro benefit astronomici, i paracadute d’oro, le ville negli Hamptons e in Riviera, i baccanali holliwoodiani e le auto sportive. Salvati in extremis con i nostri soldi- per gentile concessione di Obama il Socialista- oggi sopravvivono comodamente.”
Di fronte all'amoralità generale, alla mancanza assoluta di scrupoli generalizzata, Noha Volpi, la spia, può quasi vantarsi della sua attività spionistica perché almeno lui, un ideale, per quanto bacato ce l’aveva.
Il processo contro di lui, così come quello contro suo figlio Jorge, capri espiatori con meno colpe di altri (anche se questo non li giustifica) fa chiudere il romanzo con la frase: “La commedia è finita.”
Il romanzo solleva molti interrogativi morali nonché di necessità di porre un argine allo strapotere della finanza che muove capitali per un valore 10 volte il PIL mondiale, nonché di regolamentare il tipo di prodotti immessi sul mercato. Purtroppo sono troppo ignorante per una lettura critica del contenuto del libro di Volpi dal punto di vista economico. Del resto secondo Volpi l’economia mondiale segue lo schema Ponzi, da Carlo Ponzi, noto truffatore nostrano che nel suo piccolo ha causato la bancarotta di vari privati e istituti. Come dire, prima o poi il gigante dai piedi d’argilla dell’economia mondiale farà una brutta fine.
Alla luce di questa lettura mi sento di consigliare ai lettori di investire i loro pochi soldi in un campo di patate: niente è altrettanto sicuro.

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Lezione dalla finanza di Andrea De Marco che dà l'ABC in 100 semplici e avvincenti pagine (consiglio di leggere prima la lezione poi il memoriale).
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    20 Mag, 2015
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Orrore d’altri tempi

“Cari mostri” è un libro poliedrico come il suo autore; nei suoi 25 racconti racchiude una moltitudine di sottogeneri e di storie diverse tra loro, spaziando tra il tragico e il comico e che hanno come unico filo conduttore l’horror. E vi assicuro che tra comicità, paura e mistero, vivrete un viaggio oltremodo piacevole, reso scorrevole dalla facilità di lettura e il buono stile che questo autore ci regala. Badate bene però, qui non si tratta dell’horror che oggi siamo abituati a consumare in tutte le salse; non un horror fatto di splatter, possessioni, fantasmi e roba(ccia) del genere. Assolutamente no, Benni torna alle origini, quando ci si spaventava per storie come Dracula, Frankeinstein, storie in un certo senso più macabre e di maggiore spessore letterario, ma meno disturbanti per lo stomaco. Questi racconti sono un mix romanzato di ciò che più ha spaventato gli uomini nei secoli passati, e di ciò che lo spaventa oggi, nel mondo reale.

Ebbene sì, perché i “mostri” non sono necessariamente mostri viscidi e tentacolosi, vampiri, mummie o crudeli assassini. Mostri possono essere le tasse che oggi come oggi ci perseguitano in tutte le forme possibili, peggio di un essere polimorfo; possono essere gli innumerevoli account, password, numeri, iban che ci tengono prigionieri e senza i quali a questo mondo non saremmo nessuno; possono essere gli apparecchi tecnologici dei quali ormai siamo schiavi.
Mostri possiamo essere noi stessi.
Perciò, nel tragitto che seguiremo tra i racconti di questo libro incontreremo mostri di ogni specie, da quelli tradizionali e spaventosamente orribili, a quelli che noi stessi ci siamo creati e che se continuiamo di questo passo ci troveremo ad affrontare, astratti e non.
Ci troveremo di fronte bestie mangiatrici di uomini; alberi maledetti; mummie egizie; teenager capaci di uccidere per un biglietto del concerto dell’ultima boy band in voga e vampiri che preferiscono ridursi a un mucchio di cenere piuttosto che avere a che fare con Equitalia.
Infine, nota lieta, ci troveremo di fronte al tributo dell’autore a dei grandi uomini realmente vissuti, dei quali racconta la tragica fine, ovviamente romanzandola e immaginandone i risvolti, adattandoli all’opera che ci presenta. Uomini come Michael Jackson ed Edgar Allan Poe. A quest’ultimo soprattutto probabilmente Benni ha sentito di dovere un tributo, perché è al maestro indiscusso dell’orrore d’altri tempi e alle sue opere che, in parte, questa sua ultima fatica è ispirata.

"Si, forse la vita è questo. Si procede tra normalità e paura, e si aspetta ogni volta di tornare alla nostra dimora, di trovare un po’ di quiete, un rifugio. Magari salendo le scale di casa verremo presi dall’angoscia, avvertendo che il dolore ci ha seguito fino lì. Comunque sia, è un inferno che conosci. Ed è meglio di quella nebbia spietata, meglio di non vedere nulla, meglio della solitudine dei nostri passi."

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Edgar Allan Poe.
Dracula.
Frankeinstein.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    19 Mag, 2015
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Solitudine.

Mancano soltanto quattro giorni al compimento del quarantesimo compleanno di Mila, ed è tempo di bilanci. La sua vita è radicalmente cambiata dal giorno in cui, a soli 23 anni, ha conosciuto Paolo ed ha con lui costruito la sua famiglia dando alla luce tre figli di cui due gemelli ed una primogenita vivace fanciulla di nome Maddi, eppure quel senso di insoddisfazione, di non-fermezza, di inquietudine continua a perseguitarla, l’attende ad ogni angolo, non sa spiegarsi bene nemmeno lei il perché. E’ uno spirito libero Mila. Non può essere imprigionata nei rigidi schemi che la vita impone. E’ una donna dall’animo fantasioso ed emancipato, una di quelle persone che amano le piccole cose, che si stupiscono delle ovvietà dei e per i molti, che restano affascinate dal lento cadere della pioggia, che non si vergognano di parlare con un gattino se ritengono che quello abbia qualcosa da dire o da esprimere ne tanto meno si preoccupano di donare parte del loro tempo al felino desideroso di coccole o affetto, che non hanno remore a nascondersi nei loro silenzi anche se questo significa lasciare il mondo fuori. Paolo però non riesce a capirla. Forse non è semplicemente in grado di leggere tra le righe, di comprendere quel sempre più frequente chiudersi in se stessa, attimi che si sono sommati (e di poi sostituiti) ai rancori ed alle incomprensioni dettate dalla vita coniugale, o semplicemente la sua tempra pratica gli impedisce di guardare con gli occhi della mente ai bisogni di quella donna insoddisfatta e senza sosta, perennemente alla ricerca, perennemente irrequieta, semplicemente infelice. Infine nelle ultime quindici pagine, il miracolo inatteso. Un cambio di prospettiva che vuol lasciare a chi legge il semplice ma non scontato messaggio del non buttarsi via, di non sprecare quei giorni sulla terra. E quelle note provenienti dal sax, quel profumo dell’erba tagliata, quel cinguettio degli uccellini del parco, quel bacio appassionato dei giovani innamorati incuranti del tutto e del tutti accarezzano Mila così come il lettore invitandolo a guardarsi intorno, a non vedere sempre il “bicchiere mezzo vuoto”, il brutto delle giornate che inesorabilmente passano perché la vita è tutta intorno a te e ti aspetta pronta ad accogliere il tuo cammino anche se non sai dove andare, anche se non sai quale sia la tua meta, anche se non puoi e non devi fare altro che camminare, volerti bene e andare avanti.
Una storia delicata e breve costruita con grazia e leggerezza su semplici assunti (silenzi, carenze, ombre del passato, l’inadeguatezza e l’infelicità, il non sentirsi mai adeguati). Quante donne oggi giorno cercano di essere moglie e madre, casalinga e lavoratrice e segretamente auspicano a qualcosa per sé sentendosi immediatamente in “colpa” per essersi lasciate andare ai propri sogni, alle proprie aspirazioni, ai propri desideri. E nella intima lotta tra conformità e riscatto la figura femminile vuol far sempre meglio per raggiungere una completezza che presuppone il rischio di perdere ciò che ella stessa è. Con il suo stile impeccabile Daria Bignardi riesce a far sentire chi legge compreso e di conseguenza meno solo.
Forse non il più bel romanzo dell'autrice ma sicuramente degno di nota.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Mag, 2015
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Ed arriva volando una piuma

Pubblicato a distanza di quasi un anno dalla sua morte e nato con l’obiettivo di tramutarsi in musical, “La piuma” è l’ultimo lavoro di Giorgio Faletti. E’ una favola quella che l’autore ci dona, una fiaba che si delinea in un percorso caratterizzato da un protagonista tanto leggero quanto improbabile, un attore silente ma riflessivo, capace di entrare nel lettore quanto negli antagonisti della storia: la sensazione durante la lettura è quella di essere nella stanza del re, o con la ballerina innamorata, o con la donna di tutti, nonché con l’uomo dal foglio bianco ed assistere in prima persona all’arrivo della leggiadra penna; questa è li accanto, chi legge la percepisce, la figura nella sua mente, ha l’istinto di aprire la propria mano ed accoglierla sul proprio palmo, e tanto questa brama è forte, tanto lo è la sensazione di ripartire, di non fermarsi, di andare oltre per essere finalmente compresi.
I personaggi che la incontrano sono schiavi dell’apparire e non dell’essere, sono concentrati esclusivamente sulla dimensione del “loro stessi” per potersi accorgere della sua presenza tanto che la ignorano proprio perché distratti dai loro pensieri, problemi, progetti, giochi di potere. Abbiamo infatti un re troppo interessato a far la guerra, un cardinale bramoso di infliggere la sua quota sul grano ai poveri contadini ed incurante della condizione di degrado a cui li condannerà con la sua misura, una ballerina talmente presa dal desiderio di amare da chiudersi in sé stessa a seguito di una delusione amorosa così da non cogliere i nuovi amori pronti a bussare alla sua porta ed una prostituta smaniosa della sua ricompensa oltre ogni ragionevole gusto. Tutti fuorché uno sono concentrati sul proprio io: egli soltanto raccoglierà l’essenza della nostra piccola protagonista e si lascerà da lei guidare fino ad essere in conclusione ricompensato con il migliore dei presenti.
Accompagnato ed avvalorato dalle tavole di Paolo Fresu “La piuma” è un racconto semplice ma di gran significato, è una favola morale sulla vita, sulla libertà. E’ un componimento ben diverso da quelli a cui lo scrittore ci ha abituato ma non per questo meno meritevole di lettura. Fluente, dalla penna esperta e saggia, il testo si legge in poche ore regalando momenti lieti e spunti di riflessione.

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Narrativa per ragazzi
 
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Elisabetta.N Opinione inserita da Elisabetta.N    18 Mag, 2015
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Nati Liberi

Un bell'inizio per una serie che, sono sicura, appassionerà molti.
Un inizio, è vero, in quanto è fortemente evidente l'intento introduttivo di questo libro e come potrebbe essere diversamente? In fondo è il primo libro di una serie, non dimentichiamolo...

Nei primi 4 capitoli incontriamo subito i 4 protagonisti, i punti di visti del romanzo, attraverso i quali tutti gli avvenimenti vengono descritti. Assistiamo quindi con loro ad una cerimonia che tutti i ragazzi che compiono 12 anni devono affrontare. Così Conor, Abeke, Meilin e Rolland riescono ad evocare rispettivamente una lupo, un leopardo, un panda e un falco, i 4 animali delle leggende un tempo caduti ed ora tornati per salvare Erdas.
Questo aspetto particolare mi ha un po' ricordato la saga "Queste oscure materie" di Philip Pullman dove ogni essere umano ha il proprio Daimon. Ovviamente molte sono le differenze come il fatto che in "Nati Liberi" non tutti riescono a creare un legame con un animale, senza contare che i daimond di Pullman non trasmetto al compagno nessuna capacità aggiuntiva.
Non mi sarebbe mai venuta in mente un attinenza fra i due se non fosse stato descritto il legame che si viene a creare tra umano e animale, impalpabile eppure così forte e potente da provare un intenso dolore fisico se si spezza...

Come tutte le saghe, questo primo libro da il giusto orientamento al lettore: mi ha fatto capire dove mi trovavo (cosa non così scontata dal momento che ci troviamo in un nuovo mondo), il carattere dei personaggi che mi hanno offerto il loro punto di vista, le leggende dei luoghi...
Ho capito tutto questo, ma molte sono ancora le questioni rimaste in sospeso, che saranno sicuramente sviluppate nei libri seguenti.

Lo stile semplice e lineare è adatto alla fascia d'età a cui si propone e diventa un ottimo libro di evasione anche per i più grandicelli!

Ecco una serie che non vedo l'ora di continuare!

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Romanzi
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    13 Mag, 2015
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Stile poco convincente

Francesca Barra è nata a Policoro, in Basilicata, e vive lontano dalla sua terra nativa, ma l'amore che sente per le sue origini "riempe" gran parte delle pagine di questo libro.

Le protagoniste di questo romanzo sono: la nonna Teresa e la nipote Caterina. L'elemento che le unisce e le accomuna è la cucina (all'interno del testo si trovano molte ricette della cucina locale, con le tecniche di preparazione) quello che le divide invece sono le scelte della vita.

Teresa già da piccola (quando ancora viveva all'interno dei sassi) sapeva che non avrebbe mai lasciato la sua terra; Caterina per spiccare il volo decide di andare a Roma a studiare.

La Barra ci racconta della sua realtà paesana, di quei luoghi in cui tutti si conoscono e che in famiglia niente si nasconde (o perlomeno si cerca di farlo) e che una festa senza tutta la famiglia che festa è..
Ci porta una ventata di genuinità, in cui le "femmine devono saper fare per maritarsi", in cui lo straniero è quello di fuori e così via.
In contrapposizione ci racconta una Roma diversa, moderna e dispersiva.

Ho molto apprezzato l'amore per il proprio paese ma quello che non mi ha convinto molto è lo stile dell'autrice. Ha scelto di scrivere il romanzo alternando le due protagoniste; Teresa ci racconta del suo passato mentre la nipote ci racconta il suo presente.

L'autrice quindi ha voluto analizzare due punti di vista e due realtà a confronto. La sua scelta, secondo me, è stata un pò ardua, almeno per lei. L'ho trovata carente e forzata nelle veci della giovane diciannovenne Caterina; non sembrava di leggere le parole della ragazza ma quelle di un adulto che prova a scrivere fingendosi un giovane.

Per concludere, posso dire di aver apprezzato la sua voglia di mettere in risalto la sua realtà nativa ma per quanto riguarda la trama e soprattutto il suo modo di scrivere, l'autrice non mi ha molto convinta.


Buona lettura!

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    11 Mag, 2015
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A tavola si invecchia meglio

Il commissario Salvo Montalbano è al suo 37esimo appuntamento con i lettori (comprese le raccolte di racconti e le collaborazioni del suo ottuagenario autore con altri scrittori). La formula è quella – ampiamente sperimentata con successo – delle due vicende che originano in modo indipendente: nel corso del racconto il lettore può scoprirle riunite in un'unica pista criminosa, oppure vederne “diminuita” una a ruolo di contorno dell'altra, senza che esse si incrocino.
Ne “La giostra degli scambi”, il commissariato di Vigata si trova di fronte a misteriosi sequestri-lampo di donne che vengono narcotizzate, ma alle quali non viene torto un capello, e contemporaneamente dinanzi all'incendio doloso del negozio di un certo Marcello Di Carlo, di cui viene per giunta accertata la misteriosa sparizione.
Dopo aver scoperto che le donne sequestrate hanno in comune l'essere impiegate di banca e che il Di Carlo, inveterato “fimminaro”, sembrava star mettendo finalmente la testa a posto, toccherà al lettore addentrarsi nella storia e sincerarsi dell'appartenenza delle vicende all'uno o all'altro dei due schemi delineati.
Sino ad un finale che, pur non scontato, ha la pecca di “accelerare” troppo rispetto alla gradualità con cui la vicenda viene ricostruita nel corso del romanzo.

Sarà che Camilleri scrive le sue storie a somiglianza di sceneggiature cinematografiche. O che Sironi (il regista della serie televisiva) si mantiene fedele al testo in maniera impressionante. Fatto sta che è diventato quasi impossibile – per chi frequenta il personaggio televisivo Montalbano – sfogliare le pagine senza che si materializzino le espressioni dei vari Mimì Augello, Catarella, Livia, Fazio, e via dicendo: nella testa del lettore, la consueta puntata va in onda prima che sia effettivamente girata.
Anche questo è indizio di un successo incontestabile, dovuto a una caratterizzazione dei personaggi e ad un'originalità che forse Montalbano non ha più nei confronti di se stesso (a volte la sensazione di dejavu è dietro l'angolo) ma sicuramente conserva rispetto a tutti gli altri famosi commissari/marescialli/detective privati della pagina scritta.
Per ottenere questo risultato, Andrea Camilleri non ha nemmeno più da faticare tanto, riproponendo le storie del suo investigatore in quella lingua che prende forza dal dialetto della Sicilia centrale (non dal palermitano, dunque, né dal catanese), e che all'orecchio del lettore ha ormai un marchio tutto suo, proprio come il personaggio Montalbano.
Niente di anormale, insomma, se leggendo del buon Salvo seduto tra i tavoli del ristorante di Enzo – cosa che capita piuttosto di frequente ne “La giostra degli scambi” –, si ha la sensazione di vedere Luca Zingaretti che sistema il tovagliolo e si sincera del religioso silenzio attorno, condizione necessaria per gustarsi il pranzo. Lasciatevi portare: c'è il caso che, tra un gamberone e un cannolicchio, arrivi l'intuizione giusta.

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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    09 Mag, 2015
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I SEGRETI DI UNA STORIA

Chiuso "Posizione di tiro" ti domandi chi fosse davvero il protagonista, il sicario Martin Terrier? Un serial killer, che uccide per il gusto di uccidere? Non è affatto sicuro che il suo lavoro lo faccia con piacere. E‘un rigoroso professionista del delitto, ingaggiato e pagato da ambigue organizzazioni criminali, ma non ne è neppure orgoglioso. Allora lo fa, perché è avido di denaro? Neppure, giacché in nessun pagina del romanzo emerge un particolare attaccamento ai soldi. Forse lo fa per amore, giacché dopo anni di lontananza dal suo luogo d’origine, torna per portar via Anne, la ragazza ricca e per questo a lui inaccessibile mai dimenticata? Ma è troppo cinico e disincantato per illudersi sul conto di lei e del prossimo in genere. Neppure sui suoi sentimenti e sulle sue emozioni del resto sappiamo nulla: una volta sola in tutto il libro ci viene detto:«era pensoso…Forse provava solo pena» E allora chi è Martin Terrier? Non trovi una risposta e ti accorgi che sta tutto in quel mistero mai svelato il fascino del personaggio e l’individualità dello stile di Manchette. Ogni autore di talento ha dei maestri e nella pagina dell’autore di “Posizione di tiro” si avverte ad ogni passo Dashiell Hammet contaminato però con il perfezionismo cesellatore di Gustave Flaubert. Lo scrittore pedina il suo eroe, ne osserva attentamente le mosse, dà una fugace occhiata all’espressione del volto le rare volte in cui essa traspare, e riduce se stesso alla neutralità impassibile di una macchina da presa: la maestria sta nel far vedere e nel far sentire. La verità sta nell’azione pura, il resto è solo supposizione, immaginazione gratuita. Espulsi dunque intrecci inverosimili e artificiosi studi di carattere, il miglior modo di raccontare una storia è rispettarne i segreti.


Einaudi ripropone “Posizioni di tiro”, l’ultimo romanzo di Manchette( 1942-1995), considerato il miglior autore di noir della sua generazione, pubblicato in Francia nel 1981 e in Italia sempre da Einaudi nel 1998.

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Irrinunciabile per chi ama il noir
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SARY Opinione inserita da SARY    08 Mag, 2015
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Mente criminale

Lui, il carnefice, è uno studente di medicina, lei, la vittima, una studentessa d’arte.
Lui seziona meticolosamente cadaveri ricavandone piacere, lei si perde tra i fumi dell’alcool.
Lui la vede e il pensiero si fissa ossessivamente sulla sua persona, lei ubriaca lo bacia, poi si allontana e lo archivia velocemente.
La giovinezza è anche questo, irresponsabilità, una toccata e fuga. Ma non per lui. Così ha inizio un incubo senza fine.
Leggerezza e casualità non sono una buona accoppiata, si possono instaurare nuove amicizie, si possono incontrare psicolabili travestiti da bravi ragazzi. Il problema è che loro sono certi di esserlo, semplici ragionamenti per sgretolare le loro sicurezze sono armi inefficaci.
Una visione distorta della realtà porta convinzioni errate. Fraintendere un gesto, caricarlo di importanza, gonfiare un momento, cogliere sfumature irrilevanti, tradurre parole con lingue inesistenti significa avere problemi. Il soggetto che intraprende la propria crociata sentimentale nei confronti della vittima è attratto da quello che proietta la sua testa nella prescelta, si innamora di ciò che vorrebbe che fosse, non di quello che effettivamente è. Eliminare ogni ostacolo per preservare il proprio oggetto del desiderio, perché è questo che diventa la persona, qualcosa da custodire e su cui riversare le proprie attenzioni morbose e malate, è l’unico obiettivo.
Un thriller psicologico inquietante. La mente lucida e l’animo asettico del protagonista instillano nel lettore tensione e panico. I pensieri viaggiano veloci, si prova una strana sensazione per la verosimiglianza con la quotidianità sui giornali. In generale il ritmo è lento senza cadere nella trappola della paralisi narrativa. Un contenuto originale e avvincente, un finale sorprendente.
La penna è giovanissima ma ciò non la penalizza, non risente di inesperienza, asciutta, coerente, decisa, priva di sbavature e orpelli.
Autore brasiliano emergente di talento, questo libro ha già meritatamente un posto assicurato al cinema, sarà un film da cardiopalma.
Concludendo, per i temi trattati e le immagini evocate, si consiglia la lettura ad un pubblico preparato, amante del genere.

“Fin da piccolo, si era sentito fuori luogo, un essere innaturale che conviveva in mezzo a persone dalla risata facile. Per lui non c’era niente, nessuna ricerca intellettuale, nessun pensiero che non fosse insignificante. Era stato un trauma capire che la normalità consisteva proprio in quello. Adattarsi era stato difficile. La realtà non suole fare concessioni. Téo continuava a disprezzare la razza umana, ma per lo meno adesso era un disprezzo disinteressato, quasi compassionevole. Finalmente provava amore”.

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Racconti
 
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siti Opinione inserita da siti    06 Mag, 2015
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Musicali interdipendenze

Disaccordi imperfetti è una raccolta di racconti scritti tra il 2005 e il 2012 e in parte già pubblicati presso autori inglesi e francesi. Li accompagna , presentandoli, una nota dell’autore che ne spiega la genesi e la loro interdipendenza , per alcuni di essi, con romanzi già scritti e pubblicati e con un’opera in fase di scrittura.

Il titolo originale gioca sul doppio significato dell’espressione “loggerheads":“ai ferri corti” e “disaccordo” e tale valenza semantica percorre l’intera antologia. Essa può essere declinata come accordo musicale dalle infinite possibilità, quelle generate da un racconto. Il primo vive sull’onda del ricordo ed è completamente imbastito sulla supposizione. Un pianista di pianobar immagina uno sviluppo diverso, sulle corde del condizionale, ad una situazione reale appena sfiorata ma non vissuta pienamente. C’è di mezzo una donna. “Ai ferri corti” è anche il titolo di un breve racconto, voce narrante femminile, narra il disaccordo tra una coppia di pensionati per il nome da dare alla loro casa al mare. “Leida “ è un bel racconto: muove qualche corda emotiva. Si prosegue poi con altri racconti autonomi, ma spunti narrativi da sviluppare in “Unrest” l’opera alla quale Coe sta lavorando (storia di una famiglia borghese della seconda metà del ‘900).

La scrittura è tesa a evocare il passato, lo scorrere del tempo, a rappresentare il desiderio di fermarlo contrapposto alla brama del cambiamento necessario: “ per alcune persone, il tempo si ferma davvero. Lo ha sempre fatto, ed è la loro definizione dell’inferno”.

Chiude la raccolta “Billy Wilder. Diario di un’ossessione” che ripercorre nel tempo l’ interesse esagerato dell’autore per la colonna sonora di “La vita di Sherlock Holmes”, film del regista di “A qualcuno piace caldo”, “Quando la moglie è in vacanza”, fra i tanti.
Ritengo che quest’opera possa piacere a chi stima Jonathan Coe e ne condivide alcune passioni: musica e cinema. Potrebbe piacere a chi ama la forma racconto e un certo sentimento del tempo perduto.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    05 Mag, 2015
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FERRARIO, REGGIANI... SUSPENCE AL MUSEO!

Come definire il Colonnello Reggiani se non come un uomo colto, pragmatico e capace di muoversi con acume in ogni ambiente anche quelli in cui la maggior parte delle persone si sentirebbero inevitabilmente a disagio? E come dargli torto d’altra parte, quando si tratta di beni dal valore inestimabile tanto economicamente quanto artisticamente che moralmente è necessario convogliare tutte le proprie energie al fine di debellare la criminalità organizzata in questi traffici specializzata, è essenziale recuperare quel patrimonio di cui il nostro paese è stato privato e per farlo è indispensabile quella cura e quell’attenzione minuziosa paragonabile soltanto alle premure di una madre amorevole nei confronti del proprio neonato nonché una notevole versatilità. Vedovo e con una figlia nel pieno della crescita a carico, l’ufficiale si ritrova a dover fronteggiare molteplici situazioni tanto da dover coordinare la propria sfera affettiva con i continui doveri lavorativi.
Ma non è solo il nostro colonnello, è affiancato da una squadra di valorosi collaboratori, agenti scaltri, intelligenti e capaci di calarsi in ogni ruolo e di far fronte ad ogni circostanza. E se la mente è il nostro Aurelio, questi sono immancabilmente la sua longa manus tanto che se non fosse per il gioco di ruoli che si viene ad intramare il lavoro di uno non basterebbe a sopperire alle esigenze della pluralità. Tra i tanti ho particolarmente apprezzato il tenente Marco Ferrario per personalità, simpatia, ironia e competenza, figura che a tratti più che un essere umano ricorda un camaleonte tanti sono i mille travestimenti che è chiamato ad indossare. Sinceramente mi è sembrato il personaggio più completo, meglio delineato.
I racconti scorrono rapidi tra le mani del lettore e nonostante la mutabilità della linea temporale in cui le vicende sono narrate – il romanzo inizia con Teresa, la figlia quattordicenne di Aurelio e finisce con il vederla laureata e già lavoratrice – è impossibile staccarsene. Una lettura piacevole, intrigante e che ha la sua forza proprio nella brevità dei testi che non vengono mai a noia. Altra peculiarità è che si, Reggiani è il protagonista del componimento ma in ogni capitolo è affiancato da un paio di co-protagonisti che di solito sono identificati in un personaggio costante conosciuto durante tutta la narrazione ed una new entry. Interessanti anche le ambientazioni che non si limitano al territorio nazionale bensì varcano le frontiere ma senza mai esagerare, senza mai presentare situazioni paradossali o improbabili. Tutti gli episodi sono infatti casi concreti, non aspettatevi il superman di turno o l’azione da thriller americano. Tutto è molto sobrio seppur ben argomentato. Stilisticamente lo scritto è caratterizzato da frasi brevi, dialoghi esaustivi e una fluidità sufficiente. Si esaurisce in un giorno e mezzo massimo e forse per gli appassionati del genere non sarà il capitolo più entusiasmante delle sue avventure ma, merita di essere letto.

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Romanzi
 
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Domitilla Ganci Opinione inserita da Domitilla Ganci    04 Mag, 2015
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Gabbie dorate

Il racconto di un percorso intimo e segreto, che si perde nelle pieghe di un’anima randagia, in quel modo sottile e sotterraneo che segue chi non riesce ad esporsi, chi fatica a rendere manifesta la propria diversità e sceglie piccole isole di ribellione, tutto sommato conciliabili con una vita “dentro”, rispetto alla fuga o alla provocazione.
Questo è l’ultimo romanzo di Letizia Muratori, giornalista e scrittrice romana che, già dagli ultimi romanzi, comincia ad affermarsi, come merita, al di fuori della ristretta cerchia della cultura capitolina.
La storia parte in modo lento e, soprattutto, ha un inizio che non è un inizio, il lettore si trova già dentro una situazione: l’autrice lo introduce subito in un interno e lo lascia seduto tranquillo ad osservare i personaggi come se dovesse riconoscerli, e non incontrarli per la prima volta, mentre parte, da un luogo invisibile, la narrazione.
Il tempo della storia è spezzato, non conosce linearità se non per alcuni passaggi lunghi nei quali la scrittrice lascia intravedere gli antefatti, dando al lettore la possibilità di orientarsi…ma non troppo! “Animali domestici”, infatti, è un testo complicato, una storia in cui si innestano altre storie, in cui i personaggi vagano nel tempo, vanno e tornano con i loro spezzoni di vita cercando di incontrarsi e stabilire connessioni, rapporti, incontri.
Il romanzo è una storia non di fatti, ma di trasformazioni interiori, di persone che seguono percorsi che, spesso, non li portano da nessuna parte se non all’ interno di sé stessi, per accettare ciò che è difficile accettare, per fuggire in un altrove interno e costruirsi un luogo dell’anima dove trovare rifugio.
I rapporti sono difficili: amori familiari persi nell’ incapacità di essere presenti, amori fraterni confusi e disperati, amori di coppia ambigui, incerti.
C’è una protagonista che compare e scompare, lasciando spazio ad una pluralità di personaggi che fanno di questo romanzo una storia corale.
Letizia, scrittrice nervosa e sofferta, una vita sentimentale disordinata e una tendenza insopprimibile ad accucciarsi in interni pericolosi, è intrappolata in un caleidoscopio di sentimenti difficili da gestire. Al centro della vicenda (anche se tutti i fatti appaiono, in fondo, decentrati) un amore ambiguo e particolare: la relazione sghemba con Edi Sereni, personaggio perno del romanzo. Poliedrico e sfuggente, musicista mancato, giornalista, ex cronista di guerra, figura mitologica presente in tutta la vita di Letizia (“…mi fece uno strano effetto, come se il resto sella mia vita fosse stato solo uno scherzo, e la relazione con Edi, che aveva mantenuto i tratti di una parentesi segreta, si fosse allargata a comprendere tutta la realtà…”), Edi Sereni è il padre di Chiara: la sua amica d’infanzia, che ricompare nella vita di Letizia evocato proprio da lei, a distanza di anni, quando cede al desiderio di rivederlo e decide di inviargli la copia del suo ultimo libro, con dedica.
La migliore caratteristica del romanzo è, per me, in certe descrizioni di personaggi minori lievi e sospesi come gli anziani zii di Edi, costretti a vivere, in vecchiaia, come marito e moglie e per questo incattiviti e quasi impazziti di rabbia e rancore, o la piccola Chiara, incompresa da bambina, irrisa e umiliata nel suo mondo di dislessica non riconosciuta e divenuta un essere fragile e selvatico, consolata solo dai cani randagi a cui salva la vita portandoli nel suo rifugio, o i nonni inglesi di Simonetta (altra amica d’infanzia di Letizia), che attraversano i sanguigni quartieri di Roma con il loro distacco anglosassone un po’ snob e il loro sorriso remoto.
E’ curioso come l’autrice riesca, poi, ad abbandonare, repentinamente, storia e protagonisti per seguire personaggi sui quali inciampa per caso e che riesce a tratteggiare con pochi schizzi precisi e accattivanti (“…la signora del quinto piano che aspettava l’ascensore…viveva sempre su una soglia. Annodava sacchetti davanti a uno zerbino…scendeva furtiva in scarpette color panna e giacca rossa, stringendo tra le dita laccate d’albicocca, vaschette di polistirolo”) che ci proiettano all’ istante sulla scena, al fianco di Letizia, incastonandoci nel preciso momento che ha deciso di raccontarci: nelle sue emozioni di ragazzina, nel cortile dell’università o nel suo peregrinare tra case, cantine e letti promiscui di adulta irrisolta.
Sono presenze evanescenti, ma in un testo così eccentrico si allineano ai personaggi cardine della storia, acquisendo spessore e profondità che altrove non avrebbero.
E poi ci sono i luoghi. La poesia dei luoghi dal sapore vagamente gozzaniano: appartamenti “ricettacoli di oggetti abbandonati”, cantine umide che conservano vecchie poltrone coperte da lenzuola che hanno accolto infanzie lontane, terrazze condominiali, soggiorni con pareti decorate da stampe di balene, negozi di antiquariato. Interni che conservano umori, dolori, età di chi li ha abitati, restituendoli a chi li attraversa in altre epoche, carichi di significati impliciti e segreti.
Sfondo della storia, l’adolescenza di Letizia, che, nel libro e nella realtà, si colloca negli anni ottanta. Il romanzo è disseminato di rimandi a quell’ epoca fatti di oggetti (la crema abbronzante Lancaster, il baracchino) e topoi nostalgici e un po’ stropicciati (“Blade runner”, Grace Jones, i viaggi a Londra con gli spettacoli teatrali al West End).
Originale e inconsueto, è un romanzo da leggere, superando l’iniziale disorientamento, rinunciando a cercare il bandolo della matassa e abbandonandosi al fluire del racconto.
Io a metà del libro sono tornata indietro, all’ incipit e ho ricominciato, proseguendo poi a salti ed assaggi e tormentando le pagine con vergognose orecchie per poter riassaporare i passaggi più intensi o sottolineare le frasi che mi sono piaciute. Un approccio da adolescente che, credo, piacerebbe all’ autrice che parla a quel piccolo ribelle che è in noi e ha dovuto diventare nel tempo, per scelta, calcolo o necessità… un animale domestico.

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"La casa madre" e altri romanzi di Letizia Muratori.
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Aprile, 2015
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Piccoli e grandi eventi

Finalmente un autore italiano sceglie di percorrere il sentiero della Storia.
L'ultimo libro di Scurati è un affondo meraviglioso tra le pieghe della storia del Novecento, attraverso ricostruzioni parallele di vite illustri e non.
Il passato prende forma attraverso i volti di Leone e Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Giulio Einaudi e tanti altri protagonisti dei primi decenni del secolo scorso.
Raccontare un periodo storico attraverso le vicende personali di uomini e donne, carica il testo di un'intensità assoluta e impareggiabile.
L'opera di Scurati si compone come un mosaico prezioso, in cui gli eventi socio-politici non rimangono sterili date da annotare e registrare nella memoria, ma si riflettono, lasciando il segno, nelle vite dei protagonisti citati, siano essi scrittori e giornalisti, uomini di cultura, famiglie benestanti, operai, braccianti, famiglie numerose con tante bocche da sfamare.
La ricostruzione bibliografica meticolosa operata dall'autore, permette al lettore di venire a conoscenza di scritti preziosi, stralci di lettere, riflessioni e pensieri che trasudano sentimenti, emozioni, struggimenti che nessun saggista o storico sarebbe in grado di riprodurre.
La linfa del passato scorre inarrestabile tra le pagine, inanellando immagini di speranza, di sopruso, di violenza, di morte, ma anche di coerenza, di forza, di fede in se stessi e nei propri ideali.

Difficile classificare questo testo; unica certezza non è un romanzo.
Imperdibile per chi volesse affrontare un viaggio nel passato italiano attraverso lo strumento del “ricordo”; il ricordo di uomini e donne il cui nome è stato immortalato dalla storia ma anche il ricordo dei tanti “anonimi”, nonni e nonne che c'erano mentre piovevano bombe, che c'erano mentre dilagava la furia delle persecuzioni razziali, che c'erano quando la fame era nera e la vita appesa ad un debolissimo filo.

Complimenti a Scurati per aver trovato un equilibrio narrativo che gli ha permesso di raccontare tante singole storie, alternando i protagonisti con armonia e riuscendo a tenere tutti i tasselli legati tra loro creando un effetto corale notevole.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Donnie*Darko Opinione inserita da Donnie*Darko    24 Aprile, 2015
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Non è morto ciò che può attendere in eterno

Mi sento come un insegnante deluso dal suo alunno migliore, quello che ti regala sempre qualcosa in più rispetto alla media e che invece nell' ultimo trimestre si applica giusto per raggiungere la sufficienza, che nei casi di uno scrittore del calibro del Re si traduce in prospettive alimentari, inerenti la mera commercializzazione e poco altro.
Ma andiamo con ordine: la nuova fatica letteraria di Stephen King si potrebbe suddividere in tre tranche più un epilogo all'interno del quale gli amanti dell'horror potranno affondare i loro denti aguzzi. Per giungere al tanto atteso climax l'autore costruisce un percorso lastricato sulle lacrime di un dolore lancinante, imperniato su disillusione e sbugiardamento dei falsi miti. Un viaggio ahimè piatto, senza scossoni e caratterizzato da ammaestrata prassi sfociante nel racconto di formazione, con veloci sterzate nella drammaturgia, mirato a creare le basi per un excursus in un mondo severamente vietato all'uomo.
Si parte dall'infanzia di Jamie Morton che bambino incontra per la prima volta Charles Jacobs, allora consacrato al credo e alla chiesa metodista, persona ammirata da tutti nella piccola comunità del Maine in cui si fa portavoce del suo Dio. Un personaggio amabile con il pallino degli esperimenti scientifici e più esattamente, come un epigone di Tesla, di quelli con l'elettricità attraverso cui sembra poter compiere dei piccoli quanto strabilianti interventi sananti.
Purtroppo per lui le vie del Signore sono infinite e spesso imperscrutabili. Una terrificante tragedia lo attende al varco e Charles perde la fede, il tutto sottolineato nella cosiddetta Predica Terribile, in cui King, al primo step in cui potrebbe mostrare la sua immane classe, si incarta in un' invettiva pregna di retorica spiccia e qualunquismo dogmatico.
Allontanato dall'indignita comunità Charles svanisce nel nulla, mentre Jamie, ormai ragazzotto di belle speranze, grazie alla passione per la chitarra, diventa un ricercato turnista per alcune rock band che gli permettono di girare l'America. Almeno fin quando la droga non ne ottunde talento e professionalità. A quel punto il baratro è a un passo ma Charles riappare, pronto a salvarlo dal demone dell'eroina. L'elettricità funge da bizzarro salvagente, gli esperimenti sono progrediti e Charles sfiora il miracoloso sostituendosi a chi ha rinnegato anni prima.
Siamo al cospetto di un altro momento clou, in cui il rapporto tra i due viene saldato da un patto quasi luciferino a cui Jamie dovrà rispondere al momento del bisogno.
Purtroppo King annoia mortalmente tra nostalgie rock, luna park itineranti ed esperimenti sempre più sbalorditivi ma spaventosi nelle conseguenze.
La storia continua quindi a trascinarsi, senza lampi che non siano quelli di un'elettricità che abbaglierà pure i bifolchi delle fiere in cui Charles si è reinventato imbonitore, ma difficilmente faranno presa sul lettore più sgamato che conosce il talento di King, in questo caso ancora più in versione diesel del solito mentre annaspa per giungere al nocciolo.
Revival sembra prendere velocità nel terzo segmento, ma è solo un fuoco di paglia. Torna l'ossessione per le dimensioni parallele, in questo caso debitrici a qualche obsoleto b-movie buono per la seconda serata di Italia 1, e non bastano certo citazioni di grande spessore a risollevarlo dall'ennesima illusoria resurrezione.
Non si sobbalza, non ci si emoziona, non ci si appassiona: anche se King sguazza tra Lovecraft, il mito di Prometeo, il Frankenstein di Mary Shelly, libri maledetti e oscuri rituali alchemici, il romanzo resta un ensemble di idee incompiute, confezionato in modo professionale ma senza cuore. Addirittura la cifra stilistica giunge stantia: l'ironia non graffia, l'intreccio si perde in barbosi snodi mentre l' insostenibile buonismo del protagonista, miscelato alla consueta retorica da buon samaritano, imperano restituendo un'integrità ammirevole ma ormai abusatissima.
King ci mette mestiere e poco altro, mentre il popolo dei fedelissimi (tra cui il sottoscritto), grato per ciò che fu, si sorbisce la solita sbobba.

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Romanzi
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    24 Aprile, 2015
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C'era una volta una gatta

Puo' un animaletto che appartiene ad altri influenzare la vita di due persone ? 
Certamente sì, ci racconta Hiraide Takashi con questo suo libro, puo' modificare prospettive, puo' riempire vuoti o crearne di ulteriori. Così Chibi, la gatta dei vicini che non rispetta i confini, si insinua con passo felino nella tranquilla esistenza di due coniugi in un trascorrere pacato dei fatti, dove il vecchio giardino di una casa padronale scandisce il tempo mentre l' olmo secolare abbraccia ed ombreggia la dimora.
La gente invecchia, si vendono le proprieta' immobiliari, le belle abitazioni tradizionali non piacciono piu', il susino sorride di gemme nuove spuntate in un velo di neve, inconscio del suo destino.
Penna molto semplice così come la storia narrata, c'e' una delicatezza prettamente giapponese che affascina e che e' punto di forza del racconto. 
Se la lettura e' rapida e apprezzabile, non ho colto la pennellata che in questo filone narrativo fa la differenza. Accostando il testo a un Firmino di Savage, per esempio, o a Storia di una gabbianella e del gatto che le insegno' a volare di Sepulveda, sebbene l'elemento fantasia accomuni i due testi mentre nel qui presente la storia sia decisamente verosimile, essi mi hanno coinvolta ed appassionata lasciando un segno che qui non ho avvertito, l'effetto "affetto" non e' scattato.
Grazioso ma evanescente, con alcune immagini delicatamente amabili. Buona lettura.

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Romanzi autobiografici
 
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    22 Aprile, 2015
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La Bambina non dimentica

" Anche da adulti portiamo sepolto in noi il ricordo di come percepivamo il mondo da bambini. E non si tratta solo del ricordo: la struttura medesima di quella percezione resta intatta " (P. Auster).

A cento anni dal genocidio del popolo armeno, con oltre un milione di persone trucidate, ci giunge questo gradevole libro della Arslan a ricordarci quella ferita spesso dimenticata, rimossa.
Il testo non tratta in primo piano quel terribile evento, ma le sue risonanze si avvertono vivissime e fanno come da mesto sfondo alle vicende della Bambina, personaggio autobiografico, attraverso le parole del nonno paterno, testimone degli orrori vissuti dal suo popolo : "Non erano più uomini forti e donne gentili (...), erano i resti di un immenso naufragio".
"E da allora quelle storie rimasero dentro di me, nascoste e vigili e protette nel loro cassetto segreto ".
Nella vita pratica, il ricordo si concretizza in qualche ricorrenza: a Venezia, all'isola di S. Lazzaro "dove si va a Pasqua e si mangia il lavash e la marmellata di rose".

Un'altra ferita, questa personale e intima, deriva dal rapporto con la madre, vissuta dalla Bambina come una donna bellissima, volitiva, spesso al centro dell'attenzione, la cui predilezione va all'altra figlia. La Bambina ricorda quando, per una prodezza, si fa male : "Ma quanto sei stupida! Adesso mi tocca lasciar qua tutto e portarti all'ospedale".
Ora, dopo tanti anni, in una recente intervista, l'autrice la ricorda "sicuramente faticosa come madre" e intuisce come piccoli conflitti "hanno però determinato un certo rapporto di estraneità tra di noi". Adesso, da donna ormai matura, dice: "Ho capito che era una persona che non era riuscita a fiorire del tutto, come fosse rimasta (...) un po' sospesa, e in questa luce l'ho sentita più vicina".

Non si tratta, però, di un libro particolarmente triste: c'è il felice rapporto col padre e coi nonni; ci sono le vacanze in montagna, presso un paesino che si pronuncia con un soffio, Susin di Sospirolo, dove si vendono "gli scarpet comodi ai piedi (...), di soffice feltro". Ma soprattutto ci sono i libri. "I libri sono esseri viventi, per lei" : "non si può vivere senza un libro (...), la porta sempre aperta verso mondi altri, verso l'Altrove".
Per noi lettori, un 'mondo altro' è anche il mondo, perduto e ritrovato, rievocato dall'autrice, anche lei, come dice Modiano, "capace di cogliere, inconsapevolmente, un vago riflesso della realtà", che, in fondo, riguarda un po' tutti.

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    20 Aprile, 2015
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In questo mondo di ladri...

Va detto subito: il romanzo di Fuminori Nakamura non ha niente in comune con quello di KK (Kenzo Kitakata) se non il titolo 'Tokyo Noir'... ed aggiungerei purtroppo, in quanto uno dei motivi che mi ha indotto a scegliere il romanzo di Fuminori è stato proprio aver apprezzato moltissimo il romanzo omonimo sperando che fosse, come quello, un capolavoro del genere noir nipponico, considerato anche quanto osannato nei vari commenti autorevoli riportati in copertina e come i premi di rilievo ricevuti in patria e all'estero lasciano ipotizzare.
Ma se Kitakata non ha deluso affatto le mie aspettative col suo romanzo che incanta e violenta il lettore allo stesso tempo, non posso affermare altrettanto di Fuminori.
Alcuni hanno definito questo romanzo un 'noir filosofico', definizione che condivido a metà nel senso che c'è molta filosofia e poco noir, se per noir intendiamo quel filone (meglio conosciuto come 'hard-boiled') del genere poliziesco che punta ad una più efficace costruzione della suspence, indugiando ed enfatizzando dettagli anche cruenti ed erotici, a discapito dell'indagine investigativa vera e propria.
Non sarebbe corretto affermare che queste caratteristiche siano del tutto assenti nel romanzo di Fuminori ma sembrano note stonate, non perfettamente in sintonia col resto della storia: un esempio per tutti, la descrizione direi quasi asettica e distaccata di un'orgia che si concretizza dinanzi agli occhi attoniti del protagonista nel salone di un locale e che si percepisce come 'estranea' alla vicenda, quasi fosse un obbligo per l'autore inserirla; risulta, infatti, del tutto inutile nello sviluppo della trama e se lo scopo dell'autore, l'unico che posso immaginare, è stato quello di voler assimilare quel salone ad una sorta di bolgia infernale, quasi come anticamera prima dell'incontro col diabolico Kizaki, il risultato è comunque poco soddisfacente, offrendo più l'idea di un set per un film pornografico.
In quest'ottica trovo la scelta del titolo (della versione italiana) 'Tokyo noir' dettata da esigenze di mercato più che da una reale assonanza con la storia raccontata; molto più efficace il titolo 'Thief' della versione inglese, traduzione 'letterale' del titolo originale 'Suri' (ladro).
Per la semplice ragione che il romanzo ha come protagonista un ladro, Nishimura, un vero professionista nel suo settore, un Arsenio Lupin di strada, un borseggiatore che adocchia le sue possibili prede tra la folla variegata che popola le strade di Tokyo e con maggior predilezione verso coloro che ostentano ricchezza e potere; come se in tal modo possa attenuare il senso di colpa per il piacere che prova nell'impossessarsi della proprietà altrui, nell'avere tra le mani un pezzo della vita altrui, quello riassunto nelle foto, nei documenti di identità o nelle tessere conservate nel portafoglio o in una borsa.
Le tecniche di furto sono estremamente precise ed eseguite con perizia quasi chirurgica; e per quanto mi sembra assurdo che un ladro, seppur di tale livello, possa riuscire nel giro di pochi secondi a sbottonare un cappotto, tagliare un taschino interno, sfilare un portafoglio, prenderne i soldi all'interno, rimettere al suo posto il portafoglio e riabbottonare il cappotto senza destare il minimo sospetto, devo ammettere che mentre leggevo il libro in metropolitana ho spesso controllato, quasi istintivamente, che il mio portafoglio fosse sempre al suo posto.
Poi un giorno la vita di Nishimura subisce un radicale ed improvviso cambiamento: da una parte l'incontro, sembrerebbe fortuito e casuale, con un bambino alle prese con i suoi primi tentativi di furto, alquanto maldestri, in un supermercato che fa riaffiorare nella mente di Nishimura i ricordi della sua infanzia e risveglia nel suo cuore un desiderio di amicizia e di affetto sino ad allora soffocato da anni di solitudine ed isolamento; dall'altra, l'incontro altrettanto casuale con un uomo misterioso e temibile, già citato Kizaki, che lo costringe ad assecondare i suoi piani criminali apparentemente senza una ragione precisa che giustifichi il suo coinvolgimento, senza un motivo per cui Kizaki abbia scelto proprio lui, Nishimura.
Ma nulla avviene per caso nella vita di ogni uomo, il destino è sempre un disegno ben preciso nella mente del più forte: 'In fondo che cos'è il destino, se non il vincolo che tiene uniti i deboli ai forti?'
Anche gli eventi solo all'apparenza inevitabili sono sempre mossi dalla cupidigia e dall'opportunismo di alcuni e dallo scontento degli altri che sfocia inevitabilmente in un gesto disperato e definitivo.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    19 Aprile, 2015
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Costumi e religione in uno shtetl dei primi del No

“La pecora nera” di I.J.Singer fu pubblicato postumo nel 1946 ed era stato inteso dall’autore come il primo volume di un’ autobiografia, rimasta purtroppo incompiuta. L’opera, infatti, ripercorre l’infanzia dello scrittore fino alla sua adolescenza. L’insieme che ne risulta è di grande interesse storico e culturale.
Ci si offre l’opportunità, infatti, di approfondire quelle che furono le usanze e i comportamenti delle comunità ebraiche degli shtetl, villaggi o vere e proprie cittadine situate nei paesi dell’Europa Orientale.
Qui siamo a Bilgoraj, nel distretto di Lublino, Polonia. L’epoca in cui inizia il racconto coincide con l’incoronazione dello zar Nicola II, il 1894, quando l’autore aveva pressappoco un anno. La cultura e la politica russa eserciteranno inevitabilmente un’influenza non indifferente sulle comunità ebraiche lì stanziatesi.
Alla descrizione dettagliata delle povere case del luogo, Singer aggiunge una galleria di personaggi molto ben delineati, di cui sottolinea, con notevole capacità satirica, i limiti, le idiosincrasie, le meschinità caratteriali. Incontriamo così Yosef il sarto, dedito alle birbonate, Leybush il fornaio, sempre coperto di farina come il suo cavallo, Yitskhok il carrettiere, magro e allampanato, reduce dal servizio militare in Russia, che va in giro a commerciare con il suo cavallo sporco e malconcio.
Il piccolo Singer dimostra sin dai primi anni di vita una predilezione per i personaggi più discussi e discutibili, parte di quella comunità. Egli diviene la pecora nera della famiglia.
I ritratti sicuramente più riusciti, tuttavia, riguardano i vari tipi di maestri che si succedono nel villaggio. C’è lo squilibrato mentale, Reb Meir, il maestro David, che consumava i pasti a casa degli scolari, il maestro Asher, soprannominato il silenzioso, che si reggeva i pantaloni con le mani, quello che accarezzava i bambini invece di frustarli e per questo allontanato precipitosamente, infine Moshe, che usava strapparsi la barba e masticarla.
L’ironia dell’autore non risparmia comunque neanche i genitori di cui ripetutamente evidenzia i limiti. Del padre sottolinea la mancanza di volontà, la pigrizia, l’incapacità decisionale, in breve la dabbenaggine. Della madre, che pure conduce una vita sottomessa, mette in risalto l’ intelligenza e la cultura.
Ed è il ruolo della donna, così maltrattata e sminuita nel contesto sociale, che viene riscattato dalle descrizioni di Singer. Egli rileva l’ingiusto trattamento ad esse riservato, per esempio al momento d’un parto. Generare una figlia significava non aver diritto neanche ad una giornata di riposo. Eppure queste comunità si basavano fondamentalmente sul lavoro e sull’impegno delle donne.
Se il quadro sociale risulta ampiamente dettagliato, non meno lo è quello religioso. Si apprende quanto sia importante il ruolo del rabbino, non solo per la divulgazione e l’approfondimento delle scritture, ma anche per la funzione di mediatore e di paciere nelle cause controverse tra coniugi. La sua funzione era dunque moralizzatrice e pacificatrice.
Il giovane Singer sembra non sopportare le regole della sua comunità spesso rigide e ipocrite. Egli infatti si comporta talvolta in modo non consono ai principi che gli erano stati trasmessi, quasi a voler affermare e ribadire il concetto che l’eccessivo rigore imposto ai giovani spesso genera una naturale e spontanea ribellione.
Non mancano infine accenni alla storia del popolo ebraico, alla diaspora che li portò a radicarsi in parti diverse del mondo e soprattutto è interessante l’accenno alla persona di Herzl che fu il primo ad affermare la necessità della creazione di uno stato di Israele. Ma questo investe il piano più specificamente politico, che forse Singer avrebbe sviluppato nel secondo volume che non ebbe tempo di scrivere, ma che certamente avrebbe compreso le dure e tristi esperienze della persecuzione e dell’esilio.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    18 Aprile, 2015
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Imprevedibili eventi

Amore, parola così importante e spesso inflazionata, ma capire profondamente cosa sia è tutt'altro che facile, sarà per la sua volatilità?
Non credo molto nella volatilità dell’amore, ma questo romanzo riesce a dare abbastanza il senso di questa volatilità, di quanto possa essere facile stravolgere la vita, di come sia facile trovarsi e perdersi.
La storia parte con la scena di un uomo che attende una donna su un’isola, è alle prese con la sua nuova occupazione dopo le vicissitudini che lo hanno portato in quell'eremo naturale, un lungo flashback descrive il recente passato, tanto appassionante quanto disastroso, l’epilogo, della quale non scriverò per ovvie ragioni, è sicuramente una svolta che ci lascia pensare.
Una bella storia, una lettura piacevole e scorrevole, un intreccio di vite e di amori, la vicenda di un colpo di fulmine che, come uno tsunami, spazza via tutto e lascia solo uno spiraglio per ricominciare. Una vita agiata, il tracollo e la ripartenza, una sorta di “downshifting” obbligato che restituisce un senso più umano e intimo ad una vita, una realtà più vicina alla natura, ma allo stesso tempo troppo distaccata dal bisogno primario dell’uomo di socialità.
Amore, spesso confuso, spesso offuscato, troppe volte represso, altre, ingiustamente esaltato. In questo romanzo sono evidenti queste difficoltà, ma al contempo è ben descritta la passione che ci porta ad andare avanti e poi, forse, ci fa pentire e scappare.
La complessità della vita e degli intrecci amorosi, l’imprevedibilità degli eventi che ti portano a cambiare vita e a riflettere su di essa.
Non posso certamente affermare che si tratti di un capolavoro, ma è sicuramente una lettura semplice e lineare, non mi ha particolarmente stupito o meravigliato, molto bella però l’atmosfera descritta del luogo isolato sulla quale vive il protagonista, mi hanno trasferito un senso di pace e di semplici suoni piacevoli. Da un’intervista dell’autore si scopre che l’idea per questo libro nasce dalla storia della sua vita, di come è nato l’amore tra lo scrittore è sua moglie, un colpo di fulmine tra due persone impegnate che, a distanza di anni, ancora si amano.

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