Le recensioni della redazione QLibri

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    30 Settembre, 2015
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Thus bad begins


“Thus bad begins and worse remains behind” sono le parole piene di biasimo e di dolore che Amleto rivolge alla madre, in una delle scene più drammatiche dell’opera shakespeariana.
Non è la prima volta che Marias ricorre a Shakespeare per il titolo di un suo romanzo. Era già accaduto in “Un cuore così bianco” dove il riferimento al Macbeth è esplicito.
Siamo nella Spagna post franchista. Al centro della storia sono un regista di mediocre successo, Muriel, sua moglie, Beatriz, alcuni frequentatori della loro casa, legati da vincoli di amicizia, come Roy, Rico e il pediatra Jorge Van Vechten. Il narratore Juan De Vere ha il ruolo di assistente e segretario del regista. La storia, con i suoi enigmatici e tormentati personaggi, serve da pretesto per approfondite riflessioni su un lungo e oscuro periodo storico di cui la Spagna è stata protagonista e delle conseguenze che si sono protratte fino quasi ai nostri giorni.
Non è un mistero che l’ordine apparente che regna nei regimi autoritari nasconda profonde fratture, drammi, crisi di coscienza, abusi, prevaricazioni e violenze. Non tutto avviene alla luce del sole. La verità emerge solo in un tempo successivo, quando le dittature cadono o si estinguono naturalmente, come nel caso della Spagna. E se dolore e paura hanno dominato durante il regime, diffidenza, sospetto e tradimenti non mancano nel periodo della normalizzazione. É questo uno dei punti centrali di questo bellissimo romanzo. L’analisi delle reazioni, dei sentimenti di chi ha avuto la fortuna di sopravvivere a un lungo periodo di repressione e oppressione è condotta con sapiente sensibilità. Marias insiste su quel fenomeno che egli chiama “patto sociale” necessario, anzi indispensabile per sopravvivere dopo simili eventi. Proprio grazie ad esso il popolo spagnolo è riuscito, se non a dimenticare, che é cosa assai diversa, a pacificare gli animi, a conciliare in qualche modo le posizioni opposte, a tacitare le meschine delazioni. La convivenza civile ha richiesto uno sforzo quasi sovrumano. Molto si è taciuto. Molto si è volutamente ignorato. “Dei fatti storici di un paese parleranno soprattutto le generazioni che non li hanno vissuti, per poterli capire, per cercare di appartenere a una parte o all’altra.”
Ed è così che comincia il male, quando “il peggio resta indietro, perché ormai è passato”.
In questa prospettiva si inserisce l’ambiguo personaggio di Van Vechten. E d’altra parte l’ambiguità circonda anche Muriel e Beatriz. La loro storia si trascina fino alla fine in un succedersi di dubbi e supposizioni, che catturano l’attenzione del lettore.
Da un punto di vista strettamente letterario, il personaggio del narratore testimone degli eventi raccontati, il giovane De Vere, rientra nella classica tradizione del romanzo picaresco che ha le sue origini proprio in Spagna con il Lazarillo de Tormes. L’esperienza del giovane Juan lo condurrà a quella consapevolezza, a quella maturità che farà di lui un uomo, come era avvenuto all’Ishmael di Melville, al Gulliver di Swift, al Robinson di Defoe, fino a giungere a personaggi più moderni e di notevole spessore letterario quale Stephen Dedalus dell’Ulisse di Joyce.

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Un cuore così bianco, Gli innamoramenti
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Settembre, 2015
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È la cattiveria che viene fuori

È la cattiveria che viene fuori.
Così dice Dolly alla figlia Mary Rose, quando questa si lamenta di dolori vari.

Un mese.
Il tempo che ho impiegato a leggere questo libro. Disperando, in più punti, di farcela e, in uno, maledicendo di aver imparato a leggere. Invece oggi, 29 settembre, l’ho finito. Complice la prima neve sui monti e la definitiva chiusura di questo tomo che mi guardava malevolo dal comodino da tanti giorni, mi sembra di rinascere.
Che c’è di così orribile nella storia di Mary Rose MacKinnon?
Niente, se non, appunto, Mary Rose MacKinnon.
Una quarantottenne canadese, scrittrice di successo, sposata con la donna che ama, madre di due bambini, che da oltre un decennio ha ricucito anche i rapporti con la sua famiglia d’origine (militare & cattolica), incrinatisi dopo il suo coming out. Per dare una piccola idea del personaggio: la compagna di Mary Rose è una registra teatrale e si trova fuori città. Per sua libera elezione, Mary Rose non vuole aiuti esterni, ma vuole occuparsi da sola di bambini, casa e cane (ovviamente mica un cane qualsiasi, una pitbull che Mary Rose ha eroicamente salvato dal mondo dei combattimenti clandestini). Non trova le forbici e questo è come viene descritto:
«Le forbici migliori che abbia mai avuto. Le forbici delle televendite (…) forbici così ben fatte che un giorno potrebbe portarsele nella tomba, le lame scintillanti ancora letali. Dove finiscono le cose? Chi le prende? Hilary le avrà messe nel cassetto degli utensili? In più di un’occasione, e con tutta la ragionevolezza possibile, Mary Rose ha implorato Hilary di mettere le forbici al loro posto nel ceppo dei coltelli – capisce che può sembrare una bazzecola a una che va a fare le prove in teatro ogni giorno con un vestito diverso, spesso in un’altra città, e ancora non si è trovata a casa durante un attacco prescolare di pidocchi, ma per Mary Rose è importante. È lei che cucina, fa la spesa e prende sul serio quell’impresa tutt’altro che facile che è il governo della casa. Per dirla in termini militari, Mary Rose è nella prima linea domestica. Come può Hilary definirsi femminista, e ancor più lesbica, se non rispetta Mary Rose nemmeno quel tanto da rimettere le forbici al loro posto? Ma no, certo, Hilary non si definisce lesbica, rifiuta di “definirsi” in qualsiasi modo, com’è tipico dei bisessuali.»
E stiamo parlando della momentanea sparizione di un paio di forbici (per la cronaca: le aveva lasciate in giro MR). Tutte le (ahimè) 340 pagine del libro sono così.
Un grumo di insoddisfazione, risentimento, smania di approvazione e politically correct in un match all’ultimo sangue Mary Rose MacKinnon VS il resto dell’universo.
Mary Rose invidia alla compagna la maternità e il suo lavoro, alla madre (che si sta avviando alla demenza senile, è figlia di una “sposa bambina” e ha avuto tre figli e molti strazianti aborti) il padre, alle amiche single la loro libertà, alle amiche con prole, la prole, etc.
Non basta.
Nel mentre che gestisce il regno del salutismo, igienico, alimentare, ergonomico e politically correct ha il terrore che qualcuno la giudichi inadeguata. Continua, ad ogni riga, a ribadire cose del tipo:
«Che male c’è se si concede un sonnellino anche lei? Non significa mica trascurare la famiglia.»
Oppure
«Non le va di presentarsi a scuola carica di borse delle spesa, non vuole sembrare quel tipo di donna.»

È profondamente infelice, insoddisfatta e piena di rancore, ma deve mostrarsi felice, soddisfatta e vincente. Perché? Perché deve aderire al suo ruolo di diva, cioè “una martire estroversa”.
Perché è quello che viene chiesto normalmente alle donne. Invece di ribellarsi, la nostra asseconda questa richiesta e per giustificare l’inevitabile fallimento, che fa?
Cerca di rievocare traumi del passato a cui dare le colpe.
Quando Mary Rose aveva due anni, a seguito della morte, dopo pochi giorni di vita, di un bambino e l’aborto – quasi a fine gravidanza di una bambina – la madre ha avuto un periodo di depressione. Forse l’ha strattonata rompendole un braccio… o forse è successo perché l’ha salvata da una caduta? O forse ha trascurato il fatto che le facesse male il braccio o non se ne è accorta? Del resto LEI non piangeva mai e si faceva un vanto del non mostrare mai dolore. Non lo ricorda.
E poi c’è il racconto del “coming out”: Mary Rose ha ventitré anni e va a vivere con la sua fidanzata, René; la madre dice a Mary Rose cose orrende, il padre tace. La madre dice che la preferirebbe morta. Malata di cancro. Che preferirebbe che fosse morta al posto delle altre sorelline e fratellini.
Mary Rose è traumatizzata, MA continua ad andare a trovare i genitori, che però rifiutano (anche l’amato padre) di andare a casa sua. Poi piano piano la cosa si appiana.
E quindi?
Intanto, a causa di ciò, la narrazione della perfetta settimana di MR a casa con bambini & cane senza Hilary, viene intervallata da continui flashback. Ad un certo punto si inseriscono anche alcuni brani del libro che MR sta tentando di scrivere. Per le prime venti pagine ci sono i tentativi di Mary Rose di rispondere ad una mail affettuosa del padre.
Insomma quello che emerge dalla lettura è una lagna acrimoniosa e cattiva.
E senza indugio darei il premio Nobel alla MacDonald per aver saputo creare un personaggio che così abilmente concentri in sé tutti gli stereotipi dell’universo sull’isteria femminile, se non avessi il concretissimo dubbio che Mary Rose fosse (volesse essere) un personaggio positivo.
Almeno nelle intenzioni della sua autrice. Quasi la protagonista di un romanzo di formazione che arrivi – finalmente – all’età adulta trovando la pace, sistemando le cose con il suo passato e il suo presente.
A me Mary Rose ha ricordato moltissimo Eleanor, la protagonista di “Hill House” di Shirley Jackson. Per chi non l’avesse letto, un piccolo spoiler: è una storia “horror”. Mi ha ricordato anche lo Svedese di "Pastorale Americana" di Philip Roth. Un personaggio "positivo" con il quale mi è stato impossibile empatizzare.

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La protagonista ricorda Eleanor di "Hill House" di Shirley Jackson, e anche lo Svedese di Pastorale Americana.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    29 Settembre, 2015
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Il nome, non fa il capolavoro

Avete degli artisti che per voi rappresentano una "garanzia"? Quelli che magari tra un lavoro e l'altro fanno passare anni (che a noi sembrano secoli), ma una volta che l'attesa è finita questa viene ampiamente ripagata? Geni che vanno sempre oltre le aspettative, sempre in grado di superarsi anche se può sembrare impossibile. Cristopher Nolan? Un film ogni due anni, sempre più geniale. I Coldplay? Un album ogni tre anni, un capolavoro dopo l'altro.
Questo discorso vale anche per i grandi della letteratura, ovviamente. Ma cosa accade quando questi cedono allo strapotere dei soldi e del marketing? Probabilmente quello che è accaduto a Stephen King. Sfornare due libri all'anno non può che incidere negativamente sulla qualità dei suoi lavori, che riescono a mantenersi su un livello medio solo perchè l'autore rimane di comunque alto livello.
Però, l'impressione che per far soldi ci si stia privando di capolavori che potrebbero essere partoriti con più calma, è palese.
I tempi di 22/11/'63 sono lontani, eppure non si tratta di secoli fa.

Con questa premessa, eccomi qua, a recensire il secondo capitolo della trilogia (thriller?) di Stephen King, che ha come protagonista il detective in pensione William K. Hodges, sequel del tanto discusso e criticato "Mr. Mercedes".
Sono stati fatti passi avanti? Vi chiederete. Più o meno, vi dirò io.
Rispetto al suo predecessore, "Chi perde paga" presenta nella trama un pizzico di originalità in più, nonostante ripresenti un idea che l'autore ha già trattato in passato in "Misery non deve morire". Chissà se lo scrittore non nasconda una reale paura di essere rapito o addirittura ammazzato da uno dei suoi fan più accaniti. Di questo passo, il rischio aumenta.
"Chi perde paga" è più originale del suo prequel, ma ugualmente privo di grossi colpi di scena e con troppe forzature volte a compiacere i lettori più "sentimentali". Quest'ultimo aspetto cozza irrimediabilmente con la definizione di Hard-boiled, che è il genere (a quanto pare) associato a questa trilogia.
Quasi inutile aggiungerlo, ma lo stile di King è come al solito ottimo, senza sbavature, piacevole, ma forse un tentativo di essere più ricercato e meno semplicistico sta iniziando a diventare necessario, perchè il rischio di stufare definitivamente i lettori si sta accentuando.

Il libro è diviso in due: la storia vera e propria ha inizio nel 1978, quando un'acclamato e solitario scrittore, John Rothstein, viene assassinato da un rapinatore, che è anche un suo accanito fan e lo accusa di aver rovinato la sua più famosa trilogia, quella de "Il fuggiasco", con il terzo capitolo della serie. Un ottimo motivo per sparargli un colpo in testa, più o meno la stessa reazione che ho avuto io nei confronti del regista di Alien 3.
I taccuini rubati allo scrittore defunto contengono due romanzi che fanno da seguito al terzo libro de "Il fuggiasco", ma prima che possa leggerli, l'assassino viene sbattuto in galera per un altro crimine commesso da ubriaco. Passeranno trent'anni prima di scoprire che i taccuini che ha nascosto e atteso di leggere per tutti quegli anni, sono stati trovati da un ragazzino. Questo scatena la sua furia assassina. In tutto questo, il presunto protagonista William Hodges ha un ruolo quasi secondario. Il suo personaggio non subisce alcun tipo di evoluzione, nè viene approfondito alcunchè sulla sua personalità o il suo passato. Ma dopotutto, compare per meno di metà libro. Questa non è certo una scelta felice per qualsiasi romanzo, figurarsi per una serie a più capitoli.
Abbiamo di fronte pura letteratura di intrattenimento e niente più, ma da scrittori del calibro di Stephen King è assolutamente lecito aspettarsi di più, ed è proprio da questo che nasce la delusione e non dalla qualità del romanzo in sè, perchè non è comunque da buttare.
Da qui la mia valutazione finale, che forse vi aspettavate più spietata, date le mie parole. Ma bisogna essere oggettivi e scorporare in minima parte l'opera dall'autore.
Per concludere, un mio breve pensiero rivolto a lui.
Caro King, torna nuovamente a osare, perchè questa trilogia, a meno di un finale capolavoro che a questo punto risulta molto improbabile, non resterà nella storia come quella del tuo John Rothstein. Ma noi siamo certi che puoi fare molto, molto di più.

"Nella vita non ti viene regalato nulla e anche il vascello più resistente ai marosi è destinato ad affondare, glu glu glu. Secondo Hodges, l'unico modo di pareggiare i conti consiste nello sfruttare al meglio ogni giorno, sforzandosi di restare a galla."

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Thriller in generale.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    28 Settembre, 2015
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EFFETTO MOCKUMENTARY

L’assalto alle Torri gemelle avvenuto 11 settembre 2001 ha traumatizzato e cambiato il mondo, nel romanzo di Sarah Lotz l’evento sconvolgente, tale da portare l’umanità sull’orlo del baratro, non è confrontabile con nessun accadimento storico, in quanto non ha una spiegazione razionale. Quattro aerei di linea di schiantano al suolo in luoghi diversi del pianeta, senza che si possa ricostruire la dinamica dell’incidente; altrettanto inspiegabile, data la condizione dell’apparecchio, è la sopravvivenza di tre, forse quattro bambini. E un avvertimento inviato da Dio, il segno evidente che la fine del mondo sta per arrivare? Il romanzo lascia in sospeso l’inquietante interrogativo, rinuncia all’investigazione sul fatto motore dell’intreccio come ci si aspetterebbe, soffermandosi piuttosto sul logoramento psicologico dei familiari di tre fra le vittime dell’incidente, costretti a prendersi cura dei fanciulli sopravvissuti in quanto parenti più prossimi. La tensione è generata dal fatto che nessuno dei piccoli appare nei comportamenti e nei discorsi quale era prima della tragedia. E allora chi sono? Sono i messaggeri di qualcuno o il segno di qualcosa? Il dramma intimo vissuto di chi vive accanto ai “Tre” salvati ha come sfondo le condizioni di vita di un’umanità sempre più preda di fanatismi e follia. La trama in sé è dunque ben orchestrata, a lasciare perplesso chi scrive è la struttura scelta dalla Lozt con l’artificio di una giornalista, Elpesth Martins, intenzionata a raccogliere dati e informazioni per ricavarne un libro. A distoglierti dall’angoscia indispensabile per gustarti un testo del genere è il continuo mutamento di scenario, l’alternanze di testimonianze, l’utilizzo di dialoghi, la trascrizione letterale di chat e di interviste. In altre parole l’effetto verità a cui l’autrice evidentemente mira fa pensare al mockumentary ovvero al falso documentario genere cinematografico utilizzato sugli schermi per presentare eventi fittizi come se fossero reali. L’espediente sullo schermo funziona, ha una sua efficacia, ma sulla pagina? La questione è aperta….

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a chi ama al cinema il genere mockumentary.
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Romanzi
 
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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    28 Settembre, 2015
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La vita di Michele Landa

GIULIO CAVALLI, scrittore e autore teatrale, da tempo impegnato nella lotta contro le mafie, ha scritto un romanzo importante, di grande impegno civile, di altissimo valore morale e di denuncia, che andrebbe antologizzato e studiato a scuola, come punto di partenza, testimonianza per capire e approfondire il discorso sulla legalità.
Il romanzo è ispirato alla storia vera della famiglia Landa. La vicenda è ambientata a Mondragone, che "è un paese per gente di poche parole, ma che a occhiate sa farsi capire eccome."
Lì vive Michele Landa, il quale non è un eroe e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e vivere felicemente con la sua famiglia, costituita da moglie e quattro figli.
Ma la vicenda inizia molto prima, quando Michele, orfano, vive con il nonno che è il suo punto di riferimento, colui che gli insegna come vivere o sopravvivere a Mondragone.
"Qui non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro: abitare tutta la vita semplicemente lì in mezzo è possibile. Può essere che tu non te ne accorga, ma sei già o sporco di bianco o sporco di nero."
A Mondragone, inoltre, serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani.
Michele impara molto dal nonno: la saggezza per riuscire a vivere con dignità ed onestà senza scontrarsi con i Torre. "Bravo, Michele! Vedete? Michele ha imparato come si vive a Mondragone."
Michele, infatti, ha imparato davvero quali sono le regole e i compromessi per poter sopravvivere ed altro non chiede di fare con l'amata Rosalba, i figli e la nipotina, Michelina, mentre rapidamente scorre il tempo che lo porta a poche settimane dalla pensione. "Qui le brave persone per difendersi diventano invisibili." È così che si vive in una terra paralizzata dalla paura.
Come anticipato dal titolo, MIO PADRE IN UNA SCATOLA DA SCARPE, il finale è dolorosamente tragico, ma durante la lettura lo si dimentica, tanto si vorrebbe la storia avesse un epilogo diverso.
Con una scrittura coinvolgente, sintetica, dinamica, incisiva, lo scrittore Giulio Cavalli ha il coraggio di raccontare un’Italia di cui non si parla abbastanza, quella dimenticata e indifesa, di chi cerca di sopravvivere dove la legalità è soltanto un concetto astratto non preso in considerazione da nessuno, nemmeno da chi dovrebbe tutelare i più deboli. "I morti meriterebbero di essere presi in considerazione."

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    25 Settembre, 2015
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A volte la colpa si può espiare solo con la morte.

La morte è da sempre il soggetto di racconti, poesie, canzoni.
Fonte d'ispirazione ma anche fonte di molte preoccupazioni.
Perché la morte può arrivare all'improvviso e, quando arriva, non rispetta nessuno.
("Erkete o Tanato ti e rrespettei").

"Viene la morte che non rispetta" è un romanzo noir incentrato sulle indagini del colonnello Enrico Anglesio. Il protagonista, come spiega lo stesso autore nei ringraziamenti, è il personaggio principale di un altro romanzo e di un racconto lungo. In effetti, all'interno di "Viene la morte che non rispetta" ci sono diversi riferimenti a fatti e eventi raccontati in altri libri.
Tuttavia, nonostante non abbia letto le altre imprese del colonnello Anglesio, non ho avuto problemi nella lettura del romanzo.

Osservando la copertina e leggendo la trama, il romanzo potrebbe apparire come un classico giallo: un protagonista (non un poliziotto ma un carabiniere in questo caso) deve indagare su un omicidio. Anglesio viene aiutato dai suoi due uomini più fedeli, il maresciallo Medardo Vercesi e il brigadiere Mattia Ferrari. Inoltre, intorno alla figura del colonnello, orbitano molti altri personaggi, dalla giovane Letizia con cui Anglesio ha una complicata relazione, al fidato oste Cicin, la cui focaccia è la migliore di Genova. I personaggi sono davvero ben sviluppati. Gli stati d'animo e i pensieri dei diversi protagonisti sono presentati in maniera precisa e semplice, senza che l'autore si perda in eccessive descrizioni. Infatti Alessandro Defilippi riesce con grande abilità a scrutare nell'animo dei suoi personaggi ("Ma non voleva più avere paura. Né paura di aver paura. Appoggiò la destra sulla tasca, cercando di sentire, nel contatto con la pistola, oltre la vigogna dei calzoni, una rassicurazione. Le pistole non sono cattive, sono oggetti. Buono o cattivo è chi le usa. Il problema è che nessuno è del tutto buono o del tutto cattivo: siamo tutti meticci del male").

Con grande abilità, l'autore riesce anche a presentare Genova, la città in cui le vicende si sviluppano. In alcuni passaggi il capoluogo ligure appare come un personaggio della storia e non come semplice ambientazione del racconto: è quasi viva. ("Novembre a Genova è un mese esagerato, soprattutto di domenica. Magari ti capita un giorno di maccaia, con il mare immobile e il cielo come un coperchio di ghisa. E sudi che ti pare l'Amazzonia. Se piove, invece, non scende acqua dal cielo: diluvia e a un certo punto pensi che sarebbe il caso di telefonare a Noè, per prenotare un posto. Sottocoperta, ché sul ponte ci si bagna troppo").

Nel romanzo ricorrono diverse espressioni dialettali, tutte comunque facilmente comprensibili.
Dato l'uso del dialetto e l'amore con cui l'autore descrive Genova, in un primo momento ho pensato che Defilippi fosse genovese. E' invece lo stesso autore che nei ringraziamenti spiega il perché un torinese abbia deciso di ambientare i propri racconti a Genova. Diverse sono le ragioni ma ne ho in particolare apprezzata una: "Per me Genova e Torino sono le due parti di una città altrimenti monca. Torino, l'entroterra di Genova; Genova, il borgo marinaro di Torino. Una città senza mare o senza fiumi è povera: la mia città immaginaria e reale ha un grande fiume che l'attraversa e il mare che la lambisce".

Se considerassimo solo i personaggi e lo scenario, il romanzo appare come un tradizionale racconto noir. Eppure "Viene la morte che non rispetta" è, a mio parere, in parte anche un romanzo storico.
Le vicende narrate sono ambientate a Genova ma nel 1952 e il dopoguerra italiano è un altro protagonista del romanzo. L'autore ammette che con il suo romanzo non intende realizzare un'opera di "ricostruzione storica" però riesce a dipingere molto bene gli anni successivi alla guerra.
Offre degli "squarci" sulla vita del periodo degni di un romanzo storico.
E' proprio per questo motivo che ho apprezzato il racconto: l'autore è riuscito a trattare molto bene un periodo delicato della storia italiana.

Consiglio il romanzo a chi ama leggere gialli e noir ma anche a chi è interessato alla storia italiana della prima metà del secolo. Nonostante i personaggi e i fatti siano opera di fantasia, ci sono riferimenti continui a eventi veramente accaduti.
Quindi, che dire se non "buona lettura"? :)

"Appoggiò il bisturi sulla mola e aprì il rubinetto dosatore. L'acqua iniziò a gocciolare sulla lama e lui azionò il pedale della ruota. Movimenti ritmici, morbidi, mentre l'acciaio gemeva con un sibilo aguzzo. Affilare un bisturi era un lavoro delicato: il filo doveva essere sottile, sottilissimo, per affondare come quando si sgozza un maiale. Per incidere la pelle con la stessa precisione e delicatezza di quando si sfiletta un pesce. Perché il bisturi è come un pennino. Deve saper scrivere. Sorrise appena, continuando a lavorare. Non era contento. Ma quel che andava fatto aspettava da tanto. Ed era venuto il tempo. Perché c'è un tempo per ogni cosa. Anche il tempo per uccidere."

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Consigliato a chi ama i racconti gialli e i noir, in particolare di autori italiani.
Dato il contesto in cui si sviluppa la vicenda, consiglio la lettura anche agli appassionati di storia contemporanea.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.8
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    25 Settembre, 2015
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Misteri ed intrighi tra presente e passato.

Siamo in Central Park, New York. Sono le otto del mattino ed al suo risveglio Alice, poliziotta parigina del XVI° arrondissement, si ritrova ammanettata ad un affascinante, misterioso e sconosciuto uomo. Chi è, e soprattutto come mai “i bracciali”? Che sia stata lei a metterglieli e se si perché? Ma se così non fosse stato, per quale ragione qualcuno li ha apposti e proprio a loro, due illustri sconosciuti che alcunché hanno in comune?
Ripresa conoscenza, Gabriel Keyne conferma di non sapere chi essa sia e nel parlare i due scoprono che mentre lei la notte precedente si trovava sugli Champs-Elysées con le amiche a far bisboccia lui, musicista jazz, era intento a suonare in un locale dublinese.
Nessun effetto personale, ne denaro ne altro. Gli unici oggetti in possesso della donna sono una Glock 22 che non rappresenta la sua pistola d’ordinanza, una serie numerica scritta velocemente a penna sul palmo della mano da non si sa chi e gli abiti che ha indosso tra cui la maglietta sporca del sangue altrui. Ma inevitabile è la domanda: come sono finiti entrambe negli Stati Uniti se la notte precedente erano in Europa ed in due differenti Stati?
L’unica cosa certa da fare è capire quel che sta succedendo e riannodare i fili delle loro vite agendo e collaborando necessariamente in coppia. Ha inizio così l’avventura di Gabriel e Alice, caratterizzata da una serie concatenata di eventi tra presente e passato dove alla protagonista non sarà risparmiato di dover far i conti con i giorni che furono e con quelle ferite ancora aperte che inconsciamente si porta dietro. Alice ha infatti subito due gravi perdite, un po’ come quelle che potrebbero accadere a tutti, se non fosse per le modalità con le quali queste si sono manifestate.
Anche Gabriel da parte sua sarà costretto a rimettersi in gioco, a fare i conti con i suoi fantasmi nonché con la stessa compagna di avventure che mai ed immancabilmente smetterà di sospettare di lui.
Preferisco non svelarvi altro sulla trama perché il romanzo de quo è veramente ben costruito e qualsiasi parola in più potrebbe rivelare il mistero che si cela dietro questa indecifrabile concatenazione di eventi.
In merito alle tematiche trattate posso dirvi che la più significativa è senza dubbio quella di affrontare le proprie difficoltà, i propri scheletri e il proprio orgoglio, spesso, infatti, di fronte a dei traumi più o meno significativi, la nostra mente rifiuta di accettare la realtà, di elaborarla, di farsene una ragione, di andare avanti e di conviverci. E quando a tutto ciò si aggiungono ulteriori sventure, quasi come se la sorte avesse deciso di accanirsi con le nostre piccole e brevi esistenze, diventa impossibile farvi fronte. Quale modo dunque per sbloccarsi se non quello di essere obbligati a sostenerli per mano di quegli avvenimenti dello ieri che inspiegabilmente tornano a bussare alla nostra porta direttamente o per mano di un terzo soggetto che sembra volersi vendicare di noi?
Stilisticamente il testo è fluente ed accattivante. Si legge in meno di un giorno e mezzo ed è impossibile staccarsene. E’ una lettura avvincente, curiosa, un giallo senza lacune e dalla costruzione inattaccabile capace però di spogliarsi di questi panni per abbracciare il lettore e farlo riflettere sul senso della vita, un cambio di prospettiva radicale ed inaspettato che ci accompagna sino a quello che è la risoluzione dell’enigma.
Vi lascio con un breve incipit:
“E passerà il tempo. [..]
E ogni volta sarai lì a combattere, la paura nella pancia, il cuore stretto, con l’unica arma del tuo desiderio di vivere ancora.
E ogni volta dirai che, qualunque cosa ti possa capitare adesso, sarà comunque valsa la pena di vivere tutti quei momenti che hai strappato alla fatalità.
E che nessuno te li potrà mai togliere”.

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Religione e spiritualità
 
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4.4
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    24 Settembre, 2015
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Il sogno di Caio Lucilio Augias

Nella sua lunga carriera di giornalista, scrittore e conduttore televisivo, Corrado Augias ci ha portato in giro per il mondo, svelandoci i segreti delle grandi città (Parigi, Londra, New York), con lucide inchieste ci ha interessati a importanti casi di cronaca giudiziaria (Telefono Giallo), ha scritto lui stesso qualche noir (il delitto e il mistero evidentemente lo intrigano assai), ha portato i libri e la cultura sul piccolo schermo (Babele).
Da qualche anno si sta dedicando a inchieste, viaggi e ricostruzioni sul pianeta Gesù, utilizzando un po’ tutte le abilità sviluppate nei lavori precedenti.
“Le ultime diciotto ore di Gesù” è una fiction, come spiega Augias stesso, intendendo il termine nel suo significato etimologico (dal latino fingere: figurarsi, immaginare, supporre, ipotizzare) estendendolo un po’: sognare, “perché qualunque storia è almeno in parte una bugia – o un sogno”.
Tutti sappiamo che la storia di Gesù è storia rivelata solo in parte, è storia di chi ama e vuole essere scoperto, lasciando sufficienti segni per credere e altrettanti per respingerlo. L’intelletto non può arrivare a sciogliere ogni dubbio, come non ci si può innamorare con la sola forza della ragione. Le luci e le ombre possono però essere usate per figurarsi una scena, per tentare di descriverla e raccontarla. Si può usare il realismo crudo del Caravaggio nelle “Morte della Vergine” oppure la maestosità dei sontuosi mosaici bizantini: stessi personaggi, stesse scene, ma rappresentazioni diverse, racconti diversi.
Il racconto, la fiction, il sogno di Augias è interessante e ben costruito. La credibilità è lasciata al giudizio del lettore e probabilmente non è più di tanto un obiettivo dell’opera. C’è comunque molta ricerca, rigore, studio, attenzione, amore per i dettagli. Chi conosce l’autore non può aver dubbi al riguardo. Le sue fonti spaziano dai Vangeli canonici a quelli apocrifi, dai rotoli di Qumràn alle storie di Flavio Giuseppe e la narrazione rimanda ogni tanto a qualche importante riferimento filosofico-letterario (Dostoevskij, Bulgakov, Seneca, Epicuro, Lucrezio).
Augias cerca di ricostruire quella manciata di ore che trascorrono dall’arresto nel Getsemani alla morte sulla croce, passando attraverso due processi (religioso e politico) e la flagellazione. Letto da una prospettiva unicamente storica e umana, la storia di Gesù è anche un caso giudiziario con molti lati oscuri. Non sono chiare le accuse, le prove, i testimoni. L’intensa, complessa, controversa ed enigmatica personalità dell’imputato obbliga a spostare l’attenzione sugli altri personaggi: innanzi tutto Ponzio Pilato e i gran sacerdoti, ma anche il tetrarca Erode Antipa con la sua corte corrotta, il fariseo Nicodemo, il traditore Giuda Iscariota.
Su di loro si cercano testimonianze, citazioni, aneddoti, riscontri. I personaggi di fantasia (il leale centurione Kyrillos, l’ambiguo consigliere Nikephoros) servono per portarci dentro la storia, farcela vivere in 3D, oppure (lo scrittore Lucilio) per trasferirci le probabili personali inquietudini dello stesso Augias.
Giuseppe e Maria, totalmente umanizzati e privati di ogni connotazione mistica, danno vita e colore a una libera interpretazione dell’ambiente domestico nel quale Gesù è nato e cresciuto.
Nonostante l’imminente festività della Pasqua ebraica, il clima entro il quale si avverano le antiche profezie è fosco, intorbidito dalla decapitazione di Giovanni il Battista. Fioriscono i complotti, i tranelli, i tradimenti, i sotterfugi, i calcoli opportunistici, le debolezze, le vigliaccherie. Tutto contribuisce a rendere plastico il concetto che proprio per l’eterna inadeguatezza umana Gesù salì sulla croce.
Un uomo si trova suo malgrado al centro di queste trame malsane: il procuratore romano Ponzio Pilato che, dando credito al giudizio di Filone d’Alessandria, Augias rappresenta come un malmostoso, collerico, ulceroso e grezzo militare, infastidito dall’ennesima grana che gli tocca risolvere in quella lontana, infida e riottosa provincia dell’Impero.
Pilato è preoccupato. Ha già commesso gravi errori. A Roma lo tengono d’occhio, sa che un altro passo falso gli sarebbe fatale: la competizione è spietata, i nemici lo incalzano, i benefattori sono lontani e ormai disinteressati alla sua sorte. Per giunta, sua moglie Claudia Procula lo tormenta con oscuri presagi e sembra inspiegabilmente sensibile alla sorte di questo profeta pazzo e sventurato. I gran sacerdoti gli hanno teso una trappola, scaricandogli la responsabilità di mandare a morte un innocente. Come venirne fuori?
Un’ultima annotazione. Un libro come questo non poteva escludere completamente l’ambito spirituale. La stessa rappresentazione storica, umana e terrena dei fatti sarebbe stata deformata, perché ogni singolo atto o parola che riguarda Gesù è intrisa di spiritualità. Alcuni personaggi (Nicodemo, Giuda, gli Esseni) coprono l’ambito culturale e di testimonianza di questo aspetto. Il suo lato esistenziale è invece affidato a due anime inquiete: Claudia Procula e soprattutto lo scrittore Caio Quinto Lucilio, dietro al quale fa capolino, forse, lo stesso Augias.
Lucilio è uomo colto e sensibile, mosso da pietas, capisce, si interroga, riflette. Non gli piacciono le risposte e le soluzioni di comodo, pur nella consapevolezza che su di esse si regge il governo del mondo.
Nauseato dalla conclusione di questa storia, Lucilio lascerà Gerusalemme, tornerà a Roma e con gli anni seppellirà ogni giovanile speranza di resurrezione dopo la morte, non aspettandosi altro che il ritorno a madre natura, nella cui infinita immensità è dolce naufragare.

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E' naturalmente un libro che può interessare tutti, Augias sa come raggiungere il vasto pubblico e dunque evita sia le banalità, sia un eccesso di erudizione. Chi ha letto alcune delle sue inchieste precedenti in ambito religioso può trarne profitto e soddisfazione.
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    23 Settembre, 2015
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La ferrovia della morte

Questo romanzo colpisce come testimonianza storica al pari dei libri di Primo Levi, di Remarque, e di romanzi come Yellow birds. Apre uno scorcio su un capitolo della seconda guerra non molto noto e cioè sulle sofferenze e la durissima prigionia dei prigionieri australiani vittime non della crudeltà giapponese ma dell’utopia e del nazionalismo giapponese: dell’ambizione di poter fare in nome dell’imperatore ciò che per americani e europei era un’impresa impossibile: costruire in pochissimi mesi una ferrovia che collegasse Siam e Birmania in modo da rendere fattibile l’invasione dell’India dalla Birmania.
Ma se il progetto è grandioso non viene speso nulla per favorire il progetto: l’amore per l’imperatore deve rendere possibile di per sé il miracolo. Per amore dell’Imperatore si può lavorare senza mangiare e bere, il corpo non si ammala, si può scendere dal letto di morte per lavorare, le malattie guariscono da sole, non esiste la stanchezza. E, viceversa, se uno si ammala, ha fame, sete e non riesce a alzare un martello per lo sfinimento merita di essere picchiato perché tutto questo è una mancanza d’amore per l’imperatore.
E’ una mentalità lontana anni luce dalla nostra e in un certo senso benché folle e farneticante quasi idealista. Il nazionalismo giapponese è così fanatico da non riuscire nemmeno a essere calcolatore, a pensare che se un prigioniero si riprende potrà lavorare e rendere di più. I carcerieri pretendono dai prigionieri l’impossibile: che si perdano nel culto dell’imperatore fino a diventare puro spirito perché chi è spinto dal desiderio di compiacere l’imperatore non si ammala, non sente la fame e la sete.
I prigionieri australiani dunque devono lavorare in turni massacranti nella giungla, senza medicine, acqua potabile, cibo, affetti da tutte le avitaminosi (pellagra, scorbuto, beri beri), infestati dai parassiti, dalla tigna, sterminati dalla dengue e dal colera, colpiti da ulcere che vanno in cancrena. Le pagine in cui viene descritta l’impresa sono belle, intense, vere perché il padre dell’autore è stato uno dei prigionieri (dei pochi) che sono sopravvissuti. Sembra di sentire urlare le scimmie nella giungla, di sentire addosso l’acqua del monsone.
Restano impressi i gesti di solidarietà tra prigionieri: qualcuno è capace di dare mezza polpetta di riso all’amico moribondo anche se la razione di cibo quotidiana è meno di un decimo del fabbisogno giornaliero e anche se con tutta probabilità il moribondo non verrà salvato dalla morte. La bellezza del gesto sta nella sua inutilità che lo rende qualcosa di eterno, non solo di utile o di necessario. Un segno di umanità in tanta barbarie.
I capitoli sono a volte preceduti dalle poesie spiazzanti del poeta Basho o Issa. Strane, stranissime.
“Un’ape esce
barcollando
dalla peonia”

La stranezza delle poesie rende la distanza in anni luce tra le civiltà e le mentalità e suggerisce l’impossibilità di giudicare e forse condannare perché usiamo bilance culturali terribilmente diverse.
Mentre i giapponesi aspirano a dare la vita per l’imperatore, gli australiani si inventano espedienti incredibili per strappare quanti più possibile alla morte.
Alcuni episodi colpiscono profondamente come l’operazione con la sega, il cucchiaio e la cintura dei pantaloni. Leggendo quelle pagine quasi non si capisce nemmeno il desiderio di sopravvivere a ogni costo. Sembrerebbe più semplice chiudere gli occhi e morire. Anche perché le storie del dopo, la vita dei sopravvissuti dopo, appena accennata spiega la difficoltà enorme, l’impossibilità di sopravvivere e tornare alla normalità dopo un’esperienza del genere.
Bellissimo il capitoletto con la cena a base di pesce nella friggitoria del greco. E’ così bello, intenso, felice che forse avrebbe dovuto chiudere il romanzo senza aggiungere altre parole perché c’è quel pizzico di sogno e di speranza che ci vuole. Di più sarebbe troppo.
La storia del matrimonio di Dorrigo con Ella e la sua relazione con Ami secondo me appesantiscono molto il romanzo. Io credo che un taglio di pagine sarebbe stato utile al romanzo che è comunque bellissimo e soprattutto costituisce una testimonianza. Mi è piaciuto anche il fatto che l’autore cerchi in qualche modo di capire le ragioni dei nemici e in un certo senso li giustifichi almeno in parte.

“Sapeva che niente di quello che pensava poteva costituire un argomento di difesa, che niente di quello che provava poteva avere un senso per gli australiani,per i loro avvocati con gli occhi a scalpello e i giudici che parevano candele gocciolanti. Perché una guardia viveva come un animale, si comportava come un animale, capiva quello che capiva un animale e pensava come un animale. E si rendeva conto che quella era l’unica forma umana che gli fosse stata concessa. Non si vergognava di aver scoperto che la sua umanità era quella di un animale, lo lasciava solo perplesso vedere dove questo l’avesse portato. Quando gli dissero che era stato condannato a morte per impiccagione, prese la notizia come un animale: senza capire, ma con una vaga coscienza che era stato libero e che adesso la sua fine era arrivata.”
Certo, è molto severo il suo giudizio sugli americani che a un certo punto condannano i pesci piccoli, gente che non ha avuto davvero scelta come il povero coreano Goanna, mentre lasciano perdere i maggiori responsabili, gli ufficiali giapponesi.
L’autore descrive anche le dissezioni, cioè espianti di organi a prigionieri americani vivi e coscienti a scopo di studio: vere e proprie torture. Questo per far capire che il calo di attenzione per i crimini contro l’umanità non è dipeso dalla nazionalità delle vittime. Gli americani vogliono fare affari con i giapponesi e in nome di tali affari chiudono tutti e due gli occhi.
Di fronte alla storia d’amore del prigioniero che scampa anche all’atomica per tornare dalla sua Maisie che nel frattempo ha sposato un altro o a tutte quelle storie appena abbozzate ma vere e intense la storia d’amore di Dorrigo, l’ufficiale medico del campo diventa retorica, a volte troppo letteraria con tutte quelle citazioni . Ma soprattutto viene spostato il baricentro del romanzo e questo anche se lo rende più commerciale lo impoverisce. Le pagine su Dorrigo sono troppe. Io avrei chiuso con la cena in pescheria: bella, bella, bella.
Quella cena dava un tocco leggero ma di solidarietà e mi dispiace che si è persa nel mezzo di tante altre pagine.

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Bookaholic Opinione inserita da Bookaholic    18 Settembre, 2015
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Credere o non credere?

Benedetta è figlia di Carlo, uno psicoterapeuta cattolico amato dal pubblico televisivo, e Grazia, una casalinga affetta da disturbo ossessivo-compulsivo passata dall’ossessione per la Chiesa a una recente mania per il fitness: una famiglia in cui si è respirato aria e religione fin dal primo vagito, insomma. Il primogenito Gabriele ha intrapreso la strada della ribellione fin da piccolo e ora, in quanto sosia di Michael Stipe, è il cantante della più famosa cover band dei The R.E.M. con tanto di trucco sugli occhi e video su YouTube. Benedetta invece ha subito la sorte della secondogenita su cui gravitano tutte le speranze andate in frantumi dopo aver conosciuto il carattere del primo figlio. Aspettative di perfezione e normalità accompagnate da una buona dose di sensi di colpa per i problemi familiari.
Allora, se ribellarsi alla famiglia non è una scelta possibile, il mirino della contestazione non può che andare a puntarsi sul più grande caposaldo della sua educazione: la religione. Ecco dunque che Benedetta cresce con un’incrollabile fede nella sua mancanza di Fede, non un atea convinta per cui Dio semplicemente non ha importanza ma una vera contestatrice il cui mondo non fa altro che girare intorno all’eterna domanda: Dio esiste o non esiste?
E proprio per una scommessa fatta con se stessa per trovare una volta per tutte la soluzione a questa domanda, Benedetta finisce tra le braccia di Simone, fervente cattolico che sta attraversando un periodo di dubbi e contraddizioni. Anche lui figlio di cattolici, appartenente a una comunità religiosa molto unita e conservatrice, sta cercando la sua strada e Benedetta sembra essere apparsa proprio per fargli percorrere una deviazione dal percorso costruito dalla sua educazione.
Una storia d’amore e di ricerca tra due mondi che corrono lungo un confine tanto invisibile quanto ingombrante con il suo portato di verità e necessità. Due mondi, Benedetta e Simone, che si convincono di poter convivere pieni di quella felicità vera fatta anche di screzi, litigi e incomprensioni ma la realtà è che alla fine qualcuno deve rinunciare a se stesso affinché una simile felicità si compia per loro. Sullo sfondo oltre a Dio anche la passione di Benedetta per il porno, non feticcio o ossessione ma studio e ammirazione per chi ama il proprio corpo e si sente libero di usarlo.

Daniela Delle Foglie costruisce una storia che si inserisce perfettamente nel panorama della chick lit dove ironia e sentimentalismo la fanno da padrona. Nasce come una fiaba l’amore tra Benedetta e Simone, forte e passionale, quell’amore che ti farebbe rinunciare a tutto e contro tutti lottare, e in effetti, come in ogni fiaba che si rispetti c’è pure il lieto fine. Solo che l’happy ending non sarà esattamente quello che ci si aspetterebbe ma una presa di posizione consapevole sulla propria identità.

Un romanzo nuovo per il modo in cui affronta il tema della fede e della ricerca di una propria identità a dispetto della strada che sarebbe facile percorrere poiché già tracciata dalle tradizioni familiari. Lo stile è semplice e lineare, quasi come uno sceneggiato televisivo in cui si susseguono scene più o meno romantiche e i pensieri non sono mai troppo profondi. I dialoghi, ben costruiti nella loro immediatezza, rendono fluida la lettura di un romanzo che non ha la pretesa di voler essere più di quello che è.

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Sophie Kinsella, chick lit
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    17 Settembre, 2015
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Piu' sepolta del gigante

Diversi secoli or sono, sul suolo verdeggiante di Gran Bretagna dove il mitico Re Artu’ porto’ la pace tra bretoni e sassoni e dove la tranquillita’ perdura, nella buia stanza gli anziani sposi Axl e Beatrice si muovono nell’ombra, privati di quell’unica candela che portava un poco di luce in quella triste dimora. Eppure la forza del loro amore va ben oltre le difficolta’ di ogni giorno, va ben oltre l’eta’, va ben oltre la memoria che da tempo vacilla e li priva del tempo trascorso. Resta qualche briciola a tratteggiare il profilo di un figlio  lontano, una minuscola speranza che li spinge a partire alla ricerca del loro ragazzo.
Nel lungo cammino l’avventura si arricchira’ di nuovi personaggi e guerrieri, folletti, draghi e orchi , uomini e donne le cui menti  sono  appannate da un morbo misterioso che ruba i ricordi e culla la vita in un oblio eterno.
Procede il tragitto e incalzano le domande, puo’ essere la pace l’effetto della mancanza di memoria ? Possono i popoli debellare la guerra dimenticandosi chi sono i nemici ? Possono due coniugi felici scordare di amarsi?

Un poco mitologica ed un poco fantasy, questa nuova pubblicazione dell’autore giapponese esordisce  in maniera accattivante, promettente l'inizio  intriso di mistero e curiosita’ che trattengono come resina sulle pagine. Buona l’idea e sensata la spiegazione, tali elementi  non bastano quando la penna rallenta e non riparte, collassa in una depressione narrativa rinvigorita ogni tanto da qualche colpo di scena o nuovo attore, ma il corpo della narrazione e’ troppo pesante per esserne rianimato. Cavillosa la tecnica che inizia i capitoli in un luogo non specificato del racconto, spiegato poi in lunghi monologhi di flashback quando ormai si temeva la foschia fosse scesa anche su di noi, rubandoci l’attenzione ed il senno.
Amo la narrativa giapponese e la sua peculiare andatura non mi crea problemi normalmente, ma e’ per me essenziale che le atmosfere nipponiche emergano, anche solo sussurrate, nel testo. "Il  gigante sepolto" esula completamente da tale clima ma ho voluto ugualmente cimentarmi nella lettura dell'Ishiguro che gia’ in precedenza mi aveva delusa, concedendomi un ulteriore tentativo.
Ebbene questa nuova fatica mi porta ad un risultato mortificante ,  sconsiglio il libro a chi gia’ non si era trovato in  sintonia con l’autore. Diversamente il lettore che ama  il suo tratto potrebbe anche apprezzarlo, non saprei. 
 
 

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    13 Settembre, 2015
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Ultima tappa: Napoli-Roma

La letteratura italiana contemporanea è rimasta orfana di un suo autore: Sebastiano Vassali ci ha lasciato recentemente, riuscendoci a fare un ultimo dono, il racconto di un altro pezzo di Storia del nostro paese.

Ricostruendo la vicenda umana di Giulia Di Marco, etichettata come eretica dai testi redatti dall'Inquisizione, Vassalli si addentra tra le tenebre fitte del Seicento italiano, dominato dal potere di una Chiesa poco spirituale.
La voce dell'autore si fonde con quella della protagonista, dando la stura ad una narrazione in prima persona di suor Partenope, intensa e convincente, esente da cali di tensione anzi calamita vigorosa per l'attenzione del lettore.

La Storia di Giulia è una delle tante storie tramandate fino a noi, scritte da uomini di parte, cristallizzate nella memoria documentale; ripescando tra quei carteggi, il periodo a cavallo tra 1500-1600 appare costellato di eretici e di streghe, di infedeli e sovversivi.
Vassalli utilizza la figura di suor Giulia, depurandola da tutte le etichette poste per convenienza religiosa e politica, azzerandone preconcetti ed esasperazioni, per ricavarne un simbolo.
Giulia, derubata della giovinezza, venduta dalla madre ad un anziano signore, finisce per rifugiarsi a Napoli, dove si avvicina a Dio, venerandolo in una forma del tutto personale che devia dai canoni imposti dalla Chiesa. E' scandalo, la donna va fermata perché si vocifera che gli incontri di preghiera assumano la veste orgiastica.
La lunga mano dell'Inquisizione è pronta a stritolare chiunque possa divenire un ostacolo, chiunque osi contrastare i dogmi ecclesiastici.

Attraverso le sofferenze di Giulia, Vassalli canta la Storia di un'epoca, canta le zone d'ombra del potere religioso, canta la vita del popolo tra le strade di Napoli e di Roma, canta la difficoltà di nascere donna.
Per Vassalli questa suora partenopea è un simbolo di quella modernità che tentava di farsi breccia, nuova forma di vita e di pensiero che minacciava di sovvertire le regole del tempo, destabilizzando una forma di potere assoluto e intransigente.

Ottima performance, una penna essenziale meno raffinata di quella de “La chimera”, ma lucida e diretta, una rappresentazione ben inserita nel contesto storico ed una definizione psicologica dei personaggi suggestiva e piena.

Ultima tappa del viaggio in Italia insieme a Sebastiano Vassalli.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    13 Settembre, 2015
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....fortifica

Se da un lato è innegabile che proseguire una trilogia di straordinario successo come quella del compianto Stieg Larsson sia un’operazione con una forte componente strategica e commerciale, dall'altra il rischio di perdere credibilità rovinando sia la serie che la propria reputazione è alto.
Confrontarsi con un autore come Larsson, capace di combinare elementi tipici del giallo classico e del thriller moderno, di imbastire storie intricate ricche di personaggi originali e carismatici, di dare un risalto incredibile alla narrativa di genere scandinava, è impresa ardua.
David Lagercrantz, giornalista e scrittore svedese, ha provato a raccogliere questa pesante eredità.

L'inizio del romanzo non colpisce particolarmente, né per ritmo narrativo né per capacità di indurre curiosità nel lettore.
Mikael Blomkvist è stranamente demotivato, stanco dell'attività giornalistica e sfiduciato per il futuro della rivista mensile Millennium, che nel frattempo è entrata sotto l'influenza di un importante gruppo editoriale. Il giornalista intravede un'occasione di riscatto quando Frans Balder, genio dell'informatica e della fisica quantistica, lo contatta per incontrarlo e rivelare dichiarazioni scottanti. Balder afferma inoltre di aver recentemente conosciuto Lisbeth Salander.

Avendo fortemente apprezzato la trilogia di Larsson, non è stato facile approcciarsi al libro, tanta era la curiosità di leggerlo quanto alto lo scetticismo nei confronti dei cambiamenti che Lagercrantz poteva aver apportato.
Dopo un inizio incerto, la trama lentamente inizia ad ingranare e i colpi di scena risultano apprezzabili. La versione dei due protagonisti di Lagercrantz è lievemente differente rispetto a quella del suo predecessore. Lisbeth ha assunto una personalità più lineare, mentre Mikael risulta essere meno partecipe e più spettatore passivo di ciò che lo circonda. Al netto di queste piccole diversità, i due restano personaggi di indubbio fascino.
La lunghezza del romanzo è minore rispetto alle precedenti opere della serie. Una scelta saggia. In pochi sarebbero in grado di scrivere 800 pagine senza annoiare o mettere a repentaglio chiarezza e coerenza.

L’esame è superato? Soltanto in parte. E non so quanta carne al fuoco sappia ancora aggiungere Lagercrantz. Ma voglio essere generoso nella mia valutazione. "Quello che non uccide" non raggiunge il livello di attrazione e complessità della precedente trilogia, ma è un buon romanzo che restituisce al pubblico due personaggi amatissimi, facendoci conoscere uno scrittore che avrà altre occasioni per prendere ancora più confidenza con la creatura lasciata in eredità da Larsson.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    11 Settembre, 2015
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Piu' di tremila specie

Accosta un primo rapido flusso di pensieri a Bangkok : fiori; Buddha dorati ; luci artificiali; caldo e umidita' ; traffico, tanto traffico e smog e rumore; go go bar.

Prostituzione e turismo sessuale, offerta e domanda. Piu' sale la domanda, piu' cresce l'offerta. Piu' la domanda e' varia, piu' l'offerta si destreggia in proposte adeguate. Piu' la domanda e' viziosa, piu' l'offerta devia oltre i confini dell'illecito, quelli dove i bambini non giocano.

Se ne incrociano tanti, spesso. Dicono che per ogni scarafaggio che ha la sfortuna di essere visto ne esistano almeno dieci nascosti tra le crepe, negli anfratti. Significa che ce ne sono a milioni, ovunque, dove nemmeno immagini. Tutto intorno a te.

L'ambasciatore norvegese e' stato assassinato nella capitale thailandese, chi esercita il potere ad Oslo ha bisogno di una indagine veloce che conduca a spiegazioni immediate e poco altisonanti. E' stato gia' scelto l'incaricato perfetto per affiancare la polizia locale : Harry Hole. Abbastanza disperato e alcolizzato per non vedere oltre quello che un caso politicamente scomodo necessita.
Sbagliato. Avete scelto l'uomo sbagliato.

Sebbene il romanzo sia stato scritto nel 1998, secondo della serie di Hole, esso viene pubblicato soltanto ora e questa e' l'unica anomalia che mi sento di segnalare su questo bel poliziesco. Rispettare il ritmo cronologico sarebbe stato piu' armonioso, visto che i contenuti di Nesbo non sono mai solo indagine ma anche vicenda umana. A parte questa stonatura che in qualche maniera si riesce comunque ad accordare, il racconto e' decisamente ottimo. Vuoi per la location thailandese descritta in maniera molto soddisfacente, vuoi per il corpo della trama che non promette scossoni da superfiction ma intrattiene ad un ritmo serrato carburando colpi di scena in abbondanza.  Dove le ricerche sono verosimili e si sviluppano sul campo ma anche a tavolino, riflettendo, in un'evoluzione dei fatti piuttosto articolata.
Da non sottovalutare la capacita' di Nesbo di entrare a fondo nei personaggi riuscendo a proporli al lettore in maniera molto concreta, attraverso quel suo incedere stilistico cucito di piccole frasi di piccoli gesti che rendono i protagonisti carne, non solo carta. Sono uomini e donne che vivono, oltre le parole.

Ottimo intrattenimento , sempre un piacere passare qualche ora con Harry. Buona lettura.

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Letteratura rosa
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    09 Settembre, 2015
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La tigre azzurra

Nicolas Barreau ha il dono di riuscire, tutte le volte che si legge un suo romanzo, a trasmetterti la voglia di tornare o di andare a Parigi. Già la copertina e il titolo sono evocativi.

Quest’autore è bilingue (madre tedesca e padre francese); è pubblicato in tedesco e parla sempre di Parigi nei suoi romanzi, con un colpo solo riesce ad accontentare tutta la famiglia.

"Parigi è sempre una buona idea" è il suo ultimo romanzo, ambientato appunto a Parigi. Tutta la storia ruota intorno ad un libro per bambini intitolato "La tigre azzurra".

I protagonisti sono tre: Rosalie, l'illustratrice, proprietaria di una cartoleria, è davvero intraprendente, testarda e sognatrice; Max Marchais, è il famoso l'autore del libro e Robert Sherman di New York, insegnante di letteratura, è convinto che il libro non sia di Marchais.

Barreau continua a cambiare i suoi personaggi e la trama, ma il suo stile è riconoscibile, tanto che, dopo averne letti altri di lui, direi anche prevedibile.

Ho riscontrato che l'autore è molto descrittivo, soprattutto nella parte iniziale e centrale del romanzo, ma quando si arriva sul finale, tende sempre a tirare via..come se non avesse più tempo o spazio per scrivere.

Va bene che Barreau è abbastanza giovane, ma da un autore che ha già pubblicato ben sei romanzi, mi aspettavo qualcosina in più, specialmente sul finale.

Lo consiglio, il libro è leggero, si legge velocemente ed è molto carino.

Buona lettura!

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    08 Settembre, 2015
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Il senso del nucleo

Dopo quattro anni dalla sparizione di Justin, della famiglia Campbell non rimangono che i cocci. Laura, la madre, non ha più ritrovato se stessa, si trascura e trascura quella casa a cui si dedicava con zelo quando ancora vedeva attorno a sé una famiglia; passa il suo tempo libero al Marine Lab, dove è inserita nei turni di osservazione di un delfino. Eric, il padre, si sforza di non insegnare stancamente la storia ai suoi alunni; sovente si rifugia da Tracy, la moglie di un amico con la quale intrattiene una relazione extraconiugale. Griff, il fratello minore, studia e si dedica a complicate e pericolose evoluzioni con lo skateboard, del quale è ormai padrone: volare in aria su una tavola con le ruote è ciò che meglio gli ricorda Justin. Cecil, il nonno, continua a guardare al mondo con la sua visione burbera e solida delle cose, ma dentro di sé si chiede chi sarà il primo a crollare definitivamente e quando; e si rende conto che il più fragile è forse proprio suo figlio Eric.
Salvo che nei peggiori momenti di scoramento, nessuno di loro vuole pensare che Justin non ci sia più. Ed hanno ragione. Perché una mattina come le altre giunge la telefonata che aspettavano da quattro anni: Justin è vivo, è stato riconosciuto al mercato delle pulci da una donna anziana che gli stava vendendo due topolini vivi.
La famiglia si precipita a recuperare quel ragazzo che ormai ha quindici anni, e che per tutto il tempo è rimasto in zona, vittima di un aguzzino di nome Dwight Buford.
E' il liberatorio epilogo di quella brutta vicenda, o piuttosto il suo difficile inizio?

“Ricordami così” è un'opera intensa, coraggiosa, che coniuga una silenziosa spietatezza con uno sguardo caldo e pietoso sul dramma umano. E' un libro destinato a lasciare un segno in chi lo legge.
Difficile anche spiegare quanto sia bravo Johnston a dare il senso dello smarrimento e del dolore, dello stillicidio. Lo si può capire solo leggendo il libro, consapevoli che la scelta fondamentale dell'autore è quella di lasciare nell'ombra i quattro terribili anni vissuti da Justin (l'adolescenza rubata da uno squilibrato) e concentrarsi sul senso di “dissoluzione” che fa apparire una famiglia inutile come un puzzle del quale si siano persi molti pezzi.
La solidità del racconto è nell'abilità di narrare tutto ciò attraverso i più piccoli particolari, nella capacità di scavare così profondamente nella reazioni di una famiglia (intesa prima come nucleo di sangue e poi come intera cittadina) e nei rapporti tra i suoi membri.
Un romanzo scritto da un ex-skater americano – il primo, preceduto solo dalla raccolta di racconti "Corpus Christi" – in modo molto poco “americano”.
Fino all'epilogo, che lascia intravedere una diversa possibilità sull'ultimo atto di quel dramma: in fondo è più quello che gli esseri umani si tacciono reciprocamente che non ciò che essi si rivelano, anche quando si tratta di due fratelli, di una moglie e di un marito.
Di quell'epilogo vale la pena riportare almeno l'inizio:

“Immagina di uccidere un uomo. La risolutezza. L'irreversibile e indicibile isolamento che ne segue. Immagina di arrivare al punto di rinunciare a te stesso, e a tutta la vita che è venuta prima e al futuro che avevi sognato, con la consapevolezza che dopo niente e nessuno sarà più uguale. Immagina che così uccidi anche te stesso, perché questo significa uccidere un uomo, e che, dopo, l'esistenza sarà solo su due piani. Vera e contemporaneamente finta. Arriverai a vedere il mondo come lo vede un animale, senza giudizio, senza speranza né pietà, e a non credere più che qualcosa – la grazia, la Storia, gli esiti del tuo gesto, la vergogna o Dio – sia più importante di quello che desideri proteggere.”

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Belmi Opinione inserita da Belmi    06 Settembre, 2015
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E' l'insieme che non mi convince

Pedro Chagas Freitas è portoghese, insegna scrittura creativa ed è originale. Le case editrici di tutto il mondo si sono contese il suo romanzo, addirittura con aste agguerrite.

"Prometto di sbagliare" si presenta con una copertina ed una trama che non rispecchiano molto il contenuto dell'opera.

Freitas sa scrivere, su questo non c'è dubbio, ma la sua scelta stilistica mi ha molto spiazzato.

Mi è capitato di leggere dei libri che pur non essendo dei capolavori, erano comunque riusciti nell'insieme a lasciarmi qualcosa; questo romanzo è invece completamente l'opposto. La singola pagina vince sulla totalità. Stargli dietro non è semplice, ogni 2/3 pagine l'autore mette un punto e ricomincia. Pensate in circa 400 pagine quanti piccoli "paragrafi" ci possono essere.

E' facilmente comprensibile quindi la geniale trovata pubblicitaria della Garzanti, che consiste nel pubblicare piccoli estratti del romanzo e farli circolare sui social...difficile dopo averli letti non essere tentati...

Io comunque, quando leggo un libro ho la necessità di viverlo e di immaginarmelo. In alcuni paragrafi ero convinta che chi li avessi scritti fosse un uomo, per poi nel bel mezzo della lettura, ritrovarmi qualche riferimento puramente femminile (es. mi sono innamorata) che mi disorientavano. Questo non aiuta il lettore..

Sulla trama non mi pronuncio, posso solo dire che non si segue molto bene e che alcune volte mi sono "persa".

Insomma, con questo romanzo sono sempre "rimasta con i piedi per terra";: sulla singola parte non ho niente da ridere, ma visto che non è né un racconto, né un'enciclopedia sull'amore... molto poco è quello che mi è rimasto.

Sono sicura che ad altri può piacere, l'autore è bravo e spero di poter leggere qualcosa di lui diverso da questo genere.

Personalmente non lo consiglio, poi fate voi!

Buona lettura!

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    05 Settembre, 2015
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Cocksure e wasp?

Satira e ambiguitá erano giá ferocemente presenti nel titolo originale di questo romanzo del ’68 di Mordecai Richler “Cocksure”, correntemente tradotto come “ sicuro di sé, impettito, presuntuoso”, con un esplicito riferimento all’organo genitale maschile. Né si può dire che questo aspetto sia poco rilevante nel romanzo, anzi. Il protagonista, Mortimer, é costantemente afflitto da una insicurezza che compromette la sua vita sessuale, e provoca in lui un calo avvilente di autostima.
Un romanzo che mette in discussione la cultura e la controcultura anglosassone della fine degli anni sessanta. Richler non si limita a scardinare le più comuni e solide basi su cui aveva prosperato ed era cresciuta la borghesia anglosassone, la sua satira va oltre, investe la spregiudicatezza a volte imbarazzante e grottesca con la quale si vuole rinnovare la cultura e la società . Emblematico, a questo proposito, è il modello educativo adottato da Joyce , la moglie di Mortimer, nell’educazione del figlio Doug, che cresce testimone dell’ infedeltà della madre e ne diventa complice.
Uno dei temi centrali del romanzo é certamente l’antagonismo tra la cultura ebraica e quella protestante. Qui l’ambiguità é esplicita e percorre tutto il corso della narrazione. Mortimer nega ripetutamente di essere antisemita, ma il suo orgoglio wasp (bianco anglosassone protestante) lo rende sospetto agli occhi degli amici ebrei. La satira ovviamente, anche qui, investe non solo il mondo dei gentili, ma anche lo stesso ambiente ebraico, un po' alla maniera del primo Woody Allen. Il lettore, sicuramente divertito, non ha, tuttavia, certezze. L’ambiguità investe ogni campo, quello sessuale, quello politico, quello sociale. Il personaggio più emblematico è il Creatore di stelle, una grottesca caricatura del magnate hollywoodiano, che esercita il suo potere come un padrino mafioso e aspira a divenire onnipotente. Una sorta di divinità terrena.
La ferocia narrativa di Richler non risparmia nessuno e la sua predilezione per i coup de theatre offre un’inaspettata conclusione della storia, come sarà per “La versione di Barney”.
Un libro dissacrante e molto “british”, una lettura molto piacevole.

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La versione di Barney
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siti Opinione inserita da siti    05 Settembre, 2015
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il sogno di un romanzo

“Questa è una storia di gente viva,
viva davvero, intendo.
È la storia di una Nazione che è morta,
morta sul serio, voglio dire”.

Iniziare un libro con questa premessa è stato per me molto accattivante: si ha l’ aspettativa che un romanzo con un titolo così importante aiuti, attraverso una storia, o si spera attraverso la Storia, in questo caso d’Italia, a orientarsi tra le contraddizioni del nostro presente.
Mi ritrovo a leggere una storia personale che, prendendo l’avvio da un lutto recente, ripercorre la storia di una famiglia proletaria e con essa di una terra, la Liguria, che non fatica a travasarsi in Italia intera.
Leggo insomma la storia di Maurizio Maggiani e con la sua la mia: terre diverse, nomi diversi, un padre e una madre però incredibilmente uguali ai miei, non tanto nella loro storia individuale che in quanto tale, altro da sé non può essere, quanto nel loro ruolo, nella loro vita, nelle loro ambizioni, nella loro crescita, nelle loro evoluzioni e involuzioni. La storia della famiglia è davvero gradevole e presenta personaggi interessanti sotto il profilo umano, il figlio che scrive mi pare invece controverso: di squisita ironia, mi ha fatto sorridere in più frangenti, alcune volte sopra le righe e perennemente adirato (?) per cui i concetti vengono sostituiti da più facili - e di impatto - parole sconce, altre volte un po’ troppo autocelebrativo, involuto in se stesso e perfino ambizioso.
Vuole scrivere il romanzo della nazione e “Il romanzo della Nazione” diventa la cronistoria di questo suo tentativo che io, personalmente, mi aspetto erompa da qualcuna delle trecento pagine, prima o poi. Quando penso di esserci finalmente arrivata, la delusione è grande nel capire che mi si offrono i tentativi fatti nel tentativo di scriverlo! Da allora in poi mi trascino nella lettura e neanche il Risorgimento italiano o la Belle Epoque o la storia dell’Arsenale Militare di La Spezia mi incuriosiscono più.
Opera pertanto difficile da catalogare, manca la prospettiva del romanzo, manca la prospettiva della storia, tutto è accennato e riversato in queste pagine di cui ho apprezzato solo i ritratti di famiglia, belli e veri.
La funzione di bussola, di cui accennavo all’inizio, ovviamente non sussiste e forse era questo l’intento.

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Maggiani?
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Romanzi
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Settembre, 2015
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Meno male che il mio suicidio era alle porte.

Pietro Rinaldi, ottantenne (ex) scrittore, decide di morire finché ha la possibilità di farlo in autonomia. Il suo ultimo romanzo (uscito circa vent’anni prima dei fatti raccontati) si intitola “Andate tutti affanculo” e l’ultimo – celebre – capitolo “Tutti quelli che mi stanno sul cazzo.” E si tratta di un vero elenco. L’autore non lo dice, ma pare che sia un capitolo piuttosto lungo.

Giusto per inquadrare il tipo.
Pietro Rinaldi decide suicidarsi, in definitiva, perché si annoia. Non è malato, non soffre, non è solo ed abbandonato (è rimasto vedovo, ma vive nella stessa città della figlia Roberta e ha un nipote quindicenne di nome Diego).
È un vecchietto bilioso, sgarbato, ma che ha la mirabile dote di non raccontare (e non raccontarsi) storie.
Si presenta, con una lettera, in cui racconta perché vuole morire e come ha pensato di farlo.
Anzi, prima ci racconta come NON lo farà e perché: «Io voglio morire e su questo non ci piove, ma voglio essere libero di scegliere di non farlo, di cambiare idea magari all’ultimo momento. Non la cambierei, intendiamoci, ma è una questione di principio, non mi va di rinunciare come ultimo atto della mia vita alla cosa più preziosa che abbiamo: il libero arbitrio. Cosa faccio, urlo: “Spostati asfalto?” (…) Probabilmente finirei per temporeggiare perdendo sempre l’attimo fuggente, con il rischio di vedermi salvare da qualche angelo della strada, oppure, come minimo, di dover sopportare tutti i suoi ridicoli tentativi di convincermi a non farlo, magari puntando sulle banalità più sconcertanti quelle classiche di chi ti vuole salvare che, tra l’altro, sono in gran parte i motivi per cui mi suicido (…) Tra l’altro, per trovare un albero adatto all’impiccagione, robusto e riservato (diciamo dignitoso) dovrei prendere l’autobus, e prendere l’autobus per andare a suicidarmi è una cosa ancora più deprimente della stessa depressione che ti porta il suicidio.»
Un vecchietto bilioso, dicevamo.
Dopo aver preso congedo, con vivo sollievo, dalle proprio abitudini, Pietro comincia a mettere in atto il suo propostito: 3 pastiglie di tavor, mandate giù con un buon prosecco.
Ma proprio in quel momento…
Be’, lo avevamo capito che doveva succedere qualcosa.
Arriva Roberta, la figlia, ed annuncia la morte della suocera. Suocera che viveva a Parigi.
Quindi Roberta e il marito Fabio devono partire immediatamente e Pietro deve occuparsi del nipote quindicenne Diego, per qualche giorno. E del cane Sid. Un Terranova incrociato con un Sanbernardo, o qualcosa del genere.
Be’, non c’è bisogno di essere un vecchietto bilioso che si stava tranquillamente suicidando, per NON fare i salti di gioia.
E qui c’è uno dei due punti deboli del libro, secondo me.
Roberta usa questa conversazione (che in realtà è un monologo) a mo’ di manifesto/dichiarazione di intenti/analisi del suo rapporto con il padre ed approfitta anche per adombrare i rapporti di Pietro con il marito e il figlio.
In poche parole, Roberta, che deve correre oltre confine a seppellire la suocera e ha un miliardo di cose da organizzare, si mette a fare uno spiegone sul perché e il percome del suo rapporto con il padre, il marito, il figlio, la madre e quant’altro.
Ovviamente Roberta deve fornire informazioni al lettore, ma oltre ad essere un espediente poco realistico e a far emergere un personaggio di figlia piuttosto querulo, lamentoso e tristemente bidimensionale, ci fa anche capire che questo dialogo sarà importante, perché sarà l’ultimo che padre e figlia avranno.
Infatti, a Parigi, Roberta e suo marito moriranno.
Non voglio diffondermi e spoilerare troppo, ma Pietro sarà costretto a posticipare ulteriormente il suo suicidio, per occuparsi del nipote. Dovrà accompagnarlo a Roma, dove vive Marcello, il fratello del padre, che ha accettato di occuparsi di lui.
Questo zio, oltre ad essere ricchissimo, non frequentava la famiglia del fratello da oltre vent’anni.
Marcello, secondo me, è il secondo punto debole del romanzo, e, come Roberta, si esibisce in un lungo monologo quasi sul finale, ma importa poco, perché il cuore del romanzo è il viaggio di nonno e nipote da Genova fino a Roma.
Sulla vecchia macchina di Pietro, passando per Spianata Castelletto, Boccadasse, Porto Venere, Cecina, Bracciano e Ostia. Suona banale, ma sono luoghi a cui sono molto affezionata per motivi vari, quindi forse questo ha contribuito a farmi amare molto la parte centrale.
Pietro, Diego e Sid ritroveranno vecchi amici, se ne faranno di nuovi (forse) e vivranno pure qualche situazione un tantino dadaista. Naturalmente impareranno anche a conoscersi e poi ad apprezzarsi e volersi bene.
Non è una storia dove accade qualcosa che non ti aspetti (la “sorpresa” la introduce Marcello, ma, secondo me, è molto accessoria), ma è scritta bene e i personaggi di Pietro e Diego sono caratterizzati. Riescono, e non era facile, a non diventare macchiette.
E se la tradizione di “vecchi biliosi” amabili è feconda, quella dei quindicenni non lo è altrettanto.
Fino a Porto Venere, dove conosciamo anche Cesare (vecchio amico di Pietro), la narrazione è davvero preziosa. Successivamente prende un po’ il sopravvento il ruolo “istrionico” di Pietro a colpi di battute considerazioni acide ed argute (per la massima parte condivisibili, peraltro).
Il finale e l’epilogo, forse, sono un po’ “telefonati”, ma – mi ripeto – non è una storia in cui si cerca il colpo di scena o il tiro ad effetto.
È una storia piccola, ma che funziona ed è scritta bene.
Leggerò altro del mio concittadino scrittore.

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Ama la figura letteraria del "vecchio bilioso".
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Racconti
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    04 Settembre, 2015
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Alcuni racconti sono belli

“Raggiunse l’auto e aiutò Bailey a sistemarsi sul sedile del passeggero. Poi si sedette al volante ma non mise in moto. Pensò che un giorno, forse molto presto, sarebbe stata single, frivola, pronta a tutto e senza cani, libera di uscire con professori grassottelli, veterinari, e chiunque altro le fosse piaciuto. Desiderò che quel pensiero la rendesse felice. Desiderò di provare qualsiasi altra cosa tranne che quel purissimo, plumbeo, fosco senso di tristezza.”

E così fu, purtroppo. Nei racconti di Cheever, a cui l’autrice è stata paragonata, il fascino viene proprio da quel purissimo, plumbeo, fosco senso di tristezza la cui perdita forse migliora la vita ma peggiora la letteratura.
I primi racconti della raccolta sono proprio belli perché pur fotografando situazioni tutte abbastanza simili di ambiguità/ nebulosità/ polivalenza sentimentale hanno un’incrinatura umorale che potrebbe anche ricordare Cheever. I primi racconti hanno un tocco magico e particolare che giustifica l’attenzione sull’autrice e io credo che siano i primi che ha scritto perché la protagonista è più giovane. Purtroppo la maggior parte dei racconti successivi (dopo pag 90) risulta piatta, nel senso che l’incrinatura emotiva adolescenziale si perde e resta una superficialità grigia, una banalità sentimentale, l’ essere pronta a tutto ( ma non single) nel senso di pronta ad agguantare tutto dal punto di vista affettivo/sessuale. Il fatto di non avere scrupoli e sensi di colpa è disturbante perché non ci sono ostacoli, non ci sono mutamenti emotivi interessanti nelle storie. L’aggettivo frivolo rende abbastanza bene l’idea del tipo di storia. Il tocco ironico molto leggero dell’autrice è troppo rarefatto per compensare il disagio della piattezza dei racconti. Si tratta quasi sempre di storie di relazioni extraconiugali o di relazioni immaginate, o di relazioni parallele a quella ufficiale tutte vissute in totale assenza di scrupoli con la convinzione che avere la protagonista al fianco compensi automaticamente il compagno di qualsiasi perdita.
Leggendo i primi racconti con il loro fascino umorale mi chiedevo come mai l’editore avesse preferito presentare il libro come “i racconti più irriverenti dell’anno”.
Però leggendo i racconti successivi credo che l’editore abbia rinunciato alla fascia dei lettori di Cheever preferendo un pubblico più portato alla lettura di evasione.
In ogni caso i primi racconti sono belli e meritano di essere letti anche dai lettori di Cheever. Particolarmente carino è il racconto Come dare l’impressione sbagliata in cui una ragazza fa credere alla famiglia/ amici che il compagno di stanza sia il suo fidanzato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    03 Settembre, 2015
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Quando il colore bianco è sinonimo di morte.

Il Mar Bianco.
Secondo la definizione dell'enciclopedia si tratta di un mare laterale del Mar Glaciale Artico che, essendo quasi totalmente circondato dalla terraferma, è spesso considerato un mare interno. Bianco: un colore che evoca la purezza, la verginità, la spiritualità... ma il bianco in Oriente significa anche sfortuna e viene spesso attribuito alla morte.
Ed è la morte che sembra, come un'aura invisibile, avvolgere le isole Solovki, l'arcipelago nel Mar Bianco, "fatte di roccia e di torba".
Alessandro Capace (e non "Capaci", come tutti sbagliano) è un "brillante fallito" di trentasei anni che, impegnato nel tentativo di affermarsi come reporter, si ritrova catapultato nel freddo russo delle isole Solovki, alla ricerca di tre giovani italiani scomparsi.

In "Mar Bianco" la fantasia si sovrappone alla realtà; il thriller si sovrappone alla Storia.
Numerosi sono i riferimenti alle atrocità che sono state compiute sulle isole Solovki ("Per secoli anche i morti sono stati buttati nella torba. I monaci ortodossi che sono vissuti e morti al monastero, i pescatori che hanno avuto il coraggio di stabilirsi su queste isole, le migliaia di prigionieri che sono stati mandati quassù dagli zar a da Stalin [...] - uno a uno, tutti sono stati seppelliti nella palude di torba che circonda il villaggio. E' come se tutta l'isola poggiasse sopra un'enorme distesa di ossa") ed è proprio la Storia della Russia, di queste sperdute isole del Mar Bianco, che ci guida in un romanzo investigativo ricco di spunti di riflessioni sulle persone e sulla società.

"Mar Bianco" di Claudio Giunta non è un sempice romanzo noir, così come Alessandro non è il tipico detective dei gialli. Alessandro è davvero un "brillante fallito". E' un uomo che in certi passaggi si può arrivare anche a disprezzare ma, che alla fine, rappresenta in maniera perfetta le speranze infrante, le illusioni, i dolori di una generazione.
Le riflessioni di Alessandro sono, a volte, dei veri e propri pugni nello stomaco.
Ammetto che ho apprezzato la sincerità, la durezza, con cui l'autore dipinge usi, costumi e persone, in particolare dell'Italia.
"Ancora i ragazzi. A che età, ricordo di aver pensato, si smette di essere "ragazzi", in Italia? Ma in realtà ciò che mi infastidiva in quell'espressione non era il dato dell'immaturità, la cosa ridicola che era trattare degli ultratrentenni alla stregua di adolescenti. Il fatto è che inconsciamente avevo collegato i "ragazzi" ai "bravi ragazzi" di un vecchio film di Scorsese sulla mafia. Non mi piace questo genere di solidarietà tra maschi, non mi piacciono le comunità chiuse: [...] c'è quacosa di puerile in questo attaccamento. E anche di poco sano".

Alessandro sa di non essere l'eroe giusto che parte per scoprire la verità.
Sa di essere un uomo con numerosi difetti (l'incapacità di sentire un attaccamento verso il figlio, il vedere la scomparsa dei tre amici come un modo per avvicinarsi nuovamente al suo amore universitario...). Tuttavia, è proprio questa sua consapevolezza che me l'ha fatto apprezzare come personaggio principale. E non è l'unico personaggio che ho davvero apprezzato.
L'autore è riuscito a creare dei protagonisti con una psicologia "vera": anche quei personaggi che conosciamo solo per poche pagine, sono dipinti in maniera estremamente realistica.

Inoltre, ho apprezzato la volontà dell'autore di essere davvero fedele alla Storia: dalla lettura del romanzo si nota come ci sia stato un attento lavoro di documentazione.
Niente viene dato per scontato. Ogni aspetto, anche quello che potrebbe apparire insignificante, della vita sulle Isole Solovki, nel passato e nel presente, viene offerto al lettore.
Lo stile non diviene mai pesante. Non è una lezione di storia: il protagonista ci racconta in prima persona quello che vede, quello che sente, quello che prova.

Nonostante le circa 300 pagine, la lettura scorre velocemente: i capitoli sono brevi e, concluso uno, sentivo la necessità di continuare a leggere per capire come continuava la storia.
Lo consiglio sicuramente agli amanti dei gialli ma anche a chi ha una forte passione per la Storia.
Infatti, "Mar Bianco" ci presenta avvenimenti storici che spesso vengono (purtroppo) trattati con superficialità a livello scolastico. Avvenimenti che spesso vengono anche dimenticati, nonostante siano avvenuti in tempi a noi vicini.
Vi lascio con un estratto di "natura storica". Che dire se non: buona lettura? :)

"Per i russi, il nome Solovki ha un suono sinistro: quasi lo stesso di Kolyma o di Auschwitz, salvo che le Solovki hanno anche una storia sacra che complica le cose e le rende, se la cosa è possibile, ancora più tristi. [...] L'intero monastero diventò un gulag. Un edificio nato per il culto venne usato per trent'anni come luogo di detenzione, prima per i criminali comuni, poi per i dissidenti. Detenzione: cioè tortura. Ho detto che è difficile immaginare cosa vuol dire passare l'inverno alle Solovki. Ma passare alle Solovki cinque, dieci, venti inverni senza avere cibo e vestiti sufficienti, lavorando come schiavi tutti i giorni della settimana, tutte le settimane dell'anno, supera la comprensione umana perchè non è umano: semplicemente, uno rinuncia a pensarci. E tuttavia questo, è stato calcolato, fu il destino di circa trecento mila esseri umani tra il 1925 e il 1954. [...] Oggi il monastero è tornato a essere un monastero. Anche se cade a pezzi, e anche se conserva ancora le tracce di decenni di atrocità: le antiche celle dei monaci trasformate in dormitori, le scritte in cirillico sui muri, i sotterranei senza finestre e senza fognature dove venivano rinchiusi per mesi, per anni, i nemici del popolo - lì i "ratti", come li aveva battezzati la propaganda del regime sovietico, venivano davvero trattati come ratti, diventavano ratti".

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Consigliato a chi apprezza i noir, i thriller, i gialli. Per i temi trattati, lo consiglio anche agli appassionati di storia.
Consigliato più a lettori adulti che ai ragazzi, penso che i 18 anni siano una buona età di partenza per la lettura di questo romanzo (più che altro per avere una base di quegli argomenti di Storia che, tradizionalmente, sono studiati a questa età).
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    01 Settembre, 2015
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Un breve racconto

"La targa" di Andrea Camilleri altro non è che un brevissimo racconto, per il quale pubblicare un intero libro può sembrare eccessivo. Questo non vuol dire che non sia stata una lettura piacevole, sostengo soltanto che se questa non occupa più di un'ora del mio tempo non può essere altro che un breve racconto. Ne "La targa" Camilleri scrive in dialetto siciliano, sappiatelo, ma ci tengo ad aggiungere che è molto semplice e facilmente comprensibile. Mi sento di dirvi che lo leggerete senza difficoltà.

La storia è basata sulle vicissitudini successive alla morte di Emanuele Persico, un vecchietto e fervente fascista. La sua morte inconsueta lo metterà in buona luce, tanto da fargli meritare una targa: al suo nome sarà intitolata una strada della città di Vigata. Allo stesso tempo però, sorgerà più di un dubbio sul suo misterioso passato, che gli varrà innumerevoli variazioni dell'appellativo da accompagnare al suo nome sulla famigerata targa, e anche repentini cambiamenti di opinione nei suoi confronti.
Da morto, Persico passa dalla gloria all'infamia, dall'infamia alla gloria con una facilità disarmante, il tutto a dimostrare la suscettibilità e la volubilità mentale del popolo italiano sotto il governo fascista. C'è da dirlo, in quel periodo storico, ce la siamo vista davvero "nera".
Un po' una riflessione critica, un po' racconto ironico, questa piccola opera di Camilleri è da consigliare agli estimatori del maestro e a chi cerca una lettura velocissima e leggera, anche se € 10 per racconto così breve effettivamente sono un po' troppi, a mio modesto parere.

"Supra alla targa, scrivemoci semplicemente 'Emanuele Persico - Un Italiano' e finemola ccá, proponí il consiglieri Bonavia. Fu accussí che la strada tornó a chiamarisi Via dei Vespri Siciliani."

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Amanti di Camilleri.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Sydbar Opinione inserita da Sydbar    25 Agosto, 2015
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La Luce attira e la fiamma brucia

Un altro capitolo della saga dedicata al Commissario Ricciardi, famoso per le sue visioni di anime dei defunti...
In quest'opera De Giovanni ci riporta davvero dei personaggi, in primis il protagonista Ricciardi, tratteggiati in modo estremamente intimistico, Ricciardi in questa avventura non ha poi così tante intuizioni anche perchè è poco aiutato dalle sue scarse visioni ed anche perchè i suoi pensieri sono affollati di tormenti dovuti alla perdita della tata Rosa nonché dal cuore, in balia come una falena attirata dalla luce di una candela, più si avvicina e più è alto il rischio di rimaner bruciata, sbattuto dalla bellissima Livia, dalla sognatrice Enrica ma questa volta anche dalla misteriosa Bianca.
Una trama che vede ormai tutto scritto e deciso, un omicidio, un presunto assassino reo confesso e tanti tantissimi inganni che avvolgerano come nelle spire di un serpente un Ricciardi anomalo. Il condimento dell'opera è competato dal Brigadiere Maione, fedele collaboratore del protagonista, il quale però in questo libro ha un ruolo un po' marginale.
Caratteristica di non poco conto èla sempre più incombente presenza di un avanzare inarrestabile del fascismo con tutte le sue leggi e con tutto il suo apparato di polizia segreta e dittatoriale.
Una delle pagine forse più apprezzabili di De Giovanni, dopo le ultime storie un po' sotto tono, un ottimo rilancio anche se manca sempre qualcosina per la perfezione...mi spiace questo senso di continua decadenza nel corso della trama.
Bella la cartilina invecchiata rappresentata dal racconto parallello di una storia in cui sono protagonisti due musicisti, uno giovane e rampante ed uno anziano che seppur con delle mani quasi paralitiche quando impugna lo strumento si trasforma nel genio musicale più insospettabile.
Promosso De Giovanni con la speranza che la cosa sia da ulteriore stimolo.
Buona lettura a tutti.
Il Syd

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I precedenti dello stesso autore con protagonista Ricciardi
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Romanzi storici
 
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Stile 
 
4.0
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Belmi Opinione inserita da Belmi    22 Agosto, 2015
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Secondo capitolo della saga Codice Millenarius

“L’abbazia dei cento delitti” di Marcello Simoni, è il secondo romanzo della saga “Codice Millenarius”.
Mi sono ritrovata immersa in questo libro senza aver prima letto il precedente, ma grazie a tutti i riferimenti di Simoni, sono riuscita a seguire molto bene la trama.

I personaggi sono molti e si trovano sparsi fra Ferrara (e dintorni) e Francia (Avignone e Reims).
Il romanzo è ambientato fra il 1347 e il 1348. Tutto ruota intorno al segreto del Lapis Exilii. In molti sono a cercarlo, fra i più agguerriti troviamo il valoroso cavalieri francese Maynard de Rocheblanche e il cardinale Du Pouget.

Fra gli altri personaggi risaltano l’abate Andrea, il giovane Gualtiero, la giovane Isabeau, Eudeline, sorella di Maynard e il marchese Obizzo d’Este.

Fra intrighi, ricatti e continui colpi di scena, Simoni ci riporta nella Ferrara di un tempo, alla corte degli Este, senza farci dimenticare la peste che devastò l’Europa in quegli anni e la corruzione della chiesa.

Un libro che si legge velocemente, in ogni pagina succede qualcosa. Nessuna digressione, solo fatti. Forse qualche dettaglio in più l’avrei preferito; a volte ero così intrigata da un passaggio che però, dopo neanche dieci righe, era finito e mi ritrovavo già da un’altra parte.

Un grande scrittore di storici medioevali, che per le sue ambientazioni ed i suoi contenuti, mi ha ricordato un po’, sia Ken Follett (anche se le stupefacenti descrizioni storiche di Follett sono un po’ difficili da eguagliare) che Dan Brown.

Lo consiglio.

Buona lettura!

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    21 Agosto, 2015
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La capra crepa una volta sola

Sender, il protagonista del racconto, è un uomo di buon cuore ma dissoluto e come molto spesso accade ai dissoluti anela alla virtù. Avrebbe bisogno per intraprendere la via della virtù di un angelo al suo fianco, possibilmente una donna che con la sua purezza e la sua gentilezza lo accompagni e lo faccia credere nuovamente nell'essere umano. La sua vita lo ha portato a vedere che nessuna donna è pura e che dell'uomo c'è poco da fidarsi. In ogni caso il suo buon cuore e la fede religiosa gli fanno sentire l'influsso del rabbino, un santo. All'inizio è un po' riluttante ma poi decide di affidarsi al rabbino, di farsi scegliere una sposa, una ragazza molto più giovane di lui, di ottima famiglia anche se povera e molto religiosa.
Sembrerebbe l'inizio di un racconto alla J. Roth con tanto di finale edificante.
Invece... Invece è proprio vero che la capra crepa una volta sola, ma prima che crepi ne deve passare di guai! Il racconto colpisce per il finale terribile, una specie di redenzione al contrario. La conclusione è che non è possibile avere fiducia alcuna nella donna, tanto meno nell'uomo. Certo che il fratello di Irsrael, Isaac B. oltre che più geniale è anche molto, molto più ottimista. I suoi finali sono tendenzialmente tutti edificanti e anche se non ha grande fiducia nell'uomo ce l'ha almeno in Dio. Israel invece, non potendo avere una mano tesa dall'uomo si sente sbeffeggiato e deluso anche da Dio. Curioso il ringraziamento al rabbino per il suo matrimonio.
Il racconto è molto bello ma non geniale. Comunque è veramente bello, incipit alla J. Roth e conclusione all'opposto.

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    13 Agosto, 2015
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Tutta la vita è un trucco

Consentitemi prima due parole sugli autori: Pierre Boileau e Thomas Narcejac, due scrittori francesi autori di una fortunata e lunga serie di romanzi polizieschi pubblicati negli anni '50 e che Adelphi ha deciso di riproporre in Italia, alcuni anche inediti proprio come Le incantatrici.
Ahimè, prima di questo, non avevo letto alcun romanzo di codesta famosa coppia della letteratura noir francese, che ha partorito capolavori quali I diabolici e La donna che visse due volte, e che a loro volta hanno ispirato registi del calibro di Clouzot e Hitchcock per le corrispondenti trasposizioni cinematografiche; anche il libro 'Le incantatrici' ha avuto una versione su celluloide, forse meno nota rispetto ai titoli prima citati, con le gemelle Kessler come protagoniste... scelta quasi inevitabile, direi, dopo aver letto la storia ed osservato la copertina.
Una breve premessa solo per descrivere meglio l'atmosfera che respirereste addentrandovi nella lettura di questo romanzo: una sensazione sfuggevole e non meglio definibile di inquietudine, di progressivo distacco dal mondo reale per sfociare in una dimensione parallela, doppia, apparentemente identica alla prima ma distinta da essa, un'immagine distorta allo specchio, una reale e l'altra surreale perchè alimentata dal subconscio dei personaggi, dalle loro ossessioni. Una realtà duplicata come le due Incantatrici, le gemelle Hilda e Greta, che danno il titolo al romanzo.
E molti potranno trovare familiare tale atmosfera perchè tipica di alcuni grandi capolavori di Hitchcock, primo fra tutti Vertigo - La donna che visse due volte.
Ne 'Le incantatrici' il protagonista è Pierre Doutre, figlio del famoso illusionista e prestigiatore dal nome d'arte "professor Alberto" e di madame Odette, sua assistente negli spettacoli oltre che manager della sua attività. Pierre trascorre i primi anni della gioventù in un collegio della Svizzera, non potendo seguire i genitori nelle loro tournee in tutta Europa, le quali avrebbero sicuramente impedito al ragazzo di completare gli studi.
Pierre sopporta a malincuore questo distacco forzato dai suoi genitori e vive gli anni della sua adolescenza nel collegio isolandosi da tutti e soffocando dentro sé stesso, in silenzio, il dolore e la tristezza che prova per la sua condizione indotta di 'orfano', praticamente abbandonato dai genitori in quel collegio essendo un ostacolo per il loro lavoro e senza il minimo interesse da parte loro per il suo disagio interiore; disagio che certo non poteva essere colmato, anzi forse solo accentuato, dalle visite sporadiche del padre.
Sin quando, poco più che ventenne, Pierre riceve la notizia della morte del padre, per un presunto infarto durante uno spettacolo. Lascia quindi il collegio per partecipare al funerale ad Amburgo, dove la compagnia degli Alberto si esibiva prima della morte del grande illusionista; ma la sua vita prende una piega del tutto inattesa durante le prove di uno spettacolo, quando rimane affascinato dall'incantevole bellezza di due donne, due gemelle perfettamente identiche, Hilda e Greta. E l'incanto che lo travolge è così intenso che decide di entrare a far parte della compagnia degli Alberto, imparando l'arte ed i trucchi inventati da suo padre, e diventando protagonista principale di un nuovo numero, una spettacolare esibizione ideata da Odette e che lo porterà ben presto ad un successo strepitoso. E alla rovina.
Non anticipo altro sulla trama, si tratta comunque di un 'giallo' ed ogni parola in più rischia di compromettere l'effetto 'sorpresa' rendendo così poco intrigante la lettura di questo romanzo.
Lettura che consiglio comunque a tutti gli amanti del genere per assaporare quell'atmosfera un pò 'vintage', consentitemi il termine, di cui parlavo all'inizio.
Perchè si percepisce facilmente la differenza con il genere noir contemporaneo: ovviamente non manca l'assassino, l'omicidio c'è così come c'è una suspence costruita sapientemente dagli autori per nascondere sino alla fine il colpevole ed il suo movente.
La differenza è proprio nel movente: in questo romanzo il movente è tutto 'nella testa' del colpevole, si scatena qualcosa nella sua mente, a livello inconscio, qualcosa di completamente imprevedibile che lo porta al gesto estremo, una follia maturata dal nulla ma che si alimenta giorno dopo giorno sino all'inevitabile esplosione.
Ed immaginate quanto sia difficile per uno scrittore basare il suo romanzo su un movente del genere, incentrare una storia sulla metamorfosi psicologica di un personaggio ed ancor più renderla credibile a chi legge, anzi quasi terrorizzarlo per quello che può emergere scandagliando in profondità le zone d'ombra della sua mente.
E' molto più complesso anche rispetto alla stragrande maggioranza dei thriller più recenti in cui il serial killer uccide in preda ad una follia omicida molto spesso generata da traumi più o meno stereotipati, come abusi sessuali, maltrattamenti, tradimenti et similia.
Ecco perchè in questo romanzo tutto si poggia sull'introspezione approfondita dei personaggi, e non solo dei protagonisti ma anche di quelli secondari, perchè ciascuno di essi può essere l'assassino e tutti contribuiscono col loro comportamento a far maturare la sua follia.
Ed i rapporti che si creano tra i personaggi sono anomali, si avverte che c'è qualcosa di sbagliato, di insano, appena accennato ma comunque percepibile.
Così quando Pierre ritrova, dopo tanti anni, la madre Odette al funerale del padre tra i due s'instaura un rapporto ambiguo, estremo e contrastante di amore-odio: odio represso che sfocia spesso in scatti d'ira verso quella madre che per tanti anni ha praticamente dimenticato suo figlio per inseguire il successo del marito, in contrapposizione ad un amore quasi morboso che invece si manifesta quando Pierre è incapace di prendere una decisione e che sembra scaturire proprio da quella lacuna di affetto materno mai ricevuto.
Analogamente, le due incantatrici Hilda e Greta sono anch'esse figure molto ambigue, a volte si ha quasi l'impressione che esistano solo nella fantasia di Pierre, che siano una sua invenzione mentale .. e questa sensazione è tanto più accresciuta dal fatto che Pierre non può mai parlare con loro perchè sono tedesche, mentre lui parla solo francese, così che i vari tentativi di dialogo si riducono sempre a dei monologhi di Pierre con se stesso...
Inoltre, la perfetta somiglianza delle due gemelle tanto da renderle indistinguibili a tutti, rende ancora più 'illusoria' ed eterea la loro figura, il loro continuo alternarsi e sdoppiarsi determina soggezione, paura e disorientamento in coloro con cui si relazionano, quasi fossero anch'esse un trucco, una magia, il risultato di un'incredibile numero di illusionismo.
Sono proprio queste sensazioni che 'incantano' il lettore, la storia ruota completamente intorno alle due incantatrici e al loro effetto deleterio su chi le circonda, determinando a volte ossessione, a volte gelosia, a volte paura.
«Nel nostro lavoro bisogna saper mentire» - dice madame Odette. «Tutto qui».

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Belmi Opinione inserita da Belmi    03 Agosto, 2015
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Cara Premoli mi chiedo perché??'

Cara Signora Premoli, devo dire che sinceramente mi sento un pò oltraggiata dal suo pensiero sul mondo femminile.

Partiamo dal presupposto che ho letto altri suoi romanzi che, anche se non sempre tutti originali, li ho comunque trovati piacevoli e divertenti.

Ma durante la lettura di questo romanzo, molte volte ho riso, ma molte altre ho storto il naso.

La protagonista è Kayla, praticamente mia coetanea, forse questo è anche uno dei motivi del mio risentimento. Torniamo a noi, Kayla, giornalista incaricata di raccontare la vita notturna della Grande Mela, viene "spedita", per un'indagine riservata, in un paesino dell'Arkansas, a Herber Springs, dove la ragazza tra l'altro ha la sorella della nonna ad aspettarla. Qui in questo paesino, incontra Greyson, "il figo di turno".

Fin qui tutto nella norma, ma ecco che da questo punto, la Premoli ci presenta le caratteristiche "salienti" della sua protagonista: necessità di avere un tacco 12 ai piedi; scarse capacità di orientamento; incapacità "culinarie" (non sa neanche come si apre un uovo); punta a storie di sesso e non a rapporti seri; è convinta che per far cedere un uomo serva un vestito aderente e scollato invece che il cervello ed infine la sua convinzione, che senza zumba non si possa sopravvivere.
Come giustifica queste splendide caratteristiche? Accennando, ma proprio accennando, che la povera Kayla è così a causa di un abbandono.

MI dispiace ma noi donne siamo molto di più.

Comunque c'è anche un lato positivo. La scrittrice mette a confronto la vita cittadina con quella delle piccole realtà, facendoci capire quello che ci perdiamo.

Il punteggio dello stile e della piacevolezza è legato al fatto che, a parte il contenuto, la Premoli sa scrivere molto bene, si legge piacevolmente ed apprezzo la sua ironia (anche se forse in questo romanzo ha esagerato un pò con le frasi fatte).

Consiglio all'autrice di puntare di più sul contenuto, perché se un libro è nella categoria "letteratura rosa" non vuol dire che il suo pubblico sia meno esigente.

I precedenti sono più convincenti.

Buona lettura!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    03 Agosto, 2015
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920 SFUMATURE DI NO(IA).

L’Affare Cage – Greg Iles, 2014
(Titolo Originale: Natchez Burning)

920 SFUMATURE DI NO(IA).

Non bazzico abitualmente i verdi pascoli del thriller/giallo e sono stata ben contenta della novità.
Almeno fino al momento di cominciare a leggere.
Anni ’60, Nantchez, Mississippi (al confine con la Luisiana) brutale uccisione del gestore di un negozio di musica, da parte dell’ala “dura” del Ku Klux Klan. L’uomo è accusato di aver offerto protezione ad un giovane musicista nero che ha commesso l’imperdonabile errore di andare a letto con una ragazza. Bianca. Figlia del boss locale. Anche questo giovane subirà un destino orrendo.
Così come molti altri giovani di colore che lottano per i diritti civili.
Cinquant’anni dopo, Viola Turner, anziana infermiera di colore e malata terminale muore in circostanze bizzarre. Forse un’eutanasia riuscita un po’ male. Forse molto peggio.
Ma Viola è stata l’infermiera – nonché amante – di Tom Cage, wondermedico e fiero padre del nostro protagonista, Penn Cage. Penn Cage è sindaco, romanziere, ex-pubblico ministero, figlio devoto, padre amorevole, vedovo affranto e fidanzato affettuoso. Nonché spina nel fianco dei cattivi. Passati, presenti e futuri. Quando si annoia e non sa cosa fare, dà ripetizioni di fisica a Tony Stark, risponde alle decine di messaggi in segreteria di Batman, che non sa come cavarsela a Gotham City senza di lui, e dà la dritta giusta a King per il prossimo libro.
E Penn non è neanche il personaggio più molesto della storia.
E non è neanche troppo esatto parlare di personaggi, in questa storia.
I personaggi “giovani” sono degli stereotipati clichè: le nere “calde”, le bianche “fredde”, i bambini “saggi”, i giornalisti martiri della causa, le donne in carriera non sanno cucinare, quelle quarantenni non sanno cucinare E vorrebbero diventare madri, le madri sono devote alla famiglia, i figli sono amorevoli, i padri guide sicure, i cattivi sono appassionati di armi e di trofei macabri; a volte trasformano in armi i trofei macabri, sono potenti, sadici e corruttori. In tutto ciò, ogni tanto, spunta fuori tipo fungo qualche personaggio altrimenti inutile, ma che ha un qualche – scoperto – scopo ai fini della trama, e l’autore, attraverso la voce di Penn Cage che narra in prima persona, ci racconta per venti pagine quanto sono straordinari, in genere tediandoci sulla marca del loro cellulare, della loro auto, del loro fondotinta (giuro che è vero!), della birra che bevono.
Passata la cinquantina, i personaggi, o sono “incredibilmente” in forma come ventenni o sono malati terminali, agonizzanti per malattie varie, ma dallo spirito indomito.
(Su tutti. Capitolo 42. Descrizione di casa, vita e miracoli di Pythia Nolan. Personaggio tirato fuori dal cilindro nel capitolo prima. E non si capisce come si sia potuto farne a meno fino a quel momento – non “noi” lettori, proprio l’universo mondo – perché anche l’anziana lady non sono è, è stata e sarà, wonder woman, ma possiede doti di chiaroveggenza – d’altronde si chiama “Pizia”… notare la finezza – è ricchissima, bellissima, coltissima ed in grado di manipolare le menti altrui come neanche Voldemort. Per quanto concerne influenza e potere… be’ il Cardinale Richelieu dovrebbe prendere lo zainetto e tornare all’asilo, al suo confronto. Ah dimenticavo. Per fortuna lei è tanto buooona. E sta morendo per un enfisema. E fornisce a Penn qualcosa che gli salverà la pelle. Obviously. Del resto il personaggio è stato introdotto apposta.)
Ok, va bene.
I personaggi non hanno un grande spessore.
Ma è un thriller. Di solito non c’è tempo per fare una buona caratterizzazione ed è la “storia” adrenalinica ed incalzante a costituire il divertimento del lettore.
La storia non c’è.
Il tema centrale (che ogni tanto ci viene ribadito, casomai fossimo distratti) è: siamo disposti a fare i conti con il fatto che l’idea grandiosa che abbiamo di nostro padre potrebbe non essere troppo conforme alla realtà? Sì, no, forse. Risponde Penn Cage di volta in volta.
Il tentativo di connettere i delitti degli anni ’60 (praticamente QUALSIASI delitto degli anni ’60) con la realtà attuale di Nantchez viene portato avanti spaciugando in modo molesto alternando le voci narranti e cercando di creare “suspence” con tecniche tali che poco ci mancava che l’autore si mettesse una pila sotto la faccia e facesse la voce della strega cattiva.
E come se questo non bastasse, dopo 920 pagine (avete letto bene 9 – 2 – 0 pagine, novecentoventipagine!) non si degna neppure di “chiudere”. Chi ha ucciso la Turner non lo sappiamo, di chi è suo figlio non lo sappiamo, che fine fa Tom Cage non lo sappiamo.
Il martire si immola e porta con sé un cattivone.
E Penn Cage e la sua intollerabile fidanzata, malconci ma sani e salvi sono pronti per il prossimo “romanzo”.
Che io non leggerò.
A meno che l’alternativa di lettura non sia l’elenco del telefono.
Nel qual caso ci penso.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    02 Agosto, 2015
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Polpettone Beautifulliano

Premetto che questo romanzo rappresenta la mia “prima esperienza “ con la Riley quindi può darsi che il mio giudizio non sia dei più appropriati e che altri componimenti abbiano riscosso (o riscuoteranno in futuro) maggiore successo.
Greta ha da sempre un sogno: lo spettacolo. E' una giovane donna di appena di 18 anni quando scopre di essere incinta di un ufficiale americano pronto a tornare in patria dopo giorni di illusioni e false promesse. E' sola eppure non può interrompere la gravidanza; per quanto importante sia la sua carriera, la vita che porta in grembo è un qualcosa di inestimabile. David detto “Taffy”, comico che riuscirà a consolidare una illustre carriera nonché indispensabile pilastro nella vita della nostra protagonista, nutrendo verso la stessa un sentimento di amore profondo, decide di aiutarla e per far fronte ai mesi che l'attendono prima della nascita le offre asilo nella sua tenuta di Marchmont. Segretamente nutre la speranza di poter così avere una seconda possibilità con la donna, anche se quelli che si scopriranno di poi essere gemelli non sono suoi figli legittimi, si augura di poter acquistare valore ai suoi occhi e riuscire così a conquistarla. Peccato però che non tutto proceda secondo i suoi piani; Owen, suo zio, ammaliato da quel che un erede può rappresentare per la tenuta decide di sposare la giovane e di riconoscerne la prole. A distanza di soli tre anni dalla nascita un evento inaspettato e spiacevole spezza l'equilibrio che si era creato nella vita di Greta tanto che questa è costretta a fare ritorno a Londra. Alla tenera età di quattro anni sua figlia Cheska viene scoperta dall'universo cinematografico e considerata la Shirley Temple inglese viene ingaggiata ed avviata a quella che sarà una promettente carriera. Peccato per quelle voci che continuano ad affollarsi nella sua mente e a dirle di fare cose cattive... Ma tutto questo, e molto altro ancora, è un qualcosa che la nostra eroina ricorderà casualmente e dopo oltre vent'anni durante delle inusuali vacanze di Natale in quel di Marchmont Hall, un luogo che da tre decenni non fa più parte della sua vita. David non l'ha mai abbandonata, le è sempre stato accanto ed ha fatto di tutto – seppur con scarso successo – per cercare di aiutarla a riacquistare i suoi ricordi. Da sempre questa si affida all'uomo ed anche in questo caso le sue premure risulteranno essere indispensabili per far chiarezza, luce ed ordine in quel turbinio di emozioni e sentimenti riacquistati in un colpo solo.
Come avrete sicuramente notato la trama di questo scritto è alquanto arzigogolata, e lasciate che vi dica che il mio breve riassunto rappresenterà forse un terzo di tutte le vicende che si susseguono nelle 601 pagine che lo compongono. Mentre lo leggevo un pensiero costante mi attanagliava: il saccheggio. A parte la scarsa originalità della storia che francamente è la solita trita e ritrita – giusto un mese fa mi è capitato tra le mani un testo in cui la protagonista guarda caso non aveva cognizione del suo passato ed il lieto fine era immancabilmente assicurato – inevitabili sono le assonanze con numerosi classici della letteratura quali Cime tempestose, Orgoglio e pregiudizio, Jane Eyre etc etc.
La traduzione non è delle migliori e probabilmente la colpa è della “fretta” determinata dallo scarso tempo a disposizione vista l'imminente pubblicazione. Non sono mancate pagine con ripetizioni su ripetizioni (sono rimasta perplessa dall'ingente sfruttamento dell'avverbio “sempre”; una volta l'ho contato ben 3 volte in nemmeno 4 righe, figuriamoci in una pagina).
Il linguaggio adottato è poco fluente e caratterizzato da periodi brevi, monotoni ed anche in questo caso ripetitivi. Il vero protagonista è senza dubbio David che merita, indiscutibilmente, la beatificazione.
Francamente Beautiful – la ventennale telenovela che io tra l'altro conosco solo di nomea – è nulla a confronto con questo romanzo. Lo consiglio agli amanti del genere “polpettone” rosa e delle medesime serie televisive. Non posso definirlo un testo destinato a chi cerca letture “poco impegnative” perché tra la trama e la miriade di personaggi che si susseguono ne richiede e non poco. Si legge, per l'amor di Dio, se proprio non avete altro, ma se non rientrate nelle categorie sopra citate EVITATELO COME LA PESTE.

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si = solo per gli amanti delle letture rosa e delle serie tv annesse.
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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    29 Luglio, 2015
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Lucky to have known you

Cybersegugi sulla pista di persone scomparse che nessuno cerca.
È così che inizia questa nuova indagine della dottoressa anatomopatologa Temperance Brennan, più interessante della sua caricaturale versione televisiva. La sua vita è diversa dal piccolo schermo, ma sempre appassionante. Ciò che affascina è il suo personaggio ironico, ma competente nell'analisi delle ossa. Ad affiancarla ci sono il sempre silenzioso Birdie, la mamma, la sorella, la figlia, il suo capo e, ovviamente, Ryan.
Questa indagine, però, rispetto alle altre, inizia da un punto di vista diverso. L'eccentrica cybersegugio Hazel Strike si presenta da Temperance con una registrazione su un dispositivo ad attivazione vocale. Qualcuno ha voluto registrare il suo omicidio. Il problema è che le ossa non si trovano e, come Temperance ci ha abituati a credere, soltanto le ossa sono le depositarie della verità, poiché "le ossa non mentono mai".
KATHY REICHS ci propone una nuova indagine che, come sempre per i suoi romanzi, si rivela un'avventura, dove le nozioni mediche si mescolano alle scene d'azione. Temperance Brennan è sempre in prima linea a rischiare la sua pelle, ma stavolta ha anche qualche dilemma amoroso con il suo Andrew Ryan: sposarlo o non sposarlo?
Tempe preferisce buttarsi a capofitto nel lavoro, anziché scegliere qualcosa che potrebbe cambiarle la vita. D'altronde fa bene, poiché noi lettori la amiamo così com'è: una stacanovista del lavoro, pronta a farci appassionare mentre seguiamo le sue indagini sul rinvenimento di resti umani.
Come suo solito, KATHY REICHS parte da un'idea di storia che puntualmente viene stravolta da un colpo di scena e poi da un altro ancora, a catena. Non ci si può annoiare leggendola e, finché non si giunge all'ultima pagina, le carte in tavola dell'indagine sono sempre destinate a modificarsi e a rimescolarsi, assumendo un nuovo punto di vista.
Fantasticamente avvincente, con uno stile e una creatività narrativa inesauribili.
Se alla fine i conti non tornano, come per il rinvenimento casuale dei resti ossei, tutto è dovuto al caso. L'importante è averla seguita in una nuova inedita indagine.

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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    21 Luglio, 2015
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Johanna si perde in Dolly per trovare Johanna

Entrare nel mondo degli adulti non è cosa da poco. Non è affatto semplice. Se a complicare la situazione interviene il sesso, allora siamo in un romanzo "senza censure" di Caitlin Moran. Dopo il suo esordio con "Ci vogliono le palle per essere una donna" che è diventato un bestseller, la Moran ci riprova con COME DIVENTARE UNA RAGAZZA e, analizzando la situazione delle vendite nelle classifiche UK, sembra vicina a bissare il successo del primo romanzo. COME DIVENTARE UNA RAGAZZA diventerà anche un film, adattandone opportunamente la trama.
È un romanzo con tematiche per adulti, senza peli sulla lingua su qualunque argomento, dalla politica alla società degli anni Novanta, ma in particolare parla di sesso e di musica, mescolando insieme i due mondi.
La protagonista è Johanna Morrigan, una ragazza di 14 anni, che vive in una famiglia povera e borderline: un padre strampalato, eterno aspirante star del rock; una madre paziente e remissiva, con crisi depressive post-partum; un fratello maggiore, pronto a criticare e fare dispetti, e un fratellino, Lupin, dagli occhi grandi “come due pianeti blu che ruotano nella galassia del suo cranio”, terribilmente dolce, tenero e in cerca d'affetto. A peggiorare la situazione, ci sono gli ormoni adolescenziali e il suo essere trasparente agli occhi degli altri, pur essendo irrimediabilmente e procacemente grassa.
Johanna è intelligente e deve fare i conti con il mondo e con gli insegnamenti sbagliati o insufficienti che i suoi dei genitori le hanno inculcato per affrontare la vita. Quando inizia il romanzo è il 1990. Johanna vive affrontando una delusione dopo l'altra, finché non decide di mettere da parte la rassegnazione e rimboccarsi le maniche. Decide di cambiare tutto, darsi uno pseudonimo, e trasformarsi in Dolly Wilde, una giornalista scaltra e audace. Lascia il sobborgo di Wolverhampton e intraprende una nuova vita, fatta di avventura, sesso, letture erotiche e musica. Dolly Wilde diventa, in breve tempo, famosa, un’autentica eroina gotica, con la parlantina sciolta, senza alcuna inibizione, alla conquista del piacere, degli uomini e di Londra.
Dolly può salvare la famiglia sempre più in affanno economico, anche un po' a causa sua. Un po' come Jo in "Piccole donne", o come le sorelle Brontë (senza pensare minimamente di morire giovane), Johanna-Dolly si arma di penna e inizia a scrivere, poiché scrivere è qualcosa che anche i poveri possono fare.
Ma cosa succede quando Johanna realizza che Dolly, il personaggio che lei stessa ha costruito pezzo per pezzo, ha un enorme difetto? Cosa le manca per diventare una ragazza? Questo è il romanzo che ogni adolescente potrebbe scrivere parlando di se stessa e delle insoddisfazioni che prova, ma solo Caitlin Moran ci è riuscita a farlo con il suo stile irriverente e esplosivamente immorale.
È una lettura avvincente, divertente, avventurosa, appassionante come la vita, ma per questo a tratti anche un po' dolorosa, fino alla piena consapevolezza delle difficoltà da affrontare per entrare nel mondo degli adulti.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    19 Luglio, 2015
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Un bouquet di profumi retrò

Come un fiore questo romanzo della See, un fiore dolce a tratti e a tratti crudele, pieno di spine, velenoso. Tre ragazze orientali, la danza, i primi nightclub, amicizie e rancori, paure e dolori, amori, segreti, la guerra, la discriminazione, tutte queste sono le essenze di questo bouquet affascinante.
Un romanzo ben scritto, che mi ha sicuramente appassionato, scritto con un altalenarsi di voci, le tre voci delle tre protagoniste, ognuna racconta la storia secondo il suo punto di vista, conducendo il lettore fino alla fine. L’autrice utilizza la realtà storica per dare una forte connotazione alla sua vicenda, utilizza personaggi reali e “inventa” una trama, quella di tre amiche e delle loro vicissitudini a cavallo della seconda guerra mondiale.
Tre vite che si incontrano e si scontrano, tre passati dolorosi e a tratti disumani, segreti che non possono essere raccontanti e che forniscono la giusta dose di suspense, si vuole conoscere di più, si vuol sapere perché.
La lettura di questa storia porta con se una piacevolissima atmosfera retrò, rende bene le immagini delle ballerine anni quaranta, ragazze orientali: bellissime e affascinanti. Raccontato bene anche il clima di discriminazione e di emarginazione di quel periodo, il desiderio di emancipazione, il senso di rivalsa di queste ragazze, i loro sogni, la loro voglia di emergere, di vivere, desiderio di bella vita o semplicemente di una famiglia. E’ forte in questo romanzo il concetto di odio fra popoli, odio che nasce un po’ da una cultura distorta, ma in gran parte dalle realtà storiche che alcune popolazioni hanno dovuto vivere. Le guerre feroci e le occupazioni inumane per la quale milioni di persone sono state uccise, straziate, violentante e brutalizzate, traumi che rimangono nel profondo per secoli e che forse entrano nel DNA e li rimangono per sempre.
Un bel tuffo nel passato, ben narrato e arrangiato, una lettura piacevole, uno stile elegante e preciso, sarà per la mia passione per l’oriente, per il fascino che certe storie mi suscitano, ci aggiungo anche un senso di esotico che mi ha colpito, ma ho sinceramente apprezzato questa storia di taglio sicuramente femminile, e forse anche per questo assolutamente intrigante.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Luglio, 2015
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La vita non è un paragrafo, e la morte non è una p

Ogni giorno lo stesso tragitto, il medesimo treno, i soliti pensieri. Puntuale come un orologio, alle 8.04 la donna è sul convoglio che la porterà da Ashbury a Londra e su quello che inesorabilmente alle 17.56 la ricondurrà a casa. Non ha più un lavoro Rachel, non ha altra certezza nella vita se non l'alcool e nonostante abbia poco più di trentanni si sente inutile, non ha più scopi.
La separazione dal marito è stato un colpo troppo grande da poter affrontare, gestire e tollerare; si è dimostrato essere un qualcosa che la donna ha vissuto come il fallimento non solo della relazione ma anche della sua stessa vita, si è sentita svuotata, persa, tradita da quell'uomo a cui ha dato tutto e che non ha esitato un attimo a scegliere un'altra, una donna che senza remore ha preso il suo posto nella vita di Tom donandogli perfino una figlia. Il passaggio da depressione ad alcolismo è stato inevitabilmente rapido.
Ma non riesce ad ammettere nemmeno con sé stessa quanto grave sia divenuta la situazione, anche il solo confidare all'amica nonché coinquilina Cathy di aver perso il proprio impiego perché ubriaca è un qualcosa che non può esporre.
E così ogni mattina fa finta di andare al lavoro e in quel breve tragitto è preda di pensieri sulla vecchia Rachel grintosa e determinata e sulla nuova arrendevole ed superflua. Il percorso le consente di osservare anche la zona in cui un tempo abitava con Tom al 23 di Blenheim Road ma la sua attenzione è rivolta al civico 15 dove Jess e Jason vivono quella che agli occhi della protagonista è l'esistenza perfetta. Lui è moro e robusto, un tipo protettivo con una bella risata argentina, lei è minuta, graziosa, con la carnagione chiara e i capelli biondi, corti.
Ma non sempre “il giardino del vicino” è migliore del nostro, non sempre quella perfezione che immaginiamo negli altri esiste davvero. Un giorno come tanti, di Jess si perde ogni traccia.
Ed è così che Rachel apprende che Jess è in realtà Megan e Jason, Scott; che la loro relazione era problematica come quella di chiunque altro ed assiste ad un qualcosa a cui mai avrebbe pensato di dover far fronte. Le sue parole sono vane, chi crederebbe mai ad un'ubriacona? Soprattutto quando Anna, la nuova moglie dell'ex coniuge, non fa altro che buttare “carne al fuoco” per screditare quella che crede essere una minaccia.
Megan non può essersi volatilizzata, deve esserle accaduto qualcosa. Un motivo, una ragione per la quale si è allontanata da casa, per la quale ha rinunciato a tutto. E se non se ne fosse andata volontariamente? Se qualcuno o qualcosa l'avesse costretta? E se le fosse stato fatto del male?
Gli inquirenti sono in stallo, non hanno prove per fermare alcun sospettato ne una vera e concreta idea di quel che potrebbe essere successo; per Rachel, colei che all'inizio del componimento è percepita dal lettore quale una persona sgradevole, inavvicinabile, rude, venire a capo del mistero è un (nuovo) obiettivo dalla portata tale da significare anche un beneficio inaspettato , volendo una rinascita...
Stilisticamente il romanzo è accattivante, solletica la curiosità di chi legge spingendolo a risolvere egli stesso l'enigma. Scritto sotto la forma del diario alternando più voci narranti (Rachel, Anna, Megan) ed avvalorato da un ben costruito intreccio, il testo scorre rapido giungendo celermente a conclusione e giustificando il successo avuto. Un fenomeno da 2 milioni di copie in 5 mesi, piacevole e dalla ben ponderata suspence.

“La vita non è un paragrafo, e la morte non è una parentesi”.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    17 Luglio, 2015
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MARCHINGEGNI NON LUBRIFICATI

Lindqvist, emulo di King, sembra condividerne la medesima visione del male come scaturigine della psiche umana: la vita è un susseguirsi di traumi, insuperabili, provocati dall’insania altrui o dalla propria. Se incerta è l’esistenza di un Dio salvatore e redentore, sicuro è invece il potere del demone misterioso che, preso possesso delle anime, ne deturpa l’innocenza, e trasforma tempo e spazio in un delirio caotico, un ammasso confuso di sensazioni, ricordi ed emozioni che gradualmente conducono chi ne è preda alla follia. Se cosi non fosse, però gli esseri umani sarebbero «marchingegni ben lubrificati» le loro azioni sarebbero prevedibili, pertanto calcoli e simulazioni sostituirebbero letteratura ed arte. Da questo punto di vista “Musica dalla spiaggia del paradiso” è un romanzo fin troppo esemplare: un gruppo di ospiti di un campeggio vicino Stoccolma si trova all’improvviso in un luogo che rimanda a una realtà “altra”, irriconoscibile per gli occhi umani. Non ci sono alberi né sole, piove fuoco, strane creature la popolano e all’estremità dell’orizzonte una parete nera richiama e inghiotte chi vi entra. A dire vero, via via che leggi, ti addentri nelle turbe, descritte con dovizia di dettagli, dei vari personaggi, e la metafora si fa trasparente: la landa raccapricciante, il locus horridus, non è altro che l’interiorità disturbata di ciascuno di loro. Tutti rivedono li in forma di allucinazione le tracce di un passato di dolore e violenza; le canzoni degli Abba e del cantautore svedese Peter Himmerlstrand ascoltate ripetutamente alla radio fanno da controcanto, beffarda rievocazione di idilli illusori o perduti. E’ soprattutto la famiglia a generare mostri: nessuno delle vittime del “paradiso” vi si trova senza la compagnia di un coniuge/compagno odiato o disprezzato o non accettato fino in fondo. Significativo è il fatto che la figura più inquietante sia una bambina, Molly, che di quell’inferno sostiene di essere il frutto. La madre, una modella bellissima e nevrotica, stanca di lei, l’ha abbandonata in un tunnel buio dove ha subito la metamorfosi che l’ha trasformata in qualcos’altro. Come dimostra la coppia di contadini omosessuali neppure la purezza e la scoperta di un amore ricambiato salva: a chi si è limitato a negare per anni se stesso, senza nuocere ad altri, resta almeno l’unica consolazione di un attimo di dolcezza prima del precipizio.

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Consigliato a chi ha letto...
interessante il confronto per gli amanti dei romanzi di King
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Romanzi erotici
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Luglio, 2015
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Ma buongiorno Mr Grey!

Come molti altri autori del momento anche EL James, scrittrice inglese nota nel panorama letterario per le sue “50 sfumature di grigio, nero e rosso”, ha deciso di regalare agli appassionati sostenitori della coppia Anastasia-Christian un nuovo capitolo incentrato sulla prospettiva di quest’ultimo.
Il romanzo ripercorre passo dopo passo l’incontro tra il tanto amato Mr Grey e “l’innocente” studentessa Steele sino a giungere alla inevitabile conclusione del primo libro, sostanzialmente infatti lo scritto è una ripetizione di questo con la variante della voce narrante.
L’uomo che ci viene descritto a mio modesto parere non è in grado di rappresentare le aspettative delle lettrici. Mi spiego meglio. E’ bene precisare che la mia conoscenza delle “sfumature” è alquanto relativa; nonostante i libri mi siano stati regalati – sicuramente nelle migliori intenzioni – non ne sono rimasta affascinata in quanto l’argomento non rientra proprio nei miei generi ma soprattutto per la traduzione perché le poche pagine che ho sfogliato mi hanno lasciato alquanto basita (per linguaggio utilizzato quanto perché i tempi verbali, miei cari editors, in Italia non si esauriscono al presente, di grazia). Vero è anche che conosco la storia perché mi è stata raccontata talmente tanto nel dettaglio che – almeno il primo capitolo – è come se lo avessi letto. Mi scuso per questa breve parentesi ma si è necessaria per chiarire quanto esporrò in seguito.
Palese è l’idea della El James. Questa voleva sostanzialmente mostrare al pubblico che il “tenebroso” ed “affascinante” dominatore altro non è che un essere umano che una volta incontrata, “quella giusta” è preda delle sue emozioni, ne è sconvolto tanto da arrivare ad acconsentire a compromessi che con altre mai e poi mai avrebbe permesso per infine riscoprire che oltre a quella oscurità che ha dentro vi è posto anche per altro. L’umanità verrebbe altresì avvalorata dal passato del miliardario, un trascorso di “tenebra”, di sofferenza, di mancanza di valori familiari e maltrattamenti che hanno lasciato dei solchi talmente tanto ampi da non riuscire ad essere colmati nemmeno dalla famiglia adottiva. Se poi ci si aggiunge l’introduzione alla “vita adulta ed intima” del protagonista è impensabile che questo sappia affrontare normalmente sentimenti ed accettare una relazione in tutto e per tutto alla “vaniglia”.
Ora. Elementi di novità sostanziali rispetto a “50 sfumature di grigio” non ce ne sono, perfino i dialoghi combaciano – era intuibile ma prima di dichiararlo ho controllato, tranquilli - e non potrebbe essere diverso se ben ci pensate perché la storia quella è. Quindi se siete interessati ad acquistarlo è bene che siate consapevoli del fatto che ricomperate lo stesso prodotto che avete preso in passato. I pensieri dell’uomo sono curiosi ma non sufficienti a ricreare e sostenere la figura seducente ed ammaliante che aveva creato nell’altra saga e questo semplicemente perché lo smonta. Mettere su carta i pensieri di colui che alla fine era il perno su cui tutto lo scritto ruotava si è rivelata un’arma a doppio taglio che ha finito con l’essere impugnata dalla parte della lama. Stravolgendo lui inevitabilmente anche la protagonista femminile non riesce a combaciare con l’idea che le lettrici si erano fatte. Anche gli incubi che vengono descritti non hanno spessore, si esauriscono li….
Il testo può essere letto tranquillamente da tutti a prescindere dai precedenti capitoli ed il fatto che la traduzione sia migliore fa si che il curioso o l’appassionato possano terminarlo nell’arco di un paio di giorni (nonostante la mole di 583 pagine) senza restarne ne particolarmente colpito ne particolarmente schifato.

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si = agli appassionati e curiosi del genere con la premessa del non crearsi false aspettative, il romanzo questo è e questo resta.
no = a chi cerca componimenti di diverso spessore.
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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    15 Luglio, 2015
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Fumisteria

Torna ad essere riedita l'opera prima di Fabio Stassi.
Si tratta di un romanzo che vide la luce nel lontano 2006, quando la fama dell'autore non era consolidata come lo è oggi, dopo che i romanzi “L'ultimo ballo di Charlot” e “Come un respiro interrotto” l'hanno fatto apprezzare ad un pubblico più vasto.

“Fumisteria” vuole essere un omaggio alla terra siciliana imbevuta di tradizioni ataviche, crocevia di culture e di usi stratificati e consolidati come rocce.
Stassi parla di singole storie, di violenze, di privazioni, di faide, di ricatti, di amori sinceri e di sentimenti corrotti. Affiorano a pelo di pagina tutte le contraddizioni ed i nei di un territorio lontano, quasi dimenticato e avvolto in una cortina fumosa che rende tutto sfocato.
La vita scorre inesorabile nella polverosa Kalamet, il cui nome di pura fantasia non ne corrompe l'estremo realismo della ricostruzione, dove si incontra e si scontra una galleria di volti esemplare.
Un racconto che alterna il torbido delle pieghe di una terra problematica alla solarità del viso di un uomo dall'animo tenero come un bambino.

Denso ed intenso questo esordio letterario, stilisticamente originale e maturo, capace di mettere in luce una penna carica di potenziale.
Letto oggi, fa apprezzare ancora di più le qualità e la caratura dell'autore, la cui espressività è una nota costante della sua produzione, presente fin dagli albori.
Nell'attuale panorama, Fabio Stassi deve occupare una posizione di riguardo, non resta che sperare che il prossimo romanzo veda presto la luce, catapultandoci in un' altra storia.

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Romanzi storici
 
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    15 Luglio, 2015
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La memoria unica prova dell’esistenza del passato

“Forse Esther” è il primo romanzo di Katja Petrowskaja, anche se in realtà non si tratta proprio di un romanzo, quanto piuttosto di una ricerca nel passato, di una raccolta di testimonianze e di episodi riguardanti la vita degli antenati della scrittrice. Un lavoro nato dall’esigenza di ricercare le proprie radici per guardare al futuro con consapevolezza e coscienza ed evitare di vivere affannosamente un presente limitato nel tempo e nello spazio.
“Credo si chiamasse Esther, disse mio padre. Si, forse Esther. Avevo due nonne e una si chiamava Esther, proprio così.” Da qui il titolo dell’opera, che, non a caso, contiene in sé tutta l’importanza di recuperare e conservare la memoria, perché la storia non finisca nel nulla dell’oblio.
Difficile quanto doloroso ripercorrere gli anni delle persecuzioni, dei ghetti, dei lager e dei gulag per la Petrowskaja, esempio di quel complesso intreccio di culture, ebraica, tedesca, russa e polacca che si creò nelle zone dell’Europa centro-orientale, come ci è stato ampiamente descritto anche dai fratelli Singer.
Nella ricostruzione degli eventi, spiccano energiche figure di donne, come la nonna Rosa, che insegna il linguaggio dei segni ai bambini sordomuti e ne salva duecento dall’assedio di Leningrado. La lingua e il linguaggio sono elementi centrali nell’opera della Petrowskaja. Lei stessa sceglie di scrivere in tedesco, la lingua del nemico, che diviene “la bacchetta del rabdomante”, il mezzo per ripercorrere il passato e stabilire la verità. E da sempre la conoscenza della lingua di un popolo permette di penetrarne e comprenderne non solo gli usi, ma anche i sentimenti, la mente, il cuore. “Il mio tedesco, verità e illusione, la lingua del nemico, era una via di fuga, una seconda vita, un amore che non passa perché mai lo si conquista, offerta e dote, come se avessi restituito a un uccellino la libertà.”
Una scelta tanto più difficile per un’ebrea sovietica, la cui famiglia si trovò a essere perseguitata su più fronti. Il viaggio nel passato inizia attraverso la Polonia, nell’89, nel momento in cui la Petrowskaja non aveva padronanza di nessuna lingua, né del polacco, né dello yiddish né dell’ebraico e neanche della lingua dei segni: “l’intuito sostituiva la conoscenza. La Polonia era sorda, io ero muta.”
Varcare il cancello, con la sua assurda quanto cinica scritta, è esperienza sconvolgente, al punto da non sapere più, per lungo tempo, quale valore e quale collocazione dare al concetto stesso di lavoro.
Ricostruire il passato per la Petrowskaja, significa passare ancora attraverso la conoscenza degli atti del processo a Judas Stern, colpevole di avere attentato alla vita di un diplomatico tedesco e per questo fucilato, significa risalire lungo la forra di Babij Jar dove vennero trucidate migliaia e migliaia di persone, dove trovarono la morte anche la bisnonna Anna e la prozia Ljilja. Camminare in quei luoghi vuol dire calpestare lapidi, camminare sugli orrori del passato, che si è voluto seppellire perché non ve ne fosse testimonianza.
Con questo traumatico percorso la Petrowskaja giunge a ricostruire un’unitarietà familiare, a dare un senso a episodi fino a quel momento isolati e privi di un nesso logico, a ricreare la storia della sua famiglia, ricomponendo nello stesso tempo le varie parti del suo essere così composito. Il suo è un vero, doloroso tentativo di ritrovare quell’identità di cui la storia l’aveva arbitrariamente privata.



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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    14 Luglio, 2015
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Un killer, altrimenti detto Panico

Jeffery Deaver non si smentisce mai. Delle volte mi sono chiesto: "il caro Jeffery non starà diventando un po' troppo prolifico? Sforna un libro ogni tre mesi!".
Temevo che per incrementare le vendite, facendo uscire tantissimi libri, la qualità delle sue opere sarebbe scesa vertiginosamente. Sono stato stroncato brutalmente, questo autore (che io già stimavo tantissimo), si è mantenuto all'altezza dei suoi standard anche con "Solitude Creek".
Stile perfetto per un thriller, senza la minima sbavatura, con un intreccio che ingloba in un'unica storia almeno tre o quattro vicende parallele, tutte interessanti e ben portate avanti da un autore che per me è ormai il maestro del thriller.

Protagonista il detective Kathryn Dance, uno dei personaggi di punta di Deaver, che stavolta deve vedersela con un "sosco" davvero fuori dai canoni. Un vero e proprio psicopatico.
Tutto inizia in un pub dove va in scena musica dal vivo: il "Solitude Creek", che sorge su un'omonima baia.
Che cosa serve a mandare una folla nel panico? Fatevelo raccontare dalla storia; la strage durante l'incontro Liverpool - Nottingham ne è un esempio lampante. Basta un nonnulla, una futile paura infondata, e una folla festante può trasformarsi tutto a un tratto in un essere autodistruttivo e feroce. Un'entità inarrestabile alla disperata ricerca della sopravvivenza. E cosa accadrebbe se vi ritrovaste di fronte a un uomo che è un maestro nel creare il panico, e lo fa per puro sadismo e soddisfazione?
E' questo che si trova ad affrontare la nostra detective, è questo che accade al Solitude Creek, basta un incendio fasullo e un panico innescato ad arte a portare gli uomini a calpestarsi l'un l'altro, a uccidere sull'onda della disperazione, per salvarsi. Su questo e tanto altro si baserà questo eccellente thriller, che si è rivelato un mix di azione, ingegno e suspense, carico di colpi di scena inaspettati. Una perfetta unione di thriller e poliziesco, con una punta sentimentale che non guasta mai, il tutto intrecciato da quel maestro che è Deaver.

"Non passa. Mai. E non dovrebbe. Dovremmo sempre sentire la mancanza di certe persone che hanno fatto parte della nostra vita. Ma ci saranno delle isole, sempre più numerose. [...] Isole di tempo in cui sei felice, in cui non pensi alla perdita. Adesso è come se il tuo mondo fosse sott'acqua. Tutto quanto. Ma l'acqua scende e l'isola emerge. L'acqua ci sarà sempre, ma troverai ancora della terraferma."

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Deaver.
Connelly.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    13 Luglio, 2015
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Madame Pontreau

Cammina impettita, l’acconciatura perfetta,l’abito di seta non ha una grinza. Quando pensa decide, quando parla comanda, quando dispone  e’ perentoria. E’ una questione di indole, di predisposizione, di ascendente. Non importa se il pasto e’ magro nella scodella, l’orgoglio della vedova Pontreau si staglia ben oltre la miseria. Poi l’occasione propizia e con il sangue freddo che le si addice non perde un istante, sa esattamente cosa vuole e come ottenerlo;  quel buono a nulla che ha sposato sua figlia e’ sistemato. Incapace di comandare, sofferente di epilessia, un guaio in meno e una cospicua eredita’ da intascare.

Curva e sporca, vestita di nero e ai piedi vecchie grandi scarpe che chissa’ chi le ha regalato, un grande ombrello la sovrasta. Cammina borbottando tra sé la serva Nacquet,nessuno capisce cosa dice. Sembra una pazza con quell’espressione iraconda, attraversa la piazza e di nuovo a parlare, pare stia contando, uno scioglilingua di calcoli che conosce solo lei. E minaccia, deride, le basterebbe un attimo per diventare ricca, dice. Arriva ai gradini di casa Pontreau ma non sale, non suona. Si rigira e torna sui suoi passi.

Splendido Simenon non ha bisogno di spessore della trama, l’attenzione, l’ammirazione del lettore convergono prevalentemente nei personaggi. Una vicenda subito nota che incalza pagina dopo pagina, con uno stile che tratteggia il mistero tinto di giallo, sebbene poi magari ci si ritrovi a galleggiare amabilmente nel nulla. Eppure la forza dei protagonisti e’ infrangibile, la penna  sovrasta la mera narrazione psicologica  e crea  attori e comparse in modo vivido, tridimensionale. E’ un piacere lampante abbandonarsi ai personaggi di Simenon, bravissimo a proporci il potere di una donna , senza ripensamenti, senza rimpianti, a testa alta nel suo incedere calmo, freddo e deciso. Buona lettura.

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Romanzi
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    12 Luglio, 2015
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L'insostenibile leggerezza dell'apparire

Altos de la Cascada. Un giorno alla settimana ha le sue vedove: Maria Virginia Guevara, Teresa Scaglia, Carla Masotta, Lala Urovich. Il giorno è il giovedì, quello in cui i mariti si trovano al tavolo verde per giocare a carte, e ci restano per l'intera serata. E' Tano Scaglia – la “personalità forte” della zona – ad aver inventato quel soprannome per il “club” delle mogli, tanto per mettere in chiaro che il giovedì è una serata “sacra”: uomini da una parte, donne dall'altra.
Altos de la Cascada è un complesso residenziale di lusso sorto alla periferia di Buenos Aires, delimitato da una insormontabile recinzione metallica, protetto da telecamere e servizio di sicurezza privata, dotato di piscina, campo da golf, club house e altro. E' accessibile solo a famiglie facoltose, non intaccate più di tanto dalla pesante crisi economica che tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo millennio ha colpito l'intera Argentina.
Altos de la Cascada, stanotte, ha qualcosa che non quadra. Automobili parcheggiate dove non si dovrebbe, preziosi calici vuotati del vino e lasciati per terra... Sul fondo della piscina, tre cadaveri. Tre mariti per tre donne che, adesso, vedove lo sono per davvero.

Claudia Pineiro vince il Premio Clarin nel 2005 con questo libro che parte da una pregevole intuizione – la scoperta di tre cadaveri in piscina – per poi percorrere a ritroso la storia di quel mondo a parte che è Altos de la Cascada. Lì dove il tè al circolo del tennis convive con la paura di perdere tutto, le feste raffinate e altisonanti con il modo disinibito di intendere il regime coniugale; dove c'è persino una commissione interna che giudica le infrazioni commesse nel quartiere: dal consumo di marijuana da parte dei ragazzi al piantare siepi sul lato di casa che dà sul campo da golf (vietatissimo!).
La bellezza di questo percorso in flashback è nella capacità di dipingere dinamiche relazionali e personaggi: affascinante quello di Maria Virginia Guevara, che si reinventa agente immobiliare del complesso residenziale (d'altronde, chi meglio di colei che ci abita può magnificare i pregi della zona?); affascinanti tutte le altre figure femminili disegnate dalla scrittrice argentina. Anche quelle di Carmen Insua e della sua donna di servizio, la paraguayana Gabina, che acquistano importanza in un episodio secondario della storia.
Semmai il romanzo risente del fatto che non tutti gli episodi sono incisivi (e ciò finisce per appesantirlo). Ma riesce nel suo intento: quello di far toccare con mano come la crisi di un paese non sia mai casuale; né si può essere sicuri che vi saranno zone franche nelle quali “rifugiarsi”: anche il microcosmo apparentemente immacolato di Altos de la Cascada è un mondo di piccole miserie, rivalità, ascese e cadute, pensieri deprimenti o squallidi.
Alla fine, il mistero dei tre cadaveri in piscina si rivela soltanto un punto di arrivo, non l'argomento centrale della vicenda: ma il finale che lo spiega (peraltro molto ben costruito) è a conti fatti il migliore possibile.

“In qualsiasi campo da golf in qualsiasi parte del mondo chi fa buca in uno, per cortesia e per una legge non scritta ma che nessuno mette in discussione, deve pagare da bere a tutti quelli che si trovano nel campo in quel momento. In genere champagne. A volte whisky. A tutti, su ogni linea, dalla buca 1 alla 18. Perciò esiste l'assicurazione sulla buca in uno. La fa qualsiasi agenzia assicurativa. La maggior parte di noi se la vede offrire quando assicuriamo la casa. Incendio, furto e buca in uno, per qualche centesimo in più al mese”.

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"Il condominio" di Ballard, che porta all'estremo l' "arte" del non saper convivere...
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Letteratura rosa
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    10 Luglio, 2015
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La Parigi di Fabian & Nell.

Nell, una giovane ragazza inglese di 26 anni, non è mai stata a Parigi. Quale occasione migliore del prossimo ponte per visitare la città degli innamorati con il fidanzato Pete? L’idea era nata quale conseguenza dello stupore manifestato dal compagno una volta venuto a conoscenza di questa mancanza. Ella non è mai stata un tipo da grandi avventure e gesti impulsivi, tutto nella sua vita è sempre stato organizzato con meticolezza ma pur di passare qualche giorno con l’amato decide di buttarsi ed organizza il viaggio. Rinuncia perfino all’annuale weekend con le amiche, un’occasione imperdibile e fortemente attesa dalla protagonista. Una volta prenotato consegna il regalo al fidanzato che mezzo ubriaco a momenti non realizza nemmeno la portata, nonché le aspettative, del gesto compiuto.
Il giorno del viaggio arriva e Nell è li che attende, invano. –“Verrà” – si ripete questa – “Deve venire”- . Ma l’uomo non si presenta, e con la promessa di essere raggiunta con il treno successivo, si fa coraggio e parte da sola, lei che ha timore dei cambianti, lei che pensa di non essere mai all’altezza. Spaesata in un paese che non conosce e con una lingua che non comprende e parla a malapena riesce a raggiungere l’albergo caratteristico scelto, scopre che c’è stato un errore nella prenotazione e che hanno locato la medesima stanza a ben due persone, la nostra giovane inglese ed una prepotente americana. Nemmeno il tempo di sistemarsi ed ecco sopraggiungere la cruda ed inevitabile realtà dei fatti: Pete non la raggiungerà a causa di un impegno di lavoro. Che fare? Tornare a casa con il primo treno o cercare di godersi questi giorni di relax nella città tanto ambita?
Parallelamente Fabian, francese scrittore in erba e cameriere per sopravvivere, rimugina sul suo romanzo nonché su quella ex che tanto lo criticava e che nonostante tutto non riesce a dimenticare. Grazie ad un bicchiere di vino rovesciato inavvertitamente e ad una mostra d’arte regalo per entrambi, le loro strade si incontrano e riescono a donarsi ore di compagnia sincera e piacevole ed attimi di riflessione su quel che sono i loro sentimenti in merito a due relazioni destinate ad essere lasciate andare.
Il romanzo si conclude con un finale aperto, lascia intendere che nonostante l’imminente partenza della inglese non è detto che l’incontro diventi un ricordo, potrebbe essere infatti la molla che fa sbocciare il grande amore così come semplicemente il segnale che seppur con il passato è necessario chiudere ancora non ci sono le basi per ripartire.
Semplice e fluente tanto nella scrittura quanto nella trama, quest’ultima fatica della Moyes è un componimento breve e senza pretese, uno scritto che poteva essere ulteriormente sviluppato o che potrebbe altresì avere un seguito. Piacevole e di rapida lettura, in un paio d’ore si inizia ed esaurisce donando al lettore quella sensazione di spensieratezza e leggerezza tipica della prima fase dell’innamoramento.

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Io prima di te, una più uno e le altre opere dell'autrice.
Considerate però che il romanzo ha appena 120 pagine dunque non ha lo stesso sviluppo ed intreccio narrativo a cui l'autrice è solita. Un testo leggero da assaporare nella calda estate, in un pomeriggio di pausa da ogni complicazione.
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    08 Luglio, 2015
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Un té davanti al lago

E' trascorso quasi un trentennio da quando l'allora giovanissima Banana Yoshmoto scrisse "Kitchen" che la fece conoscere in tutto il mondo. Da allora venne pubblicato quasi un libro all'anno, spesso non all'altezza delle aspettative.
Il nuovo romanzo "Il lago" sicuramente rappresenta una gradita sorpresa, capace di non deludere neanche i lettori più esigenti.
Il Giappone conta una tradizione letteraria ricca di scrittori d'alto livello. Questo libro s'inserisce in essa, soprattutto per la leggerezza della scrittura e per la rappresentazione quasi zen della natura e del paesaggio, come luogo essenzialmente da contemplare : "la superficie del lago era increspata da piccole onde"; la fioritura dei ciliegi intorno l'avrebbero "coperto da un velo rosa". Tanta lievità si riverbera sull'approccio esistenziale, effetto riscontrabile in autori grandissimi quali Kawabata, come rispecchiamento dell'essenzialità tipica della cultura nipponica : "era così bello da somigliare alla tristezza. Alla sensazione che si prova quando ci si rende conto che (...) il tempo che ci è concesso su questa terra non è poi così lungo" . La caducità della bellezza che porta a contemplare l'attimo come unico e non ripetibile. Approccio lontanissimo dalle bramosie del consumismo occidentale; anzi con animo di pacata e distesa armonia, come riflesso di una dimensione cosmica.

Protagonisti sono una ragazza trentenne, artista pittrice di murales, e un giovane ricercatore in medicina. Si tratta di individui che portano ferite interiori (in lui, profondissime), uniti da un fragile sentimento, tanto prezioso quanto non omologato agli stereotipi diffusi.
Personaggi 'minori' , ma di forte e duraturo impatto, i due amici della casa davanti al lago, che "custodivano con discrezione (...) la modestia e la grazia", in totale armonia con l'essenza del luogo, tanto da costituire una realtà di riferimento semplice e altamente simbolica.
Le altre figure significative invece appartengono essenzialmente al passato, fantasmi la cui presenza così radicata nell'interiorità permane indelebile in una dimensione ben più profonda della semplice memoria.

La nostra Autrice è bravissima nel cogliere l'indeterminatezza dei frammenti d'ignoto che qua e là emergono; a riannodare esili fili spezzati dell'esistenza; a captare il dettaglio che apre spiragli sulla complessità umana. Non altrettanto a raccontare fatti, avvenimenti, azioni. Ma questi, in fondo, formano solamente la superficie delle cose : lo sappiamo, non costituiscono tutta la realtà, non la più importante, non la più interessante.

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letteratura giapponese e/o letteratura contemporanea straniera
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SARY Opinione inserita da SARY    03 Luglio, 2015
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Essenza italiana

Fotografia dell’Italia anni settanta. Il boom economico e la speranza di un futuro roseo. Il sogno americano trasformato in miracolo italiano, la forza lavoro preziosa e devota, imprenditori e industriali in ascesa, una mentalità devota al dovere anche per un piccolo successo personale.
In un panorama dinamico prende vita una commedia all’italiana. Spaparanzati comodamente sul divano o sulla sdraio in spiaggia sorseggiando una bibita ghiacciata il lettore viene catapultato nella toscana di trent’anni fa, pare proprio di udire lo scoppiettare delle vespe e di indossare i Levis 501 doverosamente slavati, in giornate estive oziose e afose.
Un figlio di papà lanciato nell’industria tessile, un impresario tamarro infedele patito di tennis, una moglie bellissima da desiderare, un adolescente in piena guerra ormonale, i primi amori e le prime delusioni, i primi tradimenti e gli ultimi atti di felicità, lavoratori sgobboni impegnati a fondare piccole attività redditizie.
La voce narrante è esterna, ogni capitolo è dedicato a uno dei riusciti personaggi, le pagine sono molte ma scorrono velocemente. I cali di attenzione sono dovuti ai dettagli tecnici sui tessuti e sul tennis.
Un romanzo deliziosamente retrò, dai toni confidenziali, a volte fin troppo informale e scurrile, nel quale si può osservare l’italiano con tutti i pregi e i difetti, l’italiano triste per le cose andate ma già gasato per l’avvenire, euforico, fiducioso.
Concludendo, una lettura made in Italy adatta alla stagione, un salto spazio temporale piacevole.

“Deve essere così che si diventa vecchi: all’improvviso, al tramonto, in mezzo a un campo, strattonati da un futuro invisibile, investiti da un entusiasmo audace e infantile impossibile da condividere. Sapeva che un giorno sarebbe arrivato il momento di dover passare il testimone, ma non credeva che sarebbe stato così. Non immaginava che si sarebbe sentito prima sorpreso, poi inutile, poi offeso e poi sfinito”.

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Maso Opinione inserita da Maso    02 Luglio, 2015
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Giusto per essere Frank

Il primo baluginare lo si sussurra, ma poi lo si scavalca. Perché dapprincipio pongo un quesito che dovrebbe arrivare ultimo, ma in quel caso acquisirebbe la rilevanza della chiosa e tutto sarebbe falsato.
Parlare di mediocrità denota mediocrità? L’approfondimento di ciò che è mediocre può risultare tratto sintomatico di una mediocrità in fieri? E’ una domanda sostanzialmente idiota, lo è senza ombra di dubbio. È una domanda che sarebbe ancora più idiota se la mia idea fosse di porre me stesso nel ruolo di soggetto parlante. Ma non è di me che mi preoccupo, non della mia ipotetica, consequenziale, ragionevolmente plausibile mediocrità. Di questo, in questo frangente, credo mi sia felicemente concesso il disinteressamento. Mi dichiaro parlante solo nella misura in cui parlo di chi parla, ed è a questo secondo “chi” che intendo dedicare un ragionamento che parte dalla domanda suddetta, in un moto rettilineo che, come spero, possa svincolarlo di almeno una parte di quella irrazionalità che è causa prima dell’instabilità logica della domanda.
Ancora, scrivere di qualunquismo non significa naturalmente essere qualunquisti. Se il pensiero umano fosse tanto rudimentale da basarsi su così erronee giustapposizioni ci troveremmo ad un grado evolutivo certamente minore rispetto a quello raggiunto, perciò taglio dapprincipio determinate radici che non devono attecchire, su nessun terreno. Interessante, però, il coincidere della tematica con i mezzi con cui questa è stata espressa. La mia personalissima opinione a proposito di questo nuovo romanzo di Richard Ford parte proprio da questo convergere di due mediocrità, che danno come unico risultato una fioritura massimamente pleonastica in cui il flusso di pensiero dell’everyman è narrato tramite il flusso linguistico dell’everywriter. Everyman è una bellissima parola che viene usata nella quarta di copertina del volume italiano di questo romanzo, una parola che trovo di grande efficacia perché carica di un portato più ampio rispetto alla locuzione italiana “uomo comune”. Come nella piena tradizione lessicale tedesca, luogo in cui si agglutinano più parole a formare monumentali catene di significati interconnessi, “everyman” racconta esattamente la condizione di inaggirabile anonimato propria della persona qualunque. Racconta il ridimensionamento in senso generale di quei traguardi contestuali e personali che sembrano grandi agli occhi di chi li ha perseguiti e raggiunti. È un termine-livella che appiana tutti quei picchi che ognuno crede di aver raggiunto per potersi poi permettere uno sguardo soddisfatto al di sopra della piana, al di sopra (anche se poco) dell’”every”. Frank Bascombe, il nostro uomo qualunque, forse nemmeno li ha scalati fino in vetta quei picchi vitali. Forse ha toccato qualche acme professionale in quanto rinomatissimo agente immobiliare della West Coast, forse ha sfiorato il benessere. Ma il benessere non è necessariamente sintomo di distinzione. Forse Frank Bascombe, odierno settantenne domatore di noia, prostata e dolori cervicali, plurisposato e disilluso, forse è veramente il paradigma più convincente del qualunquismo e dell’omologazione civica. E va tutto bene, vanno bene le letture al programma per non vedenti nella stazione radio locale, vanno bene i carotaggi farraginosi che mostrano spaccati di vita trascorsa senza spiegarla, va bene la prima moglie col Parkinson che si dà al feng shui con le fiammanti scarpe da ginnastica arancioni. Tutto può rientrare nel dilettevole giuoco del “metti-nel-calderone-l’omologazione”, a patto, però, che questo venga appropriatamente bilanciato da un contraltare narrativo sufficientemente degno e operativamente solido. Senza pepe nel lessico il romanzo cola a picco come la Doria. Raccontare la mediocrità - e qua ritorno alle premesse - con parole mediocri, a parer mio, è la più esatta e tautologica delle ricette votate al fallimento. Richard Ford, per quel che ho letto, ha bisogno di una trama forte, ben calibrata e col vento in poppa. Solo con questa condizione mi sembra che il risultato possa risultare apprezzabile. Per raccontare la noia bisogna saperla evitare mentre la si racconta e, Pulitzer più Pulitzer meno, c’è chi lo sa fare e c’è chi si limita a provarci. Non ho la minima intenzione nemmeno di mettermi a ragionare su quali siano i possibili scrittori che con una trama e delle premesse contenutistiche tali potessero far di meglio. Sono sicuro che ce ne siano ma mi sembra, questo, un badalucco troppo scorretto e troppo poco edificante.
Sono certo fin d’ora, prima di giungere a conclusione, che non avrò una vera e propria risposta, forse nemmeno una farlocca, da porre alla fine per rispondere allo stupido quesito del principio. Perché qualora decidessi per un’etichettatura specifica (MEDIOCRE), questa sarebbe una risultante tanto personale quanto poco verificabile in un contesto generale. È probabile, in realtà, che raccontare la mediocrità sia una pratica altamente selettiva e discriminatoria: o lo si sa fare in modo eccellente, e dunque ci si veste di allori, o non si è in grado, e allora l’occasione di tacere è ormai perduta.
Ciò che mi appare chiaro, in tutta onestà, è il fatto che l’unico indicatore che mi mette in contatto con uno dei possibili versanti di gradimento, è anche quello che, di tanto in tanto, durante la lettura, faceva affiorare alla mia coscienza un’altra insidiosa domanda, forse più rivelatrice e spietata della prima: “E quindi?”. E quindi? Cosa?
Non è certo un buon segno, non lo è, per lo meno, per la considerazione che ho di questo romanzo “tardo”. Tardo in quanto prodotto in tarda età, una medesima tarda età che lo scrittore condivide con il suo personaggio. Non so cos’altro li leghi, mi auguro non il cinismo di bassa lega che trasuda dai discorsi di Frank Bascombe. Incapace di relazionarsi senza una falsità di fondo che farebbe stramazzare Pirandello, Frank e le sue manierate teorie da mancato intellettuale sono lo sciapo coronamento di ciò che, in realtà, sarebbe potuto andare molto meglio.


P.S. Un grande peccato davvero per il gioco di parole del titolo originale. Si porti un cordiale ai traduttori, serve un po' di allegria ogni tanto.

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siti Opinione inserita da siti    01 Luglio, 2015
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https://www.missingchildren.ch

Numerosi potrebbero essere i motivi che spingono alla lettura di questo libro. I fatti, per la risonanza mediatica che hanno avuto e per l’assurdità in essi racchiusa, sono noti a tutti.

Irina, madre di due gemelle di sei anni, perde nel giro di pochi giorni figlie e marito. Le bambine sono sparite, il loro papà pone fine alla sua vita in Italia, facendosi travolgere da un treno dopo aver meticolosamente parcheggiato l’ auto e ancor prima distrutto qualsiasi traccia del suo operato.
Quando si viene a conoscenza di queste tragedie, la compartecipazione emotiva è immediata e trasversale, calata l’onda di piena rimangono però i morti viventi, coloro che la tragedia l’hanno vissuta ma non come l’ennesimo spettacolo di cui, in questa triste realtà, si offre la tragica trasposizione, dilatata, diluita, amplificata, confusa, distorta a uso e consumo.

Si avverte nell’animo umano un desiderio di sapere, di giustificare, di incolpare, di assurgersi tutti, indiscriminatamente, a ruolo di giudici. Mi capita e mi costa fatica ammetterlo. Si cerca forse, nell’intimo, di appianare le proprie paure, di scandagliare a fondo anime e psicologie per evitare di farlo con le nostre o con quelle dei propri cari e così, repentinamente, si diventa morale, giudice, etica e regola.

Leggere questo piccolo libro potrebbe allora portare ad una riflessione profonda, al superamento di una certa malcelata morbosità, a scoprire un messaggio positivo ed equilibrato. Irina ha bisogno, a distanza di quattro anni dai tragici fatti, di scrivere e quindi di comunicare e lo fa cercando e usando come intermediaria la De Gregorio che, con grande delicatezza, sparisce quasi in queste pagine e si presta mirabilmente a restituirci l’immagine di una donna che si ama e che ama, a dispetto di tutto.

Brevi capitoletti alternano le voci femminili in questione; Concita offre una sorta di cronistoria dell’incontro fra le due e del loro lavoro di conoscenza reciproca, Irina scrive missive e rivolgendosi all’archivista ottusa, alla maestra latitante, alla nonna, al padre, al giudice o allo stesso marito all’epoca dei fatti, offre la storia di se stessa, della sua famiglia d’origine, della sua famiglia, delle indagini e del suo percorso successivo. Si rapporta ad una dimensione temporale che ormai non la rende più schiava delle quotidiane categorie temporali di ieri, oggi e domani, vive il presente e riscopre se stessa e l’amore.
Riporta una serie di coincidenze nella propria storia che la fortificano nella convinzione di essere parte di un tutto che tende a presentarsi e ripresentarsi per annullarsi e risolversi per poi riproporsi.

La lettura è consigliabile se si riesce a superare l’atteggiamento sopra descritto e se si ha voglia di avere una soluzione del caso che la giustizia umana non ha ancora prodotto ma che permette, rara se non unica volta, in un arco di tempo relativamente breve- quattro anni- ,di sapere come riesce una mamma a vivere e a non sopravvivere.

Brava Irina!

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Romanzi storici
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    01 Luglio, 2015
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Aprite gli occhi..prima che si chiudano per sempre

Premio Pulitzer 2015 per la narrativa! Signori, si tratta di un premio di tutto rispetto, forse una delle più prestigiose onorificenze in ambito letterario a cui uno scrittore possa ambire, basterebbe forse citare alcuni grandi capolavori che ne sono stati insigniti, da 'Il vecchio e il mare', 'Il buio oltre la siepe', sino al più recente 'Pastorale americana'.
Insomma, siamo sicuramente di fronte ad un romanzo che obiettivamente non può deludere le aspettative della stragrande maggioranza dei lettori; un pò come quando viene assegnato il primo premio ad un concorso di bellezza.. per quanto la bellezza fisica, come quella 'letteraria', sia suscettibile del gusto personale e soggettivo di ognuno di noi, difficilmente la vincitrice di quei concorsi potrà apparire 'brutta' agli occhi di qualcuno; al massimo, potrebbe non essere considerata 'perfetta', perchè magari uno nota uno sguardo poco incisivo, altri un sorriso poco smagliante... ma sono comunque dettagli che non inficiano o sminuiscono di molto il giudizio unanime.
Ecco, lo stesso potrei dire per questo romanzo, sicuramente un ottimo romanzo, con un stile di scrittura molto fluido ma che palesa al contempo una scelta accurata delle parole, volta a creare un alone di poesia che impregna ogni singola pagina del libro: si ha spesso la sensazione che l'autore voglia aiutare chi legge a percepire lo stato d'animo dei protagonisti provando a ricrearlo e trasmetterlo nella descrizione dell'ambiente, dei suoi suoni e colori, soprattutto i colori direi.
E se tenete conto che la trama si svolge durante la seconda guerra mondiale, a cavallo del D-Day, è facile intuire che i colori predominanti siano quelli più grigi e cupi, persino la primavera appare spesso spenta e sbiadita, e i suoni siano quelli più assordanti delle bombe o i sibili incisivi ed istantanei dei proiettili dei cecchini.
La guerra, sicuramente, c'è nel romanzo.. ma non ci sono vincitori, non ci sono vinti, non si punta il dito contro il tedesco o contro l'americano, non c'è politica e non si sventolano bandiere ideologiche di alcun tipo: c'è bensì la constatazione che la guerra è un male per tutti, il sangue dei caduti è rosso, sempre, indipendentemente dal paese per cui si combatte, e l'anima dei sopravvissuti è nera, educata solo all'annientamento del nemico e al sacrificio in nome della patria ed infine oscurata dalla violenza subita e perpetrata.
In questo grigiore dominante, spiccano alcuni bagliori di luce.. 'luce che non vediamo', luce che stimola ed illumina il cervello e di conseguenza l'anima, la luce della scienza, del sapere, quella curiosità che sin da tenera età pone mille domande, mille perchè, e l'ostinazione di chi non rinuncia a trovare una risposta, ad indagare, studiare, osservare ed imparare.
"Il cervello è rinchiuso nell'oscurità totale. Galleggia in un liquido trasparente dentro il cranio, senza mai vedere la luce. E tuttavia il mondo che costruisce nella nostra mente è pieno di luce. Trabocca di colore e movimento. E dunque, come fa il cervello, che vive senza uno sprazzo di luce, a costruire per noi un mondo pieno di luce?"

E' questa luce che caratterizza entrambi i protagonisti del romanzo, Marie-Laure e Werner, che l'autore ci presenta inizialmente quando ancora bambini: Marie-Laure vive a Parigi, col padre, la madre persa a pochi anni dalla nascita così come la sua vista, a sei anni infatti i suoi occhi si spengono ed il mondo intorno a lei diventa improvvisamente buio; Werner invece è un ragazzino e vive con la sorella in un orfanotrofio in un paesino della Germania nazista, vicino a quelle miniere di ferro che rappresentano l'unica fonte di lavoro e sostentamento per gli uomini del paese e dove spesso loro stessi trovano la morte.
Li vediamo crescere, le loro infanzie procedono su binari inizialmente paralleli, anche se si intuisce sin da subito che sono destinati ad incrociarsi: Werner, grazie alla sua fervida intelligenza, scopre tutti i 'misteri' racchiusi in quella scatola magica che è la radio, sino a diventare un vero esperto di elettronica, inducendo poi un ufficiale tedesco che ne percepisce le potenzialità a favorirne l'ingresso nella prestigiosa scuola di formazione della gioventu hitleriana; Marie-Laure, costretta ad abbandonare Parigi, ormai sotto l'assedio dei tedeschi, e a rifugiarsi col padre nella cittadina bretone di Saint-Malo trovando ospitalità presso la casa del prozio Etienne, dove rimarrà anche quando il padre sarà costretto ad abbandonare quel paese.
E mentre Werner trova conforto nella scienza, si concentra sullo studio delle onde elettromagnetiche per non lasciarsi soffocare dalla triste realtà che lo circonda, la 'luce' di Marie-Laure è nella sua passione per i libri, libri di avventura, libri che raccontano mondi inesplorati e ricchi di misteri della natura ancora da svelare e studiare... 20000 leghe sotto il mare, che Marie-Laure leggerà instancabilmente con le sue dita, solcando ogni singola parola della versione stampata per non vedenti, superando così con l'immaginazione i limiti imposti dalla sua cecità.
E' questa la forza della 'luce che non vediamo'... è la caparbietà che la tiene viva e che alimenta la speranza in un mondo migliore, la scienza come veicolo di progresso e sviluppo e non come strumento di morte.
E' un aspetto questo che si ripresenta spesso nel romanzo; a titolo di esempio, vi cito il riferimento frequente alla triangolazione delle onde radio, tecnica efficace in tempi di guerra nell'individuare sorgenti nemiche da disintegrare e al contempo basilare nello sviluppo delle attuali reti GSM (come accennato nel capitolo finale del libro). Analogamente, ritengo sia da interpretare sempre in quest'ottica l'introduzione nella trama della leggenda del Mare di Fiamma, un diamante di rara bellezza custodito nel museo parigino dove lavora il padre di Marie-Laure e che la tradizione vuole soggetto ad un'antica maledizione, a causa della quale il possessore gode di immortalità ma chi lo circoda è destinato ad una morte precoce.
Persino a fine lettura, ho avuto difficoltà a capire per quale motivo l'autore abbia arricchito la trama intessendo le vicende dei personaggi intorno a tale pietra, la stessa vita di Marie-Laure sarà in pericolo proprio a causa di un ufficiale tedesco che ricerca il diamante da anni sperando che la sua 'magia' sia vera e possa difenderlo dal tumore che gli ha invaso il corpo: inizialmente ho ipotizzato che sia stata una scelta 'stilistica', dettata dal desiderio di dare un tocco più 'avventuroso' alla storia; mi piace però pensare che l'autore abbia voluto mettere in contrapposizione la 'luce' visibile del Mare di Fiamma, irrazionale, basata sulla magia e sulla superstizione, con quella 'invisibile' della ragione e della scienza.

Per concludere, volendo trovare un difetto al vincitore del premio Pulitzer, ho notato solo una certa ripetitività in alcuni capitoli, soprattutto quelli in cui l'autore indugia maggiormente nel mettere in risalto il distacco forzato di Marie-Laure dal padre e del giovane Werner dalla sorella nell'orfanotrofio; ecco, direi che in alcuni punti del romanzo l'eccesso di 'poesia' sembra quasi correre sul filo della leziosità.
Ma, come già scrivevo all'inizio, si tratta di piccole imperfezioni che sicuramente non alterano la 'bellezza' di questo romanzo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    30 Giugno, 2015
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Niente intriga più della Storia

Se c'è una cosa che adoro sono le belle sorprese, le scoperte, anche quando leggo. La frenesia che ti pervade le membra, un senso di pienezza che è difficile trovare, la consapevolezza che quella scoperta può aprire nuovi orizzonti. Fred Vargas è stata una bella sorpresa, un interessante scoperta che davvero non mi aspettavo. Si è rivelata un autrice che con questi standard può ergersi tra i migliori del genere, con uno stile scorrevole ed efficace, per niente scialbo. A una scrittura per niente semplicistica e piacevolissima da leggere, accompagna un'originalità che oggi giorno è diventata una cosa quasi fuori dal comune. Oltretutto, a completare una trama interessante e per nulla scontata, una evidente buona conoscenza delle citazioni storiche citate e adoperate nel corso della storia.

Francia. Di quante meravigliose storie è stata scenario? Innumerevoli, così memorabili diverse tra di loro. Storie di miserabili, di conti vendicativi, di moschettieri del re, di gobbi campanari e zingare ballerine, ma anche di commissari di polizia dal carattere deciso e geniale e killer fuori da ogni schema logico. Perché le terre francesi sono così prodighe nel fare da palcoscenico a così tante storie degne di nota? Mi verrebbe da dire che questo accade perché la Francia è stata realmente luogo di grandi avvenimenti storici, e non c'è nulla di più appassionante, misterioso e talvolta macabro della Storia. La Storia è violenta, sanguinosa, e uno di quei momenti in cui la storia ha cambiato sé stessa è di certo la grande Rivoluzione Francese, uno dei più grandi sconvolgimenti che ha segnato il destino dell'umanità e che porta i suoi strascichi fino al presente. Ha influenzato uomini, pensieri, arte, cultura, e permea tante opere letterarie tra cui anche il nostro caro "Tempi glaciali". Un misterioso suicidio darà il via a una serie di tragici avvenimenti, dei quali si occuperà l'arguto commissario Adamsberg, insieme alla sua squadra forse un po’ troppo eterogenea ma rispettosa. I morti si susseguiranno e tutti avranno un unico punto comune, uno strano simbolo che ricorda il più macabro strumento di morte: la ghigliottina. Il tutto si intreccerà con uno strano gruppo di uomini, riuniti in una confraternita che rivive i momenti più alti della Rivoluzione nel periodo del grande Robespierre, inscenando i grandi avvenimenti storici di quel periodo in modo teatrale ma spaventosamente realistico. Il tutto si intreccerà, oltre che con il passato "rivoluzionario", con oscuri avvenimenti che hanno avuto luogo nelle terre d’Islanda, creando un intreccio veramente articolato il cui bandolo della matassa soltanto il genio di Adamsberg poteva trovare. Un giallo thriller di alto livello.

"Peccato, se ci rifletti, che pensieri non abbiano un nome. Potremmo chiamarli, e verrebbero ad accucciarsi nostri piedi ventre a terra."

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Arthur Conan Doyle.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    27 Giugno, 2015
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CON UN PALMO DI NASO!

Ti sta subito simpatico, se non avevi avuto modo di conoscerlo prima negli altri libri di Francesco Recami, classe 1956, Amedeo Consonni, il protagonista di “L’uomo con la valigia”. Ti piace, perché faceva il tappezziere, uno di quei mestieri che oggi non si fanno più, perché vive in una anacronistica casa di ringhiera, perché è anziano, perché si caccia nei guai e infine perché non si scandalizza quando le sue avventure lo costringono ad affrontare il degrado morale della Milano contemporanea. E non ultimo ti diverte lo scherzetto che lo scrittore ti fa quando arrivi agli ultimi capitoli, deviando verso la commedia e facendoti restare con un palmo di naso, se ti aspettavi il classico scioglimento da romanzo giallo. Il motore della vicenda è comunque tipico del genere: Consonni rischia di essere accusato dell’omicidio di una giovane donna, ha poco tempo per trovare il vero assassino e dimostrare la sua innocenza. Deve allora fuggire portandosi dietro una valigia per non essere arrestato, rendendosi irriconoscibile mediante peripezie varie, compreso il furto di una carta d’identità. La sua discensio ad inferos nei paesi che oggi gravitano attorno alla metropoli lombarda, la cosiddetta Brianza, lo porta a contatto con figure e situazioni tipo: i centri sociali, i motel anonimi, i seduttori di provincia, le villette a schiera, le palestre, le prestazione sessuali obbligate a docenti universitari poco professionali, madri protettive e bambini viziati. Parallela alla sua immersione nello spirito dei tempi è quella della sua abitazione: la vecchia casa di ringhiera infatti è preda della tentata speculazione di due architetti alla moda che agiscono con la complicità di un funzionario del comune corrotto. Dunque tutto molto familiare, niente di davvero spaventevole. Il male non viene negato, ma la senilità insegna a prenderlo con ironia.

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a chi ha letto gli altri libri di Recami, a chi ama i gialli dove si coglie l'atmosfera della città italiane.
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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    24 Giugno, 2015
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Un piacevole sapore di passato

La storia raccontata da Vitali è piacevole e simpatica, semplice ed essenziale. Lo stile è particolare, il racconto è composto in prevalenza da dialoghi che calzano perfettamente con il contesto. L’autore rende alla perfezione il sapore di un tempo passato, il clima di un paese lombardo nei primi decenni del ‘900 italiano. Siamo a metà degli anni trenta, l’idea balzana di organizzare un concerto di campane per richiamare in piazza i cittadini per celebrare la nascita dell’impero fascista, risulta essere il pretesto che dà il via alla trama. Un evento altrettanto originale mette in subbuglio il paesino e i suoi paesani che fanno di tutto per svelare il mistero e allo stesso tempo insabbiarlo.

Lo scrittore rende perfettamente l’ambientazione di paese, ogni personaggio ha il suo soprannome, è ben caratterizzato, Vitali è molto bravo a condurci per mano a spasso per la storia, la descrive con le parole dei simpatici abitanti di una Bellano di un tempo che fu.
Il Semola, il Malversati, il Dulcineo, la bella Verzetta e la Selina sono alcuni dei personaggi che mi hanno accompagnato gli ultimi due giorni, mi hanno riportato alla mente le atmosfere dei vecchi film di De Sica, come: “Pane, Amore e fantasia”, o il ciclo di film di don Camillo e Peppone.

La semplicità della storia va d’accordo con la vita di paese dei primi anni dello scorso secolo, dove succede poco o niente, e un evento di poco conto mette in agitazione l’intera comunità. Nonostante l’ambientazione nel periodo meno felice della nostra storia, l’autore riesce a costruire una commedia spassosa e piacevole giocando con i bellanesi dell’epoca, li mette in circostanze al limite del surreale, rendendoli però molto realistici.
Una bella idea, realizzata con maestria e originalità, uno stile a mio avviso interessante che credo sia la firma distintiva di questo scrittore. Un romanzo che si legge velocemente, e che lascia quel piacevole sapore di passato.

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