Le recensioni della redazione QLibri

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    30 Mag, 2022
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Nica e rigel

Questo è un romanzo per adolescenti o per appassionati di storie d'amore tormentate. Gli ingredienti per questi generi ci sono tutti: due ragazzi di diciassette anni, con un rapporto difficile da definire, quasi due calamite che si attraggono, ma che poi arrivati a un certo punto invertono i poli e con violenza si spingono lontano fino ad andare a sbattere. Dagli angoli opporti del mondo, si leccano le ferite, ognuno per conto loro e si chiedono che cosa gli stia succedendo. C'è poi, una storia triste alle spalle, protagonisti di una bellezza difficile da eguagliare, qualche scena pruriginosa che non arriva ad avere cinquanta sfumature di grigio, ma qualcuna sì. Infine un segreto da nascondere, gelosie e tanti ostacoli alla realizzazione di questo amore. Insomma, per gli appassionati del genere tutto quello che serve, per chi non lo è invece, leggibile con un po' di fatica, anche se nel complesso non del tutto da bocciare.
La storia è quella di Nica, il nome di una farfalla e di Rigel, il nome di una stella, che crescono in un orfanatrofio, con un rapporto ambiguo. A diciassette anni, quando hanno perso le speranza di entrare in una famiglia vengono presi in affido dalla stessa famiglia. Da qui inizia la storia di una ragazzina desiderosa ad ogni costo di avere una famiglia, stupita da ogni manifestazione di affetto, dei nuovi genitori e degli amici di scuola. Infantile e ingenua, con le dita coperte da cerotti colorati, sembra del tutto al di fuori della realtà e all'opposto delle teenager di oggi. Terrorizzata da quel ragazzo con cui vive e che non può evitare di incontrare, ma che la attrae, e allo stesso tempo le fa paura. Il suo istinto però è quello di essere gentile e di aggiustare la cose rotte anche a costo di farsi male.
Lui invece, di una bellezza irraggiungibile e dotato di talento e intelligenza, è una calamita per le ragazza, ma allo stesso tempo è anche capace di momenti di crudeltà e di scatti di ira inspiegabili se non con qualche terribile segreto contenuto nella suo fascicolo e noto a pochi. Col tempo scoprono di essere l'uno il fabbricante di lacrime l'uno dell'altro. Quell'essere a cui non si può mentire che è in grado di darci la capacità di piangere di dolore, di gioia e di farci provare sentimenti. In sostanza colui per il quale vale la pena di vivere, alzarsi e respirare ogni giorno.
Secondo il mio gusto non è un brutto libro, se lo dicessi farei un torto alla sua autrice che tra l'altro ha avuto un consenso piuttosto ampio da parte del pubblico. Mi è piaciuto che abbia toccato anche temi sociali, che abbia lavorato molto sui personaggi fornendo dapprima una visuale che ce li faceva sembrare obiettivamente poco sani di mente, per poi piano piano portarci a prenderli in simpatia, e poi fornirci gli strumenti per rendere plausibile il loro modo di comportarsi. Trovo però che ala fina abbia scelto la strada più facile con un finale che strizza l'occhio al pubblico romantico, ma che lascia il tempo che trova per chi invece cerca qualcosa di più realistico. Nel complesso un libro ingenuo, che non sfiora le complicate dinamiche che ci sono in una coppia che prevedono degli equilibri non realizzabili solo con sentimenti ed attrazione erotica. Lo stile è nel complesso gradevole e abbastanza chiaro, forse in alcuni punti lo avrei alleggerito, magari tagliando anche sul numero delle pagine.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Mag, 2022
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Notte al museo

Il lettore che si accosti a questo libro nella convinzione di immergersi nella lettura di un romanzo – come la sinossi potrebbe, in parte, indurre a credere – rischierà di restare deluso. Infatti, nonostante le pagine iniziali abbiano il tono convincente di un’ “entrée” da narrativa, già il secondo capitolo insinua il dubbio, più che fondato, sulla natura di questa pubblicazione dell’algerino Kamel Daoud uscita lo scorso mese di gennaio con La nave di Teseo.
Vincitore nel 2019 del premio annuale della prestigiosa Revue des Deux Mondes, “Il pittore che divora le donne” si rivela in definitiva un saggio piuttosto complesso, anche se attraversato da qualche lieve venatura da romanzo, per così dire, in divenire. L’io “narrante” è quello dell’autore stesso che trascorre un’intera notte all’interno del Museo Picasso di Parigi al cospetto delle opere (di alcune in modo particolare) del grande Maestro spagnolo, mentre tutt’intorno la metropoli, cuore di un Occidente spesso sfuggente per chi proviene da altri mondi, dorme il suo sonno inquieto fatto di luci al neon, taxi e gente per le strade.

“Questa notte di ottobre al museo […] ho, in qualche modo, percepito come un uomo può, realmente, divorare una donna, dipingere il suo crimine, confessarlo ed essere ammirato per questo cannibalismo destabilizzante. […]”

La donna “divorata” era una diciottenne, Marie-Thérèse, che Picasso, classe 1881, incontrò proprio nella capitale francese all’inizio degli anni Trenta. “Picasso 1932, anno erotico” è il titolo esplicito di una delle esposizioni presenti in quelle immense sale museali rese ancor più suggestive dall’atmosfera notturna, anche per via dell’assenza di visitatori. Le tele esposte, come una sorta di diario, raccontano una pagina intensa della vita dell’artista, affondando in un erotismo e in una antropofagia, di tipo erotico appunto, che Daoud procede a poco a poco a scandagliare meticolosamente nel corso di quella che per lui diviene la “notte del destino”, espressione – come ben sa qualunque studioso del mondo islamico – carica di richiami alla vicenda del Profeta. Prende così avvio un discorso molto articolato sull’erotismo in quanto rito di caccia, nel quale il cacciatore finisce per farsi divorare dalla preda giungendo a una sorta di “cannibalismo suicida”. La collezione in questione espone una carnalità che turba e affascina nel contempo, rappresentata fin nelle ossa del corpo bramato e fino alla prova che “ogni amore è cannibalismo”.
È a questo punto che lo scrittore e giornalista maghrebino, spettatore solitario e privilegiato per un’intera notte, inizia a immaginare un racconto sconcertante nella sua semplicità: “un jihadista venuto dalla Siria o da Timbuctù o da Algeri o dalla periferia parigina, incaricato di ferire l’Occidente nel cuore del suo cuore: le sue collezioni d’arte. […] Estendere la catastrofe di Palmira ovunque, la distruzione di tele, arte e sculture, segni e curve, ‘fino a purificare la terra di Dio da ciò che non è Dio’, secondo le grida dei fanatici.[…] Il mio personaggio si chiamerà, quindi, Abdellah, lo Schiavo di Dio, mostro nato da carne morta di cadaveri della nostra epoca, il figlio di una sventura che lui perpetua. Un mostro solitario […] che resterà, come me, in piedi, qui, affascinato dai dipinti di questo museo […]. Tentando di cominciare il saccheggio per curiosità prima di intraprendere la sua missione: sfigurare l’Occidente.”

Che cos’è, dunque, l’Occidente, seguendo questi ragionamenti, se non un corpo femminile, una nudità mostrata ed esibita ovunque a più livelli? “Una decomposizione morale, una ricomposizione artistica”. Ecco quindi che i dipinti di Picasso, osceni secondo l’ottica e i parametri di valutazione del suo personaggio, diventano per Daoud, che giunge da un villaggio a trecento chilometri da Algeri, occasione per affrontare e approfondire tutta una serie di interessanti tematiche legate all’Islam: il corpo della donna e i rapporti tra i due sessi, i tabù, l’arte e la rappresentazione della figura umana, il paradiso con le sue perenni vergini (le huri), l’estremismo religioso che sfregia la bellezza artistica e uccide senza pietà alcuna immolando i suoi medesimi strumenti di martirio, le profonde contraddizioni esistenti all’interno delle società arabe e, più in generale, islamiche. Il proprio bagaglio culturale viene analizzato, passato al setaccio e non sempre l’argomentazione che lui porta avanti è facile da seguire. Emergerà, alla fine, il ritratto di un mondo arabo in collera (insanabile?) con quello occidentale, scandalizzato ma anche attratto dalla libertà di costumi, a disagio dinanzi alla nudità dei corpi che viene da esso interpretata come insulto alla sfera divina. L’intensa rappresentazione della carne della giovane Marie-Thérèse, rappresentata da Picasso, così gravida di clandestinità, desiderio, orgasmi incessanti, arriva a coincidere con l’Occidente che è, in breve, un corpo femminile nudo; per questo l’immaginario jihadista Abdellah intende in un certo qual modo convertirlo e, quindi, salvarlo attraverso una furia iconoclasta che esplode rabbiosa contro cose e persone.

“[…] Mi sono spesso posto questa domanda: a cosa è dovuta questa collera che ci impedisce di vivere e ci fa accusare il resto del mondo della nostra sofferenza? […]”

La risposta a cui giunge l’autore, al termine della sua notte insonne trascorsa in questo “tempio della carne” che si è rivelato tale museo parigino, non potrà essere univoca. Tirando le somme del lungo discorso precedente, le pagine conclusive del libro sono rivelatrici di considerazioni particolarmente sorprendenti. Un testo notevole, questo di Kamel Daoud, preciso e ricco di approfondimenti, che cerca di scavare nel cuore di una cultura intera (perché l’Islam non è solo una religione, s’insegna nei corsi universitari di islamistica) con la quale occorre più che mai confrontarsi. La sua è una voce interna molto interessante, figlia di quella stessa cultura, che si interroga in modo costruttivo ed esige persino di trovare risposte.
Tuttavia, a mio parere, non si tratta di una lettura consigliabile a tutti; obiettivamente, occorrono anzitutto nozioni precise che consentano di comprendere appieno certi riferimenti (storici e dottrinali), nonché di addentrarsi meglio in diversi passaggi che, altrimenti, rischiano di risultare piuttosto pesanti. Un romanzo sarebbe stato, forse, più accessibile ai più, e la veste in questo caso adottata allontana “Il pittore che divora le donne” dal coinvolgimento della prosa narrativa. Una pubblicazione, però, pur nella propria complessità, che colpisce e getta semi importanti, parlando di erotismo, “la legge più antica del mondo” (e per niente sconosciuta agli arabi, aggiungerei), e di arte come via possibile per superare la violenza senza tempo che, purtroppo, continua a scandire la storia del genere umano.


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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Mag, 2022
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Lily e Ryle

«Una bambina di due anni avrà lo stesso nome a qualunque età. I nomi non sono simili ai vestiti. Non diventano mai troppo piccoli, Lily Bloom.»

Elegante, garbato, intelligente. È questa la prima impressione che ha Lily Bloom, ventitreenne, di quel misterioso medico chirurgo che conosce su quel tetto proprio nella serata in cui più cerca solitudine essendo reduce dalla morte del padre e da un discorso funebre alquanto fallimentare stante che l’uomo per anni ha maltrattato la madre senza mai farle mancare vessazioni di ogni genere e dunque lei proprio non è riuscita a parlarne positivamente. Vessazioni a cui Lily ha assistito ma a cui non ha mai posto realmente fine. Osservando, cercando di entrare nella stanza nel momento del misfatto ma spesso limitando a ciò il suo intervento. Ryle Kinclad è un medico neurochirurgo ambizioso a livello sociale. Tra i due nasce immediatamente un gioco di verità nude e crude che li porta a confessare un certo reciproco interesse. Interesse che non confluisce in altro perché lui è alla ricerca di avventure di una notte, lei del suo Santo Graal.
Da qui le loro strade si dividono. La ragazza, laureata in economia, decide di inseguire il suo sogno e per farlo si dimette dall’azienda di marketing in cui lavora per aprire un negozio di fiori. Siamo a Boston, la sfida sembra improponibile eppure vuol provarci. Ad aiutarla ci sarà Allysa che niente di meno scoprirà essere la sorella di Ryle. Si rincontreranno per una caduta fortuita dopo ben sei mesi dal loro primo incontro e da questo momento, anche se serviranno altri mesi, sarà chiaro che tra i due vi è un’attrazione irresistibile che li porterà a legarsi.
Lui sembra essere il ragazzo dei sogni. Lei rivive gli anni dei suoi primi amori leggendo un vecchio diario dedicato a una sorta di amica immaginaria (la conduttrice di un noto programma televisivo) e in una serata come tante lo rincontra, quel suo primo amore. Atlas che al tempo era un senzatetto adolescente di diciotto anni è adesso un uomo con un lavoro e una relazione. Tra Ryle e Lily tutto sembra essere perfetto, lui si dimostra essere l’uomo dei sogni di ogni donna. Caratterialmente affascinante nel suo essere “nudo e crudo”, fisicamente bellissimo, professionalmente perfetto. Un Edward Cullen non vampiro dopo che avrà riconosciuto i suoi sentimenti, si potrebbe dire. Eppure, qualcosa porterà Lily a dover rivalutare l’uomo che credeva essere privo di imperfezioni, l’uomo che scoprirà avere un’ombra alquanto cupa ad offuscarlo. Ed ecco allora che un passato non così lontano tornerà a farsi vivido nella realtà di Lily, ecco allora che forse quell’agire della madre non sarà così lontano da lei.

«Siamo semplicemente persone che a volte fanno cose cattive. […] Ciascuno di noi ha una parte buona e una cattiva.»

Colleen Hoover dona ai suoi lettori uno scritto che si prefigge di parlare d’amore ma anche di violenza domestica e di tematiche di grande attualità. Preme fare una piccola premessa: la Hoover ha vissuto in prima persona una situazione di violenza domestica, senza rivelare quale, che l’ha condotta a voler scrivere in merito per trasmettere un messaggio molto importante. Per farlo ha “responsabilizzato” il suo personaggio portandolo a prendere una decisione non semplice.
Lo scritto scorre rapido e negli intenti riesce, nella struttura, tuttavia, perde. Non si può negare infatti che l’autrice abbia il merito di cercare di sensibilizzare il lettore su una problematica troppo spesso celata o omessa ma, al contempo, c’è una certa dissonanza nella lettura.
Lo stile narrativo, che all’inizio può essere conforme alla voce narrante ventitreenne, a lungo andare stona perché non matura e resta al pari di un linguaggio adolescenziale che non riesce a suscitare il completo coinvolgimento in chi legge. Senza contare la naturale crescita dei personaggi a cui appunto sarebbe corrisposta una maturazione espositiva. La prima parte, ancora, si dilunga tra una serie di diari in cui conosciamo Atlas ma senza nel concreto riuscire a comprendere le ragioni di certe decisioni di Lily e al contempo, stante che lei già si sta frequentando con Ryle, risultano essere quasi una forzatura. Questo a maggior ragione se in parallelo con l’epilogo. Ryle è prima l’uomo perfetto e poi il demone celeste preda dell’irascibilità? Per quanto gli intenti siano ammirevoli, per quanto spesso certe figure possano effettivamente rivelarsi mostri, vi è una rottura dell’incanto narrativo che non viene percepita come concreta e veritiera e che quindi porta a porsi diverse domande. Sinceramente il mutamento che introduce la romanziera sembra un po’ una forzatura e come tale viene percepita.
Se la prima parte si legge con rapidità e senza sosta in un pomeriggio, la seconda arranca. Da un lato Lily sdubbia, dall’altro l’evolversi della vicenda e quel che poi verrà “scelto” non convince. In alcuni punti si rivela prevedibile e/o scontato. Questo a prescindere dalla categoria narrativa di appartenenza.
In conclusione, lo scritto ha un buon potenziale ma mal sfruttato. Questo perché troppo romanzato, questo perché in alcuni passaggi è reso quasi fiabesco. Si presta a una lettura gradevole, ci mancherebbe, rapida e facilmente conclusiva (in un giorno e mezzo si inizia a conclude a prenderla larga) ma per chi già ha letto del tema non apporta alcunché di nuovo. Al contrario, non mancano i canonici cliché. Per chi vuole avvicinarsi alle problematiche sottese potrebbe essere un sufficiente trampolino.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    14 Mag, 2022
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Tra lava e cenere

La devastante eruzione del Vesuvio dell'anno 79 d.c. è storia ma anche leggenda narrata da una folta schiera di penne a partire dai testimoni oculari miracolosamente scampati a coloro che si occuparono di riportare episodi raccontati e tramandati con il tempo.
Fiumi d'inchiostro hanno riempito pagine fotografando una delle catastrofi naturali e umane più eclatanti del mondo antico.

Con il romanzo breve intitolato “La fortuna”, Valeria Parrella contribuisce a ridare vita non solo al momento eruttivo ma a quella fetta sfortunata di umanità coinvolta, sradicata nel giro di qualche minuto dalla propria casa, dagli affetti, dalla vita.
E così il romanzo ruota attorno al giovane Lucio, poco più che adolescente, essere fragile marchiato da un difetto fisico che lo ha sempre relegato ai margini della società, considerato come non idoneo a svolgere le stesse attività di un coetaneo. Eppure la rivincita di Lucio sarà quella di superare le barriere del pregiudizio tanto da imbarcarsi su una quadriremi, la Fortuna appunto, della flotta imperiale capitanata dal celebre Plinio il vecchio e stanziata a Miseno.

L'intento dell'autrice non vuole essere descrittivo su temi naturalistici, qualche accenno modulato con lirismo ne dà una buona misura, bensì è volto in toto all'analisi umana, rappresentando le sfaccettature psicologiche di un giovane uomo la cui vita è divisa tra un “prima” e un “dopo” l'eruzione del Vesuvio.

Lirico, intimistico, poetico. Una rappresentazione di morte, rinascita e sopravvivenza, analizzata attraverso gli occhi deboli del protagonista che dopo aver visto il volto del terrore, si consacra ad un futuro da adulto.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    11 Mag, 2022
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Piccole gentilezze famigliari

La treccia alla francese è un romanzo di una grande scrittrice americana che ha il dono di dare ai dialoghi la leggerezza e la naturalezza che li rende spontanei, per cui spesso i suoi personaggi vivono e respirano. Il suo tallone d’Achille sono i finali, anche se non in questo caso. Alcuni dei suoi romanzi come Lezioni di respiro e il turista involontario sono dei capolavori, altri come questo sono romanzi carini ma non eccezionali. Sono come i film di don Matteo, che non entreranno nella storia del cinema ma sono rilassanti e pieni di buoni sentimenti, il che è già una ottima cosa. Anne trasmette al lettore il suo modo tranquillo e benevolo di vedere le cose e di intendere le relazioni. La famiglia è centrale nella sua esistenza. La famiglia che ci descrive non è perfetta, ci sono persone difettose che cercano di essere tolleranti e inclusive, che a volte non si capiscono, per cui hanno comportamenti strani e al limite dell’offensivo, un offensivo però assolutamente privo di calcoli. In genere se qualcuno ferisce qualcun altro è solo per legittima difesa. Nonostante gli errori, il bene che è circolato in famiglia non è perduto, lo si ritrova anche a distanza di tempo in tracce come le conchiglie sulla spiaggia. Questo romanzo mi è sembrato un pochino dispersivo, tanti parenti, senza una vera storia che tenga avvinto il lettore. Il covid arriva anche qui verso la fine del romanzo. Rispetto ad altri testi di Anne, la treccia ha più una dimensione casalinga anche nei suoi aspetti claustrofobici. Mi è sembrato meno penetrante e interessante di altri testi, anche se scorrevole. L’incipit è bellissimo e secondo me è stato un peccato abbandonare i due personaggi dell’incipit per entrare nelle loro famiglie, in particolare in quella di Serena. Avrei preferito seguire quei due.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    10 Mag, 2022
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L'ILIADE DI GROSSMAN

“Era il momento più triste della sua vita, quello, il momento in cui nel silenzio sonnolento che precede l’alba sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua.”

Forse non tutti sano che “Vita e destino”, uno dei più grandi capolavori della letteratura del Novecento, è solo la seconda parte di un dittico. Chi ha amato e trepidato per i personaggi di Strum, della famiglia Saposnikov, di Krymov e di Novikov, può infatti ritrovarli tutti quanti in “Stalingrado” e seguire le loro peripezie prima e durante la famosa battaglia che ha deciso le sorti della Seconda Guerra Mondiale. E’ abbastanza curioso che “Stalingrado” sia apparso, almeno in Italia, con così forte ritardo rispetto alla sua prima pubblicazione ufficiale. La ragione è che, mentre “Vita e destino”, pur bandito e sequestrato dal regime staliniano, è giunto clandestinamente in Occidente nella sua forma definitiva, “Stalingrado” è stato originariamente edito in una versione fortemente rimaneggiata dai tagli della censura, ed è stato pertanto difficile ricomporre il libro secondo quelle che erano state le intenzioni dell’autore. Va detto subito che, anche nella sua versione “director’s cut” (per dirla con una terminologia ampiamente in uso nella settima arte), “Stalingrado” non è qualitativamente allo stesso livello di “Vita e destino”, mancando in esso quelle sfumature, quelle ambiguità, quelle riflessioni filosofiche che hanno reso il suo successore un’opera di rara profondità intellettuale e di incomparabile complessità etica. Non vi si ritrova ad esempio l’ardito parallelismo tra nazismo e stalinismo (ad esempio, nell’illuminante colloquio tra Liss e Mostovskoj, in cui l’ufficiale tedesco, direttore del lager dove è rinchiuso il secondo, si paragona al bolscevico), aspetto che, insieme alla descrizione dei gulag, delle purghe di partito e del soffocante clima di conformismo ideologico dell’epoca, ha contribuito a far cadere in disgrazia lo scrittore sovietico, il quale per di più era ebreo in un periodo in cui, nel dopoguerra, si stava affermando in Russia una campagna subdolamente antisemita. In “Stalingrado” non c’è quasi nulla di tutto ciò: il nazi-fascismo è dichiaratamente, inoppugnabilmente, il male e lo stalinismo è la forza che gli si è opposta, il baluardo della libertà in Europa. Stalin e Hitler non sono perciò due facce della stessa medaglia, due espressioni della medesima politica autocratica e illiberale, ma il leader dell’Unione Sovietica è ancora visto come il simbolo del coraggio, della tenacia e della pazienza del popolo russo. “Stalingrado” è purtroppo impregnato di una retorica talvolta fastidiosa (non è difficile trovarvi frasi come “Nelle ore fatali in cui l’enorme città moriva… la Russia non si fece schiava né morì; fra la cenere ardente e il fumo, la forza dell’uomo sovietico, il suo amore, la sua dedizione alla libertà resistettero ostinatamente, indistruttibili, e fu proprio quella forza indistruttibile a trionfare sulla violenza mostruosa, ma vana, di chi voleva renderla schiava”), e l’ingenua fiducia nella rivoluzione comunista è solo in minima parte incrinata dalla descrizione onesta di quelle crepe che già stavano delineandosi nella società del tempo e che ben presto si sarebbero trasformate in enormi, irrisolvibili contraddizioni, che la censura non avrebbe più consentito di far emergere. Grossman è qui ancora permeato di una tiepida fede nella ideologia staliniana e nella genuinità della sua lotta antifascista (dimenticando colpevolmente il patto di non belligeranza che vigeva tra i due paesi prima dell’invasione del giugno 1941). In fondo, chi ha attentato per primo alla pace si ritrova automaticamente dalla parte del torto, e nell’urgenza della dura guerra di resistenza la natura reazionaria del regime sovietico è giocoforza passata in secondo piano, e tra due mali il male minore è diventato il bene, in quanto si è trovato a combattere, anche se magari obtorto collo, “per una giusta causa” (questo era non a caso il titolo originario del romanzo).
Scritto secondo i dettami del realismo socialista, “Stalingrado” se ne allontana in realtà abbastanza nettamente per la sua profonda sensibilità umanistica. Tra ideologia e individuo, Grossman non ha mai dubbi e sceglie sempre il secondo. Quando ad esempio il commissario del distretto chiede a Vavilov perché ha dato ospitalità a un fuggiasco, l’uomo risponde: “Per compassione… era un essere umano”. Grossman mostra una profonda simpatia per i suoi personaggi, trascinati dalla forza della Storia che, come “un gorgo crudele”, li strappa agli affetti e alla loro vita semplice, operosa e tranquilla. In “Stalingrado” i personaggi lottano, soffrono, si tormentano, ma sono anche capaci di emozionarsi di fronte alla bellezza della vita (“Che emozione, che presentimento fortissimo! – si trova a pensare Strum – Non di una felicità imminente, no; era una sensazione ancora più grande: era la vita”), di godere dei piaceri della natura, del cibo o dell’amicizia, di amare e di innamorarsi, pur tra le privazioni e la fame, tra le fughe e i bombardamenti. Il romanzo abbonda di momenti di lirica sospensione, di quei frangenti in cui al sibilo lacerante delle sirene e al fragore terribile e incessante delle bombe si sostituisce il magico silenzio di un’alba o l’incommensurabile purezza di un cielo stellato, attimi di epifania cosmica che conferiscono un nuovo, incontaminato senso all’esistenza e rendono, per contrasto, ancora più odiosa e bestiale la realtà della guerra. La descrizione dei colori, degli odori e dei suoni della steppa, oppure l’ultima notte di pace che Novikov rimembra, soffermandosi sulle sfumature del cielo, sul contorno degli alberi, sul chiaro di luna che trasforma la pietra in marmo (concludendo che “tanta bellezza… ci dice una cosa soltanto: vivere è bello”), sono pagine struggenti che elevano il romanzo dalla prosaicità della cronaca bellica. Grossman riesce a restituire la bellezza del mondo e dell’esistenza, ma ancor di più le profondità più nascoste e autentiche degli esseri umani, profondità cui è dato accedere solo nei momenti più gravi e tremendi della vita, in quei “tempi in cui l’anima ha i calli della sofferenza”. C’è nelle pagine di “Stalingrado” un profondo senso della sacralità della vita umana, della sua unicità e irripetibilità, e il biasimo più grande nei confronti della guerra lo si trova non tanto nelle immagini crudeli della devastazione della natura o della distruzione delle città, quanto nella descrizione della morte di un bambino di sei anni schiacciato da una trave di ferro durante un bombardamento, “perché se esiste una forza capace di risollevare dalla polvere città enormi, non c’è forza al mondo in grado di risollevare le palpebre dagli occhi di un bambino morto”. Al nazismo che, con la sua folle presunzione di assoggettare il mondo alla propria megalomane volontà di potenza, ha creduto di poter annientare interi popoli, Grossman, da fervido umanista qual è, replica che l’energia spirituale di un popolo è indistruttibile, è eterna e, come l’energia del sole che “attraversa deserti di buio e riprende vita tra le foglie di un pioppo, nella linfa di una betulla”, è sempre capace di riemergere dai periodi più oscuri e drammatici della Storia. E che non la si possa distruggere, questa energia spirituale, “lo si capisce dal fatto che i leader della crudeltà e della violenza fascista cercano sempre di convincere i rispettivi popoli di essere i paladini della giustizia e del bene sociale. Li commettono in segreto, i loro crimini peggiori, perché sanno per esperienza che il male non porta solo altro male, ma può anche generare il bene, oltre a schiacciarlo” (quanto queste parole risuonano preveggenti in questi giorni, anzi proprio in queste ore – mentre scrivo queste righe, lunedì 9 maggio, che per una curiosa coincidenza è il giorno della ricorrenza della vittoria russa contro il nazismo, probabilmente nella Piazza Rossa di Mosca si sta dispiegando la falsa propaganda patriottica di un leader che pretende di far passare una guerra di aggressione per una lotta democratica volta a scongiurare l’oppressione e il genocidio “nazisti”!).
In “Stalingrado” la guerra ha, ovviamente, una parte preponderante, oltre a occupare l’intera terza parte del libro. Quella del romanzo di Grossman è una costruzione implacabile, avvincente che l’autore sa restituire in maniera prodigiosamente realistica, destreggiandosi con grande abilità nel vorticoso, caotico succedersi degli avvenimenti bellici, tra attacchi nemici, ritirate e contrattacchi, bombardamenti e incursioni aeree, in cui vengono messe a fuoco le emozioni di un generale di Stato maggiore così come quelle di un insignificante fante che combatte in prima linea, quelle di un abitante di Stalingrado così come di un contadino della sterminata campagna russa, di uno scienziato oppure di un minatore o di un operaio di un’acciaieria. Le parole di Grossman sanno incontestabilmente di vita vissuta, e questo non è, una volta tanto, un semplice modo di dire, perché Grossman ha davvero visto con i suoi occhi le cose di cui parla nel suo libro, in quanto dal 1941 al 1945 ha operato al fronte come corrispondente di guerra. Anche se egli è stato testimone degli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale, la sua sintesi è comunque straordinaria, dal momento che quando si è calati nel vivo delle cose spesso si tende a percepirne solo i dettagli ma non il quadro generale. In “Stalingrado” ci sono invece tanto gli aneddoti di vita militare più minuscoli quanto la visione più ampia e oggettiva della Storia. Come si era già detto recensendo “Vita e destino”, “Stalingrado” ha anche una incontestabile ispirazione tolstojana. Di questo Grossman era sicuramente consapevole, tanto è vero che nel romanzo c’è un omaggio esplicito a Tolstoj, quando Krymov, durante i suoi spostamenti militari, si reca a visitare la casa-museo di Jasnaja Poljana e si rende conto che “il presente si fondeva con quanto Tolstoj aveva descritto nel suo libro con una forza e una verità tali da far diventare realtà per antonomasia una guerra combattuta centotrent’anni prima” (“Quando poi, con un cappottino sulle spalle, dalla casa era uscita Sofja Andreevna, la nipote di Tolstoj,… Krymov aveva faticato a capire chi fosse – se la principessina Marja che scendeva per l’ultima volta in giardino prima che i francesi arrivassero a Lysye Gory, oppure la nipote del conte Tolstoj”). Le pagine epiche dell’assedio di Stalingrado non hanno nulla da invidiare a quelle di “Guerra e pace” e riscattano il romanzo da qualche inevitabile debolezza retorica. A mio parere “Stalingrado” sta a “Vita e destino” come l’Iliade sta all’Odissea. E se la mia preferenza va senz’altro al poema che ha ispirato il XXVI canto dell’Inferno di Dante e la poesia “Itaca” di Kavafis, pure non riesco a non rimanere affascinato di fronte ai versi immortali della guerra di Troia. Allo stesso modo, pur consapevole di non trovarsi di fronte a un capolavoro perfetto, il lettore viene fatalmente rapito dalle gesta dei personaggi di “Stalingrado”, avvinto dalla sua sapiente e monumentale (ma per nulla disagevole) costruzione narrativa, letteralmente incollato dalla prima fino all’ultima, emozionante pagina, spettatore attonito e muto del furioso imperversare di quel mostro sanguinario il quale, come purtroppo la cronaca odierna insegna, è sempre in grado di risorgere dalle proprie ceneri e di esigere, crudele e implacabile, la sua moltitudine di vittime sacrificali.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    08 Mag, 2022
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Come orli di nuvole irradiati dal sole

“La cosa spaventosa non è la tenebra, piuttosto la gran luce, dentro e intorno a me. Ci sono incarcerato dentro. Serrato dentro di essa al mattino, la sera, di notte. Circonfuso di luce da tutte le parti, fin dentro il più profondo angolo dell’anima (…)ahimè c’è quel cancro di luce che mi divora l’anima, luce da sopra, luce da sotto, luce di fronte, luce alle spalle, luce di lato, luce al centro, luce esterna, luce interna, tutto insieme, inseparabilmente (…)”.

Lo stile di Handke è un marchio di fabbrica riconoscibile. Dopo aver letto quattro dei suoi libri, posso ben dire che ne riconosco la scrittura, il carattere. Lo si indovina dalle prime pagine: non è esagerato dire che lo si potrebbe riconoscere in mezzo a tanti altri libri ed autori senza bisogno di barare guardando la copertina.
Per apprezzare l’opera di Handke, bisogna entrare in un rapporto di complicità con lui che quasi ci strizza l’occhio: il lettore deve far parte del gioco e partire dal presupposto che la sua scrittura dice una cosa, affinché il lettore possa intenderne un’altra.
È così: ogni storia ha bisogno di più chiavi di lettura, i sottintesi, le immagini, le parole che sceglie di usare chiedono qualche sforzo al lettore abituato a leggere trame monolitiche.
La scrittura di Handke possiede qualcosa di ineffabile, ma è fresca e piacevole. Può lasciare tuttavia il lettore nella frustrazione di non aver afferrato qualcosa.
È ingannevolmente “facile”, perchè Handke ti dà del tu, ti invita a non staccarti dalla pagina e il lettore si incuriosisce, vuole capire dove lo scrittore andrà a “parare”.

La conoscenza di altre opere mi ha permesso di ritrovare temi e immagini care all’autore: in “La mia giornata nell’altra terra” apparso a Berlino nel 2021 e da noi edito da Guanda -che sta curando tutta la produzione dello scrittore austriaco - appaiono motivi e immagini che ho trovato ne “La ladra di frutta”, come la presenza costante del paesaggio naturale (e della frutta) di figure umane borderline tra la realtà fenomenica e un’altra inafferrabile, un brivido di gioia tangibile che coinvolge il lettore e lo prepara a festeggiare la vita.
Trovo un Handke più maturo, rispetto ad opere più tristi e cupe come “Infelicità senza desideri”, che forse ha fatto pace col proprio passato, ha vendicato la morte della madre ne “La seconda spada. Una storia di maggio” (2020) e, come il protagonista del nuovo, breve romanzo, si libera dei suoi demoni, e

“fu un ritorno alla vita; fui di nuovo restituito al mondo, al caro pianeta, alla madre terra. Anzitutto abbracciai mia sorella (…) e poi caddi in ginocchio, con impeto senza curarmi del fatto che, insieme agli anni di follia, anche la mia giovinezza se n’era andata”.

“La mia giornata nell’altra terra” è la storia di un frutticoltore, “una storia che non ho ancora raccontato a nessuno”, che, considerato folle, posseduto, fuori di sè, dagli abitanti del suo villaggio, un giorno fa un incontro straordinario nei pressi del lago. Incontra gli occhi del “Buon Spettatore” (così tradotto da Alessandra Iadicicco, una ripresa del Buon Pastore? Interessante anche la presenza del “coro di pescatori”) e qualcosa di indicibile avviene in lui: si sente rinascere, si libera di tutte le sue ossessioni, dei suoi demoni, non si siede più sulla soglia di granito nei pressi del vecchio cimitero, ma va oltre, dopo un breve tragitto su una leggera barchetta, approda all’”altra terra”, laddove si arricchisce di una nuova vista, non più quella degli occhi, ma una facoltà nuova, “nelle spalle, sulla punta delle dita, nelle piante di piedi”. Nell’altra terra egli scopre la vera gioia, conosce la sua compagna, guarda negli occhi i bambini. Ha “il cuore libero e i sensi sciolti” .
La luce è sempre stata dentro di lui, soltanto che prima, ne aveva paura, ma dopo essere stato redento, si riscopre, si vede con occhi nuovi e la luce che vede dentro e fuori di sè, è la Saumseligkeit

“giocare con la “Saumseligkeit”: accorgersi degli orli più lontani, come nell’immagine che segue, l’immagine che scaturisce da quella originaria, della mia beatitudine davanti agli orli delle nuvole irradiati dal sole lassù in alto, nell’azzurro dell’estate”.

Ognuno troverà nella storia l’interpretazione più congeniale. Andando al di là di ogni lettura in chiave religiosa e mistica, la luce di cui il protagonista-Handke parla, potrebbe rappresentare il dono della poesia e della scrittura: un pò come le grandi ali dell’albatro di Baudelaire, che nel cielo lo rendono immenso, ma sulla terra, in mezzo agli uomini lo rendono goffo e brutto. È così la vita del frutticoltore prima di passare sull’altra terra: disprezzato dagli abitanti del villaggio per via del suo comportamento strano, delle sue “parole inaudite” che col tempo verranno da lui cantate a gran voce, tra lo stupore generale. Certamente è la storia di una cesura, di un profondo cambiamento nella storia personale e nei motivi nuovi e più consolatori dello scrittore austriaco, di cui aveva dato già prova ne “La ladra di frutta”.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    07 Mag, 2022
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Gli anni della guerra, nulla è eterno

«E poi cercare quelli come te, cercare senza farti scoprire, cercare in silenzio. Anche qui ci sono le regole, le regole della clandestinità. Anche qui bisogna obbedire, ma almeno si può discutere. E poi sono gli ideali in cui credo.»

Walter Veltroni torna in libreria con Rizzoli e propone ai suoi lettori un piacevolissimo romanzo storico intitolato “La scelta”. Classe 1955 lo scritto ci riporta agli di una guerra tanto “sporca” quanto devastante, una guerra che i nostri nonni e i nostri padri hanno vissuto sulla propria pelle. Ed è per mezzo del Secondo conflitto mondiale che egli torna a toccare temi quali la libertà, l’autodeterminazione, dei popoli, i valori, la dittatura che schiaccia e opprime, la spensieratezza che viene meno in un mondo che si crede invincibile perché nessuno bombarderà la città eterna e che poi, appunto, quale credo viene smentito e disarmato dalla consapevolezza della verità che nulla è esente dalla guerra.

«Ribellarsi è giusto.
È così che voglio vivere.»

Anno 1943, tre gli avvenimenti che si succedono. Lo sbarco in Sicilia per mezzo degli alleati nelle coste siciliane in quel 9 luglio del 1943, il conseguente obiettivo di aprirsi al fronte continentale europeo, la sconfitta della Germania nazista. È qui che vivono le voci che animano l’opera e che pensano che la città mai potrebbe essere oggetto di bombardamento. Eppure i bombardamenti statunitensi nulla risparmiano come quelli avversari. Il 19 luglio è la data del primo attacco USA con obiettivo lo scalo ferroviario di San Lorenzo. Questo avvenimento fu artefice di questa nuova consapevolezza di vulnerabilità. Il Duce si trovava a Feltre per l’incontro con Hitler e nella notte tra il 24 e il 25 luglio fu esautorato dal Gran Consiglio del Fascismo e dopo deposto dal re Vittorio Emanuele III di Savoia.
La famiglia De Dominicis vive in un quartiere popolare. Ascenzo, il padre, è fervido sostenitore di Mussolini da sempre. Lavora come usciere in via Propaganda presso l’Agenzia Stefani, l’Agenzia stampa fascista e attuale Agenzia Ansa. Manlio Morgagni, amico e ammiratore di Mussolini, ne dirige i vertici e in rispetto al Duce a tutto sarebbe disposto, anche a togliersi la vita. Nel mentre, Arnaldo, il figlio di Ascenzo è un antifascista convinto. Un padre e un figlio in disaccordo per una ideologia politica e che come altri nella storia del nostro vivere si sono allontanati per questo. A far da contralto, Margherita De Dominicis, quattordicenne che in quei giorni si riscopre donna, che ha paura e che proprio in quel lasso di tempo scopre cosa sia la realtà della guerra.

«Voglio essere sicuro che Margherita e io cresceremo in un mondo senza bombe, senza nemici, senza guerre.»

Un romanzo di grande intensità che non manca di trattare temi della famiglia, i rapporti tra padri e figli ma anche gli scenari di un conflitto che da sempre e per sempre ha segnato il nostro passato, presente e futuro. Walter Veltroni accompagna con molta semplicità e rapidità il lettore, lo porta a risvegliarsi con gli stessi protagonisti che da un momento all’altro scoprono di questa verità.
Perché è da questo momento che ogni famiglia dovrà fare “la scelta”. Tra trasformismi, eroismi e pensieri che si sostituiscono a violenza, odio e divisione precedentemente dettati dal regime.
Un romanzo che invade, resta e sorprende. Con genuinità e con rapido incedere.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    05 Mag, 2022
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La sarta che non cuce più

Per me questo non è stato “Il ritorno di Sira”, ma un incontro. Non sapevo che l'autrice avesse già scritto un libro, ma in questo seguito mette talmente tanti dettagli della vita precedente della protagonista, da non essermi sentita spaesata.

Sira è una novella sposa, ex collaboratrice degli inglesi durante la seconda guerra mondiale, con il marito, anche lui agente segreto inglese, partono per Gerusalemme. La città non darà il meglio di se, il periodo non è certo dei migliori e le tensioni si percepiscono ad ogni angolo.

“I muezzin continuavano a chiamare alla preghiera dalle moschee, le campane delle chiese cristiane convocavano i fedeli ogni giorno e dal vicino quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, al tramonto di ogni venerdì, sentivo annunciare l'inizio dello shabbath”.

La protagonista si troverà a dover affrontare nuove sfide e nel suo lungo cammino intreccerà il suo percorso con alcuni personaggi noti, fra cui Eva Perón.

Il libro si legge bene e scorre velocemente pur contando quasi settecento pagine. La cosa che però non mi ha mai convinto è stata proprio la protagonista. L'autrice ne esalta la sua bellezza e bravura ma obbiettivamente in lei ho trovato molti più difetti che pregi. Non mi sono sentiva coinvolta da lei, ho letto le sue vicissitudini e pur essendo cose a volte molto dure, sono rimasta estranea ai fatti. Il romanzo, almeno per me non è stato empatico. Scorre velocemente, si fa leggere volentieri ma oltre a questo non va.

Non è uno di quei romanzi che consiglierei a tutti, è adatto ad un pubblico femminile con poche pretese e che abbia la voglia di leggere un romanzo lungo ma non troppo impegnativo. Spesso si può avere voglia di un po' di leggerezza, io l'ho letto in un periodo molto intenso e per questo l'ho trovato piacevole.

Buona lettura!

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siti Opinione inserita da siti    05 Mag, 2022
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Distanti e vicine

Seconda opera per Cristian Mannu che, dopo dopo i successi raggiunti con l’opera prima “Maria di Isili”, attraversato un periodo di crisi, almeno questo pare evincersi dai lunghi ringraziamenti che chiudono il romanzo, ritorna con un delicato scambio di voci femminili che in prospettiva diversa cantano la distanza generazionale, l'incomunicabilità che la accompagna e la derivata sofferenza che ne consegue.

Una mamma, ormai anziana e nonna, decisa finalmente a riallacciare i rapporti con al figlia e desiderosa altresì di conoscere la nipotina, è in procinto di partire per la Francia; viene però bloccata da un malore che si trasforma in inappellabile agonia e che vedrà al suo capezzale proprio la figlia che torna da Parigi.

Le voci, madre e figlia, si alternano in due parti ben distinte e titolate come movimenti musicali dai sottotitoli richiamanti invece le arti figurative: il ritratto di donna del titolo principe si compone dunque di “chiaroscuri e colori”, di “cornici e luci” e in ultimo di “riflessi”. Al di là della tripartizione, funzionale a rappresentare in momenti distinti un dialogo che ormai è impossibile da realizzarsi, e a suggellare l’epilogo lasciato ad una voce narrante esterna; il vero cuore pulsante dell’opera sembra essere la rappresentazione degli stati d’animo delle due donne, gli accadimenti sono infatti pochi e essenziali, così potenti da poter però far deviare due esistenze a loro volta poste in tale traiettoria dal vissuto primario della nonna, la cui figura aleggia sulle vite di entrambe.

I modi di essere di tre donne dunque che, a partire da una stortura di fondo, tutta genetica e vissuto familiare, proiettano nelle loro esistenze di figlie e di madri gli errori che le hanno trasformate da vittime a nuove carnefici. La figlia condanna la madre senza conoscerne l’intimo vissuto, madre che a sua volta già si era distanziata dalla propria.
La fuga, l’evitamento, le distanze, l’esclusione sembrano essere le uniche armi per poter imbastire una nuova individualità, essa però sarà triste e monca perché deprivata del necessario elemento identitario rappresentato dalla famiglia di origine.

L’ introspezione ha poi una cornice che richiama la terra di origine dello scrittore, la Sardegna, nell’ambientazione tra l’Ogliastra e la città di Cagliari, evocativa di suoni, colori, sapori che, per chi scrive, hanno il sapore della familiarità e risultano piacevoli ma oggettivamente non hanno alcuna valenza stilistica e narrativa. La scrittura è semplice, emozionale, nulla più. Può risultare gradevole ma non si imprime.

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    04 Mag, 2022
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LA FUGA DI OSVALDO

Osvaldo è il protagonista del romanzo, è un uomo di mezza età che per soddisfare l'ultimo desiderio della madre ruba un camoscio che era di proprietà dei gemelli Legnole.
La madre poco prima di morire vorrebbe mangiare del brodo e Osvaldo non ci pensa due volte e questo gesto cambierà la sua vita, perché i gemelli Legnole, Gildo e Gianco non conoscono il perdono e la compassione, sono persone semplici ma anche ignoranti.
I due vogliono vendicarsi del furto e inseguono Osvaldo che è costretto a fuggire e nascondersi per un anno.
Nel paesino dove loro tre abitano tutti si conoscono, le persone sono umili ma sono animate da sentimenti forti, la visione delle cose è bianca o nera non c'è una via di mezzo; niente si dimentica, un torto subito, un errore commesso, anche le "problematiche" più semplici si trasformano in una questione di onore e di rispetto.
L'autore, con l'espediente narrativo di far fuggire il protagonista, ci racconta la bellezza della natura, la parte selvaggia e incontaminata, l'alternarsi delle stagioni, il cambiamento delle montagne e dei boschi.
"Io sto attento a come guarda la gente. Impari molte cosa, capisci i caratteri studiando gli sguardi."
Questo viaggio non è solamente reale ma anche metaforico, Osvaldo lo compie per salvare la sua vita ma è anche un vero e proprio percorso interiore, con se stesso, un dialogo con la sua parte più profonda.
E' un mondo duro quello della montagna, faticoso, che non fa sconti, è una continua sfida con i propri limiti, ma questo paesaggio incontaminato, selvaggio e crudele ti porta anche a isolarti, ad apprezzare il valore delle piccole cose, la solitudine e a capire quanto tutto possa cambiare in pochi minuti.
"Non ti fidare del bello fuori, cerca di vedere dentro. Resta pulito senza vermi."
La montagna, come ci dice l'autore non perdona, è meravigliosa ma implacabile, pericolosa e piena di insidie e l'unica legge che è riconosciuta, in questo paesaggio, è quella della natura.
Con il passare dei mesi e delle stagioni vediamo come cambiano i colori e i suoni, ho apprezzato moltissimo le descrizioni che ho trovato molto suggestive e d'effetto.
Credo che questo libro abbia al suo interno un messaggio, quello di ritrovare il valore delle cose semplici, tornare alle origini, essere se stessi e cercare di andare oltre quello che vediamo, perché il mondo di oggi è pieno di filtri che ti fanno sembrare e fanno credere agli altri, che la tua vita sia perfetta. Ma dietro c'è il dolore, la sofferenza e la solitudine che nessuno conosce, è quando vai a dormire in quei minuti prima di addormentarti sei solo con te stesso, in questo momenti ti guardi dentro e rifletti sulla giornata, sul futuro, su quello che sei.
La vita è frenetica, non c'è mai il tempo di fermarsi e pensare a se stessi e conoscere veramente chi abbiamo di fronte.
La narrazione, attraverso il POV in prima persona del protagonista, utilizza un linguaggio molto semplice, quasi parlato in alcuni momenti, se avete visto qualche intervista dell'autore sembra proprio lui che ci racconta questa storia e questo l'ho trovato sia un limite che un pregio. Probabilmente ha deciso di scrivere in questo modo, per rendere più credibile il personaggio che non sarebbe stato tale, se avesse usato uno stile più ricercato e forbito.
Questo romanzo è un cerchio, che torna al punto di partenza, Osvaldo parte e conclude nello stesso posto il suo viaggio, non posso dirvi se il finale sarà drammatico o meno ma è un percorso che farà prendere maggiori consapevolezze all'uomo e ne uscirà cambiato. Si aprirà un nuovo capitolo della sua vita o si concluderà per sempre?
Lo stile dell'autore cerca di essere il più personale possibile, apprezzerete di più questa storia se amate la natura e la montagna e il ritrovare la semplicità della vita e tornare ai valori di una volta.
Un libro che è una sorta di ricerca personale e interiore per superare se stessi, i propri limiti, le proprie paure e per cominciare a vivere davvero.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    25 Aprile, 2022
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Un coroner ante-litteram

Mondino dei Liuzzi è un medico anatomista stimato e affermato, esercita la sua attività, anche di docente seguito e riverito, presso la prestigiosa “Università degli Studenti” di Bologna agli inizi del XIV secolo, l’età d’oro dell’Ateneo. Ma Mondino è anche quello che oggi si potrebbe definire un anatomopatologo-investigatore. Già in passato è stato coinvolto in indagini cittadine per omicidi quantomeno singolari, se non proprio misteriosi, e il suo acume, la sua tenacia, la sua abilità nelle autopsie dei cadaveri delle vittime avevano portato le investigazioni all’individuazione dei colpevoli.
Adesso, però, rischia di essere lui il sospettato principale. Un alchimista di nome Simone dei Rossi è morto a pochi passi dallo studium ove lui tiene lezione. Con le ultime parole pronunciate ha fatto il suo nome. Per accusarlo? Per chiederne l’aiuto? L’uomo è stato accoltellato con un coltello di piombo, ma è morto per avvelenamento da metalli pesanti (forse proprio piombo). Il Capitano del popolo, Pellaio de’ Pellai - che odia Mondino per le pratiche settorie che svolge sui cadaveri dei condannati a morte, considerandole immorali - vorrebbe incriminarlo per questo omicidio, ma gli mancano le prove. Quando, poi, il giorno dopo, vengono ritrovati ben sette cadaveri uccisi nello stesso modo e sistemati, a stella, entro il battistero di S. Pietro, Mondino è scagionato automaticamente. Anzi, il Consiglio lo incarica di contribuire alle indagini, con gran disdoro per Pellaio. Tuttavia il mistero resta fitto e lo stesso medico rischia la vita nel proseguire delle sue ricerche, nonostante si prodighino in aiuto (ma nascostamente da lui) pure la giovane moglie Mina e il figlio maggiore di primo letto, Gabardino, lo speziale. Quelle uccisioni sembrano associate a misteriosi riti esoterici, connessi all’arrivo nei cieli di una cometa che tutti dicono nefasta. Solo la fortuna, l’intuito e l’audacia del medico e dei suoi familiari alla fine risolveranno il caso.

Mondino de’ Liuzzi è una figura storica realmente esistita. Padre della moderna anatomia patologica, con i suoi studi portati avanti mediante la dissezione anatomica di cadaveri umani (pratica, all’epoca, considerata al limite della blasfemia), fece fare enormi progressi allo studio della medicina anatomica e i suoi trattati furono testi basilari di studio per i successivi due secoli.
Alfredo Colitto ne sfrutta la figura misteriosa e iconica, per ampi tratti oscura, al punto che la sua stessa città di nascita gli ha dedicato solo una breve viuzza, per concepire una serie di indagini poliziesche (questo è il quarto romanzo della serie) in un’epoca in cui l’investigazione scientifica era ancora tutta da inventare.
Al lettore, quindi, viene proposta un’opera di duplice valenza. Da un lato c’è il romanzo storico che cerca di ricostruire, non solo gli avvenimenti dell’epoca (magari non rilevanti ai fini della grande storia, ma sicuramente intriganti), ma pure la topografia, le usanze, la cultura di oltre settecento anni fa. Dall’altro troviamo l’enigma poliziesco che utilizza come protagonista l’antico magister, e che cerca di imbastire una investigazione di tipo deduttivo-scientifico, in un periodo in cui, spesso, il modo più spiccio per risolvere le indagini era un passaggio in sala torture.
Sotto il primo aspetto, quello storico, va dato merito all’autore di aver svolto approfondite ricerche e documentazioni per ambientare la storia nella Bologna medievale. Leggendo il libro non si fa alcuno sforzo ad ambientarsi in quei luoghi, affatto diversi dagli attuali, e sentirsi parte del tessuto urbano e sociale della città, cosmopolita sì, grazie all’Università, ma ancora primitiva in molte delle sue espressioni e del suo sentire. Magari si può osservare che certi comportamenti e, soprattutto, certe espressioni, certe forme di linguaggio siano più consone all’epoca odierna che al XIV secolo. Ma in genere la ricostruzione appare accurata e ben integrata nel contesto narrativo così da far facilmente perdonare alcuni falsi storici che, in parte, è lo stesso A. a confessare nelle note conclusive, e giustificare con esigenze narrative.
Sul secondo profilo, quello meramente giallistico, la storia funziona meno e non perché sia mal strutturata o perché manchino gli inevitabili colpi di scena. Piuttosto l’intrigo, anzi gli intrighi, visto che alla fine i filoni d’indagine si sdoppieranno, non appaiono particolarmente attraenti. Non so dire se ciò sia colpa dello stile narrativo, che ho trovato abbastanza convenzionale e freddo, o per i contenuti stessi della storia, esoterici, un po’ astrusi per il moderno sentire, o per la mancanza di un vero pathos. Qualunque sia la ragione ho faticato a sentirmi coinvolto nell’intreccio. Cioè non è scoccata la classica scintilla che lega il libro al lettore il quale fa fatica a staccarsene. La trama non è brutta in sé, ma neppure particolarmente accattivante: in fondo, se si esclude il colpevole principale, lo schema generale dei delitti e il movente ci vengono rivelati subito. Ho trovato abbastanza fastidioso il maniacale desiderio di dare una minuziosa descrizione di personaggi, abbigliamenti e luoghi, a ogni cambio di scena. Purtroppo questa è una abitudine piuttosto diffusa negli scrittori italiani di questi anni che non si rendono conto che questa pignoleria non accresce spessore alla storia, ma contribuisce solo a spezzare il filo narrativo e l’attenzione di chi legge.
In sintesi l'avventura di Mondino incuriosisce, a tratti diverte, ma non appassiona, non sino in fondo, almeno.
In conclusione si tratta di un romanzo interessante e inusuale per l’ambientazione storica: infatti abbiamo avuto come investigatori Aristotele, Leonardo, monaci cistercensi, questori romani, ma ci mancava l’anatomista medievale. Tuttavia, e mi rammarica scriverlo, non mi sembra un’opera pienamente riuscita. E' un romanzo che vale la pena leggere, sì, ma più per il contesto e per conoscere questa singolare figura di medico sperimentatore, che per la storia principale di carattere poliziesco, la quale, invece, ne dovrebbe essere la ragione prima.
________
Un paio di osservazioni per l’angolo del pignolo. Tra i falsi storici in cui ci si imbatte ne ho scovato uno divertente, evidentemente sfuggito anche agli editor: le carote nel 1300 erano ancora un ortaggio relativamente nuovo e raro, per tavole signorili, ed erano di colore viola o, al più, giallastro. Quindi è improbabile che in un mercato di piazza potessero spiccare per il loro … arancione.
Il secondo appunto è indirizzato alla Mondadori che nella sinossi, riportata nel risvolto di copertina, indica il Capitano del popolo col nome di Rambertuccio e non Pellaio. Come spiega l’A. in nota, Rambertuccio degli Orgogliosi (personaggio già presente nel racconto “Cometa di sangue” da cui il romanzo prende origine) fu capitano del popolo l’anno precedente ai fatti narrati: una più attenta lettura del testo dell'opera avrebbe evitato questa contraddizione interna.

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... i precedenti romanzi del ciclo dedicato a Mondino e a chi piacciono i gialli "in costume", ma soprattutto a chi vuole immergersi in un medioevo vivo e palpitante con tutte le sue contraddizioni.
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    24 Aprile, 2022
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Pregiudizi

Leggendo il nome dell’autore di questo racconto, Jonas Hassen Khemiri, non avrei mai detto che si trattasse di un autore svedese, sebbene i due nomi possano suggerirlo. Sebbene la mia sia stata un’associazione inconscia, il fatto che mi sia focalizzato sul cognome arabo rimanda al pregiudizio che l’autore stesso prova a denunciare in questa sua storia piuttosto particolare.
Come dicevo, l’autore di questo racconto è svedese, e costruisce questo racconto partendo dai pregiudizi razziali che sembrano dilagare nella nazione scandinava. Il protagonista è Amor, evidentemente di origine araba, che sperimenta una sorta di frammentazione dell’Io dovuta agli sguardi indagatori che lo circondano, resi ancor più attenti a causa dell’esplosione di un’autobomba. Amor è un individuo fragile, coi suoi problemi, e questa situazione di stress lo porta a un punto di rottura e a dubitare di sé stesso, delle sue azioni, della sua sanità mentale; tutte le sue certezze vacillano e quasi arriva a identificarsi coi suoi oppressori, a dubitare della sua innocenza, a giudicare se stesso.
Il racconto è strutturato in maniera particolare, con un mix tra dialoghi telefonici e narrazione in prima persona, creando una sorta di flusso di coscienza nel quale fanno capolino anche i pensieri delle persone con cui Amor sta dialogando. Il risultato è curioso, a volte piuttosto confusionario, ma originale: non direi che si tratta di un tipo di narrazione che incontra i miei gusti, ma certo non si può dire che sia insensata o non possa piacere a un altro tipo di lettore.
Quello che emerge, dunque, è la sensazione di continua oppressione e pregiudizio che (a quanto pare) dilaga nella nazione svedese nei confronti dei suoi abitanti di pelle scura, sempre guardati con sospetto e soggetti a pregiudizi che, a causa dell’accanimento delle forze dell’ordine, a un occhio superficiale potrebbero essere addirittura confermati: se infatti, in un auto della polizia, vediamo continuamente persone che corrispondono a certi connotati fisici, è umano sviluppare una certa idea; ma una persona riflessiva e assennata dovrebbe essere in grado di capire che, in un determinato contesto, quella tal persona può essere stata messa lì senza motivo e che dunque quel che vediamo non prova un bel niente, anzi prova soltanto la società malata che ci circonda. Questo aspetto emerge, più che dal racconto, dalla lettera che lo stesso Khemiri ha inviato al ministro della giustizia Beatrice Ask, inserita in quest’edizione Einaudi subito dopo il racconto e che, personalmente, ho trovato più interessante del racconto stesso e contribuisce a rafforzarne i contenuti.
In conclusione, si tratta di un racconto interessante che chiarisce dinamiche di una nazione che conoscevo poco e che, erroneamente, non credevo fosse scenario di tali discriminazioni. Com’è che si dice? Tutto il mondo è paese? Magari un pizzico di verità c’è, in questo luogo comune.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    12 Aprile, 2022
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Il ciclo della vita


Tutta la natura intorno a noi è vita, noi siamo vita e tutto è circolare, si nasce, si vive e si muore, la natura nel suo complesso è un caos ordinato che si rigenera continuamente. Sono questi i temi fondamentali di questo breve e intenso romanzo della scrittrice islandese Audur Ava Ólafsdóttir, "La vita degli animali". Un libro molto al femminile oserei dire, per la predominante presenza di personaggi femminili, simbolo della vita in quanto madri e che cerca di portare a riflettere sulla nascita dell'uomo sia da un punto di vista materno ma anche da un punto di vista esterno, come ostetrica. Infatti il personaggio principale nonché voce dell'intero romanzo è Dyja, che fa l'ostetrica e vive questa professione come una missione vera e propria alla quale dedica la sua vita. La narrazione è molto intima, quasi fosse un diario ed è anche piena di vari racconti della quotidianità sia nella sala parto o nel soggiorno di casa, alternando momenti di riflessione a mera narrazione. Si pone molto accento sui contrappesi vita - morte viste come le facce della stessa medaglia e parlando anche della natura, in quanto paragonata all'essere umano, è inevitabile l'accenno ai cambiamenti climatici in atto, quasi essa stessa si avvicini a una sorta di fine.

Una lettura molto piacevole seppur impegnativa, nella quale però a mio avviso mi è mancato un po' di coinvolgimento emotivo e ho trovato slegati alcuni dialoghi, ma bilanciati da passaggi più profondi.

--""Dyja cara, diversamente dagli esseri umani - diceva - le piante si voltano nella direzione della luce." Era uno dei suoi paragoni, uomo e pianta, l'altro era uomo e animale."--

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Racconti di viaggio
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    11 Aprile, 2022
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Tra mito e attualità

Pubblicato lo scorso autunno da Feltrinelli, “Canto per Europa” si svela subito al lettore come un libro originale e inconsueto, sorprendentemente sospeso tra prosa e poesia, tra mito e storia, tra passato e presente.
L’autore, Paolo Rumiz, fin dal proemio “Il mare era in principio”, incipit preannunciante il prima e il dopo della vicenda, intraprende una narrazione che spesso, anche per la struttura del testo, sembra seguire la via dei versi, oltre che quella del mare, dipingendo con grande abilità il ricordo di uno straordinario itinerario senza tempo.

“[…] Oh Petros, Ammiraglio delle anime
ogni tuo gesto era un inno di lode.
Quando prendevi tranquillo il timone, triremi di Pelasgi e di
Liburni ti passavano accanto e le Nereidi cantavano per te
dolci canzoni.
[…]”

Un racconto, un viaggio, un’avventura, lungo le cui rotte benedette e illuminate dalla luna s’incontra “una storia d’argento e zaffiro/ profumata di donna e gelsomino”. Un animato navigare attraverso il Mediterraneo e le sue meravigliose costellazioni di isole, dalle coste del Vicino Oriente a quelle della nostra penisola, a bordo di Moya, una vecchia massiccia imbarcazione dei mari del Nord dalla vela rossa e dai grandi occhi dipinti a prua, insieme a un equipaggio di quattro uomini “tutti di frontiera, quattro conquistatori dell’inutile”. Come novelli protagonisti di un canto di aedica memoria, una volta approdati in terra fenicia, loro accolgono sulla barca una misteriosa ragazza che in principio non proferisce parola, ma esprime chiaramente la volontà di andare verso ovest, verso una meta che porta infine il suo stesso nome: Evropa / Europa. La giovane è una figlia dell’Asia, una siriana che fugge dalla guerra, dal fango dei campi profughi del Libano, dalla miseria e dallo sfruttamento dei bordelli.
Ed ecco, dunque, che da queste belle e intense pagine riaffiora d’improvviso l’antico mito greco di Europa che tutti conosciamo. Esso, tuttavia, non resta fine a se stesso e finisce per attualizzarsi, intrecciandosi inevitabilmente all’oggi e alla disperata speranza delle sue storie di emigrazione transitanti per mare, ai naufragi dai morti insepolti e agli orrori bellici che stuprano terre di cui ai cosiddetti grandi del mondo, in verità, nulla importa; anche la profanazione delle acque del mare a opera di rifiuti e mostruose navi da crociera viene additata senz’appello.
Un dolore profondo segna questo viaggio, mentre note d’infinita amarezza s’insinuano a più riprese nella voce narrante che s’interroga sulle vergogne e le tragedie odierne gravitanti intorno al Mare nostrum e su che cosa sia ora diventata l’Europa, politicamente intesa, sul suo essersi chiusa al pari di una fortezza per paura dell’altro in nome della sicurezza e su che cosa resterà un domani dell’Occidente, al di là della immancabile “paccottiglia di plastica e immondizia”. Che cosa può attendere, per sé e i propri figli, chi con anima martoriata approda da altri lidi?

“Oh donna, cosa cerchi dove il Sole va a morire? […]
Non ti vorrà nessuno nel mio mondo.
Il ricco vuole schiavi, non persone.
[…]
Occidente, che sai pagar salato governi innominabili e camorre
purché gli ultimi restino nel fango!
Vecchio Occidente, e il tuo onore perduto
già a Kabul, a Srebrenica e sul mare!
E tu, alleanza stellata, zimbello che oggi hai preso il nome del disprezzo!
[… ]
E tu dove sei ora, Ventotene?
L’idea di Unione era nata su un’isola dalla speranza di altri esiliati.
Oggi l’idea agonizzava in un’isola che aveva ucciso invece la speranza.
[…]”

Impreziosito dalle suggestive illustrazioni di Cosimo Miorelli, “Canto per Europa” non è una lettura leggera, di facile e sbrigativo “consumo”, nel senso che potrebbe essere non compresa appieno – e conseguentemente non apprezzata – da tutti; si tratta di un libro che, già per scelta stilistica da parte dello scrittore triestino, corre forse il rischio di disorientare più di un lettore. Ma è pur vero che, ammantando la storia narrata (o cantata, se si preferisce) di mito antico, Rumiz con la sua scrittura di notevole fascino ci esorta a riflettere, a considerare seriamente a quale deriva ormai stiamo andando incontro da tempo. E a ricordarci che il vecchio continente è “desiderio bruciante e nostalgia”, così come “anche il sogno di chi non ce l’ha”.

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... a chi ha a cuore il Mediterraneo e le sue storie, di ieri e di oggi.
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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    09 Aprile, 2022
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Morsi di rabbia

Una Shanghai algida e tiepidamente abbozzata accoglie una giovane italiana in fuga da una recente perdita dolorosa e stigmatizzante.
Una giovane donna che porta sulle spalle il fardello del lutto di un fratello gemello, una scomparsa non solo da elaborare ma che nasconde al suo interno un'intricata voragine di problematiche irrisolte.
Un terremoto interiore che ha fatto crollare ogni sovrastruttura personale e familiare, mettendo a nudo rimorsi, rabbia, delusione e vuoti da colmare.

Le mancanze affettive diventeranno sinonimo di fame spasmodica e delirante che la giovane protagonista tenterà di saziare con un amore totalizzante, fatto in primis di fisicità estrema, oltre che di sottomissioni e idealizzazioni.

Viola Di Grado ci conduce all'interno di una storia a tinte fosche a tratti allucinatoria, di cui inizialmente se ne comprende il disegno sotteso in vista di un percorso liberatorio, ma al termine la parabola narrativa pare debole.
Non è semplice rappresentare la ricerca di evasione da una palude emotiva attraverso l'utilizzo del proprio corpo, come strumento per infliggersi castigo e per cogliere serenità; temi spinosi e complessi da trasferire al pubblico.

La prosa conferma il consueto stile asciutto e tagliente dell'autrice, fatto di sequenze rapide di immagini e stati d'animo, ricco di colori, suoni e odori.
Una prova impegnativa che nell'elaborazione del contenuto, o meglio nel suo bilanciamento, ha perso di vista il giusto mix degli elementi.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    07 Aprile, 2022
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SOLD OUT

Hanio, giovane in salute e benestante, alla fontanella della stazione ferroviaria tenta inutilmente il suicidio ingoiando sonniferi.
Opta quindi per una soluzione di morte anticonvenzionale: vendere la propria vita.
Pubblicato l’annuncio e affisso un cartello sulla porta di casa, l’impresa Vita in vendita riscuote un discreto successo. Col susseguirsi di una serie di bizzarri personaggi interessati all’acquisto per i loro spregevoli scopi, Hanio accumula un piccolo patrimonio, pervaso dalla piacevole indolenza di chi sta finalmente ottenendo il risultato tanto agognato. Ma ogni volta la morte si fa inspiegabilmente più impalpabile e il nostro protagonista si ritrova suo malgrado ad essere tutore della propria vita in vendita.

Stanco di morire, senza mai morire, finché da inseguitore dell’ultimo respiro non diviene l'inseguito.

Ritmo incalzante e trama psichedelica, profondamente nichilista, esso si basa sul concetto che la libertà assoluta si ottenga nel momento in cui ci si slega dalla necessità del vivere.
La strana sensazione ricorrente che ho avvertito durante la lettura è stata quella di avere di fronte non il racconto di un sogno, ma un romanzo scritto da un soggetto profondamente addormentato e immerso in una lunga parentesi onirica.

La produzione di Mishima è notoriamente suddivisa in un filone prestigioso, frutto di ricerca estetica e di contenuti articolati e di una produzione prettamente commerciale, di rapida pianificazione e immediatamente remunerativa. Chi conosce Mishima, già dalla sinossi avrà chiaro che questo bestseller postumo appartiene alla seconda categoria; quindi, non ci si aspetti la più pregevole narrativa del giapponese. Ciò chiarito, è comunque un libro fluido e sufficientemente criptico, in linea con la personalità del suo talentuoso e controverso autore.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    01 Aprile, 2022
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Il ritorno di Penelope Spada

«Veniva ai giardini sempre di sabato o di domenica. Arrivava nella zona in cui di solito mi alleno, si sedeva su una panchina, non troppo vicina e non troppo lontana dagli attrezzi, tirava fuori un libro e un taccuino dallo zainetto, si metteva a leggere e di tanto in tanto prendeva appunti. Anche se faceva freddo. Qualche volta alzava la testa e si guardava attorno, con un’espressione incuriosita, come se si fosse reso conto solo in quel momento di dove si trovava.»

Nomen omen. Un vero e proprio caso di nomen omen è quello che coinvolge Penelope Spada, protagonista nata dalla penna di Gianrico Carofiglio e arrivata al grande pubblico con “La disciplina di Penelope”. Un personaggio particolare, Penelope. Una donna forte, provata dalla vita, una donna tenace ma astuta che negli anni ha imparato a guardarsi le spalle. Lei che in un’altra vita è stata Pubblico Ministero, lei che per quel misterioso fatto proprio del passato ha perso tutto e tutti tanto da trascorrere il suo tempo in compagnia di caffè corretti con Jack Daniel’s dopo notti con uomini diversi. Così l’abbiamo conosciuta. Ed è ancora lei che ben sa come funziona il sistema giuridico italiano, per punizioni e sanzioni talvolta inflitte quando l’unico obiettivo è o dovrebbe essere la ricerca della verità.
In “Rancore” tutto ha inizio dalla morte di un barone universitario. Pare, per cause naturali. Ma se non fosse così? Questo è il sospetto della figlia, Martina Leonardi, che in quella morte naturale proprio non crede. Una morte occorsa mentre la figlia era all’estero, una morte che proprio non la convince e della quale sospetta la nuova moglie del padre. Costui, dopo il divorzio dalla madre, si era risposato con una donna molto più giovane, due anni meno della figlia, ma che il giorno della morte era partita per un centro benessere in Toscana. Eppure Martina non ha dubbi. Troppi gli interessi sottesi, economici e non, legati alla morte dell’uomo chirurgo ma anche professore universitario. Per una legislatura anche parlamentare, un personaggio noto a Milano. Ma Vittorio Leonardi non è un personaggio sconosciuto per Penelope, anzi…

«Una regola tanto ovvia quanto ripetutamente violata anche da investigatori esperti: bisogna lasciar parlare il testimone, senza interromperlo, fino a quando non ha riferito tutto con le sue parole. Alla base c’è una ragione tecnica che molto spesso viene dimenticata: se l’investigatore, quale che sia il tipo di investigazione (privata, giudiziaria, addirittura – o forse soprattutto – psicologica), comincia subito a pretendere chiarimenti, precisazioni, a porre domande che esulano dal contesto dei fatti, quello che si determina è un effetto dannoso anche se poco intuitivo. Il teste, invece di riportare la sua versione genuina di una vicenda, è “addestrato” a rammentare solo ciò che interessa all’investigatore. E così vengono disperse, spesso in modo irrimediabile, informazioni importanti. Succede perché, dopo aver raccontato una storia in un modo, poi tendiamo a ripeterla sempre uguale, più che a recuperare la memoria di ciò che è davvero accaduto. Perciò è molto meglio lasciar parlare l’altro senza interrompere la sua narrazione e la nostra concentrazione. Ci sarà tempo in seguito per chiedere delucidazioni e avanzare congetture. Il problema è che tutti noi troviamo difficile ascoltare in modo attivo, cioè senza intervenire ma lasciando percepire che stiamo ascoltando. Immagino dipenda dall’insicurezza del proprio ego. Ci interessano le risposte alle nostre domande, più che la versione dell’altro. Ecco perché, come dicevo, perfino gli investigatori esperti non sono immuni da un simile errore. Naturalmente, fra coloro che, conoscono questa regola e talvolta la violano ci sono anche io.»

Un passo che riporto con la forza del ricordo di uno studio essendo questo uno dei principi base che vengono insegnati durante l’esame di Procedura Penale. In “Rancore” Carofiglio onora in primis Dostoevskij riportando quella che può ritenersi una propria e personale interpretazione de “Delitto e castigo”. Una versione, in questo caso, in ambito universitario.
L’opera si sviluppa con rapidità, è avvalorata dalla penna di uno scrittore che ci ha abituato alla forma precisa ed elegante di uno stile narrativo privo di sbavature e che con questo secondo capitolo porta avanti una serie che regala ore piacevoli.
E per quanto sia possibile intuire chi sia il colpevole, l’intreccio regge tra colpi di scena e sequenze che si susseguono rapide. I personaggi dal loro canto sono ben caratterizzati e solidi nella loro costruzione. Il lettore non fatica a immedesimarsi anche se talvolta l’immagine di Penelope tende ad essere più maschile che femminile. Non può definirsi l’opera migliore dello scrittore ma regge bene e ben prosegue le avventure iniziate con “La disciplina di Penelope”.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    31 Marzo, 2022
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Le pene d'amore

Torna l’avvocato Vincenzo Malinconico nel libro di Diego De Silva, intitolato Sono felice, dove ho sbagliato?. Un libro dissacrante, che provoca, però, nel lettore più di una riflessione.
L’avvocato Malinconico, quasi obbligato dalla compagna Veronica, deve occuparsi di una causa che in realtà lui non vuole proprio. Lui, che è uno che:
“ti travolge l’esistenza”,
è costretto ad ascoltare i patimenti d’amore di certa Maria Egizia, innamorata senza scampo di un uomo sposato, che la usa, per poi tranquillamente tornare, pacificato, in seno alla propria famiglia. Maria però è stufa, e vuole intentargli causa, perché lei è:
“una donna agli arresti esistenziali”.
Le pene d’amore, dunque, hanno diritto ad un equo risarcimento in tribunale? In tema di diritto privato cosa asserisce la legge?
“La soggezione in cui versa la parte debole di una relazione sentimentale inibisca la piena espansione della personalità e della sua vita e questo, a mio giudizio., configura un vero e proprio reato. (…) Perché se in una qualsiasi relazione privata , quando si arreca un danno, si può essere condannati a un risarcimento o quantomeno alle spese (e sul piano esistenziale le spese non sono certo due spiccioli), e in una relazione sentimentale si possono provocare danni permanenti e passarla liscia?”
Le premesse per impelagarsi in una situazione senza sbocco ci sono tutte. Quale sarà l’escamotage dell’avvocato Malinconico per venirne a capo?
Un libro che, sorridendo, e con molta ironia, pone un quesito di difficile analisi. Può esserci giustizia retributiva in amore? In amore tutto si può, ma la sofferenza implicita in un rapporto sbagliato tra due persone, pur persistendo un sentimento reciproco, è rapportabile in un’aula di tribunale? Le riflessioni e le discussioni in proposito sono tante ed hanno un, unico, inevitabile sbocco; ma l’autore sa trasformarle in un narrato gustoso che intriga. Torna un personaggio all’apparenza insensibile e cinico, che tuttavia convince con saggezza e maturità. Un libro all’apparenza ironico, ma al cui interno ha un forte afflato profondo e di sicuro successo. Una lettura che unisce amanti di questioni giudiziarie di lana caprina, ad amanti di storie d’amore e di sentimento. Una bella e simpatica lettura, che tramite un narrato ironico intenzionale sottintende questioni, anche, di natura morale di pregnante interesse letterario.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    30 Marzo, 2022
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La guerra dei Van Allen

Vic Van Allen è un tranquillo abitante di Little Wesley, cittadina nei pressi di New York. Conduce una esistenza pacata e regolare. Potrebbe vivere di rendita, ma gestisce pure una piccola tipografia artigianale dedita alla pubblicazione di volumi di gran pregio editoriale e si dedica a una serie di hobbies stravaganti: ebanisteria, allevamento di lumache e cimici, per il puro piacere di osservarle, giardinaggio. Ha una bambina allegra e intelligente di nome Trixie e una moglie bella ed esuberante, Melinda. Ma è proprio Melinda a causargli gli unici crucci della sua tranquilla esistenza. Da quando è nata Trixie è divenuta inquieta e scontrosa, al punto che i due dormono in camere separate. La loro vita in comune consiste solo in un mondo di cocktail party, feste in piscina, barbecue e abuso di alcolici. Ma soprattutto Melinda si concede sin troppe avventure extraconiugali. Vic ha sempre finto di ignorare i flirt della moglie, mostrandosi tollerante e quasi apatico sulla infedeltà della donna, anche se gli amici lo esortano a reagire. Però non sopporta che gli amanti di lei siano tutti persone vacue, sciocche, noiose e intellettualmente inferiori. Soprattutto lo innervosisce il loro tentativo di ingraziarsi pure la sua benevolenza. Così quando l’ennesimo corteggiatore, crollato sul divano sbronzo marcio, lo ringrazia per essere così accondiscendente nei suoi confronti (perché “Chiunque non capisca quando esagera…”) Vic con un sorriso sinistro gli dice che quando effettivamente non ne può della gente che non gli piace lui… la ammazza. E a conferma di ciò porta a esempio il fatto che un ex amante di Melinda sia stato ucciso a New York da mano ignota. Vic, ovviamente, non c’entra nulla con l’omicidio, ma, sebbene i suoi amici siano convinti che si sia trattato solo di una battuta feroce, la voce si diffonde rapidamente e per qualche mese la notizia ha l’effetto sorprendente di sfoltire il numero di uomini che frequentano Melinda e di riportare la pace in famiglia.
In seguito, però, arrestato il vero colpevole, la situazione torna a peggiorare. Così Vic, una sera, preso da un raptus, passa davvero dalle malvagie vanterie ai fatti concreti con l’ultimo amante. Nonostante non si trovino le prove del crimine, Melinda si dice certa che a uccidere Charley sia stato proprio lui e, da quel momento, la situazione tra moglie e marito diverrà incandescente in un crescendo rossiniano.

Patricia Highsmith (l’autrice de “Il talento di Mr. Ripley”) è sempre stata un’autrice iconoclasta e cinicamente amorale; si conferma tale anche in questo suo libro del 1957. Il romanzo crudo e senza scrupoli etici ci fa scivolare, con la lentezza di una colata lavica e con la sua stessa letalità, da una situazione di partenza già di per sé intollerabile (un matrimonio intossicato dalle sfacciate infedeltà della donna e dalla perdita di interesse reciproco nei coniugi), sino ai brutali omicidi commessi da Vic, che ormai ha superato il confine ultimo di ogni umana tolleranza. La narrazione scivola pigra, descrivendoci in modo asettico e impersonale (forse un po’ troppo) il progressivo degrado dei rapporti tra i due sullo sfondo dell’apparente serenità della periferia americana, fatta di serate tra amici e notti passate a bere per noia.
Vic, nonostante i reati che va via via commettendo, continua a restare ai nostri occhi la vittima di questa incredibile situazione. Peraltro è un padre amorevole, un serio e coscienzioso professionista sul lavoro, rispettoso dei suoi pochi dipendenti, un amico leale. E cerca di essere pure un marito corretto e comprensivo. Tutto ciò mentre Melinda, quasi a volerne irridere e sfidarne la tolleranza, non fa che approfittare della sua apparente indifferenza, giungendo a umiliarlo alle feste e agli incontri sociali ove non si perita di esibire le conquiste di turno comportandosi in maniera sfacciatamente provocatoria o di invitare l’amante del momento in interminabili notti a casa propria passate a bere, a ballare in modo troppo intimo e ad aspettare che Vic se ne vada a letto per potersi concedere al compagno occasionale.
Quindi, senza rivelare il finale, peraltro intuibile, si deve riconoscere l’indubbia abilità dell’A. a far sì che tutte le simpatie vadano a Vic (nonostante sia il “cattivo di turno”) e che vi sia, cioè, una sentita partecipazione per la tragedia che incombe su di lui. La trama è giocata sui tormenti interiori e sulle lotte psichiche dell’uomo, da un lato intenzionato a tener disperatamente in vita un matrimonio “normale” solo di facciata, ma esacerbato nella sua essenza, dall’altro divorato dai rimorsi non già per i crimini commessi, ma per dover fingere e mentire con gli amici che lo sostengono e, sino all’ultimo, lo credono innocente, un sant’uomo. Perché Vic, in effetti, è intimamente buono e mite, perché l’omicida, in fondo, è un altro sé stesso, suscitato in lui dalle sfacciate sfide della moglie. Insomma, l’A. con la sua perversa abilità riesce a ribaltare il nostro senso morale, a mostrarci il mondo osservandolo “dall’altra parte dello specchio”.
Giunti alla parola fine, non può mancare uno straziante pensiero per le sorti della piccola Trixie, l’unica anima veramente pura della vicenda che, si può supporre, verrà travolta dalle conseguenze della tragedia che ha colpito la sua famiglia.
In conclusione è un ottimo romanzo, un po’ maligno e ambiguo, ma in grado di tenere col fiato sospeso sino alla fine e, magari, pure a commuovere il lettore.

________________________
Una nota conclusiva: da questo romanzo sono già stati tratti numerosi film. In particolare Michel Deville nel 1981 girò una pellicola con Isabelle Huppert e Jean-Louis Trintignant, abbastanza fedele alla storia originale. Di questi mesi, invece, è l’uscita di una versione americana con Ben Affleck con un finale totalmente opposto a quello voluto dalla Highsmith. Segno che i tempi sono mutati...

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    28 Marzo, 2022
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lagune medioevali

Corre l’anno 807, nelle acque che lambiscono le isole alla foce del Po viene ritrovato un sarcofago perfettamente sigillato.
Ben celato a occhi indiscreti tra spesse mura e uomini fidati, il contenuto della tomba è il corpo inviolato di una fanciulla, avvolto da un intenso profumo di fiori.

Strani accadimenti coinvolgono i presenti, difficile contenere gli spifferi da cui eludono voci che si diramano tra i canali profondi e silenziosi.
Miracolo o maledizione, le spoglie innescano uno scontro violento tra l’abate Smaragdo, che esorta alla prudenza verso quel corpo pagano ed il vescovo Vitale, che inneggia alla santità delle reliquie per richiamare fedeli e denaro.

Questo l’incipit del romanzo storico di Marcello Simoni, evento che apre le danze su personaggi secondari che si fanno poi protagonisti della vicenda tra misteri svelati, insidie, agguati e venti di guerra.
Il libro parte a rilento, per una buona metà si tratta di una narrazione logorroica che porta poca sostanza in tavola. Chi riuscisse a soprassedere alla noia sappia che arriverà una svolta a sancire il rianimarsi del libro, portando un discreto intreccio all’attenzione del lettore.

Buona la caratterizzazione medioevale degli ambienti, peccato non sia stata elaborata di più, rendendo i luoghi un elemento di forte impatto, possibili protagonisti capaci di sopperire alla catastrofica mancanza di spinta iniziale.
Penna scorrevole ma non indimenticabile, ci sono alcuni elementi apprezzabili, ma complessivamente un lungo romanzo evanescente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    27 Marzo, 2022
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Johnny il Creosoto

Lansdale è uno di quegli autori che, nel mezzo della sua prolifica produzione, alterna diversi lavori che rappresentano un piacevole passatempo e nulla più e altri che invece riescono a distinguersi e a lasciare un segno più profondo. Anche se non ai livelli di “Paradise Sky”- che ancora considero uno dei suoi libri più riusciti - “Moon Lake” è probabilmente uno di questi. Intendiamoci, stiamo comunque parlando di un thriller votato principalmente all’intrattenimento, ma lo metterei un gradino più in alto delle produzioni seriali che potrebbe produrre un Connelly, un Deaver, o lo stesso Lansdale nei suoi romanzi che hanno come protagonisti Hap e Leonard.
Le atmosfere che ci ritroviamo davanti in questo romanzo hanno tinte molto fosche, orrorifiche (un po’ alla King), così come inquietanti e disturbanti sono le vicende che ci ritroviamo a seguire, che un po’ portano alla mente quella prima stagione di True Detective che gli amanti del genere considerano un capolavoro irraggiungibile. In realtà, è possibile che Lansdale ne abbia tratto qualche spunto. Lo stile dell’autore è quello a cui ci ha sempre abituati: diretto, coinvolgente, reso anche evocativo dall’ambientazione che ha deciso di utilizzare e dunque arricchito di un elemento in più. Lansdale non sarà McCarthy o Roth, ma nella schiera di autori tra i quali viene collocato ha un qualcosa in più che lo pone su un gradino più alto.
Ma di cosa parla “Moon Lake”? Al centro della storia c’è proprio il lago, che molti anni prima ospitava la vecchia città di Long Lincoln, nella quale i genitori del protagonista si sono conosciuti. Un giorno, non senza preavviso ma comunque con disinteresse per le vite di chi abitava la città, le dighe vengono fatte saltare e la città viene sommersa così che New Long Lincoln possa sorgere. Tuttavia, i fantasmi di coloro che sono morti (non prendetemi in maniera letterale, non del tutto) non rimarranno sul fondo di quelle acque nere e sulla città nuova aleggeranno sempre i misteri che riguardano i responsabili di questo genocidio; un genocidio che verrà arricchito da una serie di morti che, durante gli anni, diventeranno una costante ma saranno sempre avvolte dal più profondo silenzio. La narrazione avrà inizio con la decisione del padre del protagonista di caricare le valigie in auto e andar via insieme a suo figlio, salvo poi mostrare le sue vere intenzioni: gettarsi in fondo al lago e porre fine a quella vita che, da quando sua moglie è andata via, si è svuotata di senso. Il piccolo Daniel verrà salvato da Ronnie, un’adolescente di colore, e starà a casa sua per il tempo necessario ad affezionarsi alla sua famiglia e innamorarsi della ragazza. Ma New Long Lincoln è un luogo pieno di pregiudizi razziali e dunque Daniel sarà costretto a trasferirsi da una zia con la quale non ha mai intrattenuto rapporti.
Il grosso della storia, tuttavia, si incentra sul ritorno di Daniel a New Long Lincoln, da adulto. I fantasmi del passato riemergeranno ma assumeranno una consistenza, e le ombre che si celano dietro i misteri della città dei volti, i quali ruotano intorno all’inquietante figura simbolica di Johnny il Creosoto.
Chi è amante del genere, secondo me lo gradirà.

“Siamo esattamente questo. Lasciate che vi dica cosa siete voi due, invece. Due esseri insignificanti. Incastrati in una trappola di morale, etica e luoghi comuni. Una specie di vetrina addobbata della vita. E lasciate che vi dica anche cos'è la vita. La vita non è altro che sopravvivenza. Darwin non ha scoperto che l'empatia ci ha aiutati a sopravvivere, ha scoperto che i più forti e i più determinati ci hanno permesso di sopravvivere.”

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    27 Marzo, 2022
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Un uomo e la sua cima

Agostino fin da bambino prova un'attrazione speciale per le montagne che circondano il suo paese e durante il periodo estivo in cui sale sugli alpeggi per guadagnarsi la pagnotta come aiuto del malgaro, cementa un legame che durerà tutta la vita con una cima in particolare, il Monte Grappa, per lui semplicemente “la Grapa”.
Un amore che diventa rispetto, generando un senso di appartenenza, perchè percorrere quei fianchi rocciosi e scoscesi significa libertà e felicità, quando gli occhi si perdono all'orizzonte e il silenzio tutto sovrasta.

“Il Moro” come tutti lo chiameranno è un uomo cresciuto in simbiosi con la sua montagna, piantando delle radici che neppure la famiglia riuscirà a scalzare.
Antesignano della figura della guida alpina per i primi appassionati di escursionismo ad alta quota sui primi del Novecento, quindi guardiano del primo rifugio sorto sul Grappa fino allo scoppiare della prima grande guerra che farà di questa vetta una triste e tragica protagonista, colma di sangue e morte.

Un racconto intenso e pervasivo che prende le mosse da una singola storia di vita per raccontare uno spaccato della grande Storia. Un modus efficace, denso di particolari documentati e palpitante sul piano emotivo.
Una grande prova di scrittura per Paolo Malaguti, una prosa elegante, colta e raffinata che utilizza con sapienza e ponderazione il gergo regionale.

Un romanzo storico di grande interesse che lega a doppio filo il lettore con un uomo che ha vissuto sia la pace estrema in cima alla sua vetta sia l'orrore della guerra; attraverso quegli stessi occhi le immagini dei tempi scorrono veloci e impietose, dapprima i colori e gli spazi infiniti, i sentieri bianchi di ghiaia in estate e di neve in inverno, poi la carneficina, il rosso del sangue che tutto tinge, le trincee che bucano la pancia della montagna, il fragore degli spari, morte e orrore, i cimiteri di fortuna.

Una penna quella di Malaguti che viene posta al servizio della Storia partendo dai ritratti dei singoli volti, degli italiani, di chi ha fatto e subito l'inesorabile avanzata dei tempi e degli eventi, ricalcando le orme del grande Sebastiano Vassalli nell'elaborato stilistico del contenuto.

“La montagna è donna finchè resta fertile, finchè i suoi pascoli danno erba nuova e nuovi fiori anno dopo anno. Lassù su quella che un tempo era stata la sua cima, casa sua, erba non ne sarebbe più cresciuta. Era diventato quello che avevano cercato e voluto dalla guerra in poi. Il monte, il simbolo del popolo vittorioso, il sarcofago dei guerrieri morti nel fuoco e nel ferro.”

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I romanzi di Sebastiano Vassalli
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    24 Marzo, 2022
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Stefano e Ana

«Lo avevano guardato salire le scale, dalle telecamere, e si chiedevano cosa potesse volere da loro un ragazzino. Il casco in mano, il giubbotto aperto su un maglioncino leggero. Informale, ma elegante, scattante, giovane. Aveva esitato un po’ sul pianerottolo, ma questo l’aveva visto solo Oscar Falcone, dallo spioncino.»

Alessandro Robecchi torna in libreria con un’altra avventura dedicata al suo fortunato personaggio Carlo Montessori. Il romanzo che si viene presentando mostra ancora una volta la grande maestria del narratore ed è uno scritto che si presta a una lettura volutamente lenta per godere degli aspetti più intrinseci e al contempo propri di uno scritto che si lascia semplicemente gustare.
“Una annosa questione d’amore”, come direbbe Montessori, è oggetto del narrare. Infatti a essere protagonista è proprio un amore. Tra un ventenne ragazzo della Milano bene di nome Stefano ed una rumena di trentanove anni di bellissimo aspetto e dal nome Ana. Non c’è età che tenga o differenza che esista, i due si amano e tra loro le differenze possibili vengono meno. Che si tratti di anni, ceto sociale, o anche un passato molto da “dark lady” e molto poco da Milano bene. Tuttavia, di punto in bianco, Ana scompare. Di lei Stefano perde ogni traccia. Per ritrovarla decide di rivolgersi alla “Sistemi integrati” che per un effetto catena tirerà in ballo lo stesso Montessori. Man mano che l’opera proseguirà sarà però sempre più evidente come le sorti possano effettivamente cambiare e questo perché forse non esiste speranza alcuna per Stefano e la quarantenne.
Non mancano a colorare queste pagine anche Oscar Falcone e la Cirrielli che arriveranno a far squadra con Ghezzi e Carella che saranno incaricati di condurre una indagine parallela e avente ad oggetto usura, narcotraffico, finanza “malata”, boss delle ombre del vivere quotidiano e al contempo tutto quello che riguarda la faccia oscura della Milano che non è solo luci e abbagli.
Da qui l’ennesima bravura di Robecchi che propone sì un noir in suo perfetto stile ma che riesce anche a far convivere il giallo con la realtà del nostro quotidiano ma anche con le emozioni e le sfaccettature che caratterizzano ogni personaggio.
E potrà mai mancare l’audience, il dramma sfruttato e veicolato? No, certamente no. Ecco allora che entrano in gioco Bianca Ballesi e la presenza a “Crazy love” di Flora in quel che già in passato abbiamo conosciuto come “la grande fabbrica della merda”. Personaggi, ancora una volta, che tornano e che sono strumento perfetto per mostrare al mondo una realtà che non sempre è lucida e/o effetto di un vivere privo di secondi fini.
Il tutto è accompagnato da un ritmo che incalza, che si lascia godere e che porta anche il lettore a riflettere per mezzo di Carlo Montessori. Perché non solo le vicende ma anche le persone e i sentimenti avranno un ruolo determinante in questo scritto che ben mixa amore e mistero. Un titolo che sa essere struggente quanto incisivo nel suo essere un pugno nello stomaco.

«Niente. Solo schiuma. E l’annosa questione dell’amore.»

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Marzo, 2022
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Eden perduto

Se siete rimasti affascinati dalla splendida scrittura di Abdulrazak Gurnah in “Sulla riva del mare”, difficilmente potrete non amarla ancora di più in “Paradiso”, secondo dei dieci romanzi in corso di ripubblicazione presso la casa editrice La nave di Teseo che, dalla fine dello scorso anno, si è attivata per far meglio conoscere nel nostro Paese le opere del Premio Nobel 2021 per la Letteratura.
Una prosa notevole, intrisa di poesia e della malia degna di antichi cantastorie, quella dello scrittore ultrasettantenne originario di Zanzibar ma residente ormai da una vita in Inghilterra, che anche in questo libro non manca di sorprendere e incantare il lettore, trascinandolo con sé all’interno di una vasta porzione dell’Africa orientale di più di un secolo fa, crocevia cosmopolita dove risuonano arabo e swahili e i confini sono ancora fluidi in attesa degli stravolgimenti imposti dalla successiva storia coloniale.

Pubblicato in lingua originale nel 1994 e finalista al britannico Booker Prize, “Paradiso” vede protagonista delle sue pagine il piccolo Yusuf che, all’età di dodici anni, si ritrova d’improvviso inconsapevole “rehani”, dato cioè in pegno a causa dei debiti del padre. A portarlo via dalla famiglia un giorno in apparenza come tanti è un ricco mercante della costa, zio Aziz, dall’ “odore strano e insolito, un misto di cuoio e profumo, caucciù e spezie, oltre a qualcosa di meno definibile che evocava […] l’idea del pericolo”. Ad attenderlo si profila una vita di lavoro al servizio del “seyyid” (signore) che lo conduce nella città dove ha casa ed emporio, presso cui lavora già un altro ragazzo più grande di lui, un altro “rehani”, che lo istruisce minuziosamente sul da farsi e con il quale la notte condivide la stuoia per terra, sotto la veranda davanti al negozio, mentre cani randagi e affamati insidiano il loro sonno. Ma più che agli affari l’attenzione del fanciullo è ben presto rivolta allo splendido giardino cinto da mura dell’abitazione del mercante, con i suoi aranci e melograni, canali, aiuole, suoni d’acqua, colori e profumi che lo rendono per davvero un giardino dell’anima, un piccolo paradiso sulla terra. All’improvviso, giunge però il tempo di distaccarsi pure da esso e partire alla volta dell’entroterra, al seguito delle colonne dei portatori delle lunghe spedizioni di Aziz, per imparare l’arte del commercio e “la differenza tra selvaggi e uomini civilizzati”.

Un meraviglioso romanzo di formazione in piena regola, ma anche di avventura e molto altro, capace di coinvolgere ed emozionare oltre ogni prevedibile aspettativa attraverso una sublime narrazione densa di scenari, fatti, personaggi. “Paradiso”, prova di altissimo livello di Abdulrazak Gurnah, supera – a mio parere – “Sulla riva del mare”, già di per sé notevole, e permette di comprendere ancora meglio perché la scelta dell’Accademia di Svezia lo scorso autunno sia caduta proprio su questo scrittore africano forse rimasto, a livello internazionale, troppo a lungo e immeritatamente nell’ombra. Anche queste pagine, come quelle dell’altro volume, non mancano di toccare, e non certo in modo superficiale, il tema del colonialismo, uno dei cardini della scrittura di Gurnah: alla vigilia della Grande guerra, i bianchi incombono minacciosi anche su quella parte del continente nero, anzi sono già lì, a partire dai poco amati tedeschi ritenuti senza scrupoli. Sono comunque gli europei nel loro insieme a fare una pessima figura (“Le cose che non si sentono sul loro conto!”); diversi passi del libro si soffermano sulle voci e l’immagine che di loro circola tra mercanti e gente del posto e così la vergogna di ciò che è stato affiora senza remore come giusta condanna da non tacere. “Europei e indiani si prenderanno tutto” fa sentenziare profeticamente a zio Aziz l’autore, sottolineando con amarezza il brulicare avido e famelico che corrode la zona.

Ed eccola lì, dunque, l’Africa, l’altra grande, immancabile protagonista del romanzo. Bellissima e innocente al pari di Yusuf, immenso giardino paradisiaco ricco di meraviglie, come quello della casa del mercante, ormai prossima a divenire per sempre un Eden perduto per le proprie genti e a precipitare in un’interminabile stagione d’inferno da cui sembrano fuggire con orrore persino i jinn (gli spiriti della tradizione islamica) e le antiche favole.
Una pubblicazione di indiscusso pregio, per la quale un plauso riconoscente va all’editore che ha riproposto in Italia tale gioiello. Una storia da leggere e amare. Un romanziere tutto da scoprire!

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...a chiunque ami l'Africa e voglia scoprirne i suoi mondi.
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Romanzi autobiografici
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Marzo, 2022
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Il riscatto letterario del supermercato

Ultimo lavoro della scrittrice francese, un libro particolare, diverso da quelli scritti finora. E non meno interessante.
Non si tratta di narrativa, bensì, come dice la Ernaux, di una sorta di

“diario in cui fissare le impressioni lasciate dalle cose, dalle persone, dalle atmosfere”.

Impressioni alla guida del carrello, dunque.
La scrittrice parte dai ricordi e dalle impressioni provate nel fare la spesa nel primo supermercato aperto in Slovacchia, dopo la disgregazione del regime comunista: agli esordi del consumismo, dunque,nei paesi ex-sovietici.
Le persone erano disorientate di fronte agli scaffali, non avevano familiarità col self service, in loro si leggeva imbarazzo, titubanza nel toccare i vari prodotti esposti, esperienza che invece negli altri Stati occidentali era già abitudine.
La scrittrice effettivamente ha tenuto un taccuino in cui segnare, in maniera sistematica a partire dal 2012, le atmosfere, le impressioni, gli incontri degni di nota vissuti nella quotidianità della “corvèe” della spesa.

“I supermercati (…) suscitano pensieri, fissano in ricordi sentimenti ed emozioni. Quante storie di vita si potrebbero scrivere anche solo attraversando da una parte all’altra uno dei centri commerciali che frequentiamo.
(…) Chi fa politica, chi scrive sui giornali, gli “esperti”: chiunque non abbia mai messo piede in un ipermercato ignora la realtà sociale della Francia di oggi”.

Il supermercato o l’ipermercato -la Ernaux cita anche grandi nomi di catene commerciali francesi, “moschettieri della distribuzione”- è un microcosmo degno di studi e di attenzione: dai consumi al comportamento di fronte agli scaffali e alle casse.
Dalla categoria di persone che frequentano il supermercato da una fascia oraria all’altra si possono fare considerazioni e dedurre che “l’orario della spesa è fattore di segregazione”, perché nei momenti morti della giornata o della serata si presentano quelle categorie di persone, soprattutto donne velate accompagnate da un uomo, che evitano gli sguardi altrui.

“Ci sono persone, popolazioni, che non si incontreranno mai” : è la significativa considerazione della scrittrice.

La realtà del supermercato ci espone agli sguardi altrui in un momento fatidico e cruciale: quello della cassa. Presentarsi davanti al nastro è esporre i propri desideri, la propria identità, la propria intimità, il proprio status anagrafico agli occhi altrui. Si diventa più timidi e impacciati talvolta.
Atmosfera di consumi, trionfo di desideri non solo di adulti, ma anche di bambini, spesso iperviziati. Persone che diventano subito loquaci ed attaccano bottone con la Ernaux riconoscendola, qualcun altro invece, che, di corsa, si affretta a riempire il carrello senza guardare in faccia nessuno.
L’assenza di una guida al reparto libreria, amara considerazione della scrittrice, - come darle torto!- insieme alla presenza preponderante di bestseller e non di libri di qualità letteraria, chiude il discorso che si era aperto con la virilizzazione del reparto di telefonia e di tecnologia.

“A me serve una chiavetta USB. Sono perfettamente consapevole del fatto che chiedere al commesso di scomodarsi per spiegarmi quanti giga devo scegliere dimostra un’ignoranza madornale, confermata infatti dal sorrisino che mi riserva. E’ un reparto fortemente virile. Ed è anche quello che ha più commessi, spesso inoperosi. In libreria non ce n’è nemmeno uno.”

E sulla domanda perché mai la realtà del supermercato è stata per anni snobbata dai grandi romanzi francesi, la nostra scrittrice fornisce due intelligenti ed acute risposte, che lascio a voi il piacere di scoprire da soli.

La realtà del supermercato presenta un aspetto positivo incontrovertibile: l’inclusività.
Recarsi al centro commerciale, dice la Ernaux, è come recarsi ed immergersi in uno spettacolo di luci, di abbondanza, dove ci si può sentire spesso disorientati, ma “mai degradati”, perché si è parte della festa senza distinzioni.

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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    09 Marzo, 2022
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Radici

Eleanor perde entrambi i genitori a 16 anni per un incidente stradale, va a vivere in casa dell’amica Patty. La madre di Patty è accogliente con lei, ma il fratello di Patty inizia un rapporto fuori luogo che Eleanor in seguito vedrà come una violenza anche se lì per lì non fa nessuna resistenza alle sue avances. In seguito a questa squallida relazione è costretta ad abortire. Dopo questo brutto periodo della sua vita riesce a guadagnare dei soldi grazie alla sua abilità nel disegnare fumetti che descrivono una ragazzina a cui muoiono i genitori (come a lei) ma che incontra solo persone buone. Guadagna bene, si compra la fattoria dei suoi sogni in un posto incantevole, incontra l’uomo perfetto e cerca di formare con lui una famiglia piena di calore e gioia, come non è mai stata la sua, dato che i genitori di lei erano alcolisti e anaffettivi. Il libro per metà descrive questa bella famiglia, gravidanze e figli. Al suo interno c'è però una strana divisione dei ruoli, nel senso che lei si sobbarca interamente la cura della casa e dei figli, orto, cucina di piatti sani e sostanziosi, educazione, giochi, favole, e anche il lavoro e i problemi finanziari. Lui non vuole sentire parlare di soldi né di doveri, per cui la splendida relazione risulta abbastanza squilibrata fin dall’inizio. In ogni caso lui è un uomo amorevole e gentile, divertente e fedele, finché a un certo punto, gli viene chiesto per una volta di guardare il figlio, si addormenta e succede l’imprevisto. A questo punto Cam si dà da fare per la famiglia ma comprensibilmente il rapporto tra i coniugi si è rovinato. Da qui in avanti la trama prende una piega coinvolgente per il lettore, ma di pancia. Nel senso che tutte le difficoltà di coppia non vengono analizzate. Le strade dei coniugi si separano ma non trovo logico che lei se ne vada di casa senza dare una spiegazione ai figli e soprattutto accettando il fatto che non ne dia lui. Il romanzo costruisce a questo punto due personaggi in cui lui diventa uno stronzo terribile e lei la vittima. Ma questa semplificazione impoverisce tutto. Non si scava nelle relazioni, c’è una storia che porta a individuare vittima e colpevole, a simpatizzare con lei e ad avercela con lui. Pure i figli infieriscono contro la madre consolidando il suo ruolo di vittima innocente e si allontanano e inspiegabilmente lei tace difendendo le ragioni del marito finché la vita non “le rende giustizia”. C’è troppa falsità nel romanzo. Troppo vittimismo. I rapporti sono tutti poco chiari. Anche quelli con gli amici. Tutte le relazioni non sono analizzate. Avrei preferito un percorso più introspettivo e meno semplice.
L'albero del titolo fa riferimento all'albero genealogico, che è un fumetto scritto da Eleanor, ma anche al frassino di casa che probabilmente vorrebbe richiamare la quercia del Do sconosciuto di Steinbeck il cui abbattimento ha implicazioni simboliche.

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Romanzi storici
 
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    06 Marzo, 2022
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Solo nei libri troveremo la nostra salvezza!

Zeno Ninis è un ottantaseienne di Lakeport, un paesino perso nelle tundre gelate dell’Idaho. La vita non è stata generosa con lui: orfano di madre sin da piccolissimo, perse il padre, ucciso a Guadalcanal, quando aveva solo nove anni. Appena maggiorenne rimase prigioniero in Nord Corea per lunghissimi mesi. Poi la vita gli ha concesso poche gioie; solo la lettura dei classici greci lo ha salvato. Ora il suo sogno, l’unico che gli è rimasto e che davvero conti per lui, al termine della sua lunga vita, sarebbe mettere in scena una rappresentazione teatrale con i bimbi del paese: una commedia ispirata al romanzo “Nubicuculìa” di Antonio Diogene; un testo ampiamente frammentario in greco antico, ritrovato nel 2019 in una biblioteca di Urbino e da lui faticosamente tradotto. Qui si narra di una città meravigliosa tra le nubi e delle incredibili avventure che il pastore Ètone affrontò per raggiungerla, in forma di cornacchia.
Seymour vive nello stesso paesino. Da sempre è afflitto da una iperacusia, da una generale ipersensibilità e, forse, da una qualche forma di autismo. Quando la speculazione edilizia farà abbattere la foresta sul retro della casetta in cui vive, dove lui trovava serenità anche per la presenza di un grande gufo grigio che lui chiamava Amicovero, si trasformerà in una versione sociopatica di Greta Thunberg. Maturerà la decisione di un gesto estremo di ecoterrorismo.
Anna è un’orfanella tredicenne del XV secolo. Vive a Costantinopoli poco prima che la città sia travolta dalle armate del sultano Maometto II. Anche lei, in un mondo che la condanna a essere solo una ricamatrice senza istruzione, ha trovato gioia nella lettura di Omero. Durante l’assedio sarà un piccolo vecchio codice muffito, contenente lo strano, favoloso romanzo di Antonio Diogene a tenere su il morale suo e della sorella maggiore, Maria, ormai morente.
Lì vicino, ma dalla parte integrata nell’impero mussulmano, c’è Omeir, suo coetaneo; nato con un labbro leporino che gli deforma il volto, è dotato di una sensibilità particolare e, anche lui, ama i miti.
Infine c’è Konstance. Ha quattordici anni. È nata nei primi anni del XXII secolo su Argos, una astronave generazionale, diretta in un viaggio di oltre 500 anni verso il pianeta Beta Oph2 ove suoi occupanti (per la maggior parte nati sulla nave) sperano di trovare una speranza di futuro per i loro eredi, giacché la Terra è divenuta ormai inabitabile. Anche Konstance ama leggere; anche lei, dopo che una catastrofe sembra abbia distrutto ogni residua speranza a bordo, cercherà rifugio nel mito di Nubicuculìa, la città tra le nubi e, faticosamente, cercherà di ricostruirne il testo, ormai perduto.

Konstance, Zeno, Anna, Seymour, Omeir. Non possono esistere personaggi più diversi tra loro. Tutti vivono le loro vite, spesso dolenti, non di rado tragiche, in luoghi lontanissimi, nel tempo e nello spazio, gli uni dagli altri. Hanno culture diverse e diversa mentalità. Tuttavia sono legati inscindibilmente da un unico destino, da un unico filo conduttore, che li farà protagonisti di una storia in bilico tra la realtà storica, la favola immaginifica, la parabola evocativa e pedagogica, il romanzo di fantascienza e il sogno a occhi aperti. Tutta la costruzione è tenuta assieme dall’amore per i miti, per i libri e per la lettura in generale.
Le tre storie, i tre filoni narrativi che si intrecciano e accavallano tra loro trovano la loro unitarietà nella conclusione, una sorta di “agnitio” sorprendente e contemporaneamente malinconica pur nella sua catarsi con intenti consolatori. Tutte le vicende sono intrinsecamente meste, resoconti di amare e definitive sconfitte, addolcite unicamente dalle immagini che la fantasia dona ai protagonisti e da una nebulosa promessa finale di una vita se non proprio felice, quantomeno quieta e appagata dal poco che essa concede.
L’ipotetico romanzo del II secolo d.C. di Antonio Diogene (romanzo inventato, ma autore realmente esistito), oltre che elemento unificante è anche sintesi morale di tutte le tre vicende. Anche per tale motivo, l'antico codice, che magicamente sembra avere il potere di donare serenità e speranza a chi lo legge, è, esso stesso un’avventura esaltante, ma nell’essenza triste e malinconica con il suo ammonimento conclusivo. La città di Nubicuculìa (nome, rubato alla commedia di Aristofane “Gli uccelli”) è l’emblema di tutti gli ideali umani, apparentemente splendidi e appaganti e, per ciò, strenuamente bramati; ma, puntualmente, una volta raggiunti, si rivelano solo fonte di insoddisfazione, delusione e ulteriori, diverse brame.
Il vero messaggio, forte e potente, che ci viene dal libro e ne è la vera sostanza è un altro: solo quando siamo immersi nella lettura possiamo ritenerci liberi dalla realtà quotidiana con tutti i suoi orrori, le sue crudeltà, le sue delusioni, perché i libri sono “una macchina per catturare l’attenzione, per schivare la trappola”, come, a un certo punto, dirà Zeno. E, foss’anche per questo solo insegnamento, il contenuto del romanzo varrebbe non 5 ma sei, sette stelline.
In conclusione un ottimo libro, per certi versi commovente per altri consolatorio, pur nella sua mestizia di fondo. Non tutti i tre filoni sono ugualmente meritevoli di lode. Buona la ricostruzione della Costantinopoli del XV secolo; la vicenda contemporanea è forse un po’ iperbolica in certi passaggi, ma ben costruita. La storia fantascientifica è forse la più appassionante, perché imprevedibile, ma anche quella che più soffre dei numerosi prestiti dalla letteratura e cinematografia di genere (penso, in particolare, a 2001, Capricorn One e, da ultimo, Passengers). Confesso di aver provato un po’ di fastidio quando il comportamento di Sybil (il computer onnisciente dell’Argos) assume atteggiamenti che assomigliano troppo a quelli di HAL-9000, quasi a rasentare il plagio. Complessivamente, comunque, le vicende si integrano e completano e assieme regalano pure quella piccola dose di suspense che rende più appassionante la lettura.
Non ho apprezzato moltissimo lo stile con cui è stata impostata la narrazione: tutto il racconto è giocato su proposizioni all’indicativo presente. Comprensibili le motivazioni: rendere le azioni tutte come presenti, indipendentemente dall’epoca (passata, presente, futura) in cui si sarebbero svolte. Tuttavia, in tal modo si perde la profondità temporale; tutto appare bidimensionale, come una serie di diapositive, piatte, senza prospettiva. Proprio per questa ragione all’inizio ho fatto un po’ fatica a procedere nella lettura, poi, però, attratto dalle vicende, non ci ho più badato.
Probabilmente, a una analisi pignola, la trama non sempre rispetta una coerenza interna logica, temporale e narrativa, però si tratta sicuramente di un libro valido e da leggere con piacere.

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    01 Marzo, 2022
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Sopravvivere e rinascere

E' la notte del 28 dicembre 1908 quando all'alba le viscere della terra esplodono inghiottendo migliaia di persone tra Messina e Reggio Calabria.
Solo polvere, morti, buio e terrore.
La vita si è fermata e spezzata in un prima e un dopo per i pochi sopravvissuti,
Un esercito di esseri annichiliti, disperati e sconfitti dalla violenza della natura si aggirano disperati, allampanati e famelici tra macerie fumanti alla ricerca dei propri cari prima, alla ricerca di un oggetto, di un pezzo di pane raffermo da mettere sotto i denti o di una pozza di acqua melmosa per abbeverarsi dopo.

All'interno di un quadro dalle tinte fosche e surreali, l'autrice ritrae due volti, quello di un orfano e quello di una giovanissima donna, seguendo il loro “prima” familiare e il loro “dopo” di caduta, svilimento e infine di perseveranza e rinascita.
Un romanzo breve eppure intenso per i contenuti, per le immagini pregne di realismo, per lo spessore emotivo ed il ritratto psicologico di quanto rappresentato.

Una narrazione che alterna un capitolo alla storia di Nicolino ed uno alla storia di Barbara; emblemi della tragedia colossale che ha sconvolto lo stretto, simboli di una sofferenza subita per mano di un destino imperatore.
Il piccolo Nicola è simbolo del mondo dell'infanzia, di quell''esercito di orfani che nasce all'alba del giorno successivo alla scossa, quando migliaia di madri e padri non si risvegliano.
Cosa fare, dove andare? Anime perse che vagano giorni e giorni cercando nella polvere e rischiando di incappare nelle trappole di adulti aguzzini, perchè le tragedie non scaldano il cuore, ma sembrano scatenare bragia e violenza all'essere umano.
La bella Barbara, un fiore che stava per sbocciare prima del terremoto, poi è calata una notte densa che ha portato abbruttimento e lacerazione, spezzando i petali colorati sostituendoli con le spine.

Nonostante il tema affrontato e la gravità delle immagini, il taglio narrativo impresso da Nadia Terranova è di resilienza, di forza e di speranza.
Il lirismo della penna è un valore aggiunto che carica di pathos ogni rigo, permeando di balsamo gli aspetti più brucianti e donando una carezza di vicinanza e comprensione a tutti i protagonisti.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    26 Febbraio, 2022
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Voci da isole d’Africa

“[…] L’uomo da cui ebbi l’oud-al-qamari era un mercante persiano del Bahrain che era venuto nella nostra regione con i musim, i venti monsonici, lui e centinaia di altri mercanti dall’Arabia, dal Golfo, dall’India e dal Sind, e dal Corno d’Africa. Lo facevano ogni anno da almeno mille anni. […] Essi portavano con sé i loro beni e il loro Dio e il loro modo di vedere il mondo, i loro racconti e le loro canzoni e le loro preghiere […]”.

È una sorta di fine e antica poesia quella di cui appare intrisa gran parte della narrazione racchiusa tra le pagine del romanzo “Sulla riva del mare” dello scrittore africano naturalizzato britannico Abdulrazak Gurnah, ripubblicato in Italia sul finire dello scorso anno da La nave di Teseo.
Nativo del lontano arcipelago di Zanzibar, nell’Oceano Indiano di fronte alle coste della Tanzania, Gurnah, classe 1948, è pressoché fresco di Premio Nobel. È la quinta volta che, per la Letteratura, il prestigioso riconoscimento dell’Accademia di Svezia approda in terra d’Africa e soltanto la seconda che lo si assegna a un autore africano dalla pelle nera (il primo fu il nigeriano Wole Soyinka negli anni Ottanta); una rappresentanza indubbiamente ancora troppo esigua rispetto a quella di altri continenti, che si spera possa però divenire più consistente poiché da lungo tempo il mondo letterario africano è ricco di interessanti e straordinarie voci meritevoli d’attenzione.
Questo libro ne testimonia appieno la vitalità e il valore, consacrando il continente nero come scrigno di storie affascinanti che attendono solo di essere ascoltate al di là del Mediterraneo e degli oceani. Un romanzo dai toni delicati e i contenuti grevi, denso di vicende che si intrecciano inconsapevolmente tra loro sullo sfondo di una Storia troppo spesso traditrice, ingiusta, spietata. L’ultrasessantenne mercante di mobili, che fa sua un’altra identità per poter partire in cerca di asilo, non immagina di ritrovare all’estero un più giovane conterraneo, non certo sconosciuto, con il quale condividere la medesima condizione di rifugiato. La casualità dell’incontro permette il confronto e l’incastro dei tasselli di un puzzle infelice e drammatico, mentre a poco a poco emerge ed esplode tutta l’amarezza di chi vive la realtà dell’emigrazione e, nel contempo, tutto ciò che l’esilio, volontario o meno, comporta.

Gurnah ci conduce pertanto nella sua Zanzibar, da cui lui stesso in passato, al pari delle due voci narranti, si vide costretto ad andare via. La sua si rivela fin da subito una prosa fluida e pacata, ben capace di conquistare il lettore trasportandolo di colpo dalla riva del mare di una piccola città inglese a quella “di un caldo oceano verde” battuto dai venti monsonici, i musim, che portano da secoli uomini e merci. Ed ecco, dunque, che l’abile penna dell’autore consente di leggere tra le righe anche la storia profumata di spezie di quell’angolo d’Africa della costa orientale, dove elementi arabi e persiani si mescolarono con il sostrato originario locale dando vita a una cultura molto particolare, quella swahili, che evoca antichi e duraturi rapporti con l’Oman e rotte persino al di là della zona del Golfo; e, naturalmente, essa non tralascia di fare i conti col colonialismo che, se da un lato concedeva istruzione e a scuola esaltava la resistenza alla tirannide, dall’altro non esitava a incarcerare “gli autori dei pamphlet a favore dell’indipendenza”. A tal riguardo, riflessioni molto significative pesano come macigni sulla coscienza sporca dell’Occidente, la cui partenza nei decenni scorsi fece posto al dispotismo e alla corruzione dei governi postcoloniali.
Un gran bella pubblicazione che sussurra, dice e urla moltissimo a chi abbia cuore per ascoltare. Nell’ultima parte, forse, si accavallano troppe vicende secondarie che, a tratti, sembrano confondere e discostarsi da quella principale, rischiando di far perdere alla narrazione tutta la bellezza precedente, sebbene risultino anch’esse infine funzionali alla comprensione dello svolgimento dei fatti. Di pregio i colti riferimenti letterari, a partire da quello all’indimenticabile scrivano di Melville, assurto a simbolo di una umanità sconfitta, ma che ancora conserva dignità, coraggio e forza per esclamare, dinanzi al male dell’esistenza, “I would prefer not to”.

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...a chiunque ami l'Africa e voglia scoprirne i suoi mondi.
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    26 Febbraio, 2022
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Vero o non vero

«Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione piú completa della nostra identità. Talvolta ci accordiamo quantomeno il beneficio del dubbio rispetto ai nostri sabotaggi, conserviamo dentro di noi un piccolo spiraglio per ristabilire l’esattezza degli eventi, ma è molto più frequente il contrario: dimentichiamo la menzogna iniziale o il fatto stesso che si tratti di una menzogna.»

Avvicinarsi a un libro quale quello di Veronica Raimo significa in primo luogo accettare una sfida. Una sfida all’analisi e alla riflessione, una sfida volta a confondere e rivelare, una sfida al capire e non capire cosa sia vero e cosa no. A nostra difesa dobbiamo dire che la Raimo ci ha avvertiti, che la Raimo ha premesso che non c’era “Niente di vero” ma, eppure, quel mettersi a nudo, quel cercare risposte e desideri e quello scoprirsi in un non scoprirsi, sono costante di queste pagine intrise di ironia e sarcasmo ma caratterizzate anche da una narrazione non semplice perché tanto costruisce quanto distrugge, quanto disarticola e sfalda. Ma cosa vuol dire davvero mostrarsi? Cosa significa mettersi a nudo, cosa comporta davvero raccontare la nostra storia, la nostra immagine, il nostro volto spesso e sovente frastagliato e frammentato in un vortice di specchi infranti e a loro volta deformati?

«I miei rari tentativi di essere sincera con lei non sono mai presi sul serio, bensì guardati con un misto di sospetto e compassione”, ci dice subito la protagonista, raccontando il rapporto con la madre. E ancora: “Nella mia famiglia ognuno ha il proprio modo di sabotare la memoria per tornaconto personale. Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione più completa della nostra identità.»

Ed ecco allora che apprendiamo. Apprendiamo di una famiglia, di una narratrice, di una vita fatta di tante cose ma anche di tante “imposture” e “contraddizioni” di volti che collidono, di verità che si alternano a menzogne o che forse sono semplicemente tali. Perché alle volte quella finzione è necessaria. Impellente. Dovuta. Per vivere, per sopravvivere, per convivere con quei muri eretti proprio da chi più ami e chi più dovrebbe amarti. Ecco allora che quelle pareti non sono solo simboliche ma anche tangibili con mano. Perché erette dal padre, da quell’ansia di mania del controllo che è propria della madre, da un fratello che occupa una scena più vasta del dovuto, da una famiglia che la vorrebbe in un determinato modo e da una società che vorrebbe vederla più canonica e dovuta a quelli che sono usi e consuetudini per il volto femminile, tra questi l’essere madre, ad esempio.

«La maggior parte dei ricordi ci abbandona senza che nemmeno ce ne accorgiamo; per quanto riguarda i restanti, siamo noi a rifilarli di nascosto, a spacciarli in giro, a promuoverli con zelo, venditori porta a porta, imbonitori in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo.»

Ed ecco allora che con voce semplice, anche spietata, la Raimo si spoglia e ci confonde e ci porta al confronto. Al tempo stesso ci trascina in un vortice di effetto cambio-scambio, frammento e verità. Il tutto in un perfetto gioco di specchi dove a essere protagonisti è prima di tutto il vivere. Una scrittura che trattiene e che al tempo stesso allontana, non sempre semplice, talvolta quasi un esercizio di stile, ma nel complesso una perfetta padronanza del tema e anche, nel paradosso, del gioco linguistico.

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siti Opinione inserita da siti    26 Febbraio, 2022
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Come i miraggi tra le palpebre socchiuse

Ancora una volta, nella narrazione del belga, è una tranquilla esistenza a essere scossa, spetta questa volta al giovane medico condotto, Bergelon, un trentenne ammogliato e con due figli che vive all’apice della sua tranquillità borghese. Accantonati i vecchi fantasmi familiari, un padre di certo alcolizzato, il medico della modesta provincia settentrionale francese, mena la sua esistenza lungo i binari della quotidianità, consapevole che anche in quel suo piccolo mondo c'è chi vive agli alti piani e chi invece brulica nel sottosuolo. Egli è nel mezzo. Tentato da miraggi economici che poi nemmeno gli interessano più di tanto - è la moglie che governa l’economia domestica facendogli subire una gestione parsimoniosa e non giustificata -, accetta di portare i suoi clienti al ricco dottor Mandalin, proprietario di una lussuosa clinica, precipitando così nel ceto sociale più basso, quello popolare dei suoi clienti, che frequenta per via della sua professione, e al quale si rivolge perennemente tentato. Alcool e prostituzione, le sirene.
Jean Cosson, un suo giovane cliente, ve lo trascina dopo che la moglie e il figlio muoiono per una approssimativa gestione del parto della primipara nella prestigiosa e costosa clinica. Il giovane infatti, inconsolabile, sviluppa un’ossessione nei confronti di Bergelon e lo minaccia a più riprese di morte in un crescendo di tensione che parrebbe naturale far sfocciare nell’omicidio, rappresentato come pressante e imminente per gran parte della narrazione.
Eppure Bergelon non muore: la terribile notte peccaminosa che avrebbe potuto consumarlo per il senso di colpa lo porta alla rinascita, si sente irrimediabilmente attratto dal suo persecutore, non fa nulla per evitarlo e anzi lo cerca, il segreto del persecutore che lui ha scoperto è in fondo l’essenza della sua natura più intima…

”Qual è il momento esatto in cui uno si accorge che un vestito è diventato troppo stretto?"

Bergelon, su consiglio della moglie, lascia infine il paesello per un anticipo delle vacanze estive, parte solo e come già il suo più famoso predecessore Popinga in “L’uomo che guardava passare i treni” cerca la sua libertà. La troverà?

Geniale come sempre.

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“L’uomo che guardava passare i treni”
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    24 Febbraio, 2022
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UN GIALLO ATIPICO

"Ormai è la sola cosa che li spaventi, che li commuova profondamente: la pura di un possibile tradimento dovuto alla propria biologia."
Siete ossessionati dalla vostra forma fisica, perennemente in dietra e in balia delle calorie? Allora questa lettura vi potrebbe mettere di buon umore, vi potrete identificare con i problemi dei protagonisti che animano questa storia ma il problema è proprio questo, non siamo di fronte ad un libro di self help, o a un manuale che aiuti a dimagrire. Questo libro dovrebbe essere un giallo, ma non lo è o almeno non è quello "classico" che ci potremmo aspettare, la trama non verte sul trovare il colpevole dei vari delitti ma è piuttosto una sorta di critica nei confronti della società e delle differenze di classe sociale.
"Le terme" è un libro che era stato pubblicato nel 1986 e che Feltrinelli ha fatto uscire in una nuova edizione a febbraio di quest'anno; fa parte di una serie con protagonista l'ispettore Pepe Carvalho, questa in particolare è la sua ottava indagine.
Non conoscevo questo autore, Carvalho ci viene presentato come una persona pigra, in soprappeso e introversa che si reca in un centro termale nel sud della Spagna per mettersi a dieta. Oltre a questo sappiamo poco di lui, tranne che brucia i libri e su questo stendiamo un velo pietoso perché per noi booklovers questo gesto è un vero sacrilegio.
I giorni alle terme passano molto lentamente ma vengono ravvivati da alcuni pettegolezzi che escono tra i vari ospiti del centro termale, fino a quando arriviamo a scoprire il primo cadavere e poi via via gli altri.
"Se il denaro non serve ad avere un'educazione, si domandavano, a cosa serve?"
Carvalho si limita a osservare le persone che lo circondano e che animano le giornate monotone del centro termale, oltre a criticare i metodi per rimanere in forma, la sua analisi verte anche sul cambiamento politico in atto in quegli anni. La società è erede della cosiddetta "transizione spagnola" che alla fine degli anni settanta, segna il passaggio da un sistema politico dittatoriale franchista a uno democratico.
Pertanto c'è tutto un discorso politico di destra e sinistra che a me, personalmente non è interessato e non ho neanche delle conoscenze approfondite in merito per poterne parlare adeguatamente, ma credo che questo argomento rispecchi il periodo in cui è stato scritto il libro.
Troviamo all'interno di questo centro termale un gruppo eterogeneo di persone di differenti classi sociali, con un unico obiettivo comune che è il perdere peso. Ci sono, per esempio, dei clienti molto ricchi che vogliano sia dimagrire che scappare per un po' dalla loro vita frenetica. Gli ospiti delle terme si affidano alle cure del centro che promette dei risultati miracolosi, alternando digiuno, attività fisica e bevande vegetali.
Tutta la storia viene narrata in maniera leggera e c'è una sorta di critica nei confronti della società, della vita, del mondo in quel periodo e le varie vittime che vengono trovate, fanno solo da contorno e non diventano protagoniste del libro.
Carvalho non indaga ma rimane a guardare, questo impedisce alla narrazione di prendere ritmo, tutto rimane un po' lento e senza forti scossoni, non c'è nessuna curiosità nello scoprire la verità e chi ha ucciso le varie vittime perché la parte gialla della storia è molto superficiale e marginale.
Il protagonista stesso ci dice che alla terme il tempo si ferma e che nulla sempre essere urgente, in teoria dovrebbe essere un luogo di benessere fisico e mentale non lo vedo come un posto ideale per ambientare un giallo.
Il finale del libro è aperto, rimangono molte domande senza una risposta e questa è sicuramente la parte che mi è piaciuta di meno, perché non amo la libera interpretazione e mi piacerebbe sempre avere una conclusione chiara.
Lo stile di scrittura è molto semplice, diretto e anche esplicito, viene utilizzato un linguaggio eccessivamente colloquiale, che alcune volte ho trovato veramente pesante da leggere. Il protagonista è un po' sopra le righe, di lui ho capito davvero poco e non l'ho trovato molto credibile e l'avrei preferito più investigatore e meno intrattenitore.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    22 Febbraio, 2022
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Milano sotterranea

De Michelis col suo romanzo d'esordio immagina che al di sotto della stazione centrale di Milano ci siano delle comunità sconosciute agli abitanti di sopra. Queste civiltà a sé stanti sono più di una e formano una stratificazione sempre più sconosciuta e misteriosa man mano che ci si avvicina al centro della terra. Protagonisti principali del romanzo sono Cardo: un ispettore della Polfer finito nella più grande stazione di Milano, come punizione per avere denunciato alcuni colleghi corrotti. Tormentato per la retrocessione dalla squadra omicidi alla ferroviaria e per l'omicidio del padre avvenuto in circostanze poco chiare e dopo che avevano roto i rapporti, Cardo fatica ad adattarsi alle regole e tende a prendere iniziative anche contro l'espresso divieto dei suoi superiori. Sua compagna di avventure è Laura una giovane volontaria del centro di assistenza della stazione, dotata di uno strano dono che le consente di sentire come se fossero suoi i sentimenti e le emozioni di chi le sta vicino.
Tra i due: giovani e belli scatta l'inevitabile storia d'amore, che però non riesce a renderli del tutto sinceri l'uno con l'altro e a svelare tutti i loro segreti. Per proprio conto e seguendo piste diverse i due scoprono il mondo sotterraneo sotto la stazione e si mettono in guai più grossi di loro.
Questo romanzo mi è piaciuto molto all'inizio, quando sembrava si trattasse di un giallo. Una serie di animali trovati straziati in diversi punti della stazione, sembra infatti preludere alla presenza di un serial killer. Poi le cose si complicano, man mano che si scoprono nuovi livelli di vita nel sottosuolo e ci si mettono di mezzo dapprima la magia, con riti, santoni e quant'altro. Infine, tanto per non farsi mancare nulla, arriva anche in complotto di largo respiro che coinvolge anche i massimi vertici della polizia meneghina. Rapimenti, fughe rocambolesche, sparatorie, si mischiano a interventi per così dire divini.
Per il mio gusto l'autore ha messo troppo in questo libro. L'idea mi è piaciuta molto: mi ha intrigato immaginare che una stazione di cui la maggior parte conosce solo un livello, invece ne abbia molti altri, sia salendo verso l'alto che scendendo verso il basso, e ancora altri ne abbia a seconda se viene vissuta di giorno o di notte. Poi però ci si devono porre dei limiti e decidere in che direzione andare, per come è strutturato questo libro, nonostante sia scritto molto bene, in modo chiaro e lineare diventa faticoso stare dietro a tutto. Questo bel mattone da oltre ottocento pagine avrebbe potuto essere diviso in due volumi, e non lo dico perché manchi di logica o perché in fin dei conti la storia risulti slegata o le vicende buttate lì tanto per occupare spazio. Semplicemente trovo che a volte aggiungere non sia necessariamente la strada migliore.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    19 Febbraio, 2022
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Escher

Un romanzo brevissimo, enigmatico e dalle tinte piuttosto fosche.
La frase “la casa si trasforma in un puzzle di Escher”, scritta nella trama, è bastata a convincermi a dare una possibilità a questo autore tedesco (altro punto a favore), Daniel Kehlmann, che pare sia principalmente famoso per il suo romanzo “La misura del mondo”. Nel corso della narrazione il lettore si rende conto che anche la prosa si trasforma in una sorta di puzzle, un insieme di pezzi che man mano che si procede si deformano e smettono di combaciare, così come accade nella vita del protagonista. C’è da dire che, in questo racconto, l’armonia non compare quasi mai nemmeno nella sua vita privata, che anzi paradossalmente troverà un momento di equilibrio solo quando il mondo intorno sarà deformati irrimediabilmente, non lasciando spazio ad alcuna riconciliazione.
In breve - altrimenti si finirebbe per raccontare l’intero romanzo - uno sceneggiatore decide di fare una vacanza in una casa in montagna per completare la sceneggiatura del seguito del suo film di maggiore successo - a mio avviso una mezza porcata - nella speranza di avere il tempo e la tranquillità per lavorarci seriamente. Peccato che sua moglie e sua figlia non siano granché d’accordo e già prima che la casa cominci a “dare i numeri” lo distolgano continuamente dal suo intento. A essere sincero, in più punti e in più idee si vedono le tracce e le influenze del caro Stephen King: il romanziere che si “isola” per completare il suo lavoro, il “terreno maledetto” che ci ricorda un po’ l’idea alla base del “Pet Sematary”… l’autore tedesco in questo caso sembra dovere molto all’americano.
Sebbene l’idea sia intrigante e la scelta di stile anche piuttosto azzeccata, vuoi per la brevità del racconto o per alcuni cliché, il lavoro di Kehlmann si conclude in fretta e non lascia chissà quale impressione. Purtroppo i racconti brevi devono essere particolarmente incisivi, altrimenti ti lasciano indifferente. Probabilmente Kehlmann, se non l’ha già fatto, in questo senso dovrebbe lasciarsi guidare dall’esempio di un altro autore di lingua tedesca che in quest’arte eccelleva: il mio caro Friedrich Dürrenmatt.
Ma per ora… rimandato.

“È questo posto. Non è la casa. La casa in sé è innocua, semplicemente sorge dove sarebbe stato meglio non sorgesse. Suppongo che esistano molti luoghi come questo, ma probabilmente gli altri sono irraggiungibili, in fondo al mare o all'interno di grotte in cui nessuno ha ancora messo piede. O invece qui ne esiste soltanto uno, e il prossimo è distante anni luce nell'universo infinito. Solo a pensarci c'è da impazzire - un infinito reale, non immaginario, pieno di oggetti, esseri e galassie e ammassi di galassie e ammassi di ammassi di galassie e così via, senza fine in nessuna direzione. E qua e là punti dove la materia diventa rarefatta. Parole. Non rendono l'idea di com'è veramente.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    14 Febbraio, 2022
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pacatamente

Il volto celato da uno spesso velo nero, con eleganza si muove nel negozio raggiungendo il banco della gioielleria. Chiede alla commessa di esaminare alcuni preziosi, che scivolano poi fluidamente nella borsa della donna. La chiamano Orchidea Nera, ladra seriale e misteriosa. Si sarà macchiata anche di crimini peggiori?

Li trovano esanimi, nello chalet affittato per i loro incontri amorosi galeotti. La prima ipotesi è di omicidio-suicidio, mentre dai corpi esala un profumo nauseante di rose. Una giovane bellissima, il ventre arrotondato, si avvicina al cadavere dell’uomo, scossa dai singhiozzi gli bacia le labbra.

Il volumetto consta di due racconti ambientati nel dopoguerra, che sconsiglierei vivamente a chi è alla ricerca di un costrutto articolato.
Le azioni investigative sono infatti ridotte al minimo sindacale e la narrazione è priva di colpi di scena. Sorvolando in quota le promesse di eventi tendenti al soprannaturale di cui si ingozza la sinossi, il giallo è assolutamente basico e ogni avvenimento tanto palese quanto terreno.
La lettura, che scorre rapida e gradevole, potrebbe allietare il lettore amante di atmosfere giapponesi vintage, grazie anche alle piacevoli descrizioni ambientali. L’incedere pacato e rigoroso ed i drammi amorosi che si risolvono in maniera cruenta riportano inequivocabilmente alle tragedie del Giappone più classico.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    13 Febbraio, 2022
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Ancora psicologia e omicidi

Mariana, oriunda greca, ma da decenni trapiantata in Inghilterra, è un’abile terapeuta di gruppo a cui la vita ha riservato una serie interminabile di lutti: i genitori, la sorella maggiore e il cognato, l’adorato marito Sebastian, tutti morti in circostanze drammatiche. Le è rimasta solo la nipotina Zoe, che studia a Cambridge e che lei adora. Quando quest’ultima la chiama con voce affranta per chiederle di raggiungerla al più presto al college perché è avvenuto un fatto tragico, Mariana ripiomba nell’angoscia da cui cercava faticosamente di uscire dopo la perdita di Sebastian.
Giunta a Cambridge, al St Christopher’s College, scopre che l’amica più cara di Zoe, Tara, è stata brutalmente assassinata, sacrificata come in un rito pagano. La donna combatte tra due istinti, quello di fuga dall’ennesima tragedia e quello di protezione verso Zoe. Si sforzerà di lottare contro il primo: resterà a fianco della nipote e proverà pure ad indagare su chi potrebbe essere stato l’autore di quell’orribile omicidio, anche a dispetto della polizia, che la vuole tener lontana dalle indagini. Ma il brutale autore del delitto non si fermerà al primo crimine e Mariana sa, o crede di sapere, chi sia il colpevole, anche se non c'è alcuna prova a suo carico. Lei non solo teme possa farla franca, ma pure di andar a far parte dell’elenco delle vittime.

Alex Michaelides dopo il sorprendente romanzo d’esordio, “La paziente silenziosa”, ritorna a trattare il connubio tra psicanalisi e istinti criminali con il compito di stupirci ancora; impresa tutt’altro che agevole. Il lettore che ha assorbito lo sconvolgente colpo di scena finale del primo romanzo ormai dalla sua prosa non dico che pretenda, ma, quantomeno, si auspica qualcosa di altrettanto sbalorditivo. Ormai, però, proprio perché da lui ci si attende tutto e il contrario di tutto, riuscire ancora a meravigliare non è cosa da poco.
Il romanzo, parte lento e in modo non particolarmente accattivante. La protagonista, la giovane Mariana, non ci risulta troppo simpatica, almeno nelle prime pagine: abile terapeuta quando si tratta di sciogliere i nodi psicologici dei pazienti, appare troppo piegata sui propri traumi e conflitti personali, ancora irrisolti. Il suo comportamento ci appare confuso se non addirittura scombinato, anche le tecniche psicanalitiche che utilizza sembrano abbastanza convenzionali e non particolarmente efficaci. Si fatica pure ad ambientarsi tra le austere e onuste mura di Cambridge, abituali a Michaelides, in quanto sua alma mater, ma ignote al lettore che non viene adeguatamente preparato a familiarizzare coi luoghi e i suoi riti.
Insomma, come il cigno iconico che fa spesso la sua comparsa tra le pagine del libro, sembra che la storia fatichi a spiccare il volo. Anche la trama gialla parte lenta e indecisa, nonostante la brutalità dei delitti. Infatti, come la protagonista, si è chiusi fuori dai luoghi ove operano gli inquirenti: si osservano i fatti da una prospettiva defilata e non si riesce a divenire partecipi della tensione emotiva presente e che, invece, dovrebbe essere palpabile. Fortunatamente, man mano che si procede nella lettura, proprio come avviene nella tragedia greca che guida le mosse dell’omicida, il pathos cresce. Le minacce appaiono sempre più incombenti. La figura del prof. Edward Fosca, che Mariana, sin dalla premessa, ci indica come l’unico sospetto per i crimini, s’accresce di connotati sinistri e inquietanti. Il suo cerchio di allieve predilette, “Le Vergini”, entro il quale l’assassino attinge le sue vittime, si mostra di pagina in pagina nei lati più funesti e malsani di setta iniziatica con fini perversi. Insomma il lettore viene gradualmente catturato in un vortice di tensione a spire via via più strette.
Ho molto apprezzato la pennellata d’artista di importare, a tre quarti della storia, uno dei personaggi più significativi del precedente romanzo. La sua presenza è meramente accidentale e non influisce sull'evolversi dei fatti; un po’ come un lampo all’orizzonte, sul mare, non cambia il clima sulle nostre teste. Ma, personalmente, ammetto di aver fatto un salto sulla poltrona riconoscendone il nome; la sua semplice evocazione ha impresso una robusta accelerata alla narrazione.
Il finale, sicuramente a sorpresa, anche se non del tutto inaspettato, è decisamente shoccante e in buona parte soddisfa le nostre aspettative di sbalordimento. In realtà il libro sembra proprio costruito in funzione di quell'unico colpo di scena risolutivo che rialza retroattivamente tutto il contenuto del romanzo. Senza anticipare nulla, mi limito a osservare come la trama nel suo complesso sia un evidente omaggio a uno dei più famosi gialli di Agatha Christie (non dico quale, per non togliere la sorpresa, ma è lo stesso autore, maliziosamente, ad accennarvi in apertura).
Come nel precedente romanzo, anche in questo, Michaelides tocca i temi a lui più cari: oltre alla psicanalisi, che forse è sin troppo invasiva e non sempre convincente, c’è l’amore per la letteratura, soprattutto la tragedia greca classica che fa da filo conduttore dei delitti; e su di essa la storia giostra con abilità e pertinenza, traendone gli spunti più interessanti.
Insomma, probabilmente il libro è lievemente inferiore all’opera d’esordio, ma è sicuramente piacevole e meritevole di una lettura appassionante.
_______________
Un commento conclusivo: personalmente ho trovato abbastanza frustrante trovarmi davanti citazioni da Euripide, sudare anche solo per leggerle e riconoscere che “non go capio un’ostrega, ciò!” come avrebbe detto (eoni fa!) il mio professore di quarta ginnasio. Ma Mariana… Mariana, no, non può dichiararsi così sprovveduta. Lei ha vissuto sino a tutta l’adolescenza ad Atene, aveva un padre greco e, sicuramente, ha studiato in scuole greche anche la letteratura del suo Paese. Com’è possibile che ogni volta che si trova davanti a qualche verso di Euripide cada dalle nuvole e si debba far tradurre il testo da altri, magari una professoressa di letteratura inglese? Sino a metà degli anni ’70, la Grecia era in situazione di diglossia: convivevano sia il demotiki (moderno) che il katharévousa e quest’ultimo (lingua ufficiale dello Stato, usato in letteratura e parlato dalle persone colte) non differiva molto dalla lingua di Platone e Aristotele. Quindi…

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"La paziente silenziosa". Mai come in questo caso, conoscere il precedente libro aggiunge un quid in più al piacere della lettura di questo.
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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    13 Febbraio, 2022
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Toccante

“Anche lui, come tutti i testimoni di questa storia con cui ho parlato, sembrava raggiungere un punto della conversazione in cui i piani del presente e di quella notte si intrecciavano, risucchiandolo in una dimensione sospesa e in grado di modificare la sua percezione del qui e ora. Per lunghi minuti, Iaccarino pareva essersi dimenticato di trovarsi seduto con me in una macchina parcheggiata sotto un albero vicino al mare di Meta di Sorrento. Avevo l’impressione che fosse tornato a bordo della Concordia. Con i ricordi, ma anche emotivamente. Come se quella nave, ormai rimossa e demolita da tempo, fosse ancora alla deriva, uno spirito rimasto dentro di lui e nella coscienza collettiva dei suoi naufraghi.”

Aprite il libro di Pablo Trincia “Romanzo di un naufragio”, iniziate a leggere: non potrete staccarvi dalla storia, vi ritroverete lì, insieme ai naufraghi, insieme ai testimoni, conoscerete questa tragedia con una consapevolezza nuova.

Da venerdì 13 gennaio 2012 infatti chi non ha seguito la notizia del terribile – e incredibile- naufragio, chi non ha visto immagini, ascoltato testimonianze, chi non è stato prontamente informato dai media di tutto ciò che è accaduto alla Concordia?
Quindi, qualcuno potrebbe obiettare, cosa può offrirci di nuovo una ulteriore ricostruzione di questi avvenimenti? Invece, vi assicuro, si tratta di un libro veramente coinvolgente, da leggere.

L’autore affronta la ricostruzione dei fatti con serietà e documentato approfondimento ma con uno stile avvincente, che vi farà entrare fin da subito dentro a questa storia, narrandola con una rara empatia e sensibilità nei confronti dei protagonisti.

Eccoci così a bordo insieme a queste persone, ciascuna salita sulla nave insieme al proprio vissuto, ai propri affetti – fisicamente vicini o lontani che fossero- insieme alle proprie aspettative e con lo sguardo naturalmente rivolto al futuro, alla vita. Ed eccoci a rivivere l’impatto, i momenti peggiori, le storie di altruismo, di paura, di generosità, di salvezza e di morte.

Un libro quindi capace di prendervi per mano e portarvi dentro una drammatica storia vera, per conoscere, per approfondire, ma direi soprattutto per condividere questa dolorosa esperienza.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    13 Febbraio, 2022
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Madame la vedova

Pierre Lemaitre, nato a Parigi, ha insegnato per molti anni letteratura ed ora è scrittore e sceneggiatore. Con i suoi romanzi, tutti premiati da critica e pubblico, si è imposto come uno dei grandi nomi della narrativa francese contemporanea. Scritto nel 1985, Il serpente maiuscolo, è il suo primo noir, e nelle sue intenzioni, l’ultimo che pubblicherà e con il quale desidera dare l’addio al genere.
Chi è “il serpente maiuscolo”? E’ l’immagine:
“del crotalo, indicandolo come un pericoloso assassino, spiegando l’agghiacciante tendenza a tagliare la gente a metà, gravi turbe, infanzia difficile, una persona che non accetta la propria identità sessuale, che si autodistrugge per procura. Ha la testa piena di serpenti, tutti inviati dell’aldilà. (…) Ripensa al momento che attende placido che un altro serpente , maiuscolo anche lui, gli avvolga attorno al collo le sue spire fredde ed ineluttabili”.
Un serpente all’apparenza innocuo di nome Mathilde Perrin, vedova. Una donna che è stata:
“Una bella quarantenne abituata sin da bambina ad avere tutto, soprattutto il rispetto. Trucco sobrio, passo sicuro, l’aria un po’ di fetta che hanno le persone educate quando ti ascoltano pur avendo cose più importanti da fare.”
Ora è una donna un po’ in sovrappeso:
“E’ ingrossata , fa più fatica a camminare. Sembra che abbia perso dieci centimetri in altezza per guadagnarli in larghezza. Anche il viso ha ceduto, ha un po’ di doppio mento. Per contro, ha ancora uno sguardo meraviglioso, di una chiarezza e di una limpidezza inaudite.”
Chi potrebbe mai immaginarlo, ma Mathilde è uno spietato killer. Una che:
“Non ha mai sprecato una pallottola, solo lavori puliti e senza sbavature. Stasera è una eccezione. Un capriccio. Avrebbe potuto colpire più da lontano, fare meno danni e sparare un proiettile solo, certo.”
Ma oggi ha perso un po’ di smalto e commette errori grossolani. Uccide per uccidere, con violenza, non si ricorda i particolari, commette numerose imprudenze che mettono a rischio la sua immagine e la sua copertura. Che Fare? L’organizzazione decide di ucciderla, ma non sarà facile perché lei gioca al massacro. Riusciranno ad eliminarla? O lei è più forte di tutti?
Un libro spietato, a tratti violento e sanguinario. La narrazione ruota intorno a questa figura di killer in gonnella, insospettabile e tuttavia pericoloso. Un thriller adrenalinico, alla “Tarantino”, continuamente in movimento, fino alla risoluzione finale, con poco spazio per lo scavo introspettivo a favore di una continua violenza. Ovviamente tutto condotto in modo da maestro. Per gli amanti del thriller, con il fiato sospeso e il sangue che scorre a fiumi, violento ed impetuoso.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    10 Febbraio, 2022
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IL MARE FUORI

Stavolta la sua città, Napoli, qui non c’è.
Quella che è il personaggio principale, se non la protagonista assoluta di tutti i suoi libri, l’origine che vivifica e caratterizza tutto il suo narrare, qui non è manco citata.
Non c’è la città di cui ha scritto datandola appena prima dell’ultimo conflitto mondiale, con spettri appena sfumati situati negli angoli, percepiti in chiaro da chi ci riesce suo malgrado, e che illusioni o fantasmi non sono, ma semplici anime vaganti nei tempi plumbei del Ventennio.
Nemmeno c’è la metropoli contemporanea di cui ci ha raccontato sempre, e che a lui si confida, solare, caotica e chiassosa, viva e palpitante di umori, dalle mille contraddizioni ed ossimori viventi, dove coesistono gomito a gomito procaci signorine, distinte ed anonime signore avanti con gli anni con i capelli grigi, ed emeriti bastardi di nome e di fatto.
Napoli non appare neanche di straforo nell’“Equazione del cuore”, l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni. È giusto così: questa è e resta comunque una sua storia, un buon romanzo come lo sono stati tutti i suoi precedenti, personalmente lo trovo scritto ancora meglio, una penna più matura, forgiatasi sulle pagine precedenti; è sempre smaccato ed evidente lo stile suo proprio, semplice, gradevole, lineare, il discorsivo uguale a come comunemente ci si esprime nella vita reale; eppure, il suo linguaggio appare forbito ed elegante allo stesso tempo, un corsivo che si va perfezionando e tipizzando sempre di più, semplice e profondo, un intarsio di pregio.
Questa, perciò, non è una narrativa diversa, è la sua, un elaborato che lo rispecchia come autore e come persona, ripropone i suoi temi, il suo sentire, il suo animo, la poesia che cela nel cuore, è una storia compiuta come lo sono sempre tutte le sue storie, anche quelle seriali.
Un racconto redatto come un registro, la prima nota narrante l’esistenza di un uomo esperto di numeri ma ignavo, non ignaro, di note, talmente assorto, involuto sullo scorrere aritmetico dei suoi giorni, da farsi sfuggire inopinatamente che ambedue, scienza e musica, creano armonie, tra loro in sintonia.
I numeri scorrono in sequenza come in sequenza si susseguono le note sullo spartito: ambedue presentano ritmo e cadenza, suonano, scandiscono, descrivono, significano, emozionano.
Imprescindibili.
Questa, perciò, è la redazione di una vita, e di più vite: perché nessuno sta solo sul cuor della terra, sebbene trafitto dai caldi raggi del sole delle terre del sud, si resta sempre connessi, lo si voglia o meno, con altre vite, quelle che sono il frutto delle proprie scelte responsabili, è il legame di sangue che non si spezza mai, nemmeno a distanza, neppure giacenti su altri lidi avari di sole, terre fredde, umide e nebbiose. Legami che chiamano al soccorso, quando è tempesta, e non ci si può sottrarre.
Devi porti al timone, ritrovare la rotta e le secche, tenere il diario di bordo, il romanzo sciorina lettere su righe anziché numeri in quadretti, sembra un’equazione ma si legge come la più insigne delle relazioni, quella tra i nostri affetti, i nostri amori, ogni uomo ha cuore interconnesso ad altri cuori, malgrado provi a negarlo ed a privarsene, sono e siamo grandezze dipendenti le une dalle altre, per chiunque vivente sorge spontanea per natura un’equazione di vario grado, che può essere soddisfatta solo attribuendo precisi valori alle incognite che in esse compaiono; allora, e solo allora, si arriva alla relazione perfetta, la quadratura del cerchio.
Di tutto questo ci racconta qui Maurizio De Giovanni: ci parla di persone, di affetti, di famiglia, e stavolta la sua città, Napoli, qui non c’è.
Perché qui c’è molto di più : se può servire a consolare gli habitué sconsolati che richiedono il consueto menù, certamente qui c’è anche un mistero, e un poliziotto che nutre dubbi su come siano andate effettivamente le cose, un questurino “capatosta”, testardo se non cocciuto, come sa esserlo un meridionale, ed infatti è
“…nato a San Giorgio a Cremano, il paese natale di Massimo Troisi, pace all’anima sua.”
Ma sono coincidenze, semmai. Qui c’è molto di più: c’è il mare, sapete. C’è il mare fuori.
Il mare quello vero, quello che non bagna Napoli, come scriveva Annamaria Ortense, e bagna invece tanti luoghi, tutti i luoghi dove si aggira umanità, anche quelli distanti dal mare trecento chilometri, e che magari vantano però un grande fiume, il più grande che ci sia.
Ogni acqua corre al mare.
I fiumi, grandi o piccoli che siano, sempre nel mare sfociano.
Come noi: siamo tutti connessi e naviganti nell’oceano dell’esistenza.
Poi c’è un’isola, all’inizio della storia, quasi appena accennata, di sfuggita: anche qui manco a farla apposta, è l’attuale capitale della Cultura, sembra citata ad arte a significare che nessun uomo è un’isola. Quest’ultima come è noto è quanto scriveva John Donne, ripresa anche da Hemingway. Tutto il romanzo indica quindi una sola cosa: nessuno si salva da solo.
Il protagonista del romanzo è un ex professore di matematica a riposo; dopo la scomparsa della moglie, ed il felice e fortunato matrimonio dell’unica figlia, con relativo trasferimento della giovane in una prospera cittadina della provincia settentrionale, trascorre solitario la propria esistenza ritirandosi in volontaria reclusione su una piccola isola. Anche se la moglie lo aveva pur messo in guardia, quando era ancora in vita:
“…una figlia, a differenza della didattica, non si chiude con un diploma e arrivederci.”
Il professore non insegna più, si divide tra le sue passioni, la pesca in mare cui si applica con certosina diligenza ed aritmetica disciplina, e la matematica, naturalmente, che per il docente assume non tanto la consistenza di un metodo scientifico da apprendere, applicare al quotidiano e divulgare, ma una filosofia di vita che lo induce a tradurre ogni momento della vita in numeri, forme, figure geometriche che incanalano in modo logico e rigoroso tutti i fatti e gli eventi dell’ esistenza, la sua e quella degli altri. Anche perché considera finita la sua esistenza. Si sbaglia, e vedrà da solo come si sbaglia:
“…si può pensare solo una volta che la vita è finita. Una volta. Non due.”
Il professore è una brava persona, di indole buona e modi bruschi, solo che, in qualche modo, basta ora a sé stesso, e si incarta a crederlo: dopotutto, ha svolto linearmente e con rigoroso scrupolo tutti i suoi compiti, i suoi doveri istituzionali di marito, padre, professionista, docente, e seppure con minore assiduità, ha sbrigato con efficacia anche il suo ruolo di nonno nei confronti del suo unico nipotino. Senza nemmeno sforzarsi e rendersi conto che agli occhi del bambino egli è divenuto un emblema, un esempio se non un mito, un supereroe al centro dell’affettività del piccolo, un gigante, se non un Nettuno, dell’arte della pesca, che incanta e intriga il ragazzino, malgrado il burbero nonno neanche se ne dia per inteso. Agevolato in questo dal fatto che l’unica figliola, infatti, è convolata a nozze con il discendente ed erede unico e diretto di una impresa di grande spessore economico, un colosso nazionale e non solo presumibilmente del comparto agro alimentare, con sede in una piccola ma prospera cittadina della pianura padana:
“…una città di vecchi. Di vecchi e di ricchi…una ricchezza che fa male.”
La figlia Cristina è ora una donna ricca, certo, come il figlioletto, ma ambedue immensamente soli.
Il genero è uomo buono, marito innamorato, padre affettuoso; tuttavia, riveste responsabilità che sono temporalmente intense e possessive, vanno a discapito delle visite nel buon ritiro isolano al padre/nonno, ma senza che nemmeno costui ne abbia a male oppure provi a incrementare le sue visite al nord; i rapporti sono quindi sporadici e brevi, due sistemi che si sono compenetrati e poi distanziati, ognuno a sé stante.
Niente di più sbagliato, lo dimostra paradossalmente proprio un’equazione matematica, il teorema di Dirac: “…uno studente, un certo Paul Dirac, nome francese ma ragazzo inglese…”.
La matematica per il professore è il colmo della gioia, gli fornisce giustezza di sé, lo completa e lo definisce, costituisce motivo valido e ragione al trascorrere in solitudine i propri giorni, letteralmente lo relega in un’isola, esattamente come fosse al confino. Ma c’è il mare fuori, lo ha sotto gli occhi, e non lo vede. Ne calcola il moto ondoso, ma non lo sente. Pesca, ma è azione meccanica senz’anima.
L’esistenza è come il mare, prima o poi chiama: il mare esiste per navigarci, per pescare, per interagire con gli altri viventi, finanche per affrontarne le tempeste, ricercare porti e approdi sicuri, certamente non per fare da contorno ad un’isola. Dall’isola serve staccarsi, erigendo ponti, barche, passarelle.
Il Professore non è solo tale, è anche un Pescatore, nemmeno si accorge che sono figure in palese contraddizione: il matematico calcola ampiezza e profondità, il Pescatore il mare lo rispetta, e con esso le sue creature. Apparteniamo tutti al mare, da quello veniamo, a lui ritorniamo.
Non lo vede il professore che il suo stesso nome è un ossimoro, un uomo triste e razionale che ha nome Massimo de Gaudio. Massimo commette un errore madornale: confonde la matematica, e per lei la Fisica, per la conoscenza della Natura, uomo compreso.
In realtà, la Fisica è lo studio dei fenomeni della Natura.
Il modo come la Natura agisce, e la matematica traduce quelle azioni.
Fisica e Matematica sono quindi strumenti dell’arte, discipline che si fanno per simbiosi esse stesse Arte: e l’Arte implica emozioni, quindi sentimento.
Il cuore non è adatto a calcolare, ma a sentire, non è il computer, è un programma di vita.
Perciò, quando Massimo è costretto a precipitarsi al nord in seguito ad una disgrazia familiare, si vede costretto a riconsiderare a forza la propria esperienza di vita, le proprie convinzioni, riscoprire tutto il mondo affettivo a lui ignoto celato nel cuore della propria figlia prediletta, e in quello del bambino.
Nel finale sospeso, incalzante e struggente, al capezzale dell’adorato nipotino in coma, a cui occhi è sempre e solo apparso come “Il Pescatore”, Massimo prova a dare filo alla lenza, a trarre in salvo il suo personale Pesciolino. Smarrito e lontano dalla sua isola, vagante in un nebbioso paesaggio padano, a nulla gli può servire calcolare la temperatura, l’umidità, la pressione barometrica, si ritrova protagonista di un dramma lirico, accusa lo stesso straziante dolore di Rigoletto al cospetto della figlia Gilda, e però...però, a differenza dell’opera verdiana, c’è un pesciolino di cui può ancora prendersi cura, un “caro nome che il mio cor festi primo palpitar…” che funge da catarsi e salvezza.
Petrini Francesco di anni nove è la variabile con esponente alla massima potenza, e Massimo è il comune denominatore dell’equazione principe, quella dell’amore, un sunto che va oltre ogni calcolo logico. Petrini Francesco di anni nove è il numero, è l’algoritmo, è la ragione per cui Massimo vive.
Serve un assioma, un dato mancante senza la quale l’espressione non è risolvibile, non il pi greco, ma la costante dell’equazione del cuore: la Speranza.
La sola che permetta la sua risoluzione.

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Maurizio De Giovanni
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    10 Febbraio, 2022
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Solo il primo passo costa

Ritorna Tomàs Nevinson, uno dei personaggi più tormentati di Marias, che avevamo già conosciuto come marito di Berta Isla e che ci era apparso drammaticamente prigioniero della sua solitudine, alla ricerca costante di quella identità che aveva smarrito nel momento in cui era entrato a fare parte dei servizi segreti.
Dopo un breve periodo di inattività, riallacciato un tenue rapporto con la moglie tanto a lungo trascurata, Tomàs riprende, riluttante la sua attività con il compito di individuare tra tre donne segnalategli, la responsabile di feroci attentati dell’Ira e dell’Eta. Tutto il romanzo, dunque, si articola sulle più appropriate e profonde riflessioni sulla funzione e l’utilità dell’azione degli agenti segreti, senza trascurare considerazioni di carattere etico. È inevitabile che chi si dedichi a questa attività viva in un perenne stato di guerra, in un tempo di pace apparente, nel timore di essere scoperto. Se le azioni da compiere appaiono inizialmente feroci e spietate, con l’andare del tempo l’assuefazione semplifica le cose. “Solo il primo passo costa”, è una frase ricorrente nel romanzo, frase che evoca l’immagine dei primi passi del neonato. L’agente, dunque, vive in uno stato di perenne insicurezza, proprio perché si trova a dover affrontare spietati assassini che non esitano spesso a compiere stragi di massa.
Non di rado è necessario mettere da parte ogni scrupolo morale, non farsi domande. Ed è questa la parte più interessante del romanzo di Marias, che ha creato un personaggio, Tomàs, appunto, che si pone il problema di quanto sia lecito oltrepassare se non addirittura ignorare i limiti della morale sia pure spinti dal convincimento di agire per il bene della comunità. È morale accettare l’idea del tradimento, è morale insinuarsi nella vita degli altri, violarne la privacy, uccidere freddamente laddove si ritenga che sia necessario? Se è vero che di fronte al terrorismo non si può rimanere impassibili, perché non si possono ignorare vittime innocenti, qual è il limite che si deve rispettare? Quesiti a cui lo stesso Marias non dà una risposta definitiva e Nevinson, l’uomo senza certezze, che si era già rassegnato a vivere senza speranze, è l’espressione più significativa del dilemma che affligge chi opera conservando vivi nella propria coscienza la differenza e il limite tra il bene e il male.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    06 Febbraio, 2022
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La solidarietà

Karina con il suo bellissimo romanzo ci porta in un paese del Sudamerica, il Venezuela.
Angustias, la protagonista, è una donna giovane e forte. Le donne di questo romanzo sono le figure più belle. Sono tenaci, coraggiose, non si arrendono, sono capaci di generosità e di sentimenti disinteressati, mentre gli uomini sono minuscoli al confronto. Angustias e suo marito Salveiro vendono tutto e se ne vanno dalla sierra orientale dove l’epidemia sta facendo strage di bambini per salvare i loro figli gemelli appena nati. Purtroppo come andranno le cose lo scopriamo fin dalle prime righe.
“Arrivai a Mezquite perché cercavo Visitation Salazar, la donna che avrebbe seppellito i miei figli e mi avrebbe insegnato a sotterrare quelli degli altri. Camminai fino alla fine del mondo, o dove credevo che finisse il mio. La trovai una mattina di maggio accanto a un tumulo di loculi. Indossava un paio di leggins rossi, gli stivali da lavoro e un foulard colorato annodato alla testa. Una corona di vespe le svolazzava intono. Aveva l’aria di una madonna nera persa in una discarica”
L’incipit come vedete è stupendo e il romanzo è sorprendente, nel senso che entriamo in una realtà di grande povertà e violenze. Visitation è esattamente quello che dice Karina, una madonna laica, in quanto porta in un paese dove dominano oro e violenza una cosa sconosciuta che è la compassione gratuita. Visitation senza che nessuno glielo abbia chiesto e anzi con tanti rischi da parte sua e comunque non per soldi seppellisce i morti e si prende cura di loro. Ma anche se fa un lavoro mortifero, e il romanzo è pieno di descrizioni di morti e di preparazione di cadaveri, Visitation è una donna piena di vita e di energia.
Dopo che ha seppellito anche i gemelli chiusi nella scatola di scarpe, anche Angustias resta a darle una mano per starsene vicina ai suoi figli.
Visitation non è particolarmente religiosa. Ma anche se Dio sembra non accompagnare personalmente i poveri migranti, fa sentire ancora la Sua presenza grazie a donne come queste.
La religione in questo paese è legata soprattutto alla superstizione e la superstizione fa comodo.
“Sulla sierra le cose funzionavano così. Le anime dei morti e quelle dei vivi si mescolavano in una cortina di bruma fino a formare un plotone di disgrazie che servivano ad allontanare i curiosi e a coprire i carnefici”.
Con questo libro si entra davvero in un nuovo mondo. Questo di Karima è certamente un romanzo, un’opera di fantasia, ma credo che voglia farci toccare con mano il caos che regna a livello politico e sociale in Venezuela, la grande povertà e la violenza che è la regola. Anche il gioco è violento: i combattimenti tra galli, i cani rabbiosi, gli uomini irregolari, cioè senza documenti che hanno formato un esercito loro, che girano armati di machete e di fucili e che sono fuori controllo. Ma se la situazione generale è terribile, la situazione peggiore è quella delle donne che vengono dalla sierra orientale.
“Le donne che fuggivano dall’epidemia venivano violentate sui sentieri e nei valichi clandestini. Era il pedaggio tra il mondo dal quale fuggivano e quello in cui arrivavano. L’aborto non era legale. Quelle che ci provavano, finivano per dissanguarsi negli ambulatori clandestini. Se riuscivano a partorire, lasciavano l’utero in qualche pronto soccorso, e le più fortunate venivano rapite e costrette a mettere al mondo le creature per alimentare il traffico dei neonati. I bambini erano redditizi. Costava poco crescerli e imparavano presto qualunque mestiere. Erano una manodopera crudele ed economica per la malavita. I contrabbandieri e gli irregolari avevano creato un mercato nero apposito: rendevano più dei camminanti”.
Queste parole non sono della romanziera ma della giornalista.
Nel romanzo si respira grazie alla solidarietà tra donne. I nomi delle tre protagoniste Visitation, Angustias, e Consuelo esprimono bene il ruolo del personaggio. Il libro è duro, a volte difficile da leggere per certe descrizioni di morti o di ammazzamenti vari, il finale non è molto credibile. Però è bello: non perché lo stile sia straordinario o la storia ben costruita, ma perché finalmente c’è un romanzo che ha qualcosa da dire.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Febbraio, 2022
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La storia di una vita lunga quasi un secolo

«Sono venuta al mondo un venerdì di tempesta del 1920, l’anno del flagello. La sera della mia nascita era saltata la corrente, come spesso succedeva durante i temporali, ed erano state accese le candele e i lumi a petrolio, sempre a portata di mano per le situazioni di emergenza. Marìa Gracia, mia madre, sentì le contrazioni, che ormai riconosceva facilmente dopo aver già partorito cinque figli e, rassegnata all’arrivo di un altro maschio, si abbandonò al dolore aiutata dalle due sorelle che, avendola assistita in quel frangente diverse volte, riuscivano a mantenersi lucide.»

Eppure, questa volta, a nascere non è un maschio quanto una bambina subito caduta di testa in quel mondo non sempre ospitale ma venuto ad accoglierla in modo un po’ rudimentale perché scivolata proprio dalle mani della donna che avrebbe dovuto rappresentare il ponte di passaggio tra il grembo materno e il nuovo vivere. Una bambina il cui nome non poteva che essere Violeta.

«È l’illustre nome della bisnonna di mia madre, che ricamò lo stemma della prima bandiera dell’Indipendenza all’inizio dell’Ottocento.»

E Violeta nasce in un periodo molto particolare, in un secolo fatto di sconvolgimenti. In primo luogo proprio innanzi a quella pandemia che aveva colto la famiglia stessa di sorpresa. Quella influenza spagnola, detta solo “la spagnola”, che sino ad allora li aveva risparmiati per questioni di “isolamento geografico” di quel Cile così lontano ma che alla fine, seppur con ritardo, era sopraggiunta. Ancora, sulle retrovie, il ricordo fantasma di quella Grande guerra che era giunta al suo concludersi lasciando i popoli piegati su se stessi. Violeta cresce in un ambiente tutto sommato favorevole, anche a livello economico. Questo, in particolare, grazie al padre che previdente riesce a garantirle una vita serena e fatta di benessere. Ciò almeno sino alla Grande depressione che quella vita elegante compromette al punto dal tutto far loro perdere. Sconvolgendo gli equilibri, costringendo allo spostarsi, obbligando a reinventarsi. Violeta in tutti questi sconvolgimenti è anche vittima di una violenza fatta di un atto vile dettato dalla brutalità ma è anche una donna che scopre di un amore mai provato prima. Un amore di una forza e di una entità tale da non avere eguali, un legame indissolubile che viene raccontato con estrema lucidità, così come vengono raccontati quei giorni di cambiamento sociale e politico di un Paese non sempre semplice da decifrare nei suoi meccanismi e altrettanto complesso da delineare in quell’alternarsi di povertà e ricchezza che perennemente lo hanno caratterizzato. Tra gioie e dolori, lutti e nuove speranze. Il tutto sino all’inevitabile epilogo.

«È arrivata la fine. Sono qui ad aspettarla in compagnia di Etelvina, della mia gatta Frida, dei cani della fattoria che non hanno padroni e che ogni tanto vengono a sdraiarsi ai miei piedi, e dei fantasmi che mi circondano. Torito è il più assiduo, perché questa casa è sua e io sono sua ospite. Non è cambiato, i morti non cambiano […]»

Ma chi è Violeta? Chi è questa donna il cui volto ci ha accompagnato per quasi un secolo in questo ultimo lavoro a firma Isabel Allende? Violeta altro non è che Francisca Llona Barros, detta “Panchita”, scomparsa tre anni fa all’età di 98 anni e di fatto madre della scrittrice. Isabel Allende sin dai primi mesi della scomparsa, mesi vissuti in isolamento a seguito della pandemia da coronavirus, sente che questa storia deve scriverla. Ma per farlo ha bisogno di tempo. Perché questa storia nasce a distanza di un secolo esatto dalla nascita della madre e proprio in tempo di epidemia spagnola (ieri) da Covid (oggi). Un circolo, come da lei definito, “poetico” che aveva necessità di prendere forma e campo anche se questo avrebbe necessitato di un tempo maggiore perché certi legami nel sangue restano anche se la vita li distanzia a livello fisico e dunque proprio per questo serve maturazione e maturità dall’evento anche solo per riviverlo e tornarci sopra. Una vita che si apre con una pandemia e che, per paradosso delle circostanze, si chiude con una epidemia. Tuttavia, sempre di un trauma e di una perdita si tratta. Ecco allora che Violeta inizia il racconto, un racconto suddiviso in sezioni (dal 1920 al 1940, dal 1940 al 1960, dal 1960 al 1983, dal 1983 al 2020) e che prende in considerazione eventi diversi in blocchi diversi e che al contempo vede quale destinatario Camilo. Tra lettere, passioni, emozioni e ricordo. Perché la memoria non vada perduta.
La Allende dona ai suoi lettori uno scritto che è prima di tutto destinato a se stessa perché catarsi, perché necessario alla stessa elaborazione del lutto e della perdita. Non è la prima volta che la narratrice usa lo strumento della scrittura per esorcizzare ed eviscerare un dolore, non è la prima volta che la parola diventa il suo – ma anche nostro – angolo di pace in un mondo di non pace. Non è nemmeno l’unica scrittrice, la stessa Serrano, ma anche molti altri ancora, hanno usato, ed usano, la penna per affrontare quei dolori dell’obbligato esistere che ci piegano e talvolta tentano di spezzarci. In molti, d’altra parte, concordano nel riconoscere che le storie sono prima di tutto vita vera che trova forma e coraggio nella parola scritta e che da qui insegna. Da Dacia Maraini a Daniele Mencarelli ci viene ricordato e insegnato che non c’è storia più potente di quella dell’esistenza concreta perché capace di suscitare e risvegliare emozioni autentiche. Ed ancora, la stessa Maraini, insegna e consiglia agli aspiranti scrittori di scrivere tutti i giorni un poco e di narrare prima di tutto quella che è la loro esperienza di vita, una vita vissuta e non solo bramata, perché come disse Hemingway “Per poter scrivere della vita, prima devi viverla”.
E questo la Allende fa. Scrive di una vita che ha vissuto al fianco della madre e che per mezzo di lei e dei suoi lasciti ha rivissuto. Ha scritto, ha dedicato alla donna, ha lasciato nella memoria.

«Dopo aver vissuto un secolo, mi sembra che il tempo mi sia scivolato tra le dita. Dove sono finiti questi cento anni? […] Le anime senza peccato fluttuano leggere verso lo spazio siderale e si trasformano in polvere di stelle. Addio, Camilo, Nieves è venuta a prendermi. Il cielo è bellissimo…»

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ALI77 Opinione inserita da ALI77    05 Febbraio, 2022
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IL TEMPO DELL'ATTESA

"Perché, quando ti sembra che la tua paura non abbia voce, è proprio allora che devi stare fermo, imparare a sentirla accoglierla come parte di te."(citazione)
Questo romanzo si apre con il narratore della storia che perde il treno e inganna l'attesa del successivo, rimanendo nella stazione a fantasticare sulla vita delle persone che velocemente gli passano davanti agli occhi.
Il titolo di questo libro sarebbe potuto essere il tempo dell'attesa, un tempo sospeso che come ci dice l'autore "tra una fine e un nuovo inizio esiste una stagione dai confini incerti [...] è il tempo dell'attesa".
E' un periodo nel quale siamo costretti a pensare, può succedere mentre aspettiamo un treno, un aereo, un colloquio importante, una visita; sono quei momenti dove possiamo solo attendere e siamo costretti a guardarci dentro, oppure pensiamo a che storia ci sia dietro ogni persona che ci passa velocemente affianco, si siede vicino o di fronte a noi. In questo periodo storico siamo una società che corre veloce, senza fermarci, anche le notizie ci arrivano direttamente senza filtri attraverso internet e i social e forse l'unico momento della giornata in cui ci rilassiamo e abbassiamo le difese, è quando torniamo a casa o prima di andare dormire. Neanche in quel preciso istante però, rallentiamo, ma i nostri pensieri corrono al giorno dopo e a quello che ci aspetta, a una nuova corsa che dovremmo affrontare fino alla sera successiva.
Il tempo dell'attesa è una metafora, una sorta di viaggio per riflettere sulla vita, sull'amore e se ci pensiamo bene l'autore non lo dice chiaramente ma nei scorsi due anni abbiamo affrontato chi più o chi meno dei momenti difficili soprattutto a livello personale e psicologico, che ci hanno costretto a fermarci e a pensare a noi stessi.
Bussola decide di raccontarci delle storie diverse tra di loro ma che sono intrecciate e che parlano di amore in varie forme, di ritorni, di incontri, di abbandoni e di adii, alcune le ho trovate interessanti altre molto meno.
Sono sempre più convinta che scegliere questo tipo di narrazione e scrivere una serie di racconti brevi non sia mai la soluzione vincente, perché non riesco ad affezionarmi ai personaggi, non entro in empatia con loro perché è tutto così veloce. Ogni storia offre sicuramente uno spunto per riflettere sul momento che stiamo vivendo, sul nostro passato, ma non sono molto approfondite e rimangono a un livello superficiale.
"Vivere in fondo, non è che una serie di storie che si chiudono e si aprono, un continuo stringere la presa e lasciar andare. Una catena infinita di incontri e addii."(citazione)
Se ci pensiamo bene tutta la nostra vita è una continua attesa, a forza di aspettare l'amore giusto finiamo per non trovarlo mai o ci accontentiamo delle briciole magari di una relazione sbagliata; oppure ci ritroviamo in vari momenti ad essere solo delle comparse e mai i protagonisti del nostro destino.
Se ci pensate non è cosi?
Quante volte siamo stati solo una comparsa e non possiamo fare nulla per cambiare le cose?
Quante volte siamo stati una seconda scelta?
Siamo sempre in attesa che finisca un momento difficile, per affrontare le proprie insicurezze per andare avanti, per combattere e farsi conoscere davvero ed essere capiti dagli altri e trovare un nuovo equilibrio personale.
L'autore ci spiega che prima o poi arriva un momento in cui improvvisamente ci si alza e si prende in mano la propria vita, è un qualcosa di improvviso che arriva senza preavviso; credo che sia vero ma alcune volte purtroppo quel momento può anche non arrivare e rimaniamo nel limbo, in quel tempo di attesa che sembra non finire mai.
Restiamo intrappolati in questo tempo sospeso perché non vogliamo metterci in gioco o perché siamo costretti a farlo?
E' un libro che gira attorno a un tema importante e attuale, attendere la fine di qualcosa o un nuovo inizio e in quel momento riflettiamo sulle piccole cose e su quanto diamo per scontato le persone e la nostra vita, sottovalutando quello che abbiamo e cercando sempre qualcosa di diverso.
Il titolo ci suggerisce che alla fine della giornata, di un periodo complicato, ma anche di un qualcosa che ci rende felici torniamo sempre a "casa" dove troviamo la nostra dimensione, il nostro equilibrio, la nostra forza e la nostra famiglia qualunque essa sia. Anche in questo credo che la "casa" non sia un luogo fisico ma una metafora, tornare in quel posto o da quella persona che ci fa sentire bene, amati e compresi.
Lo stile dell'autore è semplice e molto diretto, purtroppo nonostante potrei stare qui a scrivere pagine e pagine sulle riflessioni che sono nate dalla lettura di questo libro, quello che è mancato è l'emozione dentro queste storie e io sono rimasta un po' fredda e distaccata dopo averle lette.
E' sicuramente un mio limite di fronte a dei romanzi che racchiudono una serie di racconti diversi ma che affrontano temi simili, però il testo così breve non mi lascia sicuramente il "tempo" giusto per capire davvero i personaggi; trovo che comunque altri autori italiani del primo Novecento con dei libri molto corti riuscissero comunque a toccare alcuni tasti che gli scrittori contemporanei non riescono a fare.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    04 Febbraio, 2022
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Amoz Oz e i primi passi nella scrittura

Amos Oz all'età di quindici anni decide di lasciare la sua famiglia, di cui non condivide le idee politiche e di trasferirsi in un Kibbutz. E proprio lì nasce la sua passione per la scrittura tanto da renderlo poi il grande autore che è diventato.

Feltrinelli pubblica questa serie di dieci racconti, finora inediti in Italia, scritti intorno agli anni Sessanta. Questa raccolta sono la prima grande opera dell'autore.

Nove racconti sono ambientati all'interno del Kibbutz, l'ultima è una specie di parabola. La mia conoscenza sull'argomento Kibbutz era praticamente nulla ma grazie ad Oz, oggi ne sono qualcosina in più. I racconti sono brevi, alcuni anche troppo, si riesce appena ad affacciarsi ad una finestra che lo spiraglio viene subito chiuso. Sono storie intense, con sentimenti forti e vita quotidiana. Lavoro comune, mangiare comune ma dolore singolo; il dolore delle persone che si ritrovano all'interno del Kibbutz è straziante, ognuna si porta un bagaglio diverso per poi arrivare tutte alla solita meta.

Ma la vita per gli ebrei non è così semplice:

“Gli ho chiesto che cosa aveva, ha risposto che aveva sentito gli spari e si era spaventato. Gli ho detto che a spaventarsi dovevano essere gli arabi, che sono finiti i giorni in cui gli ebrei devono spaventarsi per degli spari di notte.”

“Un popolo intero sta devastando e sporcando e mandando in fumo tutta la visione. Lo Stato ebraico era destinato a essere un capitolo e una pagina nuova nella storia degli ebrei, mentre ora somiglia a una festa d'addio, un ballo per il lieto fine di una storia tremenda. Ma questa storia tremenda non è ancora al culmine. Le armi si affilano.”

Amos Oz ci porta nella sua terra, ce ne mostra un piccolo spiraglio. Lo stile è ancora un po' acerbo ma mostra tutto il suo potenziale. Racconti diversi fra loro ma tutti con due fili conduttori, il Kibbutz e lo sciacallo, storia dopo storia tornano sempre a raccontarci qualcosa di diverso.

Consiglio questo libri agli amanti di Oz, conoscere i suoi inizi è piacevole; lo consiglio anche a chi volesse sapere un po' più di storia di questo paese, non dal punto di vista politico ma della vita quotidiana in queste comunità, l'autore ci ha vissuto trent'anni. Un libro che si legge velocemente e da diversi spunti di riflessione.

Buona lettura

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    03 Febbraio, 2022
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Hakodate e la sua caffetteria

Torna in libreria Toshikazu Kawaguchi con “Il primo caffè della giornata”, seguito naturale de “Finché il caffè è caldo”, classe 2020 ed esordio del narratore e “Basta un caffè per essere felici”, classe 2021. Torniamo dunque in uno spin-off della caffetteria che per le sue peculiarità ha decretato il successo editoriale delle pubblicazioni. Una caffetteria in cui può aver luogo un determinato viaggio nel passato ma soltanto in virtù di alcune regole ben precise e delineate. Si tratta infatti della possibilità di avere una seconda occasione anche se, appunto, in quel viaggio nel passato nulla può e deve modificare il presente e in alcun modo il viaggiatore deve alzarsi dalla sedia sulla quale si trova. Ancora, il medesimo deve attendere che la sedia sia libera e le uniche persone che si possono incontrare sono quelle che nel passato sono entrate in quel caffè. Il viaggio ha inoltre inizio nel momento in cui viene versato il caffè e dura soltanto sino a quando il caffè resta caldo.
Altresì è ancora tassativamente vietato attendere oltre; una volta concluso il viaggio è pericoloso tentare di mantenere il proprio posto, circostanza che può comportare gravissime conseguenze. In questo libro pertanto a essere protagonista non è la caffetteria di Tokyo, ma quella di Hakodate con le medesime caratteristiche.

«Nella caffetteria di Hakodate, come in quella di Tokyo, c’era una sedia dove i clienti potevano viaggiare nel tempo. Qui la sedia si trovava vicino all’ingresso del locale ed era occupata da un signore anziano in abito scuro.»

Ecco allora che l’attenzione del lettore si sposta e focalizza su questo luogo, teatro delle vicende ideate da Kawaguchi. Ancora una volta i personaggi che incontriamo sono alla ricerca di una seconda occasione, di una seconda opportunità. Quattro grandi racconti (La figlia, Il comico, La sorella minore, L’uomo che non sapeva dire “ti amo”) in cui è racchiusa tutta l’essenza dell’opera che trova voce per mezzo dei tanti personaggi. Da Yoyoi che privata dell’affetto dei genitori quando era molto piccola teme di non riuscire a vivere e ad affrontare la vita con un sorriso, a Todoroki la cui carriera sfavillante e di successo ha offuscato una vera felicità sempre avuta a portata di mano, ed ancora Reiko che è schiacciata dal senso di colpa per non aver saputo chiedere scusa alla sorella perduta e Reji che ancora non riesce a pronunciare quel “ti amo”, ostacolo invalicabile.
Tuttavia, talvolta, quel che davvero può fare la differenza è la chiave di lettura, la prospettiva con la quale ci avviciniamo e approcciamo ai problemi. Questo, insieme alla consapevolezza delle vite potenziali e concrete e ai sentimenti che costellano il nostro vivere con i pregi e difetti, porta il lettore a cogliere l’essenza del titolo e a riflettervi.
Lo scritto è avvalorato da una penna semplice, poco erudita, finalizzata a dar vita a una canonica miniatura giapponese e non sempre è scorrevole o capace di coinvolgere il lettore. Ciò anche a causa di una frammentarietà che ne caratterizza le pagine e alla naturale formula del racconto prescelta. Altrettanto ancora cade nei classici cliché a cui siamo abituati o tende a confinarsi nel classico déjà-vu. In conclusione, “Il primo caffè della giornata” è un titolo finalizzato a dare e trasmettere leggerezza. Si amerà se si è alla ricerca di questo e cioè di uno scritto che solletichi con delicatezza l’animo o comunque non si caratterizzi per essere una lettura troppo impegnativa, si faticherà ad apprezzarlo se invece si è alla ricerca di titoli più di sostanza e più corposi e meno facenti parte di un format.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    29 Gennaio, 2022
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L'esercito italiano di commissari e vicequestori

Antonio Manzini è probabilmente uno degli autori più letti d’Italia: lo deduco dal fatto che mi ritrovo ogni suo romanzo sempre in classifica, appena ne esce uno, e devo dire che Sellerio sceglie sempre le immagini di copertina con saggezza, perché restano impresse. Dunque devo dire che Manzini aveva già destato in me un po’ di curiosità, e alla fine eccomi qui, a esprimervi la mia opinione sulla sua ultima fatica: “Le ossa parlano”.
Che dire… mi è ormai ben chiaro quello che piace a gran parte del pubblico di lettori italiano: commissari, ispettori e (come nel caso del Rocco Schiavone di Manzini) vicequestori in tutte le salse. I gusti letterari (e non solo) delle masse italiche non sono poi così variegati. Tralasciando questo discorso - che richiederebbe un triste incontro di dibattito di diverse ore - bisogna che io analizzi questo romanzo slegandomi da queste considerazioni. Se devo dare un pregio principe a questo romanzo è probabilmente il suo protagonista. Molti mi diranno che è una considerazione un po’ scontata, perché un buon protagonista dovrebbe essere la conditio sine qua non per la realizzazione di una serie di romanzi di successo: vi immaginate un Chandler senza Marlowe (anche se riferendoci a Chandler parliamo di un autore dall’alto spessore letterario), un Camilleri senza Montalbano, un De Giovanni senza Ricciardi? No, ma al giorno d’oggi nulla è scontato e bisogna dire che Manzini ha disegnato un protagonista di un certo spessore: sfaccettato, tormentato, dolce e amaro, che sa strappare un sorriso ma anche innervosire per i suoi comportamenti a volte insensati e dunque umani… ovviamente pieno di donne, come il 99% dei personaggi del genere, ma sto tornando al discorso di cui sopra e mi fermo subito. Proprio parlando del genere di ironia usata da Manzini, devo dire che riesce a strappare più di un sorriso grazie alla colorita dialettica romana di Schiavone, ma anche grazie ai personaggi di contorno: divertente è infatti, per esempio, la scena della scrittura della lettera a Italo, anche se si tratta di un espediente comico molto simile a quello di napoletana memoria che ha come protagonisti Totò e Peppino De Filippo. Non ho potuto fare a meno di pensarci.
Oltre questo, la storia è incalzante e si lascia leggere: il lettore vuole procedere, sapere come andrà a finire, scoprire chi è l’assassino. Rispettata dunque la seconda conditio sine qua non del genere, sebbene manchi il fattore mascella spalancata alla scoperta dell’assassino; ma penso che ormai questo elemento sia stato esaurito dai milioni di romanzi scritti dalla nascita del genere a oggi e soprattutto grazie a quella geniaccia che era la Christie (come fai a competere con una che ti mette come assassino il narratore o tutti i maledetti personaggi della storia?). La trama - lo capirete leggendola - non è certo qualcosa di leggero da sopportare, non è adatta a chi è debole soprattutto per quanto riguarda questo tipo di argomenti, ma procede in maniera spedita e lineare, senza contraddizioni né intoppi fino alla fine.
Leggibile senza aver letto altri romanzi dell’autore che hanno come protagonista Schiavone, “Le ossa parlano” è un romanzo che ovviamente lascia diverse questioni in sospeso in modo da alimentare l’attesa per la prossima uscita dell’autore, che evidentemente ha deciso di dedicare la sua vita nel delineare quella del suo personaggio di fiction. Scelte. Un romanzo che può piacere a tutti gli appassionati del genere ai quali, tuttavia, mi arrischio a dare anche un altro consiglio: leggete Manzini, leggete Camilleri, leggete De Giovanni… ma sappiate che esiste anche altro!
“Eccheccazzo!”, aggiungerei, citando lo stesso Manzini.

“I binari dell’esistenza si incontrano e si dividono senza lasciare neanche una traccia del loro coincidere.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    06 Dicembre, 2021
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HABEMUS MALLEUM ANIMI

È solito lasciare delle mele fresche nel salottino, cosicché i pazienti possano mangiarne mentre attendono. Si infila il Barbour per rincasare. Un lungo filo blu penzola da un ago infilzato nel frutto.

I cani non rispondono al richiamo, invisibili nel fitto del bosco, li sente ululare e latrare disperatamente. Come quando hanno paura.

Nell’anticamera lo psicoterapeuta ha installato un bottone, in modo che i piccoli pazienti possano attivare una luce rossa nello studio solo quando si sentono pronti per il colloquio. Da tempo la sala è vuota e la porta chiusa a chiave, ma nella stanza del dottor Gerber il segnale scarlatto lampeggia. Inesorabilmente.

Normalmente, viviamo nell’oscurità per dieci interi anni della nostra vita, gli occhi chiusi quattro secondi ogni minuto. Lui non sbatte le palpebre.

Ricordati di questo ciclo: isolamento, controllo, incertezza, reiterazione, rieducazione.

Se affermassero che le pratiche ipnotiche ed i risultati descritti in questo romanzo fossero un mero frutto della fantasia dell’autore, potremmo opporre resistenza e dire che l’invenzione non fagociti entusiasmi. Invece, il libro si basa su ricerche e percorsi di psicoterapia reale, quindi l’opera è decisamente accattivante.
La penna fluida di Carrisi è gravida di colpi di scena ed i brevi capitoli impongono voracità al lettore in corsa, che ogni tanto si perde e poi si ritrova. Un’equazione complessa, incredibilmente inverosimile, eppure lezione dopo lezione ci vengono forniti gli elementi per risolverla in questo esuberante thriller dove si scava nella psiche manipolata, si rivanga nel passato, si riflette sul presente.
Buona caratterizzazione dei personaggi, Carrisi rende bene il profilo psicologico così come quello visivo e pure la localizzazione tra Firenze e i boschi del Mugello è ben concretizzata.

Ma tu, sei veramente dove credi di essere? Per scoprirlo dovresti morire. Solo la morte spezza l’illusione.
Buona lettura.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    29 Novembre, 2021
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Amarsi un po'

Con “Leon” ritorna in libreria il fascino discreto del serial killer attraverso Grazia Negro, funzionario di Polizia in servizio presso la Questura di Bologna: trattasi, come è noto agli appassionati, non certo di un’eroina senza macchia e senza paura, tutta azione e avvenenza, tutt’altro, diremmo quasi che sia un travet della polizia, una giovane donna dei nostri tempi con distintivo e Beretta d’ordinanza, che cerca di svolgere al meglio, con zelo, impegno e scrupolosità, e con tanto buon senso comune, i propri compiti istituzionali.
Senonché, quasi per caso o per il volere di un bizzarro Fato criminologo, è però coinvolta suo malgrado, per indole e innata capacità di simbiosi comportamentale con i colpevoli, nel dare la caccia ai serial killer nostrani. Il Lupo, il Cane, l’Iguana, tanto per citarne alcuni, un giardino zoologico di assassini rituali.
L’ispettrice Negro, fin dal suo primo apparire nel noto, e incantevole, “Almost Blue”, è uno dei personaggi più noti e più amati dai lettori di Carlo Lucarelli, l’autore parmense è stato infatti tanto abile quanto geniale a delineare con tratti precisi, deliziosi, fini eppure ben marcati, felicemente scolpiti nell’immaginario dei suoi fedeli lettori, l’immagine di una donna comunissima, concreta, efficace, pragmatica, con la sua vita ed i suoi comuni problemi, che talora sviscera apertamente sulle pagine, quasi in complicità catartica con il lettore, i suoi momenti no, di puro sconforto o pessimismo, che sono quelli più frequenti nelle sue giornate, talora davvero difficili, esattamente come avviene nell’esistenza della maggior parte delle persone.
Ciò malgrado, Grazia Negro ha a che fare, nei romanzi che la vedono protagonista, con un campionario tanto squilibrato quanto temerario di serial killer della peggiore specie, non nel senso che sono patiti di omicidi sanguinari e sanguinolenti in stile grand guignol, tutt’altro, ma perché sono soggetti con l’apparenza di persone normalissime, perciò di difficilissima identificazione, e però insani, pericolosi, fuori dal mondo, letteralmente accecati nella ragione e negli occhi come nel caso dell’Iguana, assassino seriale cieco protagonista negativo di questo e di romanzi precedenti.
Una persona comune invischiata in vicende poco comuni, questo il piatto forte dello scrittore.
Carlo Lucarelli non è uno scrittore che tratta della criminologia per ricavarne thriller, o che discetta con competenza e precisione su impronte digitali, prove balistiche, reperti ed indagini genetiche, e tutto quanto fa del crimine una scienza, lo scrittore è invece su uno step ben superiore a molti colleghi che pure si cimentano con accuratezza su metodiche simili, Lucarelli fa molto di più.
Ci offre infatti romanzi dove il crimine, il reato, non sono ricondotti alla mera analisi scientifica, alla ricerca di prove inoppugnabili, ma crea storie, sviluppa nelle sue pagine non tanto indagini ma racconti, fa il romanziere e non l’esperto, certo è un autore ferrato in materia ma è bravo soprattutto nello scrivere, non nell’indagare. Quanto esprime per mezzo della sua creatura sono discorsi di stretta logica comune, non casuali ma intrinsecamente legati all’assassino schizofrenico, lunare, insensato e irrazionale, un individuo fino ad allora normalissimo, pur con le paturnie di chiunque, che disgraziatamente ad un certo punto del suo divenire, riceve degli input violenti ed esiziali tali da ferirlo nel profondo in maniera straziante, al punto che per sopravvivere deve ripetere, e restituire ad altri, quanto di male e di orrido ha ricevuto dalla vita.
Come dire, un do ut des del dolore, della violenza e della sofferenza patita, che la criminologia indaga, la giurisprudenza riconduce a reato, pena ed espiazione, ma chi è tra i due estremi, Grazia Negro nel nostro caso, deve gestire al meglio, identificare il colpevole, spesso a rischio della incolumità personale. Grazia Negro è un poliziotto che, fin dal suo primo apparire, si è resa conto in fretta che ciascuno è quello che è in conseguenza del suo vissuto, e ha il buon senso di mantenere le distanze da certi fatti e dinamiche che sa superiori alla propria capacità di gestione: non è una prolifer, meno che mai milita nei RIS. Tuttavia, il suo vissuto è un mix di brivido e suspense, di aberrante ed allucinante, le storie della nostra protagonista sono infarcite da dotte ed accurate dissertazioni di criminologia, da prolifer intenti a delineare le caratteristiche peculiari di soggetti tanto lucidi quando dissennati, interventi di RIS, prolifer e CSS all’italiana, tutti fanno da contrappunto alla logica tanto semplice quanto stringata di Grazia Negro, quella che in ultima analisi deve vedersela con il reo.
Perché il colpevole, il serial killer, più spesso è un topo, si intrufola, inarca la schiena, rosica e rode con violenza e frenesia: allora Grazia Negro è un leone, e come la montagna dell’anaffettività può partorire un topolino, è anche vero che il leone ha paura del topo, Grazia Negro non è un’incosciente, o una sprovveduta, teme l’Iguana et similia. Ed a ragione.
Ma non si tira indietro. Seppure con il cuore in gola.
Il suo lavoro, normalmente di routine nella contrapposizione al crimine comune, per quanto violento, d’improvviso le presenta altri incontri o per meglio dire scontri insoliti, inconsueti, crudeli, che più spesso la destabilizzano emotivamente nella sua sensibilità di donna.
Grazia Negro cerca in qualche modo di “capire” i colpevoli, non tanto a fini di redenzione morale ma per poterne interpretare i gesti, prevenirne le azioni e porli in condizione di non nuocere, prima di tutto a sé stessi, ma questa sua capacità di “captare” gli umori di queste persone disturbate, a lungo andare minano il suo equilibrio di persona razionale, le sue convinzioni morali, la sua pietas umana.
Soprattutto, perché la Negro si rende conto che quelli a cui lei dà la caccia, più che mostri, sono in qualche modo le prime vittime di altri mostri, il più noto e frequente di questi mostri è proprio l’insospettabile, l’amore, anzi il mal d’amore, la sua carenza assoluta, o gli abusi commessi nel nome di quello, sono tare, radici malefiche che stanno alla base dell’agire criminoso di alcuni individui.
Non a caso Carlo Lucarelli denomina il suo ultimo, ottimo e fortunato lavoro prendendo a prestito il titolo di un pezzo dei Melancholia, giacché lo scrittore parmense, noto per i precisi, accurati e icastici rimandi di criminologia nei suoi thriller, ci riconduce così, sic et simpliciter, da subito, direi senza mezzi termini dalle prime righe, senza se e senza ma, alle motivazioni reali, sostanziali, profonde che spingono nel loro agire un tipo particolare di criminali, i serial killer.
Per costoro, l’omicidio altro non è che una reiterazione rituale di uno sterile processo di sopperire a grandi, e devastanti, carenze affettive: un voler amarsi un po', sentirsi amati, apprezzati, inclusi in una sfera emotiva condivisa, come recita la canzone:
“Amor, Tu non sai dove trovarmi…”
Uccidono per essere giocoforza presi in considerazione, convinti che la considerazione prelude all’ammirazione e poi all’attaccamento affettivo, uccidono quando avvertono di non essere ricambiati non considerati degni di essere amati, uccidono per un senso di rivalsa, per riprendersi quando non gli è stato dato o di cui hanno subito abuso.
Essenzialmente quindi, l’assoluta mancanza di un valido sostegno emotivo, un pieno, maturo e sostanzioso carico affettivo che ne accompagni la scoperta di sé e della propria identità di persona durante la delicata fase della crescita, è alla base del divenire di un assassino seriale.
Volendo sintetizzare al massimo, quello che provoca i guasti peggiori nella psiche di un individuo, spingendolo nei casi estremi a ripetere un macabro rituale altro non è che un reiterato tentativo di esorcizzare carenze, paure, mancanze nel proprio iter esistenziale, un killer seriale uccide più volte ogni volta il proprio mostro interno che tanto lo ha afflitto e torturato nel corso del tempo, aggravate da una profonda considerazione di sé stesso, si ritiene infatti superiore in astuzia, intelligenza e abilità a chi gli dà la caccia, ma tale presunzione di fondo altro non è che una celata disistima di se stesso, non si ritiene inconsapevolmente in grado di amarsi un po'.
Allora tende a celarsi, è maniacale nel fingere, nascondersi, depistare, e questo lo rende pericoloso e difficile da fermare. Ci riescono bene solo gli addetti ai lavori, poliziotti non più bravi degli altri, ma che riescono a “sentire”, a empatizzare con gli assassini, ad intuirne, coscientemente o meno, la loro natura. Con dispiacere, magari, giungono a negarsi quasi con riluttanza alla loro struggente richiesta: “…mi ami?”.
Perciò serve sparare, seppure a malincuore Grazia spara per difendere non tanto sé stessa, quanto le proprie bimbe gemelle, come a dire le generazioni future, il consorzio civile.
Sperando sia l’ultima, ma in fondo al suo cuore sa che…è solo fino alla prossima volta.
Carlo Lucarelli ancora una volta ha colto nel segno, la sua prosa è sempre la stessa, quella mirabile, asciutta, incisiva, lineare, la stessa con cui racconta le gesta di Achille De Luca o Marco Coliandro,
quella con cui ammalia la platea televisiva, qui poi rende appieno la suspense e la tensione con pagine di una sola riga, impronte indelebili del soffio dell’assassinio seriale, del suo pensiero, della sua logica o forse della sua disperazione. Lettere incise come su un blocco di granito, e però pulsanti, inquietanti, il talento dello scrittore parmense non è tanto quello di descrivere, ma di suggerire, non offre immagini, suggestiona a crearle, Carlo Lucarelli non è un serial killer dell’immaginazione di chi lo legge per imporre la propria, anzi, è uno stimolatore di immagini ed azioni, ognuno ritrova la propria grazia, o il proprio mostro, quelli a lui più congeniali. Sempre risalta il suo amore per Bologna, descritta nelle ore più tenui e nella sua veste migliore, con le sue piazze, i suoi monumenti, una città che cambia toni, colori, letteralmente accoglie chiunque semplicemente cambiando magistralmente pelle. Come fa un’Iguana, e che Carlo Lucarelli riporta con Grazia.


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kafka62 Opinione inserita da kafka62    19 Novembre, 2021
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IS THERE LIFE ON MARS?

“La vita è una cosa che dobbiamo smettere di correggere”

Un adolescente affetto da sindrome di Asperger scopre una passione viscerale per la natura, inizia a sostenere la causa ambientalista e diventa in breve tempo una celebrità della rete: questo succinto identikit vi fa forse venire in mente qualcuno in particolare? Se, come credo, la risposta è positiva e il pensiero è andato automaticamente alla bionda e minuta ragazzina svedese di “Fridays for future”, sappiate che, ripreso quasi alla lettera dalla sinossi sul risvolto di copertina, esso descrive invece il piccolo protagonista di “Smarrimento”, l’ultimo lavoro di Richard Powers. Dopo averlo visto diventare uno dei guru indiscussi della narrativa ecologista con “Il sussurro del mondo” (in una recente visita al Festival della Scienza di Genova ho trovato il suo “Overstory” citato, all’interno della mostra “Lessico e nuvole. Linguaggio, comunicazione e percezione della crisi climatica”, come uno dei romanzi fondamentali, insieme a quelli di Amitav Gosh, Margaret Atwood ed altri ancora, di quello che ormai è diventato un vero e proprio genere letterario), non sono affatto sorpreso di questa scelta. In effetti, “Smarrimento” riprende proprio là dove “Il sussurro del mondo” si era concluso, in un paesaggio edenico, stupefacente e incomparabile come quello della foresta vergine delle Smoky Mountains, il parco naturale dove lo scrittore dell’Illinois ha scelto recentemente di andare a vivere. Il timore di trovarmi di fronte a una sorta di copia conforme, di seguito meno ispirato del suo grande successo, scritto magari per sfruttare l’inattesa popolarità garantitagli dalla vittoria dl Pulitzer e cavalcare la moda di un argomento che (per fortuna!) sta entrando sempre più spesso, sull’onda emotiva dei drammatici cambiamenti climatici del pianeta, nelle pagine dei giornali e nei talk show televisivi, si è per fortuna dissolto dopo le prime pagine. E’ vero che, come in tutti i libri di Powers, il messaggio che emerge dal testo è chiaro e inequivocabile: il nostro pianeta è in pericolo e il tempo per salvarlo sta per scadere, l’habitat di piante e animali viene sempre più spesso messo a repentaglio dal dissennato comportamento dell’uomo, il riscaldamento globale e gli altri cambiamenti del clima sono, se non ignorati, colpevolmente sottovalutati dalla maggioranza della gente, politici compresi. Se queste tematiche costituiscono, in linea con la sensibilità dell’autore, una sorta di leitmotiv, di costante accompagnamento, di basso continuo, in “Smarrimento” c’è però molto di più, a partire dallo straordinario rapporto esistente tra i due protagonisti del romanzo, un padre rimasto recentemente vedovo e il proprio figlio “diverso” (nel libro viene affettuosamente appellato come un “alieno”, una “persona di un altro mondo”). In questa complicata ma dolcissima relazione traspare tutto il dolore per l’assenza della figura coniugale e materna che è venuta tragicamente a mancare, la difficoltà, la solitudine e spesso l’inadeguatezza di essere un genitore single e di dover portare avanti, a volte contro le stesse istituzioni, l’educazione di un figlio problematico, ma anche l’affetto ineguagliabile e incondizionato tra due figure che non rinunciano mai ad attraversare la vita con gli occhi pieni di reciproco rispetto e di stupore per le meraviglie del creato. Scopriamo una tenerezza insolita, pudica e delicata, in un autore che finora, anche quando parlava di amore, era sempre stato un po’ algido, emotivamente distaccato, come se guardasse tutto da una prospettiva superiore, quasi “sub specie aeternitatis”, e questo nuovo sguardo fa risaltare vividamente la coppia nei confronti dei personaggi sullo sfondo, trasformandola in una sorta di emblematica fiammella di ostinazione e di speranza che si fa strada, pur impotente a vincere il buio, nell’impenetrabile oscurità di una notte smisurata e paurosa. Theo e suo figlio Robin vengono a un certo punto definiti come “gli ultimi componenti dell’equipaggio di una navicella spaziale generazionale che era giunta alla fine delle sue possibilità molto prima di aver raggiunto la sua nuova casa”, e questo senso di essere dei superstiti, gli ultimi esemplari sopravvissuti di un’impresa pionieristica senza possibilità di successo ma necessaria, si respira fino alla fine del libro. Questa metafora “spaziale” non è affatto peregrina, perché Theo è un astrobiologo, il quale dedica il proprio lavoro a cercare prove della presenza di forme di vita in altri pianeti, da qualche parte nell’immensità del cosmo, per mezzo di simulazioni basate sui pochi dati che gli strumenti astronomici sono in grado di mettergli a disposizione. L’importanza della sua “quest” va ben oltre le concrete (invero scarse) possibilità di realizzazione, in quanto essa è, forse inconsciamente, mossa da una salutare messa in discussione dell’antropocentrismo di cui è stolidamente imbevuta la cultura umana. Aleggia costantemente nel romanzo il famoso paradigma di Fermi (perché, dato l’enorme numero di stelle nell’universo, non si è mai avuta notizia di una civiltà extraterrestre?), e le storie su fantasiosi pianeti viventi che Theo racconta ogni notte al figlio prima di addormentarsi, vere e proprie favole fantascientifiche, sono obiettivamente tra le sue pagine più ispirate. In fondo, scrive Powers, “condividono tante cose, l’astronomia e l’infanzia. Entrambe sono viaggi lungo enormi distanze. Entrambe cercano fatti ben oltre la loro capacità di comprensione. Entrambe teorizzano enormemente e lasciano che le possibilità si moltiplichino senza limiti.” Ed è proprio il piccolo Robin, affascinato dalla possibilità che la vita abbia potuto, nei miliardi di anni di vita dell’universo, dispiegarsi in innumerevoli, eccentriche forme (“gli eventi unici erano ovunque, a ogni passo della storia”), a dare una sua personale spiegazione al paradosso del fisico italiano, ipotizzando che gli alieni si nascondano ai terrestri, a causa della profonda sfiducia nella razza umana, giacché troppi esempi del passato, in cui l’approccio tra la cultura dominante sulla Terra e le popolazioni indigene dei nuovi continenti scoperti si è concluso con immani catastrofi umanitarie, l’hanno irrimediabilmente screditata. A differenza del padre, il cui lavoro è la naturale prosecuzione del suo amore giovanile per la fantascienza, di cui le sue fantasie sono impregnate, la passione di Robin si concentra su qualcosa di molto più terrestre, ossia gli animali a rischio di estinzione, che egli prima osserva e disegna con infaticabile zelo, e poi decide di aiutare con la sua ingenua ma incrollabile attività pubblica di denuncia. E’ curioso come in questa famiglia, divisa tra telescopi e microscopi, conviva una doppia dimensione, il qui e ora, tangibile e concreto, di Robin, e il non dimostrabile, il potenzialmente possibile ma incommensurabilmente lontano, di Theo. In realtà padre e figlio sono due facce della stessa medaglia, ed il geniale strabismo di Powers fa sì che entrambi, a loro modo e da due angolazioni differenti, mettano alla berlina l’insopportabile e perniciosa hybris con cui gli uomini, nel corso della storia, hanno preteso di trasformarsi, citando il titolo del libro di Yuval Noah Harari, “da animali a dèi”, quando invece, strappata dalla sua apparentemente privilegiata posizione al centro dell’universo, la Terra, ossia “Sol 3, quel puntino blu, aveva molto da offrire, se si riusciva ad allontanarsi dalle specie dominanti abbastanza a lungo da schiarirsi le idee”.
Theo appartiene a quella folta schiera di scienziati (fisici quantistici, programmatori, genetisti, chimici, esperti di realtà virtuale, botanici) che popola tutti i romanzi di Powers. Come il fisico de “Il tempo di una canzone”, che studia disperatamente le curve temporali nella speranza di dimostrare che il tempo non esiste e “gli eventi possono muoversi continuamente verso il proprio futuro intanto che si riavvitano nel proprio passato” (nella inconfessata speranza di poter ritornare dalla moglie morta anni prima), così l’astrobiologo di “Smarrimento” si affida alla scienza nell’illusione di poter far “rivivere” in Theo la compagna perduta. Robin viene infatti inserito, al fine di superare le sue crisi di rabbia e i suoi problemi di autocontrollo, in un esperimento di modifica del comportamento e di controllo delle emozioni, il neurofeedback decodificato, tramite il quale viene accompagnato ad adattare gradualmente la propria attività spontanea al modello cerebrale della madre registrato e archiviato anni prima. Imparando ad adeguarsi agli stati emozionali della madre, è come se Robin la facesse rivivere, realizzando così una sorta di immaginaria, ma non meno potente, sopravvivenza post mortem. Questa utopia, che ambisce ad abolire la dimensione cronologica del tempo, facendo sì che non ci sia più il divenire, ma passato, presente e futuro convivano invece nella stessa dimensione, è uno dei più persistenti leitmotiv dell’opera di Powers, che già trent’anni fa immaginava che un personaggio morto da diversi mesi tornasse a parlare alla protagonista, tramite un virus informatico, dall’altoparlante di una postazione bancomat. E’ forse possibile, per Powers, non solo una persistenza dei ricordi, ma una vera e propria, ben più autentica, immortalità emozionale, che faccia sì che tutta la bellezza e la speranza di una persona possano non scomparire nel nulla ma perpetuarsi nel tempo, tramandandosi letteralmente, come una eredità psichica, alle generazioni successive. Utopia? Probabilmente sì, ma la scienza, scriveva Powers in “Canone del desiderio”, deve poter “coltivare un’eterna condizione di stupore davanti a qualcosa che diventa sempre più ricco e ingegnoso delle nostre ultime teorie su di esso […] Lo scopo della scienza è quello di perderci nel desiderio del mondo”. Questa “scienza della meraviglia” deve però fare i conti con la realtà, e nel mondo descritto in “Smarrimento”, ambientato sì in un futuro prossimo venturo ma lo stesso perfettamente riconoscibile (dietro l’attivista Inga Alder che ispira Robin con i suoi video c’è ovviamente Greta Thunberg, mentre il Presidente che non riconosce i risultati delle elezioni e boicotta la ricerca scientifica è altrettanto chiaramente Donald Trump), l’utopia si trasforma fatalmente in distopia, e quindi in tragedia. Ecologia ed economia hanno la stessa radice etimologica, ma vanno purtroppo in direzione contraria, come dimostrano i tanti accordi mondiali fino ad oggi falliti per l’incapacità delle grandi potenze di mettersi d’accordo sulla ripartizione degli ingenti costi da sostenere per l’adozione di una energia pulita e per la riduzione dei gas serra. La realtà è che la scienza viene riconosciuta e sovvenzionata solo se è in grado di garantire profitti a breve termine, altrimenti rischia, come i progetti del neurofeedback con cui viene curato Robin o il telescopio da inviare nello spazio che Theo attende da tanti anni per dare un impulso decisivo alle sue ricerche, di essere messa da parte, se non addirittura sabotata. C’è un famoso racconto di fantascienza degli anni ’60, “Fiori per Algernon”, che parla di un procedimento sperimentale per aumentare l’intelligenza, cui si sottopone come cavia il protagonista con ritardi mentali, e che è la neanche troppo dissimulata fonte ispiratrice di “Smarrimento”. La figura di Robin, con la sua tristissima parabola esistenziale, riecheggia infatti in maniera inequivocabile, quella del topo del titolo, conducendo il romanzo verso gli inattesi esiti di un commovente melodramma.
Lo stile di Powers, che ai suoi esordi era raffinatissimo, ma fin troppo erudito, ampolloso, quasi iniziatico, qui raggiunge una laconica asciuttezza, una epigrafica concisione, come le sue frasi secche e stringate, scevre da ogni inutile orpello, volessero dimostrare ad ogni pagina che, come non c’è più tempo da perdere per salvare il pianeta, non c’è neppure bisogno di troppe parole per affermare il proprio messaggio. La prosa scarna e prosciugata di “Smarrimento” mi ha ricordato molto quella de “La strada” di Cormac McCarthy, e non è forse un caso che entrambi i libri abbiano come protagonisti un padre e un figlio in un contesto futuristico (mi auguro solo che “Smarrimento” non sia, come è avvenuto per McCarthy, il canto del cigno di Powers!). Paradossalmente questa rinuncia al plateale virtuosismo, che ancora caratterizzava, almeno nella sua elaboratissima struttura, “Il sussurro del mondo, ha portato in dote a “Smarrimento” una inedita poeticità, una toccante umanità. Non nego che “Smarrimento” sia tra le opere di Powers, non tanto la più riuscita, quanto la più emozionante, la più empatica, la più coinvolgente. Certo, non mancano i consueti, abbondantissimi riferimenti culturali, dal già citato libro di Daniel Keys ai paradossi di Fermi e di Olbers (“se ci sono stelle ovunque, perché il cielo notturno non è pieno di luce?”), da “Il costruttore di stelle” di Olaf Stapledon (“Tutto il cosmo era infinitamente più piccolo di tutto l’essere umano”) e dai racconti della rivista “Amazing stories” alle avveniristiche tecniche psicoterapeutiche o astronomiche, estremamente plausibili da un punto di vista scientifico. “Smarrimento” oscilla costantemente tra la concretezza della realtà e del passato e l’immaginifica, vertiginosa libertà di una storia ai limiti della fantascienza, per concludere che in fondo la vita non ha nulla da invidiare alle più sorprendenti riviste di science fiction e che “non c’è nessun luogo più strano” del nostro pianeta. Siccome “l’esistenza si presenta in una delle tre varietà: nessuna, una, infinita”, Powers si culla a lungo, dolcemente, nell’immaginazione che altri mondi siano possibili, anche se poi, ben più pragmaticamente, incita con veemente coerenza a impegnarsi, come il piccolo Robin, per la nostra povera Terra, a scuotersi da quel torpore che ci fa accettare e abituarci a qualsiasi cosa, ad aprire gli occhi, perché “tutti sanno quello che sta succedendo. Ma tutti distolgono lo sguardo”.

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