Le recensioni della redazione QLibri

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    11 Dicembre, 2015
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Inganno nell'inganno dopo l'inganno.

Certamente quando George Foss viene riavvicinato da quella donna che non vedeva da oltre vent’anni e che altro non gli chiedeva se non un favore, mai si sarebbe aspettato di trovarsi coinvolto non solo in quello che generalmente viene descritto quale un crimine efferato ma anche di essere strumentalizzato, usato come una pedina in una partita più grande di lui, in una scacchiera dove egli altro non è che un pedone da sacrificare per un fine più grande.
E dire che già una volta, Liana o Audrey o Jane, come la si voglia chiamare, aveva ingannato il nostro un po’ ingenuo protagonista. Al tempo del primo anno di college questa aveva infatti commesso una serie d’azioni che non solo l’avevano portata a tradire la fiducia del ragazzo ma anche a mettersi in guai seri con la legge condannandosi a vivere quale fuggitiva per i successivi anni a venire.
Il problema è che questa volta l’imbroglio con cui ha coartato il nostro contabile, non è cosa da poco, la polizia sospetta di lui. Come liberarsi dalle accuse, come uscire dall’impasse in cui la femme fatale lo ha intrappolato?
Dal punto di vista contenutivo il romanzo è ben strutturato ed è caratterizzato da una sequenza logica ben argomentata e costruita. I passaggi tra lo ieri e l’oggi sono ben collegati ed inseriti in modo tale da creare la giusta suspence e la giusta curiosità nel lettore che, consapevole delle conseguenze ancora prima che lo stesso protagonista se ne renda conto, è indotto ad andare avanti per scoprire il mistero che si cela dietro questo primo romanzo di Peter Swanson.
Due sono gli elementi che non mi hanno pienamente convinta. Il primo risiede nella qualità stilistica, il linguaggio utilizzato è chiaramente quello appartenente ad una penna ancora acerba, non a caso l’autore è noto sulla scena letteraria per la sua attività di poeta e di narratore di racconti non quindi quale prosatore. Questo è comunque un dettaglio a cui può porre rimedio con un po’ di esperienza.
Il secondo è invece radicato nella prima parte dello scritto. E’ vero che George è spinto da un moto di protezione, dalla voglia di aiutare quella donna che da sempre ha amato, ma sono passati venti anni e lei già una volta si è presa gioco della sua buona fede. Ora, quello che mi chiedo è: come può convincere, in un contesto quale quello narrato dove l’intreccio narrativo è finalizzato ad un determinato risultato, la sua condotta puramente ingenua? Nel senso. Il favore che Jane gli chiede consiste nel portare del denaro ad un noto uomo dagli affari opinabili della zona, pecunia che precedentemente la femme gli ha rubato. Mentre il lettore scopre passo dopo passo come Audrey ha ingannato Foss all’età di diciotto anni, George lo ricorda vividamente ed essendone perfettamente consapevole accetta di fare da corriere percependo anche 10.000 Dollari quale ricompensa per il suo operato. Come può dunque reggere l’assunto della sua non consapevolezza a delinquere? Perché comunque la sua condotta sarebbe – a prescindere (e come minimo) di concorso – se l’uomo d’affari procedesse per vie legali o se la sua attività venisse scoperta dalle autorità. Non solo. Lei già una volta ti ha raggirato e tu protagonista dopo che non la vedi da quasi un quarto di secolo ti fidi così, ciecamente? Tutti possiamo sbagliare, ma in un contesto quale quello costruito dall’autore, questa leggerezza stona con il resto dell’elaborato.
In conclusione, un buon romanzo di partenza, non eccelso, e a tratti prevedibile ma adatto a chi ama i gialli e cerca un “prodotto” da leggere in un paio di giorni con cui staccare la spina.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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evakant Opinione inserita da evakant    09 Dicembre, 2015
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24 ore per morire

AVVISO: è presente una anticipazione sul finale, che non svela nulla, ma c'è. Eventualmente non leggete le ultime 5 righe.

Sono lontani i tempi della Cornwell in cui i casi appassionavano, raccontavano una storia, raccontavano le vite delle vittime e le vite del carnefici.
Sono lontani i tempi in cui Kay Scarpetta cercava di ridare un volto, una storia, un'anima a dei corpi freddi, mutilati o di cui era stato fatto scempio.
Sono lontane le corse conto il tempo per acciuffare assassini e serial killer che hanno una storia, che hanno forse dei motivi, per quanti beceri, per fare quello che fanno.

Oggi Kay Scarpetta, sopravvissuta ad un tentativo di omicidio da parte della serial killer pazza psicopatica, sadica quale è Carrie Grethen, una sorta di fantasma riemerso dal passato visto che la si credeva morta da anni...è alle prese con una sorta di “24 ore per morire”.

Partiamo dal presupposto che questa pericolosissima serial killer è ancora viva: lo sa Kay, lo sa il suo amico e collega di lunga data Marino, lo sa l'FBI, lo sa la CIA, lo sa la nipote di Kay, Lucy Farinelli (che è stata sua compagna)...lo sa tutto il mondo, ma questa è libera di scorrazzare per il mondo a sua discrezione: ruba identità, si intromette in qualsiasi data base, server, posta elettronica che sia dell' FBI o della difesa. Rapisce e ammazza poliziotti, agenti e persone comuni come se rubasse caramelle, senza lasciare traccia e in modo assurdo, senza fare un solo rumore, le vittime si dissolvono nell'aria cose fumo.
E ovviamente nessuno fa nulla.

In queste 24 ore di racconto (sì 400 pagine per 24 ore) “Carrie la pazza” (forse un riferimento a King?) prende di mira direttamente la nostra Kay, per prendere di mira indirettamente la nipote Lucy...ma anche qui non è ben chiaro se ce l'abbia con una o con tutte e due.

La base di partenza è sempre un omicidio efferato che porta poi a tutta una serie di ragionamenti e alla “corsa contro il tempo” finale. Comunque inutile.

Dunque: la trama è inverosimile, irreale. I personaggi sono ormai delle caricature di se stessi.
Lucy Farinelli è una donna ex agente FBI, ex tutto, che vive blindata e armata fino ai denti con compagna e figlio adottivo, sembra un rambo in gonnella, capace di guidare aerei, elicotteri, barche, qualsiasi tipo di mezzo a motore, e ovviamente sfondata di soldi.
Kay Scarpetta è il capro espiatorio di tutta l'intelligence statunitense, integerrima, fredda, meticolosa, che in situazioni estreme sta 3 capitoli a fare analisi assurde.
Benton Wesley, marito di Kay e capoccia dell'FBI è una specie di monaco buddista che nulla e nessuno riesce a smuovere, nemmeno se in pericolo c'è la sua famiglia.
Pete Marino è l'unico che è ancora uguale a se stesso, per fortuna.
Carrie la pazza invece c'è e non c'è. Aleggia su tutta la storia ma non compare praticamente mai, se non in video registrati 15 anni prima.
Sarebbe stato molto più interessante offrire un'analisi della mente di questo soggetto, perché lo fa, cosa la spinge, vedere il suo “punto di vista”, avrebbe arricchito molto la storia.
Invece no, l'eroina senza macchia e senza paura è Kay Scarpetta. Sempre.

Il finale è frettoloso, richiama un po' la conclusione de “Il silenzio degli innocenti” con la caccia al serial killer di Clarice Starling negli interrati della casa del mostro, attraverso stanze e cantine segrete, solo che qui è come dicevo frettoloso (forse 2 paginette) anche se molto simile (cantine e stanze segrete di una casa antica, al buio, con una vittima ancora in bilico tra la vita e la morte).

La caccia non porta alla cattura della preda, banale espediente per iniziare il prossimo romanzo della nostra Cornwell. Si era già capito a pagina 50 che non si sarebbe arrivati a nulla.
Lo stile è anche abbastanza accattivante e la storia sembrerebbe avvincente, se portasse ad una conclusione.

Insomma: mediocre.

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Racconti
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    07 Dicembre, 2015
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L'età spegne le inquietudini

Margot e Anita sono arrivate qui. Non sono ancora pronte a smettere di parlare. Sono contente, abbastanza contente.

In questi racconti Alice si affaccia e ci fa affacciare alla finestra della vita di alcune donne mettendone in luce le stranezze, gli amori, le relazioni. Spesso si ha l’impressione di parlare di quelle persone come si parla tra amici di altri amici. Si entra nelle vicende in punta di piedi. Spesso l’aspetto sessuale è quello al centro dell’interesse: relazioni, unioni, tradimenti, proprio come capita nelle chiacchiere tra amici su conoscenti comuni. Anche se si parla di sesso l’autrice non è mai volgare, tutt'altro.

Averill accetta l’offerta del capitano. E’ assolta, fortunata. Scivola via come il pesce luccicante, dentro al suo abito di seta scura. Lei e il capitano si augurano la buona notte. Si sfiorano educatamente le mani. Il contatto produce un fremito sulla pelle di entrambi.

Colpisce il fatto che il sesso viene trattato quasi in tutti i racconti come un appetito tra i tanti, ed è disgiunto dall’aspetto psicologico ed emotivo, cosa strana essendo la scrittrice una donna. Manca l'inquietudine che mi aveva attirato in Amico, nemico, amante. Sembra una scrittura più matura per questo aspetto anche se la maturità le ha tolto un po’ di freschezza. La scrittura è sempre ottima naturalmente, ma solida, tranquilla, pacata. Forse troppo pacata. I racconti dell’altra raccolta, perlomeno alcuni, mi sono sembrati più intriganti e originali. L'irrequietezza, la mutevolezza, la provvisorietà delle cose e delle situazioni è quello che mi attira nel racconto ma qui ho trovato solidità e poche vibrazioni.
Tra i racconti di questa raccolta il mio preferito è Oh a che giova. La storia dell’amore platonico di un uomo che ha perso un occhio in un incidente da bambino per la sua bellissima vicina che guercio com'è si vergogna anche di invitare a ballare. Questo personaggio e sua madre, che sembrano guardare la vita dalla finestra ma che hanno grande dignità mi sono proprio piaciuti. Ma anche la bella vicina che cerca di imbruttirsi perché in un paese la bellezza eccessiva è come una deformità.
Le altre donne con i loro amanti e la descrizione molto fisica del loro corpo e dei loro desideri non mi hanno dato quelle sollecitazioni emotive che cerco nei racconti e nella lettura.

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Amico, nemico, amante (che è più bello)
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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Dicembre, 2015
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Il cappotto blu

L'ultima proposta letteraria di Anna Maria Balzano racchiude in sé il dolce e l'amaro dell'esistenza, il calore dei rapporti umani ed il gelo della crudeltà esplicata dall'uomo.
L'incipit della narrazione getta un alone di mistero che calamita l'attenzione del lettore, partendo per un viaggio nei ricordi, un viaggio che si arricchisce di volti e situazioni, di incontri e di svolte, di cadute e riscatti, di perdite e di ritrovamenti.
C'è un piccolo grande mondo tra le pagine di questo romanzo, dalla complessità delle dinamiche familiari ai tanti volti degli affetti, dalle ferite inferte dalle brutalità della Storia del Novecento alla ricerca di equilibri interiori. Si percepisce quanto cari siano i temi alla mano che scrive, dalla nitidezza dei contorni psicologici tracciati, dall'intento di andare oltre agli accadimenti in sé, di analizzare le scie tracciate nei cuori di tutti i protagonisti.
Il ritmo narrativo è intenso e rapido, mai un calo di tensione nel dipanarsi della storia, anzi un' accelerazione continua e costante, fino a concedere al lettore di entrare in una simbiosi netta con i personaggi.
Interessante lo sfondo storico che funge da cornice, riportandoci agli occhi il percorso sociale, politico e culturale affrontato dal nostro paese nel corso dell'ultimo cinquantennio, garantendo alla narrazione una contestualizzazione verace e oggettiva.
C'è tutta l'Italia del Dopoguerra con un fardello pesante di ferite, c'è l'evoluzione del ruolo della donna, ci sono i sacrifici, ci sono le nuove generazioni da crescere. Eppoi a fianco all'Italia che cresce e muta, ci sono le persone e le famiglie che cambiano pelle e che devono proiettarsi al futuro.

Un'ottima prova di scrittura, un'autrice che sa cosa vuole esprimere e riesce appieno a condividerlo con il suo lettore, un romanzo che sancisce una crescita stilistica rispetto alla prova precedente.
“Il cappotto blu” alterna al nero del dolore il colore della speranza, alle lacrime alterna la forza di un sorriso, senza tralasciare una componente biografica di cui si avverte la presenza viva tra le pagine.

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Romanzi autobiografici
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    02 Dicembre, 2015
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Esser morti è ritrovarsi circondati dal silenzio.

Non ce l'ha fatta Henning Mankell... alla fine le sabbie mobili l'hanno ingurgitato.
Non c'è stata quella mano salvifica scesa dal cielo a cui lui abbia potuto aggrapparsi prima di essere inghiottito dalla sabbia, prima di soccombere nelle tenebre.
E' morto Henning Mankell pochi giorni dopo la pubblicazione in Italia di questo suo ultimo libro, una sorta di testamento spirituale, iniziato quando le sabbie mobili - un cancro ai polmoni e alla nuca - non lo avevano ancora avvolto del tutto, quando ancora la speranza di divincolarsi da quella presa mortale non si era dissolta.
Una lotta iniziata diversi anni prima, sin dal 2014, anno in cui lo scrittore aveva annunciato al mondo quanto gli era stato diagnosticato.
"L'arte di sopravvivere" è il sottotitolo del libro, sopravvivere alla morte che si annuncia, si presenta inaspettatamente alla porta di casa e ne diventa un nuovo inquilino, un compagno asfissiante, angoscioso per la sua costante presenza, giorno, notte, in qualsiasi momento lei è sempre lì, che attende.
Mankell raccoglie nel suo libro i pensieri, le riflessioni che gli hanno invaso la mente in questo tragico periodo della sua vita.
Riflessioni di ogni tipo, sul presente e sul futuro, sull'ambiente, su Dio, sulla donna amata, sulla musica, sui libri, su tutto ciò che lo aiutasse a non pensare a quel compagno indesiderato, odiato per la prepotenza con cui si è imposto nella sua vita.
Riflessioni alternate a ricordi anche lontani della sua adolescenza, dei suoi numerosi viaggi in giro per il mondo, in Africa soprattutto, un continente così diverso dalla sua terra natìa, la Svezia, ma che ha imparato a conoscere ed amare come se fosse la sua terra; ed è sufficiente leggere i romanzi del ciclo 'africano' per rendersene conto, per ultimo 'L'occhio del leopardo'.
Seppure nella loro eterogeneità c'è un filo conduttore che accomuna questi pensieri: è la paura della morte, celata, solo poche volte ammessa, ma si avverte, è palpabile in ogni parola; anche in quelle pagine in cui l'autore racconta i primi mesi della sua malattia e la speranza che le terapie avessero successo, s'avverte comunque la sensazione che quella speranza sia vana, che l'uomo abbia già coscienza dell'inesorabilità del suo destino.
E percepisco tanta paura di morire anche nell'insistenza e nella ripetitività con cui in più punti del libro l'autore rimarca lo stesso concetto, ossia l'assurdità del progetto approvato dal governo svedese di scavare una 'tomba' di rame nel cuore di una montagna in cui depositare le scorie radioattive prodotte dalla nazione e che impiegheranno circa centomila anni per perdere il loro effetto nocivo.
Inizialmente ho immaginato che l'autore volesse in tal modo associare la sua malattia (così come la maggiore incidenza dei casi di cancro negli ultimi decenni) al problema delle scorie radioattive in Svezia, nazione che da tempo fa dell'energia nucleare una delle sue principali fonti di energia; ora, invece, credo che l'esigenza di riproporre quel concetto sia sempre determinato dalla necessità da parte dell'autore di distogliere il suo pensiero dalle sabbie mobili, di aggrapparsi a qualsiasi cosa gli consenta di sollevarsi, anche se di pochi millimetri, dal baratro.
Ed ecco così che il problema delle scorie radioattive sfocia, per esempio, nelle varie ipotesi su come comunicare all'uomo di un futuro tanto lontano ciò che nasconde quella montagna, in quale lingua esprimersi? esiste un simbolo o un'immagine o addirittura un suono che sia interpretabile anche tra centomila anni? o è forse meglio tacere, nascondere il segreto e sperare che nessuno apra quel 'sarcofago' prima che l'effetto radioattivo sia svanito del tutto? è forse meglio in questo caso sperare nell'oblio da parte delle generazioni future di ciò che l'uomo sta nascondendo ora nella montagna?
Sarà per questo, immagino, che ho avvertito un profondo senso di compassione leggendo queste pagine, compassione verso un uomo che cerca disperatamente di non soccombere, dignitosamente cerca di resistere al pensiero della morte imminente evitando di cadere nelle tenebre prima ancora che il momento sia giunto, è Davide che lotta contro Golia ma questa volta nessun dio sarà dalla parte del più debole.
E premesso ciò, capirete benissimo quanto non sia semplice esprimere un giudizio su quest'opera: perchè occorre entrare in sintonia con l'autore, occorre immedesimarsi con lui, sentire il suo stato d'animo per diventare partecipe dei suoi pensieri ed ascoltarli in silenzio, come farebbe un buon amico seduto accanto al suo letto in ospedale.
Mankell ha scritto numerosi romanzi che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, in Svezia è secondo solo a Stieg Larsson e alla sua fortunata trilogia Millennium; forse quest'ultimo suo romanzo passerà inosservato per molti, soprattutto in Italia. Ma non per me.
In 'Sabbie Mobili' non c'è il commissario Kurt Wallander, con le sue indagini poliziesche; non c'è il fascino del continente africano.. c'è un uomo solo che gioca la sua ultima partita a scacchi con la morte, trascinando lentamente le sue pedine sulla scacchiera, meditando ogni mossa al fine di proteggere il suo re dallo scacco definitivo.
E forse sarà un caso che questo libro mi sia capitato tra le mani proprio ora, ora che anche mia madre è in ospedale in attesa di capire, di sapere.
Perchè una cosa è certa: le sabbie mobili attirano nel loro vortice di dolore anche chi vorrebbe aiutare, incoraggiare, offrire quella mano che non arriva dal cielo.. ma nulla si può contro quella forza che tira giù, nulla se non ascoltare in silenzio.

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L'occhio del leopardo dello stesso autore
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Romanzi autobiografici
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    30 Novembre, 2015
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Gli snodi dentro

Un ragazzo dietro la cassa di un bar che nella Sicilia degli anni '40 legge un libro di André Gide; una cameriera che pianifica l'assassinio di un sergente tedesco, stanca di subire le sue angherie; un insegnante di liceo, appassionato dantista, che impartisce una lezione di vita alla sua classe; l'incontro a Roma con David, ragazzo ebreo che alla promulgazione delle leggi razziali – cinquant'anni prima – aveva lasciato Agrigento insieme alla sua famiglia.

Sprazzi. Ricordi di un'esistenza, di ciò che abbiamo vissuto e ci si è impresso dentro, rendendoci quello che siamo. Insegnamenti ricevuti, spesso per volere del caso.
La nostra vita è, più d'ogni altra cosa, gli incontri a cui siamo destinati: un paese, un libro, ma soprattutto persone. Incontri che non hanno un ordine, una legenda, che in realtà si combinano dentro di noi in ordine sparso, rendendoci donne o uomini (sicuramente imperfetti ma, per questo, vivi e degni di “essere narrati”).
E' con questa consapevolezza che Andrea Camilleri ha inteso raccontarsi: attraverso scampoli di passato, le tre ore trascorse a dialogare con il vescovo di Livorno, la gioia di veder tornare in casa sua il comandante Campanella, dato per disperso in un drammatico naufragio, l'importanza che ha avuto il libro “La condizione umana” di Malroux nell'insegnargli a guardare il mondo.
Prevalgono, nel volume, episodi che vanno dal 1938 al 1945 (del 1942 in particolare). Ciò per due comprensibilissime ragioni: tutti noi conserviamo ricordi netti della nostra adolescenza, l'età che più di ogni altra ci forma, ma anche l'età nella quale i fatti vengono assorbiti attraverso una sensibilità che li amplifica molto più di quanto non accada prima o dopo. A maggior ragione ci si può immaginare quanto, in tale periodo della vita, rimangano impressi episodi di guerra, evento destinato ad incidere più di ogni altro sulle generazioni che hanno la sfortuna di viverlo sulla propria pelle.
Per la curiosità dei lettori accaniti, non mancano i piccoli aneddoti su personaggi ben noti della cultura italiana: dai dissidi lavorativi con l'attore Salvo Randone alla nostalgia per un incontro più volte mancato con Antonio Tabucchi; dalla diversità di vedute con Pier Paolo Pasolini sulla scelta di attori teatrali ad un'amena conversazione con Elio Vittorini; dal ricordo della personalità particolare di Carlo Emilio Gadda all'imbarazzo per una involontaria “bugia” raccontata a Primo Levi durante un breve incontro di lavoro.
Un'autobiografia molto bella, accorta e accorata come sa essere la penna del suo autore, che non a caso lascia per ultima la storia più triste del volume: quella di Foffa, prostituta di Porto Empedocle (paese natio di Camilleri) e madre di due anime sfortunate.

Dall'introduzione al volume:
“(...) gli uomini, le donne, i libri che racconto in questo breve testo hanno rappresentato per me delle scintille, dei lampi, dei momenti di maggiore nitidezza: e per questo ho voluto ringraziarli.”

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Romanzi
 
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Belmi Opinione inserita da Belmi    30 Novembre, 2015
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Il venditore di boza

Orhan Pamuk, Premio Nobel per la Letteratura del 2006, ci presenta il suo nuovo libro. “La stranezza che ho nella testa” parla, come ci racconta l’autore, “della vita, delle avventure, dei sogni, degli amici e nemici di Mevlut Karatas, il venditore di boza”.

Pamuk oltre a farci scoprire e vivere la vita del protagonista, ci porta all’interno delle case, nelle vie e nei locali di una città, Istanbul, che cambia, che si trasforma, fino a diventare quella che è oggi. Le tradizioni, i colpi di stato, i furbetti, la famiglia, i matrimoni combinati, l’istruzione e la religione, influenzeranno la vita di un uomo che pur dovendo affrontare molte difficoltà, non perderà mai l’ottimismo.

Ho detto poco sulla trama perché quando l’ho letta io, mi ero fatta un’idea sbagliata e quindi non voglio influenzarvi ma incuriosirvi.
Un’altra cosa che mi ha incuriosito e che dopo aver preso in mano il libro, soppesandolo, avevo valutato (ormai sono come gli intenditori, da uno sguardo di solito capisco il numero di pagine) che poteva essere un libro da poco più di trecentocinquanta pagine, invece sfogliandolo mi sono resa conto che erano ben 560. Non fatevi spaventare da questo; questa è una storia che va letta e assaporata pagina dopo pagina, perché il venditore di boza è un uomo che ha vissuto una vita che può sembrare ordinaria, ma che nella sua ordinarietà è veramente straordinaria.

Una frase per farvi capire qualcosa in più di Mevlut, da molti definito ingenuo e sognatore:

“Mevlut, se avessi vinto il primo premio della lotteria, cosa avresti fatto?..Sarei rimasto a casa con le mi figlie a guardare la televisione, non avrei fatto nient’altro”.

Per quanto riguarda lo stile, è il primo libro che leggo di Pamuk e ne sono rimasta piacevolmente colpita. Particolare è la scelta, oltre a quella di raccontare la storia del protagonista, di dar voce ai vari personaggi, che volta volta, in prima persona, raccontano la loro verità. Davvero singolare. Inoltre in molti casi anticipa quello che poi verrà narrato.

Vi lascio con quest’ultima frase:

“Il collegamento tra le intenzioni del cuore e le intenzioni delle labbra era la fortuna, naturalmente: uno può avere intenzione di fare una cosa, ma finisce per dirne un’altra; la fortuna era il ponte che poteva unire le due intenzioni”.

Lo consiglio, ne sono rimasta affascinata.

Buona lettura!!!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    29 Novembre, 2015
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Umorismo Noir

Grossi, tosti e cattivi. Così sono i personaggi di questo noir anomalo di Joe R. Lansdale. Una storia torbida, puntellata dallo stile particolare dell'autore, che alla lordura degli eventi che presenta contrappone un umorismo quasi onnipresente e che probabilmente lo contraddistingue dagli altri autori di noir.
Un umorismo che si concentra nei due protagonisti, che sono anche i personaggi di punta dell'autore, una coppia tutt'altro che male assortita, Hap Collins e Leonard Pine. Se poi a questi due folli affianchi altri personaggi come Jim Bob Luke e Vanilla Ride, facendoli muovere in un contesto ben congeniato e abbastanza originale, ottieni un mix quasi esplosivo.

"... Poi qualcosa si allenta e comincia sferragliare, come il bullone di una giostra in un Luna Park. Questa storia parte nel momento in cui il bullone ha cominciato ad allentarsi".
Ed è proprio così che evolve la storia. Parte lenta, Hap e Leonard si ritrovano indagare su una ragazza scomparsa, e seppure possa sembrare un caso non troppo pericoloso, tutto inizia lentamente a complicarsi, a diventare più cupo e macabro, finché tutta la storia esplode e i personaggi vengono catapultati in qualcosa di oltremodo brutto e pericoloso. Ma i personaggi di Lansdale sono dei veri duri, e non ci sono sicari bifochi e violenti, uomini senza scrupoli o armi abbastanza potenti da infondergli più paura del necessario.
La seconda metà del libro procede con un ritmo incessante fino alla fine, anche quando il lettore si aspetta che le acque si calmino, come accade in quasi ogni romanzo. A voi il compito di scoprire essere così.
Lansdale ci racconta una storia macabra, sporca, pericolosa, volgare, dove buoni veri e propri non ce ne sono; forse soltanto la voce narrante di Hap Collins, e nemmeno lui, non del tutto. Tutto questo ci viene presentato alla maniera di Lansdale, particolare e interessante. Decisamente non adatto a lettori facilmente impressionabili o disturbati da un umorismo che fa della volgarità parte integrante di sé stesso, consigliato a tutti gli altri.

"È così che funziona l'amore. Finché va bene, è una magia continua. Ma quando le cose si mettono male, diventa peggio che se ti pisciassero nella minestra."

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Romanzi storici
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    29 Novembre, 2015
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L'altra faccia della guerra

Per tutti gli affezionati del collettivo bolognese Wu MIng, è disponibile da pochi giorni l'ultimo lavoro intitolato “L'invisibile ovunque”.
La forza del collettivo sta nel raccontare le zone d'ombra della Storia, nella ricerca degli angoli grigi, delle vicende scomode, degli eventi insabbiati; sono mossi da un interesse per il particolare affinché assurga a idea generale, affinché sfoci in pensiero.

L'esigua mole del nuovo romanzo di primo acchito stupisce, memori dei precedenti volumi corposi e straripanti; tuttavia a fine percorso, il contenuto denso di questa manciata di pagine risulta più sostanzioso che mai.
Il romanzo è frutto di una sperimentazione stilistica differente che vede le quattro penne viaggiare in piena autonomia per confluire in un unico capolinea.
Quattro narrazioni dal tessuto differente si susseguono, facendo assaporare al lettore consistenze e prospettive molteplici su un tema pesante e pluri trattato come la Grande Guerra.
La grandezza dei Wu Ming è la totale assenza di banalità, di immagini trite e convenzionali, di pensieri standardizzati; con la solita tecnica narrativa che mescola reale a surreale, storia ad immaginazione, la visione proposta in lettura si arricchisce di notizie poco conosciute, estrapolate da fonti scarsamente citate e di punti di vista nuovi e alternativi, perché le strade polverose della Storia sono fatte anche di piccole ramificazioni che il tempo e certi opportunismi hanno cancellato.

Il controcanto dei Wu Ming ci presenta una guerra da cui scappare, un male da evitare con qualsiasi mezzo pur di far salva la pelle. Gli uomini che percorrono le pagine non sono pervasi da senso dell'onore e da amore cieco per la patria; sono uomini che vogliono sperimentare una via per svicolare dalla morte certa in trincea, non codardi ma attaccati alla vita, avversi alle follie dei potenti.
Ottimo pertanto il lavoro documentaristico per riportare alla luce i carteggi che conservano memoria di alcune compagnie di genieri “camaleonti” che studiavano tutti i mezzi possibili per camuffare soldati e trincee, per salvare vite sotto una pioggia infinita di morte.

Una Grande Guerra che vede l'uomo alla ricerca dell'invisibilità, per trovare un'evasione lecita alla distruzione, in uno scenario imposto, fatto di cannoni, di freddo, di sangue e di straniamento.

Il romanzo storico italiano deve tanto a Wu Ming, ci auguriamo quindi di poter leggere molto altro ancora.

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Maso Opinione inserita da Maso    27 Novembre, 2015
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Trastullo supremo e morte di Apollo

La libertà di astensione argomentata dal sottoscritto in altre occasioni, quella che del paradosso fa la propria fondazione - libertà di astensione come nemesi inscindibile de(a)lla libertà di espressione - si applica con grande agio e appropriatezza alle possibili considerazioni relative al nuovo romanzo di Joel Dicker. Considerazioni, dapprima, di carattere generico. In nome della consueta, accordata libertà di esprimere se stessi, inalienabile e sanguinolenta conquista dell’Occidente civilizzato, ogni uomo o donna ha l’opportunità di produrre un’opera e di tentare una sua divulgazione all’interno del contesto di fruizione sociale rappresentato dall’audience degli utenti alfabetizzati. Sempre più sembra al sottoscritto che la produzione di manufatti “di concetto” (opere d’arte visiva e, naturalmente, poetico-letteraria) si attui, in maniera sempre più diffusa, non tanto sotto la spinta di una necessità ma solo ed esclusivamente perché se ne ha una possibilità sia ideologica che concreta. Il solo fatto che si possa materialmente produrre e divulgare risulta una ragione sufficientemente valida per sentirsi spinti a farlo. Tutto il resto parrebbe passare con grande spensieratezza in secondo piano. Ogni analisi introspettiva volta a trovare le pulsioni, le spinte motrici del nostro agire viene meno in favore del fatto che un tale dispendio di tempo ed energie sembra non risultare necessario . Perché impostare una struttura motivazionale al fine di giustificare la nostra produzione quando possiamo, con molta più facilità, addurre come giustificazione il fatto stesso di avere, senza equivoci, la possibilità di produrre? Perché scomodarsi? Il mondo, signori (e non sono certo io a scoprire l’acqua calda) è dei furbi. Molta gente, quando vede il fango, sceglie il tepore del proprio salotto piuttosto che la scomodità di un paio di stivali. E ci sono molte più persone disposte a pagare chi sceglie il salotto, affinché se ne stia comodo in poltrona, piuttosto che colui che indossa le galosce, si scomoda e lascia che sia la tempesta a richiudere l’uscio con un colpo secco.
Ma la domanda non è da eludere, e va anzi resa più specifica: qual è il fattore determinante che porta lo scrittore (archetipico) a scegliere di progettare, abbozzare, scrivere, e infine di proporre e riproporre il manoscritto di un romanzo a chi si prenderà parte della responsabilità intellettuale di ciò che diverrà di pubblico dominio? Quale scena madre, quale sommovimento sinaptico, quale scarica di energia, quale impulso è responsabile della genesi primigenia del pensiero di scrivere? Vorrei giungere a comprensione. Dov’è il luogo d’origine della poiesis? Ci muove una necessità, un bisogno, una lacuna da riempire anche se questa si svuota di continuo. Tante attività sconfinano nell’hobbistica. La scrittura, le belle lettere con essa, retaggi apollinei di atavica provenienza, sono un’arte nobile. Sono un’arte espressiva, sono parte del corredo strumentale che l’uomo riceve dalla genetica per poter esprimere se stesso nell’ambito dei suoi simili. La letteratura, come tutte le modalità espressive, è nulla se non necessaria. Il divertissement è barbarico. La letteratura da badalucco è blasfema nella misura in cui frustra l’ipostasi prima, umiliando la funzione unica dell’agire considerato “artistico”. Sono centinaia le anime stracciatesi a-causa-di e per se stesse in nome di quell’ignoto perenne che è la pratica cosiddetta “artistica”, quelle che sono cadute nell’intento, che si sono coscientemente lasciate disgregare da ciò che risultava loro inaggirabilmente, inequivocabilmente, violentemente, irrimediabilmente, Necessario. Sono loro il carnale, il respiro; benché interrotto, di un grande corpo asperso di sacertà e disciplina.
La fiction, in questo tableaux così sanguinante, di primo acchitto sembrerebbe non trovare spazio. Sembra non possedere, esattamente a causa della propria natura immaginifica, lo stesso coefficiente di necessarietà che è invece grandemente evidente in contesti letterari più strettamente attinenti all’autobiografismo o alla saggistica. Ma, naturalmente, non è così. La necessità, nella mia opinione (che i puristi potrebbero considerare sconsiderata), può esteriorizzarsi in una traslazione. In un moto di matrice velatamente onirica, nel teatrino mascherato del significato che si incarna nella sua alterità, l’autobiografismo può insinuarsi potenzialmente in ogni narrazione fizionale, in ogni singolo monema. Accetto, io, la letteratura (e continuo a venerarla) esattamente in funzione di questo retromondo, solo in considerazione di ciò che risiede nell’intercapedine tra la finzione oggettuale, il significante, e il messaggio che questa veicola, il significato. Poiché è espressiva di un messaggio che si suppone sia stato appositamente, premeditatamente inserito al proprio interno per essere esportato e fruito. Dal momento in cui ritengo di percepire senza fallo la vacuità, e la gratuità di questa, all’interno dell’oggetto della mia attenzione, solo e solamente allora mi sento defraudato. Tanto quanto mi accadrebbe se mi si facesse credere nella presenza di una eccezionalità dentro una stanza e, al mio entrare, la trovassi spoglia.

Sono chiamato a parlare di questo romanzo, ma sto sistematicamente evitando di farlo. Un’aggraziata sinossi è l’ultima cosa che può venirmi fuori. L’intreccio è ininfluente e refrattario al commento, poiché ciò che dovrebbe essere commentato non sussiste. Nessun messaggio che non sia lapalissiano e passatista, nessun paragrafo che sia stato creato con l’intento genuinamente comunicativo proprio di chi ha uno strenuo bisogno di fare ciò che fa. La “letteratura” da passatempo, per chi la produce e per chi la mastica, non è letteratura. La letteratura che occupa il tempo senza abitarlo altro non è che il delitto perpetrato dal vanaglorioso in combutta col finanziere. E di questo sono stanco. Che Joel Dicker abbia letto Dickens (quanti oceani tra due lettere) è irrilevante tanto quanto è grave l’averlo travisato: il regno della maniera, del buonismo, della scontatezza, delle coccole, dei biscotti e del profumo di shampoo alla violetta è passato da un pezzo; per ogni pugnalata e ogni umiliazione che Jean Genet (uno a caso) infligge a se stesso, c’è un Joel Dicker che caramella gli orrori della guerra, consegnando il copione alla più malriuscita contraffazione di una manica di personaggi-stereotipo, piagnoni privi di ritegno divisi tra lazzi e cliché da capogiro. Gli innesti di carattere storiografico, marcatori non poco importanti nell’architettura narrativa di un romanzo che abbia la pretesa di essere etichettato come “storico”, sono il prodotto di una ricerca che può dirsi tale solo perché deduco che gli avvicendamenti, anche i più arcinoti, siano stati fisicamente “ricercati” in quanto materiale ritenuto utile. Non trovo altre accezioni che accomunino la parola “ricerca” alla inconsistente contestualizzazione storica che essa ha prodotto e che, in casi estremi (come quello in questione), avrebbe perlomeno dato uno straccio di giustificazione all’attenzione profusa dal lettore. È la storia più vecchia del mondo, alla fine di tutti i conti: quando si comunica per luoghi comuni, quando ci si esplicita con il già-detto significa che molto probabilmente non si ha nulla da dire, o, per lo meno, che mancano le necessarie capacità per farlo adeguatamente. Benvenuto sia chi detesta autunno e primavera.
La mia boccetta di veleno è scesa solo di qualche millilitro, ma la richiudo ora, ermeticamente, con una consapevolezza di sughero che, esplicitata, suona certamente come una sproporzione. Per quanto mi riguarda, indefinitamente, basta romanzi. Se lo scettro è del popolino intellettualoide che, sussiegoso e smaniante, presume di saper far bene peccando di alterigia, allora io saluto l’allegra brigata. La cesura è personale; ed è nero su bianco, certamente, non per fungere da acciarino per lo scalpore, ne per la vanità di un desiderato interessamento. Chi vuole intendere, intenda.

Ciò che è fatto per noia non sia fatto. Boicotto come posso.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    27 Novembre, 2015
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Ciak si gira

Anna Lou e’ bellissima nella sua insicurezza di sedicenne timida, dai tratti ancora infantili, minuta tra i capelli rossi e le lentiggini.

“La giustizia non fa ascolti. La giustizia non interessa a nessuno.”
La giustizia non e’ abbastanza accattivante per i riflettori, quello che fa audience e’ il mostro. Trova il mostro e avrai il tuo pubblico, ghiotto di servizi in diretta, salotti pomeridiani, opinionisti da prima serata, turismo del delitto corredato da foto ricordo.
Cosa cercate quando accendete la TV dopo l’ennesimo tragico fatto di cronaca? Le scelte dei media seguono una regola precisa : l'offerta si adegua sempre alla domanda.

E nel frattempo Anna Lou e’ scomparsa.
Allontanata dalla sua casa, forse morta, sparita dalla memoria perche’ lei e’ solo la vittima. Il suo nome verra’ dimenticato, invoca giustizia. Roba vecchia la giustizia, nell’arena il pubblico vuole altro. Vuole vedere la belva che ha addentato, le fauci spalancate e le zanne che colano sangue.

Anna Lou amava i gatti . E scriveva d'amore su un diario segreto.

Letti dieci, cento o mille thriller i profili delle vittime tendono ad assomigliarsi, i modus operandi ad amalgamarsi, le tecniche investigative a coincidere. Per un buon esito serve allora quell’elemento in piu’ che faccia la differenza, che insaporisca con qualcosa di decisamente nuovo un piatto gia’ cucinato.
Qui c’e’ : si chiama prospettiva.
Nel gioco di Donato , mentre tu cerchi il killer, il killer cerca te. Tu sei il pubblico.
Sospetti, indagini, aggiornamenti dell'ultima ora, il sadico, lo stupratore, l'assassino, il maniaco. Gli indizi non hanno bisogno di giudice nel tribunale popolare in diretta nazionale.

Dal ritmo apparentemente blando e dalla trama a prima vista elementare, il romanzo coglie di sorpresa il lettore rassegnato alla mediocrita' e prende velocita’, tra colpi di scena inaspettati e capitoli che si mischiano in un’ardita e avvincente maglieria temporale .
Semplice ma abile, giochi di ombre e scivolii ghiacciati su un lago su cui camminiamo quotidianamente. Finche’ il peso non diverra’ insopportabile e verremo ingoiati da acque gelide.

Vi siete forse dimenticati della piccola Anna Lou ?

Buona lettura.


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Romanzi
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    26 Novembre, 2015
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Genitori e figli

Questo libro parla della storia di una famiglia e della storia d'Italia degli ultimi quarantanni. Un progetto ambizioso, ma pienamente centrato dall'autore.
Teo, l'io narrante del libro, sta tornando a casa quando viene raggiunto dalla telefonata preoccupata dei genitori. Il fratello magggiore Max è scomparso con i figli. In realtà più che scomparso non ha risposto al telefono ma tanto basta a preoccupare la famiglia.
Durante il viaggio da Bologna verso le montagne trentine alla ricerca di fratello e nipoti Teo ci racconta una serie di aneddoti della famiglia Lombardi. Si tratta delle tipica storia di due giovani del ceto medio alto anni '70. Laureati, con un buon posto di lavoro danno ai figli il meglio in termini di istruzione, abiti, viaggi. La famiglia è costituita da due maschi nati a distanza di due anni e più tardi da una bambina.
Intervallando aggiornamenti sul viaggio a racconti di vita familiare Brizzi ci fa capire poco alla volta le ragioni per cui l'assenza di Max preoccupi tanto il resto del suo clan. L'abilità dell'autore riesce a far salire poco a poco la tensione, fino a raggiungere il culmine all'arrivo in montagna. Lì sapremo che cosa ne è stato dei tre.
Dicevo, questo libro ci racconta anche la storia d'Italia. In realtà quella dei fatti di cronaca è solo accennata. Tangentopoli, le stragi di mafia, i terremoti politici ed i social sono solo un mezzo per spiegarci l'effetto che hanno avuto sui Lombardi.
Vengono invece approfondite le dinamche familiari, che però sono qualcosa di comune ad un'intera generazione.
Brizzi ci parla di giovani degli anni '70 che partendo da poco hanno raggiunto molto più di quanto avevano i loro genitori. Una carriera di successo, figli belli e sani ai quali hanno dato istruzione salute e perchè no anche la spintarella. Convinti di averli messi nella migliore delle condizoni possibili hanno aspettato di vederli decollare in orbita. Con loro sgomento invce li hanno visti annaspare cercando di non affogare e si sono disperati vedendoli sciupare la vita.
Dall'altro lato invece i figli di genitori con un posto fisso, la casa di proprietà e la prospettiva di una buona pensione li vedono come dinosauri/extraterrestri. Orfani del boom economico ormai sgonfiatosi, fiaccati dal precariato e da rate impossibili del mutuo hanno perso anche la voglia di vivere. Alcuni come i Lombardi si rifugiano nelle droghe per consolidare imprese sportive o portare a termine notti brave. Altri rifiutano di crescere e rifuggono l'idea di avere figli. Salvo poi capire che genitori e figli sono gli unici legami veramente importanti.
L'altro tema trattato sono i rapporti tra fratelli. I maggiori sono visti dapprima cone eroi per poi diventare avversari da battere. I minori passano da cuccioli da proteggere a bestiole da nascondere agli amici. Salvo poi col crescere diventare qualcuno di solido su cui appoggiarsi indipendentemente dall'età.
Bel libro, un pò lungo ma pieno di aneddoti simpatici e pagine profonde che in parte condivido.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    26 Novembre, 2015
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Non si muove foglia che il crimine non voglia

Fantattualità? Distopia in tempo reale? O solo cruda realtà trasposta in romanzo?

“Tu fammi fuori e Roma si paralizzerà. Non si muoverà più una pietra, in questa benedetta città. I cantieri si bloccheranno, e dovrete vigilarli con l'esercito. Ma per quanti uomini metterete in campo, noi ne avremo sempre uno in più di voi. E vuoi sapere perché? Perché questo mondo, e questa città, sono pieni di disperati. Gente che è pronta a vendersi la madre per dieci euro. E noi di soldi ne abbiamo tanti, ma tanti. A differenza di voi, che dovete fare i conti con il bilancio, le regole, le restrizioni, la legalità.”

Marzo 2015.
Tutto parte dal Vaticano, dalla decisione di papa Francesco I di indire il Giubileo straordinario per l'anno 2016, e dall'incarico conferito dal pontefice argentino a monsignor Giovanni Daré, suo uomo di fiducia, affinché l'avvenimento sia predisposto nel modo più consono, tenendo lontani falsi timorati di Dio e sciacalli.
Non basta. Perché c'è chi non è disposto a rinunciare a un affare del genere, alla gestione dei grandi appalti, ai soldi pubblici da predare. Non se ne può rimanere fuori, nonostante sulla poltrona di Sindaco di Roma sieda una persona integerrima: quel Martin Giardino detto, non a caso, “il tedesco”. D'altronde, in politica, la distanza tra legittimazione a governare e delegittimazione è molto labile: lo spazio di una rinegoziazione sotterranea degli accordi tra vecchie volpi di partito. La stessa Chiesa di Roma potrebbe piegarsi al timore di uno scandalo soltanto minacciato. Non è forse vero che basta trovare il punto debole di ognuno, persona o istituzione che sia?
Il punto è chi potrà essere a beneficiarne: è una questione di forza e “capacità militare”, cioè di gestione della violenza. Con il “Samurai” in carcere, è Sebastiano Laurenti a tenere in mano le redini della capitale.
Massima considerazione per il “Samurai”, certo, ma Laurenti è alla sua altezza? Per Fabio Desideri no, e forse è arrivato il suo momento di prendersi Roma, con il benestare delle mafie.

L'ultimo romanzo di Giancarlo De Cataldo (autore di “Romanzo criminale”) e Carlo Bonini (giornalista di “Repubblica”) è il seguito di un altro libro da loro scritto: quel “Suburra” la cui trasposizione cinematografica è recentissima.
Protagonista, in quel volume, era la figura del “Samurai”, prima eversivo di destra poi affarista e “padrone” di Roma. Ora che è in carcere, l'erede designato è Sebastiano Laurenti, uomo apparentemente deciso ma in realtà condizionato dal proprio passato e dall'ombra del suo mentore.
“La notte di Roma” è lontano da “Romanzo criminale” (tra le opere di De Cataldo, di sicuro insuperato), ma è comunque un volume ben costruito.
Il suo punto di forza non è tanto nell'estrema attualità dei fatti – oltre che del Giubileo si parla, ad esempio, del Movimento 5 Stelle – ma in precisi riferimenti, magari meno espliciti e tuttavia evocativi di una certa mentalità che ha consegnato l'Italia alla corruzione e all'impoverimento (la politica ne esce come al solito malissimo, con i suoi metodi truffaldini attuati attraverso un controllo “paramafioso” del territorio). La notte di Roma come centro di un intero paese. Agli interrogativi iniziali, dunque, si finisce per rispondere con un certo scoramento: il racconto pare più vicino alla realtà che a un'alternativa distopica.
Quel che infastidisce un po', durante la lettura, sono invece certe citazioni inutili che finiscono per apparire “ruffiane”: la menzione di Camilleri, ad esempio, o di Danilo Rea, che, non aggiungono nulla all'inquadramento del periodo, sembrano messe lì sol perché lo impone la “tendenza” (guai a tenersene fuori!?).

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"Romanzo criminale" di De Cataldo; libri sulla corruzione nella politica e nell'amministrazione italica dell'ultimo trentennio.
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    25 Novembre, 2015
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Anche l’Africa ha il suo Sherlock Holmes

Se dico Sherlock Holmes, cosa vi viene in mente?
1800? Inghilterra? “Elementary, my dear Watson”?
Io, dopo la lettura di questo romanzo, penso solo a Ogbà.

“Il tempo delle iene” è il nuovo libro di Carlo Lucarelli, il secondo ambientato in Eritrea durante il colonialismo italiano: il lettore potrà immergersi ancora una volta nelle indagini del comandante Piero Colaprico e del carabiniere indigeno Ogbà.
Già dalle prime pagine, il narratore onnisciente informa il lettore del caso su cui i due protagonisti dovranno indagare. Il primo giorno, all’alba, un giovane pastore trova appeso a un ramo di un sicomoro (o meglio, del sicomoro, data la sua importanza) il cadavere di un bracciante di una stazione agricola. Il cadavere viene tirato giù dall’albero e si decide che il giorno seguente ci sarebbe stata la benedizione dell’albero profanato dal suicidio.
Tuttavia, una nuova macabra scena si presenta all’alba: “Davanti al clero della vallata che avanzava solenne avvolto nelle cappe ricamate, con in mano croci di legno, di ferro e d’argento, la mattina dopo, di impiccati attaccati allo stesso ramo ce ne erano due”.
E la serie di morti non finisce qui.
La mattina del terzo giorno, appeso al sicomoro, c’è un terzo cadavere. Un solo uomo, che però vale come l’intero villaggio: “Perché a penzolare sotto l’occhio di berberè del grande sicomoro come una lacrima sul controluce dell’alba, questa volta c’era un ferengi, un bianco. Ma non un ferengi qualunque. Un marchese. Il marchese Sperandio”.

“Il tempo delle iene” è un giallo storico, un genere che negli ultimi tempi sembra riscuotere un buon successo. A mio avviso, è però un “ottimo” giallo storico: l’autore, con grande abilità, riesce a unire storia, cultura e suspence in un racconto breve (196 pagine).
L’interesse (e penso anche l’amore) dell’autore per l’Eritrea e le sue tradizioni emergono in ogni frase, in ogni capitolo del romanzo: le parole in tigrigna, i riferimenti agli usi e i costumi…
Sono tutti aspetti che rendono le indagini del comandante Colaprico ancora più reali.
Inoltre, nonostante la distanza geografica tra Corno d’Africa e Italia, i riferimenti all’Emilia Romagna sono sempre presenti, come se ci fosse un filo invisibile, un legame indissolubile a unire le due regioni.

Non voglio raccontare molto della storia per paura di rovinare la lettura a un futuro lettore.
Ammetto che ho “sentito” la mancanza dovuta al fatto di non aver letto il primo romanzo con questi protagonisti. In alcuni passaggi è come se, avendo già presentato Colaprico e Ogbà precedentemente, l’autore evitasse di ripetersi e sottintendesse diversi loro aspetti.
Comunque ci tengo a sottolineare che un aspetto davvero molto importante è la capacità con cui l’autore riesce a creare e a rendere unici i suoi personaggi.
Tutti quelli che compaiono in scena (uomini, donne, bambini), anche solo per una pagina o qualche riga, sono talmente ben descritti che non ho fatto nessuna fatica a immaginarli come veri, come persone realmente esistite e che hanno sofferto, gioito, che hanno vissuto una vita.

Ogbà è probabilmente uno dei personaggi più particolari che abbia mai incontrato nella lettura di un romanzo: è davvero lo Sherlock Holmes abissino, pur senza sapere di esserlo!
Potrei discutere per ore dei personaggi di questo romanzo ma come dice lo stesso Lucarelli: “Ce ne sarebbero altri, ma se continuo così li metto tutti. Li lascio là dentro, allora, nel romanzo. Che vengano fuori da soli”.
Quindi, che dire se non buona lettura? :)

“-Ecco cos’è il cafard… un insetto che ti entra dentro l’anima e te la divora piano piano. La parola l’ha inventata un altro poeta amico di Arthur che si chiama Charles Baudelaire: significa ‘scarafaggio’ e rende bene l’idea.-
Era una cosa importante, ma Colaprico non se ne rese conto perché proprio in quel momento ne successe un’altra che lo sembrava di più. L’ultima delle cinque che accaddero in quei giorni e casualmente tutte di notte”

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Consigliato a chi ha letto altri romanzi di Carlo Lucarelli, in particolare il primo romanzo con protagonista il comandante Colaprico.
Consigliato anche a chi è appassionato di storia, data la grande attenzione dell'autore nella ricostruzione del periodo storico.
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    24 Novembre, 2015
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Quando il sequel distrugge il mito

È sempre azzardato scrivere il sequel di un libro di successo. É stata una vera follia, a mio avviso, scrivere il seguito de “ Il buio oltre la siepe”, un romanzo-mito non solo per la società americana che lo ha reso lettura obbligatoria nelle scuole, ma per tutto il mondo che si riconosce nei valori di uguaglianza e libertà che in esso vengono celebrati. La letteratura conosce diversi casi di narrativa sviluppata in ampi cicli, in cui ritornano personaggi che il lettore ha amato e dei quali desidera seguire le sorti nel passare del tempo, ciò con risultati spesso deludenti. Si pensi, tanto per fare un solo esempio, al ciclo dei Rougon- Maquart di Zola. Persino il grande, eccellente scrittore francese fu meno convincente nei romanzi successivi all’Assomoir che pure seguivano le vicende della stessa famiglia.
Nel caso di “Va’ metti una sentinella” il titolo diviene ironicamente profetico, più per il lettore che per la protagonista del romanzo.
Ritroviamo, dunque, la piccola Scout, ormai donna, che rientra a Maycomb da New York per una vacanza. Il mondo intorno a lei appare ai suoi occhi in tutta la sua meschina grettezza di provincia piena di pregiudizi e di limiti. Nessuna pietà Jean Louise-Scout mostra nel giudicare anche i suoi affetti più cari. Il soggiorno nella sua città natale é l’occasione per la sua dolorosa crescita definitiva, il momento per vedere le cose nella loro giusta dimensione, nella loro vera essenza. E ciò che vede non le piace, ma sarà costretta ad accettare la realtà, perché é solo così che potrà continuare a vivere, accogliendo nel proprio cuore anche quei limiti, quei grandi limiti che scopre nelle persone che ama.
Il versetto tratto dalla Bibbia al capitolo XXI di Isaia, “Va’ metti una sentinella”, letto durante la funzione religiosa dal Signor Stone, sarà profetico per Jean Louise. Ella dovrà guardare avanti, approfondire le cose, senza fermarsi alle apparenze.
Senza voler fare dell’ironia, il dramma investe più il lettore che si era affezionato all’immagine di certi personaggi al di sopra di ogni sospetto, e che ora si trova di fronte a eroi dimezzati, che gestiscono i loro pregiudizi e con essi convivono con naturalezza.
Certo il periodo in cui il romanzo fu scritto è stato tra i più complessi per il superamento della discriminazione razziale negli Stati Uniti. Negli anni cinquanta si era in pieno maccartismo, e la caccia alle streghe e il Klu Klux Klan imperversavano e la paura del comunismo era diffusa soprattutto nel ceto borghese e benestante. Questo romanzo, dunque, scritto in quell’epoca ma pubblicato solo ora, sembra voler quasi correggere l’impostazione assai più aperta de “Il buio oltre la siepe”. C’è da chiedersi se la scelta di diffondere ora quest’opera sia dovuta a mera speculazione editoriale o piuttosto a considerazioni più speculativamente politiche.

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Il buio oltre la siepe
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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    20 Novembre, 2015
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Prendi la tristezza in mano,soffiala nel fiume

La strana biblioteca è una favola di Murakami Haruki che, nell’edizione italiana, è illustrata da Lorenzo Ceccotti. Una settantina di pagine scritte a caratteri grandi, con lo stile semplice e un po’ enigmatico di tutte le fiabe, intervallate da numerose inquietanti illustrazioni. Una lettura di pochi minuti che libera una gran quantità di immagini, ci si mette più tempo a riflettere sul suo possibile significato che a leggerla.
C’è una biblioteca, c’è un bambino, e c’è il male. Nella biblioteca, nel labirinto degli infiniti mondi che si parlano, si intrecciano e si rincorrono, le tenebre possono essere rischiarate dalla luna nuova, si possono fare incontri con le più tenere creature dei tuoi sogni, e si può sperare che il cane feroce che ti terrorizza e ti mangerà vivo sia invece attaccato e annientato dal tuo piccolo storno. E quando uscirai dal labirinto delle pagine, il male rimarrà prigioniero lì dentro e nessuno ti farà domande, né ti chiederà spiegazioni.
Nel mondo reale non è così, la sofferenza e la solitudine si dissolvono con molta più fatica. “Quando sono solo, il buio intorno a me si fa molto profondo. Come in una notte di luna nuova”. Il mio piccolo storno rimarrà sempre un uccellino, non incontrerò mai l’uomo pecora e nessuna ragazza dalla pelle splendente come la luna verrà a sedersi vicino a me.
Come sarebbe bello se la tristezza e il dolore potessero sempre essere rinchiuse tra le pagine di un libro….

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Non indispensabile. Però l'investimento in tempo è veramente minimo e la lettura, che in un primo tempo lascia un po' perplessi, continua a solleticarti anche dopo e tutto sommato la apprezzi di più a distanza.
Scimmiottando i gourmet: boccone amaro, ma con retrogusto apprezzabile ...
Il giudizio è fatalmente influenzato da un po' di reverenza verso il più volte quasi-Nobel
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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    19 Novembre, 2015
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Maestro Geppetto

La bambina e il sognatore non è il romanzo che uno si potrebbe aspettare dalla trama: un maestro indaga sul rapimento di una bambina di 8 anni che gli appare in sogno. Non è un giallo o un racconto visionario. Forse non è nemmeno un romanzo. Di certo si scosta molto da Isolina, Bagheria, e dal bellissimo La lunga vita di Marianna Ucria. Forse il denominatore comune è l’interesse di Dacia per le donne e l’attenzione alla violenza sulle donne che negli ultimi anni è diventata impegno contro la violenza ai bambini, basti pensare ai racconti di Buio.
Credo che una donna intelligente e gentile come lei si rassegni con difficoltà alla realtà della violenza. Questo romanzo così poco romanzesco vuole essere un’opera socratica in cui Dacia tramite il maestro Nani Sapienza, un uomo con il grande desiderio di essere padre, dialoga con gli alunni e dunque con il lettore sul rapimento della bambina, sulla violenza subita dai bambini, sulla violenza in generale, sul fanatismo religioso che sfocia nella violenza, e su quella cosa terribile a cui si pensa così poco che è la prostituzione minorile che alimenta il turismo sessuale di tanti padri di famiglia rispettabili in luoghi in luoghi come la Cambogia dove vendono bambine di pochi anni. Mentre il maestro Nani dialoga con gli alunni, quindi con noi, c’è anche un secondo dialogo che il maestro conduce dentro di sè tra la parte del suo animo sognatrice e fiduciosa nella bontà del mondo e quella più dotata di buon senso che lo indurrebbe a un tipo di riflessione più cinica e amara cui lui non vuole cedere. Il romanzo in certi punti è strano. Il maestro non fa che dialogare e far domande anche indiscrete alla madre della bambina rapita per esempio o ai suoi vicini. Certi discorsi sembrano inopportuni. Eppure nonostante Dacia ci abbia abituato a romanzi superiori come qualità letteraria c’è in questo libro una tensione alla ragione, alla non violenza, una fiducia nel dialogo e nella bontà dell’uomo che è toccante e rende questa favola interessante e portatrice di un messaggio positivo e profondo: il male può essere tenuto a bada e anche quando c’è, vedi la ragazzina stuprata in una casa di prostituzione in Cambogia e resa alla nonna perché in fin di vita, anche in questi casi il bene può sanare il male e arrivare a tirarne fuori miracolosamente altro bene. E’ difficile arrivare all’età di Dacia e avere una visione del mondo così positiva, fiduciosa e bella. Eppure bisognerebbe riuscire a guardare le cose come fa lei per poter lasciare ai figli la capacità di uno sguardo sul mondo che non sia troppo cinico e amaro. Per questo, credo che il romanzo trasmetta qualcosa di forte anche se non tramite il canale della letteratura cui Dacia ci ha abituato. Qui lei parla più alla ragione, da filosofa, e parla con un linguaggio semplice come si farebbe forse non con i bambini ma con persone (come noi) con qualche difficoltà a capire parole che vanno al di là del buon senso e si spingono nel territorio umano ma irragionevole della fiducia e della speranza verso quello che c’è di buono nell'uomo. Il maestro Nani Sapienza sembra avere un nome simbolico: la sapienza dei piccoli. Bella anche la fiducia romantica nell'amore. L'uccellaccio che c'è in me si chiede come abbia fatto dopo tanti anni di convivenza con Moravia (a giudicare dai libri di lui) a conservarla.
Spero che la storia della bimba riportata a casa dalla Cambogia non sia vera. Anche se finisce abbastanza bene, mi ha turbato molto.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    16 Novembre, 2015
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Rudd, il mio nome è Sebastian Rudd.

Nonostante sia un noto avvocato Sebastian Rudd non è il classico legale da cartelloni pubblicitari o da panchine alle fermate dell’autobus. Non ha uno studio tradizionale, un recapito telefonico sull’elenco né tanto meno è disposto a pagare per andare in televisione cosa che, seppur non richiesta, generalmente accade. Egli è un difensore di strada, un c.d. avvocato canaglia.
Il suo lavoro consiste nell’assistere i criminali più disparati, e tendenzialmente tutti quei soggetti che si sono macchiati di una moltitudine di reati, fatti moralmente ripugnanti per la comunità e tali da rendere aggressivo, guerrafondaio, assetato di vendetta e pronto ad impugnare un’arma perfino il cittadino più pacifico e incorruttibile.
La sua vita è la legge, di fatto appassionante e talvolta appagante. E’ uno dei tanti azzeccagarbuglie sulla piazza, la differenza risiede nel fatto che egli non si fa scrupoli sul chi ha davanti, non giudica e fa del suo meglio per garantire quella difesa che spetta a ciascun imputato. Talvolta riesce nel suo lavoro, altre no. Quando però seduto al suo fianco vi è un innocente che si è trovato vittima di un complotto o dello stato-padrone e delle sue forze armate, non ha remore Rudd, combatte a spada tratta, va avanti imperterrito onde ottenere un risultato positivo per il suo cliente. E’ una circostanza questa che non gli capita molto spesso, ma quando si presenta fa si che tutta la passione per il suo lavoro e tutta l’insoddisfazione per quel sistema, dove la polizia può entrare in casa di un innocuo contribuente e uccidere liberamente senza prova alcuna della sua innocenza o colpevolezza perché giustificata “dall’azione” che si stava ponendo in essere, trapelino.
Certo, i suoi mezzi sono alquanto opinabili e certamente da appurare, ma d’altra parte, se coloro che avanti tutto dovrebbero ricercare la verità e la giustizia sono i primi che non hanno problemi a giocare sporco, a sommergere le prove, a insabbiare i “fatti scomodi”, e a cercare il capo espiatorio persino quando è più che palese che al banco dell’imputato vi è una persona che non ha commesso l’addebito e che viene giudicata esclusivamente in base all’aspetto o alla fama, perché dovrebbe farlo lui?
Questo è il quadro iniziale che ci viene descritto da Grisham nella sua ultima pubblicazione. Sebastian è un uomo abituato a combattere, a sfidare il sistema, un soggetto eclettico, egocentrico, sicuro di sé con pochi scrupoli e con un concetto molto lato del giusto e dello sbagliato, ma è anche un individuo stanco di quello Stato-polizia, sfiancato da quella storia che si ripete, da quella legge di strada che si contrappone e mette in contrasto con quella applicata nei Tribunali.
Durante tutto il corso del romanzo vediamo calato il nostro avvocato canaglia in casi diversi e sempre più differenti, lo scrittore così facendo, non solo facilita l’inquadramento delle vicende nonché del protagonista per il lettore, ma al tempo stesso apre una parentesi sulla giustizia statunitense e sulla realtà di questa.
Sul finale è lo stesso Rudd ad essere messo spalle al muro. Cosa fare, da che parte stare ma soprattutto, come muoversi? Come tutelare quel giovane cliente da una condanna dai 15 ai 30 anni di carcere così da evitare che una volta fuori questo sia talmente arrabbiato e indottrinato da quel che negli anni di galera i suoi compagni di disavventure gli hanno propinato convincendolo che lui è la vittima e non il colpevole, che se è li non è una sua responsabilità ma bensì errore di un meccanismo legale marcio in un cui un avvocato altrettanto discutibile non ha saputo mettere in atto qualche trucchetto decente idoneo a convincere la giuria e la Corte, tanto che abbacinato da tale utopistica prospettiva si tramuti da delinquente occasionale a delinquente abitudinale? Come salvare quella giovane donna, come collaborare con le forze dell’ordine senza perdere l’altrettanto opinabile informatore?
Un giallo giudiziario caratterizzato da questioni giuridiche che si susseguono le une alle altre, colpi di scena, tattiche di sopravvivenza, giochi di scaltrezza e schemi legali applicati e sorretti da un linguaggio chiaro, conciso, diretto.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    15 Novembre, 2015
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Un ironico intreccio a più voci

Ironico, simpatico e molto piacevole. Una storia semplice che già dall'inizio dà l’impressione di non voler prendere in giro il lettore, e infatti non lo fa. De Silva usa a pieno la sua napoletanità, quell'ironia intelligente e matura che ci conduce lungo tutta la durata del racconto. La storia di due amanti, maturi, alle prese con le rispettive famiglie, con i rispettivi coniugi, alla quale probabilmente non hanno più molto da dire, ma che, come sempre succede in questi casi, non riescono a dire addio.
Il rapporto clandestino, ricco di passione e di comuni litigi, non si tratta di una smielata fabula da romanzo rosa. Il romanzo è scritto a più voci, principalmente quella di lui e di lei che si alternano capitolo dopo capitolo, poi l’inusuale terza voce dello psicologo alla quale tentano di affidare la decisione che neanche i due amanti riescono a prendere. Le vicende sono narrate da entrambi i punti di vista, De Silva conosce bene le dinamiche relazionali tra uomo e donna, piacevole leggere il punto di vista maschile, nella quale spesso mi ritrovo, non come amante clandestino, ma come altra parte di una coppia. Non posso esprimermi per quanto riguarda il punto di vista femminile essendo io stesso di parte, non fosse altro che per genere naturale, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa una donna. Il mio parere è che De Silva faccia un bel tentativo stilistico, identificandosi in una donna, mi rimane il dubbio che questo immergersi nell'universo femminile sia realmente riuscito, solo una donna potrebbe fugare questa mia incertezza.
Scrivendo d’amore e nello specifico di un amore fra amanti, si corre il rischio di cadere nella banalità di travagliate vicende amorose, sofferenze e drammatici episodi morbosi e angoscianti, De Silva con intelligente ironia riesce a raccontarci un altro aspetto dell’amore che troppo spesso le cronache ci riportano con strazianti e delittuosi eventi. Quello che in questo romanzo ho trovato con piacere è il giusto peso che si da agli avvenimenti della vita, questo atteggiamento ci permetterebbe di superare le difficoltà con un po’ di ironico fatalismo.
Non intendo banalizzare le tragedie che i telegiornali ci riportano ogni giorno, per quelle ho immenso rispetto, parlo di storie strazianti raccontate al solo scopo di fare audience.
Una lettura piacevole grazie alla pulizia della scrittura di De Silva.

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siti Opinione inserita da siti    12 Novembre, 2015
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Chirù, leggilo tu...

Mi accosto alla lettura con estrema diffidenza, mi armo di difese se devo affrontare un nome già noto, fatico il doppio a lasciarmi andare, colpevole e consapevole di non aver voluto leggere ancora niente del nome in questione.
È la volta di Michela Murgia, osannata con il suo “Accabadora”che appunto non ho letto e per il quale non posso esprimermi. Posso solo riferire ciò che ne ha segnato le distanze: lessi a suo tempo del fenomeno tutto antropologico della eutanasia alla sarda da non sentire l’esigenza di vederlo riproposto in termini narrativi.
Ora, a lettura terminata del nuovo romanzo “Chirù”, qualcosa di indefinito mi allontana da quello che, ho sperato, potesse essere una scoperta. Mi fa piacere che dal panorama sardo si levino delle voci ma mi piacerebbe ancor di più che quello che raccontano fosse sostanziale ed emozionante.
La storia narrata in “Chirù” è stata in qualche modo “spinta” da un fenomeno molto tipico del nostro tempo. In una commistione di linguaggi, nell’era delle sperimentazioni comunicative per eccellenza, Chirù è uscito da un libro non ancora pubblicato e si è fatto personaggio inventato con tanto di profilo su Facebook, gestito dalla sua autrice. Il successo mediatico c’è stato e Chirù, il vero assente del libro, è stato protagonista indiscusso di se stesso. Non avendo un profilo Facebook né tempo per questi giochini da social network, pur riconoscendo l’originalità di questo linguaggio contaminato, non posso esprimermi neanche su questo.
Ho però letto il libro e allora a quello veniamo, perché di quello in fondo si deve parlare quando ci si presta a scrivere una recensione.
La storia è quella di Eleonora, attrice di teatro, sarda, che dopo precedenti, non sempre edificanti, sulla soglia dei quarant’anni, con una vita da definire nei suoi contorni più stabili, cede ad una sorta di impulso che pare animarla: diventa nuovamente la “maestra”, la guida formativa, la tutor di un giovane studente di violino. Li separano vent’anni d’età e la presunzione dell’adulto sul giovane. Tra cambi di scena per cui si alternano tiepide descrizioni del capoluogo isolano ad ambientazioni romane, svedesi e due brevi parentesi una praghese, l’altra fiorentina , l’impressione è quella di assistere ad un tirocinio formativo al contrario. Ripercorrendo varie tangenziali della memoria, in un recupero mai autentico ( fa eccezione la pagina sulla malattia della madre e sul loro rapporto), ci si avvicenda tra Eleonora bambina, Eleonora figlia ingabbiata in una famiglia che ferisce, Eleonora tra i suoi uomini - ex e nuove conoscenze- , Eleonora e Chirù. Questo è nel romanzo un fantasma che agisce da controcanto agli stati d’animo di una donna autentica e complessa, fondamentalmente alla ricerca di se stessa.
Sul piano narrativo il libro è disorganico, sfuggente, impalpabile. Non c’è storia!
Sul piano stilistico apprezzo una buona penna ma da esercizio stilistico: le corde emotive non vibrano mai. La prova è , a mio parere e secondo il mio gusto, del tutto fallita. Consiglio come sempre la lettura perché si può parlare di ciò che si conosce ma questo libro non rientrerà mai nel novero di quelli : “ Come? Non lo hai mai letto?”

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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    12 Novembre, 2015
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Chi ha ucciso Hopper?

Cosa accade se un innocente è in prigione? Chi può dare giustizia alla voce di un disperato che implora di essere ascoltato? Forse l'unica a poter raccogliere questa supplica è una giovane e ambiziosa assistente cameraman, anche se di piccola statura. Rune è l'unica a non voltargli le spalle, quando Randy Boggs, da dietro le sbarre invia un lettera indirizzata a tutta la redazione del giornale. Nessuno la vuole aprire quella lettera che giunge dal penitenziario. Nessuno tranne Rune che, ingenuamente, ne resta troppo coinvolta.
Peccato che sia l'ultimo romanzo della "Trilogia di Rune", scritto da JEFFERY DEAVER, perché da un bel personaggio femminile, così interessante, è difficile separarsi.
La storia procede a ritmo serratissimo e si addentra nella New York dello strapotere dell'informazione per una strada ad accesso diretto. Rune è una delle ultime pedine nella scala del giornalismo televisivo, ma trova il modo di convincere il "grande capo", Piper Sutton, anchorwoman di Current Events, trasmissione di punta del network in cui la ragazza lavora, ad affidarle il caso.
È una storia che tra dubbi e segreti si addentra nelle classi del potere, dove per coprire un errore si cerca un innocente cui attribuire la colpa. Ma cercare di smascherare un inganno è una situazione troppo pericolosa, se una piccola pedina dell'ingranaggio cerca di fare il passo più lungo della gamba. Il pericolo è una minaccia che comincia ad incombere sulla testa di Rune, affinché cessi l'indagine o taccia per sempre.
Ottimo lo stile, di uno scrittore ormai consolidato nella fama e rassicurato dalle vendite, ed intricatissima la trama che ha reso quest'ultimo action thriller, con un'indagine giornalistica di Rune, migliore dei precedenti.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    09 Novembre, 2015
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Ingannatori, ingannati e ingannevoli

Anche se anziano e’ un poliziotto esperto , non dovrebbe commettere imprudenze quando durante la notte sente un rumore di vetri infranti provenire dal piano terra. Scende impugnando la pistola eppure scivola su un errore dopo l’altro, come una recluta.
L’arma avrebbe potuto salvarlo dalla morsa di quei muscoli ma se ogni sbaglio, ogni leggerezza si paga Richard Linville , questa e’ la tua notte. Dopo la tortura ne avrai la certezza, quando lui trovera’ nel cassetto un sacchetto di plastica. L’ultima cosa che vedrai.

Il sesto senso di una mamma non e’ mai vano, specialmente quando presagisce negativita’. Cosi’ Stella impallidisce quando suona il telefono e riconosce la voce della madre biologica del suo bambino. Ma il pallore e’ niente confronto allo shock del campanello che annuncia, della porta che si socchiude, del volto di Terry che chiede aiuto , la voce tremolante ed il viso tumefatto.
Piccolo Sammy posa la bicicletta, da oggi dovrai occuparti di altro.

Due storie parallele che sembrano avere poco in comune, eppure sono la soglia di partenza per un intreccio piuttosto elaborato. Tiene bene la trama occultando con destrezza la svolta finale del giallo in un fluire scorrevole. Mediamente di buona qualita’ non mi ha concesso quel qualcosa in piu’ che lo marchiasse con il segno dell’eccellenza. Qualche scena improbabile nella sua semplicita’ e un’analisi psicologica forse distratta dai tanti attori hanno penalizzato l’esito della mia performance col romanzo, non permettendomi di calarmi profondamente nei personaggie e di vivere la suspense promessa.
Non male complessivamente, lascio alla soggettivita’ l’ardua sentenza. Personalmente ho letto thriller piu’ avvincenti.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    08 Novembre, 2015
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Al vostro servizio ...

Johan Anders, Johanna Kjellander e Per Persson, rispettivamente l'assassino, il pastore e il portiere della Pensione Punta Lago sono senza dubbio l'associazione a delinquere più discutibile della categoria.
Svezia. Per Persson, nipote di ex multimilionari specializzati nel settore dei cavalli e caduti in rovina per non essersi saputi adeguare all'evoluzione tecnologica nonché figlio di un padre a sua volta incapace di ottenere quel riscatto sociale tanto agognato, lavora sin dalla giovane età presso l'Hotel Punta lago, ex bordello per innamorati clandestini di ogni genere dove originariamente prestava la sua manodopera quale receptionist part-time nelle ore notturne post giornata scolastica e di poi, ultimati gli studi e trasformato il luogo d'amore in una pensione vera e propria a seguito del soggiorno forzato in un penitenziario dello scoperto proprietario, a tempo pieno sempre con la medesima qualifica.
Il pastore Johanna Kjellander, è un vicario di Dio senza Chiesa e senza Fede. Obbligata da un padre bigotto e severo a portare avanti la secolare tradizione di famiglia, dove ciascun figlio era tenuto ad abbracciare la strada della lealtà verso l'onnipotente senza sé e senza ma, è una donna scaltra, abituata a far fronte alle avversità e a non aspettarsi niente da nulla e nessuno. Quando la sua strada si incrocia con quella del portiere e dell'assassino di certo non si aspettava di trovare l'amore con il primo e una possibilità di guadagno con il secondo.
Uscito dal carcere dopo la sua terza condanna e un trentennio, tra entrate e sortite, dietro le sbarre, Anders l'assassino non conosce alternative da quella che da sempre è la sua vita, un'esistenza caratterizzata da birra, alcool e pasticche e dall'uso della forza per farsi rispettare e guadagnarsi da vivere.
Quando il Conte, a fronte dei servigi ricevuti, fa pervenire a quest'ultimo in pagamento soltanto 5.000 delle 10.000 corone pattuite per il Pastore e il responsabile della reception si presenta un'occasione irripetibile! Il patto è semplice, se il duo riuscirà a far ottenere all'assassino il denaro mancante per il lavoro svolto i tre si metteranno in società; Anders, esecutore materiale delle rotule rotte e delle braccia spezzate, si terrà l'80% dei profitti mentre il restante 20% sarà diviso dalla coppia di innamorati che si occuperanno altresì di filtrare gli incarichi e limitarne la portata, perché sia chiaro, dopo tre decenni in gattabuia Johan non ha proprio voglia di finire i suoi giorni in un carcere!
Per oltre due anni gli affari vanno a gonfie vele, il lavoro non manca, la retribuzione nemmeno e anche l'aspetto sentimentale del prete e del portiere, anime da sempre sole, va a gonfie vele. Brindiamo dunque a tali inaspettati ottimi esiti, sembrano volerci sussurrare i nostri eclettici protagonisti.
Ma cosa accadrebbe se l'assassino di punto in bianco volesse smetterla con quella vita e volesse per la prima volta in tutta la sua esistenza abbracciare una via di rettitudine e di fede? Per l'associazione a delinquere della Pensione Punta Lago sarebbe un gran problema. Un grattacapo che da ipotetico diventa realtà perché dopo quelli che per il pastore non erano altro che mere conversazioni sulla sua giovinezza e sul suo avvicinarsi all'universo religioso per Anders erano delle vere e proprie illuminazioni celestiali! Adesso che il buon Dio lo ha irraggiato sa cosa deve fare e di certo la crudeltà non si confà con il suo nuovo spirito religioso.
Cosa può fare dunque la coppia se non scappare con il denaro racimolato accettando incarichi che poi mai sarebbero stati portati a termine? Appunto, darsi alla macchia. Peccato però che in tutto questo non avessero calcolato che Johan avrebbe potuto scoprirli e darsi alla fuga con loro. Così come non avevano considerato i rischi e le conseguenze di quell'imprevisto auto-invito del redento pluriomicida che non ha altro desiderio se non quello di dare tutti i suoi averi in beneficenza.
Così quella che si era tramutata in una dipartita da criminali incalliti desiderosi di vendicarsi per essere stati truffati, si tramuta in un vero e proprio caso mediatico in cui gli svedesi lodano il galeotto per aver deciso di smetterla con l'illegalità e l'aver sottratto denaro ad altri malavitosi per ridistribuirlo tra i più bisognosi! Un Robin Hood degli anni 2000 esclama la folla! Da qui l'ulteriore idea del Pastore: perché non sfruttare questo fatto a proprio favore e non creare la “Chiesa di Anders l'assassino”?
E se pensate che questo sia tutto cari amici lettori, preparatevi a vederne altre delle belle perché nella terza parte del romanzo le carte vengono nuovamente stravolte dall'autore.
Scritto con un linguaggio fluente, che si conforma ad ogni voce parlante, diventando suadente con il pastore, semplice e diretto con l'assassino, e concreto e talvolta pauroso con il portiere, il testo scorre rapido tra le mani di chi legge che facilmente arriva a conclusione dello stesso.
Un elaborato originale, dissacrante, ironico, surreale ma anche riflessivo è quello che ci viene proposto da Jonasson, uno scritto non impegnativo ma capace di far trascorrere ore liete al lettore.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Novembre, 2015
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Non pensare dove non devi.

Dice la nonna dell’autrice alla nipotina.
Devo ammettere che mi sono approcciata a questo libro non per “amore”, ma per mancanza di alternative per me appetibili. Massì, conosciamo un premio Nobel di cui (tanto per cambiare) so poco o nulla. Quando ho avuto il libro tra le mani e mi sono accorta che non era propriamente un romanzo, ma un’intervista, ho arricciato ulteriormente il naso.
Motivo per il quale l’ho lasciato qualche giorno sul comodino, in attesa dell’ispirazione.
Be’, ho fatto male.
Perché una volta cominciata la lettura, la narrazione “prende”. Eccome se prende.
Certo, in più di un’occasione, sarei stata disponibile ad offrire la cena all’intervistatore affinché si levasse dai piedi e lasciasse parlare “a ruota libera” l’autrice, ma devo anche ammettere che non è stato molesto quanto avrebbe potuto essere.

L’autrice, rispondendo alle domande, traccia lunghe campate narrative, nelle quali racconta la sua vita, quella della famiglia, degli amici. Racconta dell’infanzia tutt’altro che bucolica, passata nella sua sperduta e verde valle, della prigionia della madre prima della sua nascita. Di un “potere” esterno, ostile, violento di cui – da bambina – non ha ancora consapevolezza, ma sente opprimente.
Siamo in Romania, dall’immediato dopo guerra fino alla lunga dittatura di Ceausescu.
All’infanzia dell’autrice, seguono adolescenza e la giovinezza, il trasferimento in città, il rifiuto a diventare una spia, le vessazioni, lo straniamento, la “scoperta” della scrittura, la pubblicazione dei libri, i viaggi all’estero, fino all’espatrio.
Ritorna, non poco, Hannah Arendt, in queste pagine con la sua “banalità” del male. Nella stupidità arrogante dei funzionari, nelle tecniche di intimidazione e controllo, nella manipolazione del reale, nello schiacciamento dell’individuo attraverso le estenuanti procedure burocratiche, le file per i generi alimentari più comuni, i “timbri” sui documenti, il tempo perso, il freddo, la fame.
E c’è anche un “non detto” prepotente. Negli interrogatori, nelle false accuse e nelle false risposte alle false accuse. Una realtà fittizia, che tutti riconoscono come tale, ma a cui tutti devono far finta di credere. I funzionari per “prosperare” e perversamente crogiolarsi nel loro potere e i cittadini per provare a strappare un po’ di tempo.
In tutto questo (che non è poco, ma non è neppure molto diverso da altri autori che si sono misurati con queste laceranti realtà), Herta Müller insinua il tema della scrittura e della riflessione linguistica.
L’autrice è nata e vissuta a lungo in Romania, ma è di lingua Tedesca. Quindi pensa (e scrive) in una lingua germanica e si muove in una realtà linguistica di matrice romanza, impastata profondamente con quella slava. Da qui la riflessione, potente, sulle parole, sul lessico e – di conseguenza – sulla scrittura e sulla memoria.
Parole scomposte ed analizzate, parole ritagliate e rese vivide, parole e frasi che costringono a dare una forma e preservano – un poco – dalla paura.
«Scrivere parole nella paura era forse come mangiare le piante, era una fame di parole. Reinventare la vita in una maniera non vera, che non la rifletteva identica, ma molto più esatta. Ed era l’idea che protetti dalle frasi si sapesse un po’ meglio come vivere. Le frasi non mi risparmiavano affatto, ma il lavoro che mi procuravano era per me un sostegno.»
Nel penultimo capitolo (Il mio amico Oskar), la riflessione dolorosa sulle parole è quasi continua, e si tratta (ça va sans dire) del capitolo che ho amato di più; sarà per l’essere linguista o per la scarsa simpatia che ho per i testi che si spacciano per romanzi e sono invece documentari, ma qui non abbiamo “soltanto” la narrazione di un’esperienza straziante, ma la riflessione di uno scrittore sulla medesima e della sua responsabilità nel comunicarla.
Potente ed indimenticabile, davvero.
Inutile dire che mi sono procurata la restante produzione della Müller e l’affronterò quanto prima!

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    05 Novembre, 2015
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Io. Io. Io.

Giulio Maria, figlio di Giulio e di Maria, ha trentasei anni è un antropologo ricercatore che fa parte di un gruppo che si occupa dello studio dell’esultanza dei calciatori. Il suo è un contratto a termine, una specie di dottorato ma non proprio un dottorato, una borsa di studio che di fatto proprio borsa di studio non è, così come non è un master, uno stage o un tirocinio. Settecento Euro al mese per circa due anni sono il suo guadagno e a questi si sommano i risparmi – sempre più esigui – di famiglia. Fidanzato con Agnese da più di 4 anni, che quasi sembra aver instaurato una relazione con l'egofono più che con il giovane tante sono le chiamate, whattsappate, messaggiate che la stessa intrattiene con tutti tranne che con il compagno, l'uomo vive in mezzo ai tanti, è un ragazzo invecchiato senza arte né parte, con ancora l'indefinitezza di un giovane e già con la disillusione di un anziano, insoddisfatto e indifferente in quel mondo di futilità.
Non riesce a darsi una spiegazione Giulio dei tanti perché che giorno dopo giorno dettano i ritmi di quella società smembrata, lapidata, derubata, arraffata da quei ladri che oggi accusano col medesimo epiteto altri loro simili, altre e alte istituzioni, pur di non prendersi la responsabilità delle cose.
Perché la parola “io” è diventata più importante del noi? Perché ognuno si sente in dovere di fare spettacolo del proprio vivere, narrando, ostacolando, sommergendo con le proprie parole, con il proprio ciabattare le esistenze degli altri? Perché l'ognuno ha perso di significato? Perché il lontano sta diventando più importante del vicino tanto che conta più intrattenere una relazione di qualsiasi genere con una persona a Timbuctù che con quella che abbiamo al nostro fianco? Perché l'apparenza è divenuta legge e i valori si sono persi nei meandri di un non luogo senza dove e senza quando? Perché a tutto ciò gli uomini sono indifferenti e apatici?
Queste sono solo alcune delle domande che Michele Serra, tramite la voce di Giulio, sussurra al lettore.
Seppur sia un romanzo di appena 152 pagine, “Ognuno potrebbe” racchiude in sé significative massime nonché spunti di riflessione. La sensazione durante la lettura è infatti quella di trovarsi dinanzi ad una fotografia, chi legge riconosce nelle affermazioni dei vari protagonisti, nelle circostanze narrate, esperienze appartenenti al proprio vissuto tanto che vi si ricollega con la mente, ci si sofferma.
Stilisticamente parlando lo scritto è caratterizzato da un linguaggio forbito nonché da grande acume, ironia, e sottile sarcasmo. Un libro che nella sua brevità è sinceramente dissacrante.
Con quest'ultima opera l'autore mette allo specchio l'anima della realtà odierna. E' un componimento dal quale non si resta immuni, è capace di far sorridere ma anche di smuovere chi lo tiene tra le mani.
Da leggersi un poco alla volta così da apprezzarne metafore, sfumature, colori, ilarità. Adatto altresì a tutti coloro che cercano testi di un certo spessore e contenuto.

«E quale sarebbe la sostanza della questione? Mi dice. La sostanza della questione è che il lontano sta diventando molto più importante del vicino, le dico. E siccome il vicino è la realtà materiale, e il lontano solo un'astrazione, noi stiamo facendo deperire ciò che abbiamo a vantaggio di ciò che ci illudiamo di avere. »

«La mia opinione è che ognuno dovrebbe fare un passo indietro. Da tutti i punti di vista. Anche fisicamente. Darsi un poco di spazio, e dandoselo, darne anche a chi gli sta intorno. Come c'è un frattempo tra un'azione e l'altra, così dovrebbe esserci un fralluogo tra una persona e l'altra. E come il frattempo, così il fralluogo serve a dare fiato. Un passo indietro e una parola di meno. A cominciare da me che sto decisamente parlando troppo di me stesso. »

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a chi cerca romanzi di spessore, metaforici, concreti, su cui riflettere e muniti di un linguaggio forbito come pochi di questi tempi.
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Fantasy
 
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3.3
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4.0
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3.0
Pupottina Opinione inserita da Pupottina    05 Novembre, 2015
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Posseduti

Salem, qual città ha più suggestioni malefiche? Ed è a Salem che torna la protagonista della trilogia di Josephine Angelini, la Worldwalker Trilogy, giunta al secondo episodio con IL POTERE DEL FUOCO.
Lily Proctor è una diciassettenne, originaria di Salem, in Massachussets. Dopo essere stata trasportata in un universo parallelo da Lillian (importantissima strega, conosciuta come la Lady di Salem), scopre che le sue tremende allergie sono segno del fatto che lei è, in realtà, una potente strega.
Nel primo romanzo, "Attraverso il fuoco" ha affrontato le fiamme dirompenti della pira che le hanno lasciato tracce indelebili sul corpo. Orribilmente ustionata, Lily è viva grazie a Rowan, noto come Lord Fall, il Senzaterra primo amore di Lillian, da cui è stata abbandonata per avergli ucciso il padre. È così che la strada tracciata dal destino per Rowan si incrocia con quella di Lily, bella e dolce, giovane strega, di cui non può fare a meno di innamorarsi. È così che Lily è sopravvissuta al fuoco, ma ora è di nuovo a Salem per guarire, il meglio possibile, e sognare di tornare alla vita normale.
Nel suo futuro potrebbero esserci il diploma, il college e magari un appartamento dove vivere con l'amato Rowan. Il rientro a scuola, dopo la lunga assenza, però, è tutt'altro che semplice. Deve spiegare i motivi della sua assenza, ma non può dire la verità. Inoltre, qualcosa in lei, dopo la definitiva guarigione, è cambiato e il suo fascino è diventato magnetico, sensuale, mozzafiato. I compagni diventano sospettosi e diffidenti dei suoi confronti, perché Lily non può fare a meno di catturarne l'attenzione. Anche Tristan Corey, suo miglior amico e primo amore, non può che essere disorientato da ciò che prova in sua presenza. Lui, inoltre, non è uno ma ha due versioni di se stesso ed entrambe sono possedute dall'energia di Lily.
Deve chiudere i conti aperti nell'altro mondo, ma questa volta deve essere per sempre. Lily non può rimanere ed essere felice nel suo mondo con Rowan, se prima non interrompe quella sorta di richiamo soprannaturale che la chiama altrove. Per farlo, però, dove rivelare scottanti verità che la riguardano a chi le sta più vicino e ha scoperto di provare per lei sentimenti molto forti e intensi.
Lei è costantemente alle prese con nuovi problemi, tra i quali la presenza fastidiosa dell'FBI e la minaccia di Lillian, tirannica dominatrice della città, che la chiama nell'altro universo e le impone di tornare in battaglia.
In questo romanzo, scritto ottimamente dalla Angelini, non mancano interessanti elementi dell'urban fantasy: universi paralleli, magia, amore e scontri mortali in un susseguirsi di eventi che, com'è ovvio in ogni trilogia, non si concludono definitivamente al secondo romanzo, ma creano nuovi intrecci e aspettative per il successivo ed ultimo episodio.
Lily è pronta, ancora una volta, ad affrontare il potere infernale del fuoco.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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2.3
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3.0
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2.0
Vita93 Opinione inserita da Vita93    05 Novembre, 2015
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Paura psicologica, questa sconosciuta

Secondo l’introduzione del romanzo, le cosiddette esperienze ai confini della morte sono proprie di coloro che hanno vissuto condizioni psicofisiche particolari, come il coma, e che sono temporaneamente entrati in contatto con l’oltretomba. Tra le testimonianze più ricorrenti si ricordano quelle che descrivono un tunnel, una luce accecante, un lago piatto e immenso.
Gli studiosi motivano tali fenomeni come immagini prodotte dal cervello in situazioni di carenza di ossigeno, ovvero distorsioni di ricordi immagazzinati nella memoria umana nel corso degli anni.
Un argomento misterioso al cui fascino hanno contribuito nel corso dei secoli mitologia, arte, letteratura.
Dante ci ha accompagnato tra Inferno, Purgatorio e Paradiso, nell’Eneide Virgilio ha descritto l’Ade, i Campi Elisi. E poi i guardiani, come Caronte, e i vari fiumi infernali come lo Stige e l’Acheronte, rappresentato anche da Michelangelo.

Lungi da me qualsiasi aspettativa di trovare nel romanzo di Lars Kepler un impatto culturale altrettanto vasto, certamente non auspicavo che i coniugi svedesi riuscissero nell’impresa di rendere così dozzinale e privo di suspence un tema tanto intrigante.

“Il porto delle anime” racconta la vicenda di Jasmin Pascal Anderson, una tenente dell’esercito svedese operativa in Kosovo.
Colpita da un proiettile in uno scontro a fuoco in cui muoiono due dei suoi sottoposti, Jasmin entra in coma e, una volta risvegliatasi, sostiene di essere stata nell’aldilà, un luogo affollato simile ad un porto cinese da cui salpano numerose barche.
Nessuno le crede, tanto che la protagonista viene inizialmente ricoverata in una clinica psichiatrica.
Passerà poco tempo prima che Jasmin sia costretta a tornare nel porto, stavolta per difendere il figlio Dante, di soli cinque anni, in seguito alle conseguenze di un incidente stradale in cui entrambi restano gravemente feriti.

Il romanzo, come già accennato, non è affatto esente da evidenti limiti. Il personaggio principale è scarsamente caratterizzato, incapace di creare empatia nonostante la ricercata, e non ottenuta, drammaticità degli eventi.
I colpi di scena sono pochi e ampiamente pronosticabili. Decine di pagine ripetitive (ho perso il conto delle volte che è stata utilizzata l’espressione “madida di sudore”) e prive di avvenimenti significativi si accompagnano a sbrigative accelerazioni. Manca del tutto quella paura psicologica che il genere e l’ambientazione avrebbero richiesto. Un thriller da accostare idealmente a venature horror e gotiche, subisce invece il ritmo parzialmente frenetico e fuori luogo degno di un banale film d’azione. Un aldilà in cui trovano spazio cellulari, ristoranti, superflue scene hot ed improvvisati combattimenti a squadre degni di “Hunger Games,” ha un effetto involontariamente comico.

L’ impressione è che i due autori, lontani dalla redditizia e quantomeno qualitativamente sufficiente serie de “L’ipnotista”, abbiano cercato a tutti i costi di raccontare qualcosa di originale, esagerando, in quella che sembra soltanto un’operazione commerciale a breve distanza dal precedente romanzo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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3.8
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4.0
evakant Opinione inserita da evakant    04 Novembre, 2015
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CINQUE RACCONTI, UN FILO CONDUTTORE

Affrontando per la prima volta la scrittrice Camilla Lackberg non sapevo bene a cosa sarei andata incontro. Forse un volume di racconti (oltretutto molto piccolo in termini di “mole”) non è significativo per conoscere un autore, ma questa raccolta ha un sottile filo conduttore: la vendetta.
Solo pensata, sfiorata, possibile, diabolicamente compiuta.

SOGNANDO ELIZABETH
Malin e Lars sono due quarantenni che cercano di ricucire il loro rapporto con una vacanza in barca. Quando Lars, incurante della tempesta in arrivo decide di infilarcisi dentro, la lucidità già precaria
di Malin scompare del tutto: Lars ha assassinato in questo modo anche la prima moglie Elizabeth?
Vuole fare lo stesso con lei? L'epilogo è amaro e tragico.

IL CAFFE' DELLE VEDOVE
Marianne ha esaudito il sogno di una vita: aprire un piccolo caffè, Il Caffè delle Vedove deve il suo nome non alle abituali frequentatrici ma...
Un luogo accogliente che per certe donne, complice la specialità della casa, diventa fonte di vendetta e liberazione. Proprio come per Marianne.

UNA MORTE ELEGANTE
Cosa non si è disposte a fare per denaro? Se poi mamma possiede capi vintage del valore di svariate migliaia di corone...beh...tutto può accadere.
Ma la beffa è dietro l'angolo. Esiste una giustizia divina...

UNA GIORNATA INFERNALE
La storia di un adolescente vittima di bullismo si intreccia con quella del detective Hedstorm, la cui vita sta andando a rotoli. Non lo sa, ma il suo breve colloquio su una panchina con il giovane, ha sventato una strage. Qui la vendetta non ha luogo. Per fortuna.

TEMPESTA DI NEVE E PROFUMO DI MANDORLE
Questo racconto, il più lungo, da il titolo anche al volume.
Il canovaccio è quello classico: una casa isolata dalla tempesta, una famiglia con tanti, troppi segreti, riunita. Un omicidio, anzi due. Il colpevole non può che essere dentro quelle mura e il nostro Martin Molin, giovane collega di Hedstorm, trovatosi lì quasi “per caso” dovrà sbrogliare la matassa.
Il profumo di mandorle non lascia dubbi: il vecchio patriarca è stato avvelenato e tutti hanno un movente.
Ma come in tutte le farse che si rispettino, nulla è come sembra.

Lo stile della Lackberg è sobrio, asciutto ed efficace, molto “scandinavo” pochi fronzoli, le storie scorrono veloci, avvincenti e non scontate. Anche se non originalissime a dire il vero.
Sicuramente piacevole, un'autrice che mi piacerebbe approfondire.

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altri autori scandinavi (ad esempio Mankell)
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Romanzi
 
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    01 Novembre, 2015
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Racconto di armi e di inermi

“La morte si addice ai musei. A tutti, non solo a un Museo della Guerra. Ogni esposizione – quadri, sculture, oggetti macchinari – è una natura morta e la gente che si affolla nelle sale, riempiendole e svuotandole come ombre, si esercita al futuro soggiorno definitivo nel grande Museo dell'umanità, del mondo, in cui ognuno è una natura morta. Facce come frutta staccata dall'albero e poggiata recline su un piatto.”

La morte, esibita, può togliere alla morte stessa i suoi adepti?
E' l'ossessione di un personaggio indicato nel romanzo semplicemente con il pronome “lui”: nei suoi magazzini ha collezionato strumenti di morte (dalle asce degli indigeni Chamacoco ai sistemi di puntamento delle testate nucleari); ha trascorso persino il viaggio di nozze a scavare con il piccone nei campi dove si era combattuta la guerra di trincea del primo conflitto mondiale, disseppellendo elmetti e vecchi fucili. Con il preciso intento di farne un museo della guerra, dove possano materializzarsi gli orrori, le follie, gli eccidi, le sofferenze, e tutto attraverso i metalli, i legni, tutti quei materiali che hanno preso forma di morte, perché quella forma è stata loro data dall'uomo.
Poi, una sfortunata notte, buona parte dei magazzini salta in aria, e lui con essa.
E' Luisa a proseguire quel visionario progetto pacifista: il Museo della guerra, contro ogni guerra. Luisa che ha a che fare in qualche modo con la guerra – anche lei – portando in eredità tradimenti e rancori della terra friulana martoriata dall'occupazione nazista...

Claudio Magris parte dalla reale figura di un professore triestino – come spiega nella nota a margine del volume – e dal progetto di un Museo della guerra, che condurrà lo stesso (nel 1974) alla rocambolesca morte raccontata nel romanzo.
Il resto della storia è unicamente frutto di fantasia, compresa la figura di Luisa.
E' una storia composita, in cui si alternano – e si compongono nel comune denominatore delle guerre di diversi tempi e luoghi – frammenti della storia di Luisa, della storia di “lui”, e della Storia. Tra questi ultimi, assume peso preponderante quanto accaduto alla Risiera di San Sabba (uno dei lager nazisti in Italia, a Trieste, dove vennero eliminati numerosi prigionieri politici ed ebrei).
Il punto debole di questa lettura “alta” e complessa sembra essere proprio nel modo di richiamare così tante storie: la scelta dell'erudizione – sfoggiata nella sostanza e nella forma del libro – ruba spazio all'immediatezza del racconto e alla possibilità di leggere in unica successione i diversi episodi di orrore che si sono svolti a latitudini lontanissime tra loro. Un'idea di partenza così importante avrebbe meritato un racconto più emozionale: l'orrore della guerra va assorbito attraverso il senso di nausea. Il tentativo di proporlo alla testa del lettore ha in sé il pericolo di tenere quest'ultimo a distanza.

“ La guerra c'entra poco con l'odio, nessuno dei due ha bisogno dell'altro. Bombe cadono sulla testa di gente che non si odia affatto, tant'è vero che a guerra finita quelli che le tiravano e quelli che le prendevano in testa si stringono la mano e ci si ritrova nelle nostalgiche riunioni dei commilitoni ex nemici anche a nome di chi è caduto, si scopron le tombe, si levano i morti e si danno la mano. L'odio è più vero, più puro della guerra (...)”

“Comunque lui forse aveva ragione, l'infinito bene c'è, da sempre.”

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Romanzi
 
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    01 Novembre, 2015
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Segreti di famiglia

Siamo nella Bellano del 1970 a bordo del taxi di Sisto. Una corsa dalla stazione fino al cimitero si chiude in una tragedia. La cliente, una forestiera che nessuno conosce, sceglie infatti il sedile posteriore del millenove per esalare l'ultimo respiro. Un caso semplice per il maresciallo Riversi: morte naturale. Ma a volte le cose più semplici decidiamo di complicarcele da sole. Così quel maresciallo in procinto di formarsi una nuova famiglia sente che sia suo dovere dare un'identità e una storia a quella donna. Una donna, che dall'autopsia risulta aver partorito almeno una volta, e che quindi non avrebbe dovuto essere tumulata in solitudine.
Nella sua ricerca di risposte si imbatte nella suora storta. Tutti la conoscono per essere stata infermiera all'ospedale di Bellano. La sua deformità era tale che "sembrava avere un punto di domanda sulla schiena", ma a farla notare da tutti era anche il suo essere una forza inarrestabile: "sembrava che fosse condannata ai lavori forzati". Questa suora non è sempre stata monaca e neppure storta. Anzi in un lontano passato era bella dritta...
Rispetto agli altri romanzi, che ho lettto, di Andrea Vitali questo si concentra su un numero inferiore di personaggi. Come sempre i protagonisti sono descritti con ironia ed arguzia. In questo caso, però a spiccare non sono solo gli aspetti esteriori e le manie dei bellanesi, ma anche i sentimenti, soprattutto quelli che fanno delle persone grandi uomini e grandi donne.
La scelta stilistica del volume è quella di ricorrere a capitoli brevi con un racconto essenziale, ma ricco di contenuto. Come dice il Vitali riferendosi a uno dei suoi personaggi "di poche parole, ma di grande contenuto". I capitoli si alternano saltando dal passato al presente ed incrociando le indagini del maresciallo Riversi al racconto della vita di Sisto. Non una volta ho incontrato difficoltà nell'incrociarsi delle varie vicende, anzi questa scelta letteraria è molto coinvolgente e spinge a girare in fretta le pagine per scoprire dove Vitali andrà a parare.
Il linguaggio, con il ricorso a qualche termine dialettale e ad un'ironia al limite della crudeltà, mi sembra sia il vestito perfetto per questo racconto. L'ambiente schietto e semplice di questo paesotto fattto di persone dirette e pratiche non sarebbe stato reso altrettanto bene ricorrendo ad un linguaggio alto o complicato.

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Romanzi
 
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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    28 Ottobre, 2015
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CHE?

"Temo che sia proprio la cattiva letteratura a riempire la testa di sentimenti falsi" (da Sandor Marai).

Se la morte che avanza viene raffigurata con la falce, non stupiamoci se gli ultimi palpiti della vecchia protagonista sono rivolti a un giardiniere.

California, in questi anni.
C'è una residenza per anziani molto particolare, in cui inspiegabilmente si è ritirata l'ottantenne Alma Belasco, artista, ricchissima, di aspetto aristocratico e supponente.
La giovane Irina, "creatura strappata a un racconto nordico", è un'infermiera di ampie mansioni.
L'intesa fra le due donne si afferma progressivamente, svelando insospettati segreti delle loro rispettive vite.
Poi una girandola di personaggi, dentro e fuori, molti dei quali vecchi.
Il testo della Allende è punteggiato di drammi e tragedie, anche se l'atmosfera che si respira può essere piuttosto definita melodrammatica, perché c'è qualcosa di agro-dolciastro che impregna di sé numerose pagine.
Questo libro dal titolo ottocentesco, lezioso fin dalla copertina, appartiene essenzialmente alla narrativa di consumo, d'intrattenimento, rivolta ad un pubblico femminile.
La mentalità di fondo è la stessa di quei salotti televisivi, condotti da donne, che si fondano sugli stereotipi di una visione borghese-laicista-modaiola, di un femminismo alla panna montata, che intravede nel consumismo, volto a soddisfare vanità e immediati desideri, l'orizzonte valoriale ed estetico. Tant'è che le parti più riuscite del testo sono quelle che si sottraggono ai miraggi di tale ideologia e fanno rivivere il ricordo delle durissime condizioni dei Giapponesi che vivevano in America durante la Seconda Guerra Mondiale dopo l'attacco di Pearl Harbor, oppure quelle che manifestano il vissuto di chi, per età, sta perdendo la propria autosufficienza.
Il resto è ben poco verosimile. La nostra romanziera ci mette dentro di tutto : dalla droga all'Aids, dall'ossessione erotica senile al mondo gay; poi l'eutanasia, gli orrori della pedopornografia... Ciò produce una trama incalzante, troppo, con giravolte e colpi di scena poco credibili, da lasciare certamente insoddisfatto chi cerca autenticità, non storie costruite a tavolino.

La scrittura è agile e scorrevole, talvolta gradevole, ma sovente 'posa' , diventa banale, da romanzetto rosa; infatti troviamo "confidenze sussurrate tra un abbraccio e l'altro", "baci interminabili", poi "la passione", "desideri e segreti", "scaramucce amorose"... Siamo insomma ben lontani da ciò che Italo Calvino diceva in Lezioni Americane, cioè che "la letteratura (e forse solo la letteratura) può creare gli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio".
D'altronde qui le cadute linguistiche sono solo la veste calzante di una mentalità ormai diffusa e convenzionale.
Inoltre troppo viene detto; il profluvio di parole rischia di travolgere il povero lettore e gli toglie spazi di immaginazione.
L'autrice sa che cosa si aspettano da lei le sue affezionate lettrici, e lei è abile a non deluderle. Intanto si scalano le classifiche, con soddisfazione del mercato editoriale.
Un personaggio del già citato Marai dice che "ormai i libri sono così tanti che sembra non esserci quasi più spazio per il pensiero". Per chi ama la Letteratura, l'alternativa, lo sappiamo, è costituita da quei libri che definiamo 'classici', antichi o contemporanei, sempre attuali, con la loro bellezza e qualche brandello di verità.


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Romanzi
 
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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    28 Ottobre, 2015
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Luis, o scrivi in italiano o in mapuche

La piccola lucciola si appoggia sul naso, intiepidisce col minuscolo corpo quel lembo di pelle nuda del bel lupo. Lui si riscalda, fissa gli occhi sul luccichio e inizia il racconto di quel triste giorno in cui  perse tutto.

L'ultima favola di Sepùlveda ci offre un contenuto gia' sentito  molte volte, forse per questo l'autore vuole contrassegnarlo con qualcosa che lo distingua dai suoi predecessori.
 Ecco allora una marcia indietro nel tempo verso le fiabe raccontate dal prozio nel sud del Cile, un mapuche, che al calare del sole ipnotizzava i bimbi con storie narrate nella sua lingua.
Parole straniere a noi sconosciute, di cui si avvale l'autore per dare una collocazione geografica e umana al racconto, un intento di originalita' probabilmente,  una debolezza sentimentale forse.
L'effetto del miscuglio proposto e' a mio avviso alquanto spiacevole, questi vocaboli inseriti in continuazione accanto all' indispensabile traduzione riescono a rendere zoppicante anche un testo tanto breve e semplice.

In sintesi graziosa la storia come sempre avviene nelle fiabe del Cileno, ottimo l'intento, ma manca di un'idea originale e lo stile ha un esito pruriginoso. 
In questo caso ritengo la potenziale diffusione del libro un evento direttamente proporzionale al nome altisonante di chi l'ha prodotta, non credo questo racconto farebbe molta strada altrimenti.

Peccato, poteva essere il ritorno di una gradevole compagnia . 

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Avventura
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    27 Ottobre, 2015
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Un'avventura degna di questo nome

Alla mia prima esperienza con Wilbur Smith, posso dire che ci troviamo al cospetto di un autore che merita la sua fama. Tralasciando il titolo del libro, che non ha molto a che vedere con la trama in sé, se non una vaga citazione all'inizio, mi sono ritrovato di fronte a un libro davvero bello e coinvolgente.
Lo stile di Wilbur Smith mi ha colpito. Leggero, scorrevole, accurato e piacevole. Ma la vera nota positiva che voglio mettere assolutamente in risalto è la egregia caratterizzazione dei personaggi. Non esistono personaggi inutili e, non vorrei esagerare, ma credo ce ne siano almeno sei degni di nota. Anche le comparse sono funzionali alla storia e davvero ben presentate. L'autore ha fatto un lavoro perfetto nel far muovere questi personaggi in una storia appassionante e varia, che sono loro stessi ad arricchire e rendere più interessante. Ci troveremo a navigare nei mari dell'Africa e ad attraversare alcune delle sue terre, inseguendo in lungo e in largo le frenetiche avventure di Courteney e dei suoi uomini.

C'è un po' di tutto ne "Il Leone d'oro". Assisteremo alla storia del comandante della nave Golden Bough, il comandante inglese Hal Courteney, valoroso combattente distintosi nelle battaglie tra musulmani e cristiani, alla difesa di reliquie sacre come il Graal e il Tabernacolo, e figlio di un altro grande comandante (e corsaro). Assisteremo all'amore che lo lega al generale Nazeth, valorosa e bellissima guerriera etiope, alla sua amicizia con il possente guerriero Aboli, ma soprattutto alla battaglia contro il suo peggior nemico: Angus Cochran, altrimenti detto l'Avvoltoio. Cochran, uomo che Courteney credeva di aver ucciso in battaglia, torna dal regno dei morti con il corpo ridotto a una carcassa bruciacchiata, ma animato dall'inesauribile desiderio di vendetta nei confronti di colui che l'ha ridotto a un vegetale. Coglierà al volo l'opportunità offertagli a Zanzibar dal sultano in persona, con il quale condivide l'odio per il comandante inglese, e che gli offrirà i mezzi per mettere a punto la sua tanto desiderata vendetta e privare il suo nemico di tutto quello che ha di caro a questo mondo: la sua nave, i suoi uomini, il suo oro, ma soprattutto la sua donna e il bambino che porta in grembo.
Popolato da uomini valorosi, da pirati, sultani, uomini senza scrupoli e vigliacchi, e animato da avventura, onore, amore, amicizia e vendetta, questo romanzo di Wilbur Smith mi ha piacevolmente sorpreso, e non posso fare altro che consigliarlo caldamente a tutti, soprattutto agli amanti dei romanzi d'avventura.

"Non sono gli schiavi a puzzare. Il tanfo è quello delle anime degli uomini che li riducono in schiavitù."

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Clive Cussler
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Romanzi autobiografici
 
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siti Opinione inserita da siti    26 Ottobre, 2015
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Letteratura e libertà

Il libro-intervista del Nobel per la Letteratura con Angelika Klammer pubblicato nel dicembre del 2014 da Hanser in Germania ,Mein Vaterland war ein Apfelkern (La mia patria era un torsolo di mela), vede ora la pubblicazione in Italia a meno di un anno di distanza ma col titolo leggermente modificato.
È una pubblicazione molto interessante sotto molti punti di vista. In primo luogo funge da lettura propedeutica agli scritti della Müller, permette poi di leggere una biografia che dà voce al microcosmo della minoranza tedesca in Romania e soprattutto smaschera gli orrori della dittatura di Ceausescu , incredibilmente celati, distorti o negati ancora oggi dalla trasformista e rampante borghesia.
La conversazione segue il criterio cronologico per cui si conosce l’autrice bambina, immersa in un villaggio sperduto del Banato rumeno, chiuso e statico da secoli, lacerato dalla storia che lo invade con il peggio di sé: le due guerre, orribile la seconda per l’infausta posizione della minoranza tedesca, la fascistizzazione voluta da tutti, respirata ma sempre negata, la dittatura fascista di Antonescu, l’antisemitismo e i campi di concentramento in Transnistria, il capro espiatorio cercato nella minoranza tedesca, il socialismo, le deportazioni, l’infinita dittatura di Ceausescu.
Alla crescita della bambina abbandonata a se stessa, nata a tre anni di distanza dal rientro della madre dalla deportazione, contraddistinta da una fervente immaginazione e da un disperato animismo, segue il trasferimento in città, lo studio, la giovinezza per giungere quasi repentinamente all’esordio letterario con Bassure, al lavoro di traduttrice e al periodo più buio della sua vita. Gran parte delle domande permettono il racconto delle angherie della Securitate, la descrizione degli stati d’animo di un perseguitato politico e la difficoltà di gestire la notorietà dovuta ai suoi scritti per l’esposizione internazionale che gliene deriva. Su tutto trionfa l’alchimia fra la vita e la parola, il torto e la scrittura, la verità e la letteratura permettendo a questa donna profondamente libera di vivere, sopportare, metabolizzare l’assurdo di una dittatura e della conseguente perdita di libertà. Trionfa il potere della parola investita di un plus metaforico derivato dalle immagini suggerite dai detti e dai modi di dire rumeni, scritti però in tedesco.
Molte domande fanno aperto riferimento alle diverse opere :Il paese delle prugne verdi, L’altalena del respiro,Oggi avrei preferito non incontrarmi e danno la possibilità di approcciarsi alle tematiche trattate e allo stile dell’autrice. Non avendo mai letto una sua opera, personalmente sono rimasta affascinata dalla persona, dalla donna, dal potere immaginifico della sua parola, certamente curiosa e ben disposta verso la sua opera. Leggere questo libro penso possa essere d’aiuto per la contestualizzazione di una scrittura da molti ritenuta né semplice, né piacevole. Ne consiglio indubbiamente la lettura a tutti gli appassionati di biografie, di storia, di letteratura e naturalmente agli estimatori della Müller.

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Romanzi
 
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silvia71 Opinione inserita da silvia71    26 Ottobre, 2015
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Il presente del futuro è l'attesa

Con la sua ultima pubblicazione Carmine Abate propone ai lettori una storia che parla di emigrazione, di partenze e ritorni, di legami familiari e di strappi.
E' una storia del secolo scorso, è l'epoca in cui dal suolo italiano si partiva alla ricerca di un pizzico di fortuna, con la morte nel cuore ma con scintille di speranza per un futuro migliore non solo per se stessi ma per tutta la famiglia.
Tanta parte della letteratura ha dedicato attenzione al tema, tanto da farlo divenire piuttosto sfruttato, motivo per cui è arduo riuscire a proporre qualcosa di nuovo al lettore, svicolando da gallerie di immagini note.
Il sapore rilasciato dalla pagine di Abate è dolce e amaro, nasce da una mescolanza di storie che vogliono mostrare sempre il volto chiaro e scuro del destino, camminando sul filo dell'ottimismo.
I protagonisti sanno attendere l'arrivo della felicità, accettano i colpi inferti dalla sfortuna con animo sereno, senza perdere mai di vista i valori tramandati dalla cultura di appartenenza e dal retaggio socio-familiare.
A tratti emerge uno po' troppo buonismo, a tratti il clima sembra volgere alla favola piuttosto che calzare vesti più aderenti alla realtà dell'epoca.

La prosa di Abate utilizza in larga parte il gergo calabrese, sicuramente con l'intento di caricare di veracità le pagine e di sancire un legame sanguigno con la terra d'origine, a scapito di qualche rallentamento del pubblico nella lettura.
Nel complesso si tratta di un romanzo che ha il pregio di essere “accogliente”, di far entrare da subito il lettore all'interno della narrazione e di spingerlo a seguire le vicende della famiglia Leto; dai nonni ai figli e poi ai nipoti, in una girandola spazio-tempo che mescola immagini del presente, passato e futuro.
Tre tempi di cui Abate vuole mostrare la capacità di fusione; tre tempi che scandiscono la vita.

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Bookaholic Opinione inserita da Bookaholic    26 Ottobre, 2015
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Beautiful you di Chuck Palahniuk

Penny è una donna qualunque dei giorni nostri, aspirante avvocato, attende che la vita le mostri il suo destino e intanto porta caffè e sedie nel grande studio di avvocati in cui lavora, nè stagista nè associata. Cornelius Linus Maxwell è un avvenente miliardario con una struggente storia familiare alle spalle. Insipida cenerentola lei, freddo principe azzurro lui. Un goffo incidente permette ai due destini di incrociarsi e all'amore di sbocciare....

Un momento, stiamo parlando di Chuck Palahniuk e allora l'amore non è una favola ma una sperimentazione dei brevetti per la linea di giocattoli erotici, "Beautiful You". Sì perchè Maxwell è un esperto conoscitore dell'anatomia umana, maestro nell'arte del dare piacere sessuale alle donne. Istruito dai migliori maestri tantrici del mondo, dopo aver sperimentato le sue tecniche erotiche su migliaia di esemplari comuni è in cerca della vagina perfetta su cui fare le ultime prove per mettere a punto il nuovo flagello dell'umanità. Sarà un caso che la scelta ricada proprio sulla scialba Penny Harrigan? Forse sì o forse la storia che si nasconde dietro alla sua nascita è ben più complicata di quanto si possa ritenere possibile. Maxwell sceglie Penny e la trasforma da donnetta qualunque a regina del sesso, dopo aver provato il vero piacere ed esserne quasi morta si risveglia la Donna che è in lei, ma la nuova consapevolezza acquisita ne farà una temibile nemica per il magnate della tecnologia.
La linea di sex toy "beautiful You" intanto è pronta e viene lanciata sul mercato: "Mille milioni di mariti stanno per essere sostituiti" e mille milioni di donne stanno per intraprendere un viaggio da cui è quasi impossibile tornare indietro: la scoperta del vero piacere sessuale! Niente sarà più come prima dopo il lancio di "Beautiful You" e il mondo si ritroverà a dover fare i conti con l'assenza delle donne nella società: violenza e frustrazione diventano i compagni quotidiani con cui condividere la scrivania e il pranzo, almeno per gli uomini.
Penny, assurta a paladina delle donne, intraprenderà anche lei un viaggio di iniziazione tantrica dall'unica maestra in grado di insegnarle i segreti per sconfiggere, a colpi di piacere, il perfido Maxwell....

[La trama mostra numerosi altri dettagli che mi astengo dal riportare per non gustare il piacere della lettura.]

Palahniuk ci regala un nuovo romanzo fuori dagli schemi, un'ironica rappresentazione dei costumi della società moderna dove tutte vogliono tutto, i piaceri necessitano di essere soddisfati e la donna cerca un'indipendenza che l'uomo fatica a concederle. Un'opera contorta e dissacrante, spinta fino al limite dell'erotismo che si legge come fosse un romanzetto d'amore. Lineare e chiara la scrittura di Palahniuk che si rivela capace di creare una storia che segua i criteri tradizionali, pur condendola con le più atroci immagini.
Un libro però che non rende giustizia allo stile narrativo che siamo abituati ad amare nell'autore di Fight Club, una prova che si rivela fiacca e un po' scontata se messa a confronto con i suoi veri capolavori.

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Don Delillo, American Psycho, Fight club, Invisible Monster, Survivor
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Fr@ Opinione inserita da Fr@    25 Ottobre, 2015
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Vivere o sognare? A te la scelta.

Premessa: recensire questa opera sarà complicato, molto complicato.
Infatti “La terra dei sogni” di Vidar Sundstøl non è un “singolo” romanzo: la casa editrice Einaudi ha deciso di pubblicare in un unico volume l’intera trilogia di questo autore norvegese.
Un unico romanzo di 837 pagine.
I 3 libri, nonostante abbiano lo stesso protagonista e affrontino la stessa storia, devono essere considerati uno per volta, in particolare perché sono tra loro molto diversi.
Mi scuso quindi già ora se la recensione sarà troppo lunga!

Prima di considerare ogni romanzo è necessario presentare il protagonista: Lance Hansen.
Essendo il protagonista di un romanzo giallo, Lance non poteva che essere un poliziotto.
Tuttavia non è un detective della omicidi né un agente speciale: è una guardia forestale sulle rive del Lago Superiore che passa le sue giornate a controllare che non vengano compiuti piccoli reati nei boschi.
Questa sua routine viene però sconvolta quando, una mattina come tante altre, trova due uomini: uno nudo, completamente ricoperto di sangue (ma ancora vivo) e il secondo orribilmente massacrato.
L’omicidio stravolge la vita di Lance che decide di dedicare anima e corpo alla ricerca della verità.
Arriva anche a scoprire una misteriosa relazione tra la terra in cui vive (il Minnesota) e la terra dei suoi avi (la Norvegia).
Lance, di origine scandinava, è un cultore della storia della sua contea: conosce vita, morte e miracoli di tutte le persone che hanno vissuto in quell’area.
Questa sua conoscenza lo aiuterà tantissimo nelle indagini ma lo porterà a soffrire molto: è proprio indagando che Lance scopre un possibile coinvolgimento della sua famiglia nell’assassinio (anche se, forse, questo omicidio non è il primo che interessa, più o meno direttamente, i parenti di Lance).

“La terra dei sogni”
Il primo romanzo (360 pagine) affronta il terribile omicidio e le relative indagini.
Lance, nonostante abbia trovato il cadavere del turista, non è coinvolto nelle indagini ufficiali, affidate all’FBI e a un detective norvegese arrivato in aiuto delle autorità locali.
Seguiamo le indagini da diversi punti di vista, sia le indagini ufficiali sia quelle di Lance.
Chi è interessato a una narrazione serrata, avvincente, ricca di colpi di scena, rimarrà leggermente deluso da questo romanzo: in certi passaggi la narrazione si fa piuttosto lenta.
Più che un romanzo giallo, “La terra dei sogni” sembra quasi un romanzo psicologico, una indagine su come il nostro passato e i nostri affetti possano influenzarci.
In più, nonostante l’omicidio sia il filo conduttore dell’intera trilogia, mi è sembrato che il primo volume si concentrasse quasi esclusivamente sulla presentazione di Lance e delle sue emozioni.
Ammetto di non aver apprezzato Lance Hansen: probabilmente era volontà dello stesso autore creare un personaggio che non fosse il tipico eroe. Lance ha innumerevoli difetti (sospetto abbia anche seri problemi nella gestione della rabbia) e, nonostante l’autore cerchi di portare il lettore quasi al compatimento del protagonista, in alcuni passaggi non riuscivo più a sopportarlo.
L’indagine psicologica di Lance è molto interessante e dettagliata, forse addirittura eccessiva: l’autore a volte si dilunga troppo nel presentare queste emozioni che, alla fine, la storia generale ne risente. Naturalmente ci sono anche tanti altri personaggi (all’inizio della lettura ho avuto anche a difficoltà a ricordarmi i nomi) ma, almeno in questo primo romanzo, tutti gli altri personaggi sono quasi uno sfondo, un contorno alla portata principale quale Lance Hansen.
Più che il romanzo giallo in sé, “La terra dei sogni” mi è piaciuto come romanzo “storico”: l’autore usa Lance per presentarci la storia di questa particolare area geografica, sia per quanto riguarda le sue relazioni con il “Vecchio Mondo” (sembra che le rive del Lago Superiore siano state colonizzate in particolare da scandinavi alla fine dell’800) sia per quanto riguarda le sue relazioni con i precedenti abitanti, ovvero gli indiani d’America. A me questa particolare attenzione per la storia locale è piaciuta, tuttavia non sono sicura che a lettori che non conoscono o non sono interessati alla storia americana possa piacere.
Comunque, nonostante la lentezza in alcuni passaggi, il romanzo è scritto con uno stile semplice, anche abbastanza scorrevole. La conclusione lascia intendere che fosse previsto un seguito.

“Da allora non aveva più sognato. Aveva letto che tutti gli uomini sognano, anche senza saperlo, ma a cosa serviva sognare se non se ne era consapevoli? Gli unici sogni che contano sono quelli che uno ricorda, e lui non aveva più sognato negli ultimi sette anni. […] Era una cosa di cui non aveva mai parlato con nessuno, tanto era strana e inverosimile. Lui non era come gli altri. Alcuni sognavano molto, altri rarissimamente, ma Lance Hansen non sognava affatto. Per lui dormire era un nulla che si ripeteva ogni notte, abitato solo dal medesimo sonno profondo senza sogni. E adesso l’onda stava di nuovo per inghiottirlo. I suoi pensieri erano una spiaggia dove era stato scritto qualcosa che le onde avevano ormai cancellato”.

“I morti”
Il secondo volume della trilogia (145 pagine) è ambientato pochi mesi dopo le vicende del primo romanzo. Della trilogia, è il romanzo più breve ma anche il più particolare: questo non è un romanzo per gli amanti dell’azione ma è adatto a chi vuole una storia che crea una profonda suspense.
L’intero racconto avviene in un’unica giornata nei boschi della contea e in scena ci sono solo due personaggi: Lance e il fratello Andy. I due fratelli non sono affiatati, anzi.
Molto probabilmente si odiano e nutrono un forte rancore l’uno verso l’altro per una complicata e delicata questione che ha segnato le loro vite durante il liceo.
Nonostante non si parlino e non si frequentino per quasi tutto l’anno, sono soliti passare una giornata insieme per dedicarsi completamente a una passione della famiglia: la caccia al cervo.
Eppure, leggendo anche solo i primi capitoli, appare evidente come in realtà non siano i cervi a essere le prede. Ben presto la caccia al cervo assume una vena inquietante e sinistra: i cacciatori di cervi ora sembrano cercare altro (o meglio, qualcun altro) da cacciare.
“I morti” è il romanzo della trilogia che mi ha colpito maggiormente: è a tutti gli effetti un thriller psicologico con una buona narrazione e una buona dose di suspense.
Infatti, nonostante siano due i protagonisti di questo romanzo, è possibile individuarne altri due: il primo è un lontano parente deceduto di Lance, la cui storia interrompe in più punti le scene di caccia (si capisce che cambiamo “storia” in quanto questi passaggi sono stati stampati in corsivo).
Il secondo personaggio da considerare è la Natura. E’ nella natura che ogni scena ha luogo ma questa non è solo un semplice sfondo: interagisce attivamente con i protagonisti (per esempio, il freddo sembra quasi avere le caratteristiche di un fantasma che tormenta Lance durante la battuta di caccia).
Rispetto “La terra dei sogni” questo romanzo è davvero molto più inquietante: il fatto che l’intera storia si svolga in tempi brevi, in uno spazio ristretto, crea quasi un senso di claustrofobia.
Anche Lance appare “meno eroe”: non lo era nel primo romanzo ma in questo libro compie delle azioni e ha dei pensieri che non si addicono minimamente ai cosiddetti “buoni”.
Non penso che la ridotta lunghezza del romanzo sia un problema: credo che invece proprio la brevità di questo riesca a rendere ancora più intensa la storia.
Naturalmente per comprendere il racconto è necessario aver letto il primo volume della trilogia: senza questa lettura, “I morti” non può che apparire come un thriller confusionario.

“Suo padre gli aveva insegnato a essere vigile quando non succede niente, a rimanere in ascolto quando c’è silenzio, e adesso Lance stava mettendo in pratica la sua lezione. Si alzò e si incamminò lentamente. Si fermava spesso. Stava immobile e in ascolto, ma non udiva nient’altro se non le gocce di pioggia sugli indumenti e qualche rara automobile che passava lungo la strada un po’ sopra di lui. Sapeva che, per avere qualche chance, non poteva permettersi la minima distrazione”.

“I corvi”
La trilogia si conclude con questo romanzo (326 pagine).
Il lettore può finalmente risolvere tutti i misteri che sono stati presentati nel primo volume.
Ambientato dopo la battuta di caccia del libro precedente, “I corvi” riprende in parte lo stile del primo romanzo, interessandosi particolarmente a ciò che Lance prova man mano che scopre la verità. Molti segreti vengono rivelati e, a conclusione di questa vicenda, la vita di Lance e dei suoi parenti non potrà mai più essere la stessa.
Il romanzo ha un inizio abbastanza lento ma la storia scorre velocemente: i capitoli sono davvero brevi (in genere non più di tre, quattro pagine) e a poco a poco la lettura si fa sempre più interessante. Fino alle ultime pagine non si è veramente sicuri di aver capito davvero chi sia il colpevole e cosa accadrà. Solo negli ultimi due capitoli il lettore può davvero risolvere il mistero.
Nonostante questo sia un bel modo di tenere vivo l’interesse dei lettori, la fine del romanzo mi è apparsa troppo frettolosa. Sembra quasi che l’autore non sapesse bene come concludere la storia e abbia deciso di interrompere la narrazione.
Concludendo la trilogia riusciamo a risolvere i nostri dubbi ma la fine me ne ha creati molti altri! L’autore non offre al lettore notizie su ciò che accade “dopo”. In pratica il caso è risolto e il romanzo (e quindi la trilogia) è così terminato.
Tuttavia, con tutta l’attenzione che è stata dedicata alla psicologia e alla vita dei personaggi (in questo romanzo l’autore non si interessa solo a Lance come nel primo ma approfondisce la psicologia di tanti altri, in particolare della nipote di Lance, Chrissy) immaginavo una conclusione leggermente diversa. Non sono rimasta delusa da come la trilogia sia terminata, speravo solo che l’autore potesse risolvere tante altre questioni lasciate in sospeso.

“-No, - sussurrò lui con voce roca, - Io e te siamo come i corvi che rimangono qui e riescono a sopravvivere all’inverno. Io e te sopravviviamo a tutto -
Debbie gli fece un sorriso che era più vecchio dei suoi anni e in cui lui lesse il naufragio del suo matrimonio, il periodo trascorso in California e il senso di fallimento per essere dovuta tornare nel luogo in cui era cresciuta.
- Noi non siamo corvi, - rispose lei. – Noi siamo le carcasse che loro banchettano per strada-“

Nel complesso, ho apprezzato la “Trilogia del Minnesota”. Molto probabilmente leggerò altro di questo autore norvegese, molto amato nel suo paese, in Europa e negli Stati Uniti ma da noi ancora sconosciuto. Spero davvero che verranno pubblicati altri suoi romanzi e che il fatto che questa trilogia sia stata pubblicata in unico volume non sia stata, alla fine, una “perdita”.
Quindi, che dire se non “buona lettura”? :)

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Consigliato a chi ama i gialli e i thriller psicologici.
Più che agli appassionati dei noir scandinavi, consiglio la lettura agli amanti dei gialli di autori americani.
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pirata miope Opinione inserita da pirata miope    24 Ottobre, 2015
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il VIRIVIRI'

“E questa fu l’origine di tutto il virivirì che capitò appresso” con questa frase Camilleri dà il via alle danze scombinate che nell’ottavo racconto della raccolta”Le vichinghe volanti” portano ad esiti imprevedibili. In realtà nel mondo di Camilleri racchiuso nei confini di Vigata il virivirì capita sempre, anzi il vivirì è la sola categoria del reale concepibile, tanto che persino sintassi e lessico devono adeguarvisi, deformandosi e reinventandosi. Il caos non è compatibile con le regole rigide della grammatica: leggere i libri di Camilleri in italiano corretto sarebbe come sentire un' orchestra con strumenti scordati. A cercare di mettere le briglie alla follia degli accadimenti di solito c’è il commissario Montalbano, la cui assenza ne “Le vichinghe volanti” lascia libertà totale al virivirì di dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. Le sue origini sono nel cuore di uomini e donne, soggetti solo alle proprie voglie: basta l’incontro casuale su un pianerottolo, in “Il terremoto del ‘38”, la visione di un corpo nudo nell’acqua di un fiume, ne “i cacciatori”, o in un quadro, in “il boccone del povero”, per far scaturire la passione fino a farla coincidere con il deliro e con l’allucinazione come avviene al prete protagonista di “In odore di santità”. Le convenzioni sociali da sempre contrastano con il desiderio: il tempo scorre, cambiano governi e condizioni, la Vigata del 1910 non è più quella di oggi ma da questo punto di vista non vi sono mutamenti significativi. Le storie sono infatti ambientate fra l’inizio e la metà del secolo scorso, ma qualunque sia il contesto, l’eros è sempre e comunque elemento ribelle e destabilizzante. L'esplosione dell'eros incontrollabile porta al dramma talora, più spesso alla farse ridicola.Né le differenze di classe né la gelosia patologica di una madre( “Il boccone del povero”) e neppure la paura del cataclisma ( “Il terremoto del '38”) vincono del resto“Il sciaurio di giglio” della bellezza di un corpo.

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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    24 Ottobre, 2015
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Arte e vita

La comparsa è un bel libro; l'idea di fondo di una donna rapita alla vita dalla musica è bella ma avendo letto altri romanzi dell'autore in passato direi che questo è meno intenso, forse più tenero ma tutto sommato la sensazione è che manchi qualcosa. L'inizio è piuttosto fiacco anche se con lampi di dolcezza: Noga, la protagonista, arpista di professione, viene chiamata a Gerusalemme dal fratello per tenere occupata la casa della madre che deve fare un periodo di prova in una casa di riposo di un'altra città . Noga deve quindi lasciare gli impegni di lavoro per fare la comparsa nella vita della sua famiglia. Farà anche provvisoriamente la comparsa per mantenersi anche se non ne avrebbe una vera necessità per cui l'occupazione sembra più che altro simbolica. Nella casa della madre fanno incursioni due bambini, due piccoli teppisti fanatici con i boccoli e una gran voglia di guardare documentari alla TV (per loro proibita). L'idea dei bambini è tenera e tesse un filo con il rifiuto di Noga di dare un figlio all'ex marito. Con la comparsa sulla scena dell'ex marito la storia si fa un po' più interessante anche se la spiegazione dello strano rapporto tra i due non raggiunge l'intensità e la profondità che mi aspettavo dall'autore. Invece è molto bella la terza parte, quella in cui Noga torna all'arte. La descrizione del rapporto di Noga con l'arpa e con la musica rappresenta l'apice del romanzo. Soprattutto la descrizione del duetto tra arpe nella mer è bellissimo.
Sembra in questo romanzo di Yehoshua che l'arte abbia la meglio sulla vita nella mente dell'autore ma nel momento in cui si allontana dalla vita fa un passo indietro anche dai suoi lettori. La comparsa, questa donna bella e sfuggente, lontana dalla vita e forse anche dalla musica (l'arpa ha un piccolo ruolo nella maggior parte dei brani) che poteva essere una figura evocativa e profonda resta abbastanza lontana come "la stella" ( si fa per dire) Venere di cui porta il nome.

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Consiglio di leggere l'amante e il divorzio tardivo
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Avventura
 
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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    23 Ottobre, 2015
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Sono gli schiavi a creare i tiranni..

Con un titolo che fa riferimento in modo così esplicito ai due protagonisti della storia, mi sembra doveroso presentarveli prima di ogni giudizio o commento sul romanzo stesso.
I 'due uomini buoni' sono don Pedro Zárate e don Hermógenes Molina, due nomi che probabilmente risulteranno sconosciuti al 99,9% di voi, escluso me ed il caro collega qui sotto che ha già commentato tale romanzo; si tratta però di due nomi che appartengono a personaggi realmente esistiti.
E non cercate - come ho già fatto io da gran curiosone che sono - di spiare i loro profili Facebook perché i personaggi estratti dal filtro di ricerca (per quanto alcuni possano risultare anche affascinanti ad un occhio femmineo) non corrispondono ai nostri 'uomini buoni': sia perchè essi sono vissuti nel XVIII secolo quando il 'download' di Zuckerberg nel mondo terreno non era stato ancora avviato da nostro Signore, sia perché oggi come oggi 'uomini buoni' sono perle rare e generalmente poco esposte su una vetrina pubblica come Facebook.
Facile intuire, comunque, dal nome che si tratta di due spagnoli, precisamente due membri dell'onorevole e prestigiosa Real Academia Española, un'istituzione nata con lo scopo di salvaguardare la purezza della lingua castigliana dalle contaminazioni delle culture straniere; una sorta di Accademia della Crusca, per intenderci.
Un'istituzione, quindi, dal chiaro stampo conservatore, soprattutto all'epoca della sua fondazione nel 1713 quando la Spagna, ancora pregna del clima di terrore generato dall'Inquisizione e dal potere ecclesiastico di Roma, bandiva come eretiche le 'voci' che provenivano dalla vicina Francia, idee e pensieri di uomini 'illuminati' dalla ragione e dalla scienza, e pertanto pericolosissimi per la salute e la sopravvivenza di un potere monarchico-religioso basato proprio sulla negazione della ragione, sull'oscurantismo della mente che piegava gli animi ad una cieca obbedienza.
E si avvertivano chiaramente tra le strade di Parigi i primi focolai di quell'incendio che scuoterà dalle fondamenta il regime monarchico francese dando vita al movimento rivoluzionario più travolgente di tutta la storia, i cui effetti si allargheranno a macchia d'olio nell'intera Europa con la stessa potenza che avrebbe oggi un evento mediatico di primaria importanza, come ad esempio l'uscita del nuovo iphone...
"... la visita fatta ieri, sconcertante perchè inattesa, ad alcune strade umili di questa città dove il fasto dell'urbe si ottenebra di fronte alla sordidezza della vita dei più poveri, dove ogni necessità ha il suo esempio e ogni vizio la sua triste manifestazione. Il che dimostra che, perfino in nazioni colte e in città in cui maestosità e lumi sono più evidenti, creature sventurate patiscono offese e accumulano pericoloso rancore. Del che dovrebbe prendere nota, per la propria salvezza, chi ha per obbligo lavorare per la felicità dei popoli che Dio gli ha affidato."
Ed è in questo contesto storico così turbolento che si colloca la missione di cui sono incaricati i due 'uomini buoni', per conto della stessa Accademia Spagnola, quella cioè di recuperare e trasferire in Spagna, sotto la custodia intellettuale degli accademici, l'opera più imponente e più discussa dell'epoca, messa all'indice in tutta Europa come opera sovversiva ed ingannatrice, divulgatrice di concetti e filosofie in chiara contrapposizione alle verità assolute difese strenuamente dalla Santa Inquisizione: la prima edizione in 28 volumi dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
Una missione che coinvolgerà i due protagonisti in un'avventura irta di difficoltà, sia per la durata del viaggio sia per la particolarità del 'carico', visto che alcuni 'uomini cattivi' cercheranno di ostacolare l'arrivo dell'Enciclopedia in Spagna evitando così che tale opera possa infangare, dal loro punto di vista, il prestigio della stessa Accademia.
E quando si parla di avventura il nome di Arturo Pérez-Reverte è una garanzia: per la scrupolosa e minuziosa ricostruzione dei luoghi e del costume sociale dell'epoca, preceduta da uno studio analitico di testi e mappe storiche che l'autore ha documentato nello stesso romanzo, alternando il racconto vero e proprio del romanzo con quello del suo personale percorso di approfondimento storico.
E ciò che la realtà storica non documenta viene integrato dalla fantasia dell'autore, finzione a supporto della storia e miscelata ad essa in perfetto amalgama.
Una scrittura pulita, elegante, direi quasi in 'pendant' con la galanteria e l'erudizione dei due gentiluomini; ecco, ciò contribuisce a rendere estremamente coinvolgente questo romanzo, nel senso che leggendo quelle pagine vi sentirete subito catapultati nella Francia del 18° secolo, come se foste all'interno di una macchina del tempo: e vi ritroverete così a passeggiare tra le strade di Parigi, lungo la Senna per Saint-Denis, passando sotto le sinistre mura medievali del Petit Chatelet, seguendo il molo fino a raggiungere place de Greve per poi ammirare "la vicina isola di Saint-Louis, il Pont Rouge e le torri bianche della cattedrale che s'innalzano sui tetti d'ardesia"; e vi ritroverete ad osservare con curiosità, sin nei minimi gesti, uomini e donne dell'alta nobiltà gustare un caffè seduti ai tavolini dei bar, incipriati, avvolti da parrucche e cappelli sfargianti all'ultima moda (a proposito, lo sapevate che l'ignobile idea di sostituire la comoda cerniera lampo sulla patta dei pantaloni maschili con quei fastidiosissimi bottoni è stata partorita proprio da un sarto francese dell'epoca che riteneva poco elegante quel meccanismo ad incastro, che seppur a volte soggetto a inceppature, era a mio parere una gran comodità nel momento del bisogno?)
e potrete infine assistere alle innumerevoli discussioni che animano i salotti dell'epoca, da quelle più impegnative sulle innovative scoperte in ambito scientifico o sulle irriverenti teorie filosofiche illuministiche:
"Non è meglio gettarsi nelle braccia di una natura cieca, priva di saggezza e di obiettivi, piuttosto che tremare per tutta la vita schiavizzati da una presunta Intelligenza Onnipotente, che ha disposto i suoi sublimi disegni affinchè i poveri mortali abbiano la libertà di disobbedirvi, e trasformarsi così in continue vittime della sua collera implacabile? (d'Holbach)"
a quelle più frivole e libertine:
"A Parigi l'amore non è altro che un libertinaggio mitigato, un esercizio sociale che sottomette i nostri sensi senza impegnare la ragione o il dovere. Delicato per la sua incostanza, non esige sacrifici che ci costino cari. Il seduttore non è tale se non per colei che vuole essere sedotta, e la vera virtù può conservarsi intatta in tutto questo. L'amore è leggero, volatile, e svanisce con la noia.."
Un romanzo d'avventura in stile classico, assolutamente consigliato agli amanti del genere.. a chi, per esempio, mantiene sempre riservata in un angolo della sua libreria una copia dei Tre Moschettieri di Dumas.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    14 Ottobre, 2015
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Così è se vi pare

È il personaggio di Alexandre Alekhine, campione del mondo di scacchi, al centro dell’ultimo romanzo di Paolo Maurensig.
Spinto dal desiderio di fare luce sulle cause che portarono alla morte del grande scacchista, lo scrittore immagina e descrive i suoi ultimi giorni di vita trascorsi all’Hotel do Parque, a Estoril, in Portogallo.
Siamo di fronte a una biografia in parte romanzata, che ci consegna l’immagine di un personaggio ambiguo e sfuggente, che aveva dedicato se stesso con passione e sincerità solo all’arte del gioco degli scacchi. La scacchiera è vista e considerata come l’unico mondo accettabile, ed è posta in contrapposizione alla vita reale miserevole e contraddittoria. “ La scacchiera è stata il mio mezzo di espressione artistica: la tela su cui dipingere, il pentagramma del musicista, la pagina bianca del poeta; e a quest’arte mi sono interamente votato.” Queste le parole di Alekhine e in queste parole egli sottintende altresì una giustificazione alle accuse che gli vengono mosse da molte parti del mondo. Alekhine salvato da Trozki da una condanna a morte come oppositore del regime comunista, Alekhine campione, Alekhine collaborazionista dei tedeschi del terzo Reich. Ogni periodo della sua esistenza, ogni evento, ogni difficoltà sono state superate solo in funzione di una spasmodica ricerca artistica nel gioco degli scacchi. Eppure la sua immagine è offuscata da quella amicizia con Hans Frank, governatore della Polonia, e con i seguaci di Hitler. Gli ultimi giorni della vita di Alekhine coincidono con i giorni del processo di Norimberga. Egli non è alla sbarra, ma il suo processo ha luogo nella sua coscienza dove egli rappresenta a se stesso gli atti di accusa contro i quali cerca giustificazioni che appaiono deboli, quasi inconsistenti. Una delle accuse più terribili che gli si possa rivolgere è quella di aver saputo del destino degli ebrei e non aver esercitato alcuna intermediazione presso le sue amicizie potenti. L’ambiguità del personaggio ê qui accentuata da una disquisizione che verte specificamente sull’abilità artistica degli ebrei alla scacchiera, che Alekhine sminuisce, fino a negarla.
Un personaggio, questo, che in alcune pagine appare in una dimensione odiosa, in altre, come in quelle in cui si ritrova a discorrere con l’amico giudeo Neumann, in una dimensione di umana fragilità. Siamo di fronte a una vera e propria rappresentazione della teoria delle ombre. Come nella geometria prospettica, così nella vita reale, ogni corpo, ogni individuo, assume una forma diversa a seconda di come esso viene illuminato, a seconda di come la sua ombra si propaga. Così è se vi pare.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    13 Ottobre, 2015
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Non la migliore Torregrossa

Dopo aver letto quattro libri di quest’autrice, posso dire che un pochino la conosco e ne riconosco il suo stile. Il suo ultimo libro è appunto “Il figlio maschio”, un romanzo che ci racconta la vita della famiglia Cavallotto per quasi un secolo. Tutto ha inizio con Concetta Russo, la moglie di Turiddi Ciuni che nei primi anni del Novecento decise di mandare tutti i suoi dodici figli (sia maschi che femmine) a scuola. Il marito li voleva per la terra lei li voleva per i libri.

Questo amore per i libri, in una maniera o nell’altra, ha “infettato” tutta la generazione che piano piano ha fatto dei libri la loro vita.

Come ogni romanzo di questa autrice, la donna ha come sempre un ruolo cardine. Il dialetto è usato liberamente e rispetto agli altri, sul fondo non ho trovato “la traduzione” quindi qualche dettaglio (ma proprio pochi) me lo sono perso.

La Torregrossa ci racconta la sua Sicilia e come il suo “volto”è cambiato nell’arco di un secolo. La fase pre-guerra, la guerra e il dopoguerra e le sue conseguenze; la vita siciliana, con i pettegolezzi, le invidie, gli sciacalli e il pizzo. Come una donna senza un uomo non è ben vista e di come i tempi cambiano e la donna sa riscattarsi.
“Solo la felicità riuscivano ad affrontarla singolarmente, la difficoltà la vivevano in comunione”.
“Non è più il tempo che una fimmina trova un marito e si sistema. È necessario tenere conto delle loro aspirazioni”.

Ho iniziato la mia recensione parlando dello stile dell’autrice, c’è un motivo perché l’ho fatto, perché questa volta mi sono trovata davanti qualcosa di diverso da quello che solitamente mi aspetto dalla Torregrossa. Continui cambi di scena e di anni (trovati anche in altri libri ma qui proprio netti), si salta ad esempio dal 1945 al 1954 in dieci pagine. Ogni capitolo inizia poi con un personaggio diverso, alcuni già conosciuti altri no. Ti stai appassionando alla vita di qualcuno (Concettina Ciuni è la mia preferita) e voltata pagina l’hai perso.

Insomma questa cosa mi ha spiazzato e non riconoscevo la mia tanto amata autrice della “La miscela segreta di casa Olivares”, poi tutto si è fatto chiaro. Giuseppina Torregrossa ha scritto sì un romanzo, ma non farina del suo sacco. L’autrice si è presa un bel compito, quello di raccontare le vicende della casa Editrice Cavallotto e per farlo si è fatto raccontare i fatti dalle dirette interessate ovvero dalla moglie e dalle figlie dell’editore siciliano.

Non è facile rendere giustizia ad una storia che parte così da lontano e che va raccontata in così poche pagine. Ora comprendo il suo saltare da un personaggio all’altro, per dare a tutti la giusta importanza e mostrare il contributo che hanno dato, ma per me che non conoscevo la storia è stato davvero difficile, non stargli dietro, ma gustarmi tutte le emozioni e il vero significato delle azioni, solo alla fine sono riuscita ad assaporarle.

Mi dispiace Giuseppina Torregrossa ma ti preferisco quando la farina è tutta del tuo sacco e proprio lì che sai dare il meglio di te. Comunque è sempre bello leggere qualcosa scritto da lei, sempre ironica, divertente, tragica e sicula al 100%.

Non mi sento di consigliarlo vivamente, come invece farei con altri di lei.

Buona lettura!

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La miscela segreta di casa Olivares
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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    12 Ottobre, 2015
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Giorni vissuti sul ciglio del burrone

Nel 1940, Lisbona è una porta. Una porta sull'oceano per tutti quei cittadini americani che intendono lasciare l'Europa.
Hitler sta portando la guerra nei diversi punti del continente, e gli Stati Uniti non risparmiano invii di grandi navi verso la capitale portoghese: solo così potranno rimpatriare quanti più cittadini possibile, prima che accada l'irreparabile.
A Lisbona sono appena arrivati Julie e Pete Winters, provenienti da Parigi: nella città francese hanno lasciato la loro casa, la loro vita faticosamente costruita negli anni. Pete è rassegnato al ritorno, e razionalmente non vede alternative; Julie, invece, aveva giurato a se stessa di dimenticare l'America: sarebbe disposta a ricominciare lì dove sono ora, pur di non tornare indietro.
Al bar Suica conoscono un'altra coppia di americani in attesa di rimpatrio: quella formata da Iris ed Edward Freleng. L'incontro avviene per caso, ed è il caso a vederli alloggiati in due hotel diversi ma dal nome praticamente identico (in quel momento nel quale gli alberghi cittadini sono presi d'assalto dagli esuli).
Nei giorni che mancano all'atteso attracco delle navi, le due coppie iniziano a frequentarsi. Ai “bordi” dell'Europa, dove migliaia di vite cambieranno il loro corso, i quattro stranieri paiono vagare come turisti incuranti della catastrofe che verrà. Ma anche quell'incontro è in qualche modo destinato a cambiare le loro vite...

“I due hotel Francfort” è un libro ambizioso, elegante, sorretto da una valida idea di partenza. Che tuttavia finisce per restare incompiuta.
L'autore, David Leavitt, si concentra sul rapporto tra i quattro personaggi, sulla trama psicologica che li lega quanto più essi si frequentano (non risparmiando sorprese al lettore). Finisce però per “mangiarsi” tutto il resto: pochissimi accenni all'atmosfera che precede gli anni più bui della seconda guerra mondiale; mentre del regime instaurato da Salazar in Portogallo si parla in fin dei conti una volta sola (nella parte in cui si ricorda l'ordine del dittatore di portare sempre le scarpe in pubblico, compresi coloro che non possono permettersi di comprarle e perciò rischiano l'arresto). Tanto che il libro lascia l'impressione di poter “reggere” altri contesti storici (quello di un paese dell'epoca coloniale al momento di conseguire l'indipendenza, ad esempio).
Il succo della vicenda è nel pericolo di annientamento morale per i protagonisti, che origina non dalla guerra incombente ma dal loro stesso istinto autodistruttivo. Il lettore appassionato di dinamiche di relazione vedrà svelate solo alla fine tutte le zone d'ombra dell'animo, delle quali parla Leavitt: accadrà quando l'emergere del “background” di alcuni personaggi potrà chiarire il perché di azioni apparentemente controproducenti. Allora sarà il conflitto interiore a precedere quello mondiale...

“Un'allegria artefatta ci accompagnava in quelle serate, la finzione di essere solo due coppie in giro per la città e non quello che eravamo veramente, cioè una piccola compagnia di commedia dell'arte di tre componenti, che eseguiva la sua pantomima per il pubblico inconsapevole di una sola persona... Si, sono sicuro che se ci aveste visti in quelle sere, avreste pensato che eravamo grandi amici, che mangiavano aragosta e bevevano vinho verde e parlavano di... di cosa?”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Pupottina Opinione inserita da Pupottina    12 Ottobre, 2015
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Night Film

NOTTE AMERICANA (titolo originale Night Film) è il secondo romanzo di Marisha Pessl ed è un'opera avvincente ed estremamente complessa. È un romanzo investigativo che affonda nell'abisso del male e vi guarda da un'angolazione privilegiata, portando alla luce una visione pessimistica.
"La mente umana è un posto annerito, coperto di erbacce."
La mente umana è un abisso inspiegabile, sconvolgente. In questo romanzo, ipnotico ed extra large, considerate le 770 pagine, il ritmo alterna sequenze che scorrono in picchiata ad altre che rallentano la narrazione e ne descrivono l'ignoto indugiando sugli effetti. Cause ed effetti, fanno scorrere inesorabilmente le indagini nelle quali il protagonista si ritrova sempre più pericolosamente coinvolto.
Le indagini del protagonista Scott McGrath cercano di scoprire chi era la giovane e bella Ashley Cordova, trovata morta in un magazzino abbandonato di Manhattan. Anche se il caso viene archiviato subito come suicidio, Scott McCrath, giornalista investigativo con anni di esperienza alle spalle, sospetta che ci sia molto di più dietro. Lui non lo sa, ma lui e Ashley si sono già incontrati. Forse lei ha cercato di chiedergli aiuto, ma si è arresa prima di farlo.
"È meraviglioso perdersi nella musica. Dimenticare per un po' il proprio nome." Ashley avrebbe voluto scomparire. Ha provato a salvarsi con l'occultismo, ma ad un certo punto ha deciso di smettere di lottare.
Scavando nelle strane circostanze che segnano la vita e la morte di Ashley, McGrath finisce per scontrarsi con l'eredità del padre della ragazza, il leggendario regista di film horror di culto Stanislas Cordova, un uomo che non appare in pubblico da oltre trent'anni. Anche se in molti hanno scritto sugli oscuri, inquietanti film del regista, dell'uomo non si sa nulla, o quasi. I suoi fan, i Cordoviti, sono sempre alla ricerca di novità che lo riguardano, per sciogliere il mistero che lo avvolge. Ma per ogni coperta fatta, c'è sempre molto di più. McGrath lo sa, perché ha un conto in sospeso con Cordova. Già in passato McGrath aveva cercato di far luce su questo personaggio misterioso, ottenendo però di distruggere il suo matrimonio e la sua carriera. Ma ora rischia di perdere molto di più. Anche Scott ha una figlia, una dolce, tenera bambina e i piccoli, quando si parla di Cordova, sono le vittime preferite. Però, Scott McGrath non riesce a tenere a freno i suoi istinti investigativi e così, guidato dalla vendetta, dalla curiosità, ma anche dalla sete di verità, viene risucchiato sempre più nel mondo ipnotico e misterioso del regista cinematografico Stanislas Cordova. Ad aiutarlo nelle investigazioni, Scott McGrath ha due singolari aiutanti, Nora e Hopper, altrettanto indecifrabili.
È un romanzo particolare anche per tutti gli inserti grafici che in esso sono contenuti. Vi sono immagini che raffigurano dossier, articoli di giornale, siti web, forum, chat instant messaging e rimandi a video reali. È quasi come leggere un'opera multimediale, più che seguire le semplici indagini di un protagonista X. La narrazione in prima persona e i documenti fotografici, inseriti all'interno del volume, fanno sì che l'immedesimazione del lettore, durante le indagini, sia totale.
"Le nostre vite sono fiori che sbocciano, sgargianti e poi muoiono."

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silvia71 Opinione inserita da silvia71    06 Ottobre, 2015
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L'arrivo della Rossa

L' ultimo romanzo di Ammaniti sicuramente farà parlare, farà riflettere, provocherà una dicotomia di opinioni in merito al contenuto ed al messaggio.

L'autore parte da uno scenario tutt'altro che novello in letteratura, ossia l'annientamento dell'uomo a causa di un virus letale. Il mostro subdolo si chiama “la Rossa” e non dà scampo agli adulti, mentre per un misterioso motivo il male non contagia i bambini.
L' habitat che si presta ad essere terreno di svolgimento degli eventi è la calda Sicilia, con le sue spiagge e il suo mare ma anche il suo variegato entroterra dove il profumo del sole che scalda le distese dei fichi d'india maturi ed il profumo degli aranceti in fiore lasca posto ad ambientazioni di morte e desolazione, pregne di tanfo di migliaia di corpi in putrefazione.
Il mondo immaginato da Ammaniti è silenzio, fame, orrore; al contempo il declino del mondo dei “grandi” mette in pista il nuovo mondo dei “piccoli”, catapultati tra le spire di un universo desolante, dove il quotidiano diventa la lotta per la sopravvivenza.
Dopo un brevissimo esordio di cosiddetta normalità, tra le pagine sfila una schiera di orfani depredati in primo luogo del calore familiare, della fase complessa della crescita, della possibilità di avere una guida ed una spalla per incamminarsi lungo l'arduo sentiero della vita.
I “bambini di Ammaniti” non hanno tempo per le lacrime, hanno forte dentro di loro il ricordo del genitore ma una spinta innata li costringe a combattere per guardare al futuro, perché la tensione per la vita è nettamente più potente di quella della disperazione; sono esseri decisi a vincere la battaglia contro il destino.
Il messaggio dell'autore appare in tutta chiarezza, appare come un'ancora di salvezza dopo una ridda di immagini dolorose e macabre; il focus è sulla speranza e non sulla sconfitta, questo lo percepisce a chiare lettere.

Pur riconoscendo i meriti di chiarezza espositiva, di forte caratterizzazione dei personaggi, dell'ottimo lavoro di ricostruzione della psicologia di protagonisti così piccoli, rimane tuttavia il neo sul deja vu del contesto, dello sfruttare il solito clima post catastrofe per mettere a nudo i sentimenti e le scelte dell'uomo, anche se nel caso specifico si tratta di piccoli uomini e donne.
Il rischio è quello che una tematica così largamente adottata in letteratura crei una sorta di stanchezza o peggio faccia scattare la corsa al paragone.
In tutta sincerità, appena il lettore si sente avvolgere da tanto grigiore e morte, viene facile ripescare tra alcuni momenti de “La strada” di Mc Carthy, seppur con le dovute differenze, ma una volta ingabbiati nel tunnel del confronto si comincia a perdere il contatto con ciò che si sta leggendo.

In conclusione è un testo che non lascia indifferenti, che colpisce per le immagini e per le ipotesi che inevitabilmente spinge a formulare.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    06 Ottobre, 2015
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Il paradiso perduto

Sembra che le fatine dopo essere andate al battesimo della Bella Addormentata passarono anche da E.J. Howard facendole gli stessi identici doni: la prima le donò la bellezza (infatti iniziò la sua carriera come attrice e fotomodella), la seconda le diede la simpatia (andava con i mariti delle sue più care amiche e quelle non se la prendevano nemmeno un po’), la terza le diede l’intelligenza e il talento per la scrittura. La fata cattiva, dato che il vecchio incantesimo della puntura del dito non avrebbe funzionato, le impose almeno tre principi azzurri…. Il primo era vecchio e sembrava gentile, ma lei era troppo giovane per riconoscere una persona veramente gentile, il secondo era rigido e freddino, il terzo era il padre di Martin Amis, scrittore anche lui e terribilmente geloso di lei, non come donna (benchè ne avesse motivo) ma come scrittrice dato che era più brava di lui.

Lasciando da parte i pettegolezzi e venendo al romanzo, bisogna dire che l’impatto con le prime pagine non è dei migliori, nel senso che il lettore viene catapultato in un mondo borghese con i suoi tabù sessuali ora quasi incomprensibili e obsoleti. In realtà, questa sensazione di storia d’altri tempi scompare quasi subito. Il romanzo descrive principalmente i dialoghi, le paure, il carattere, i giochi di un gruppo di cugini che si ritrovano per le vacanze estive a casa della nonna, figli di quattro famiglie diverse. I bambini e gli adolescenti sono descritti con grande grazia e delicatezza, forse con nostalgia. Il romanzo sembra autobiografico, nel senso che la famiglia di Louise, quindicenne, è quella dell’autrice, le altre non saprei dire. Il mondo dell’infanzia è rappresentato come una specie di paradiso, di paradiso perduto. Louise, l’autrice, è alla porta di uscita dal paradiso. Su di lei si accalcano ombre terribili: siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale e alla vigilia dell’età adulta. I genitori man mano che lei entra nell’adolescenza cambiano faccia e ne rivelano una a cui lei non è preparata. Il rapporto con la madre si raffredda e diventa una specie di rivalità sotterranea. Il rapporto con il padre ha un carattere edipico fortissimo. Questo aspetto del rapporto di Louise con i genitori è accennato solo in un paio di pagine delle quasi 600 del romanzo ma sono molto significative. In queste due pagine l’autrice ci racconta un episodio in particolare: Louise mette un vestito da adulta per cenare con il padre, all’insaputa della madre da cui preferisce non farsi vedere con quello stesso vestito perchè non capirebbe, e questo accade proprio il giorno in cui la madre ha appena tolto tutti i denti.
Dopo la cena a due il padre tenta di baciarla. A questo punto l’autrice ci parla di un episodio precedente e ben peggiore dopo il quale Louise si è presa una chiave per la sua camera perché non si sentiva più sicura. Da come sono descritti i fatti si intuisce che l’autrice ha un atteggiamento ambiguo o doppio nei confronti del padre di seduzione e rifiuto; la seduzione, l’aver indossato il vestito da donna all’insaputa della madre nonostante il precedente, forse le serve inconsciamente ad addossarsi le colpe del comportamento di lui oltre che ad avere la sua attenzione. E, comunque, serve a far dubitare il lettore delle sue intenzioni nell'indossare quel vestito, anche se non è il lettore a dubitare ma lei stessa in quanto il lettore sa ben distinguere tra le responsabilità di un genitore e di una ragazzina.
Certo, il senso di colpa deve aver accompagnato Elizabeth/Louise tutta la vita rovinandole i rapporti umani più importanti.
Il romanzo è quindi anche un romanzo terapeutico oltre che nostalgico per il periodo dell’infanzia descritto come un tempo di grande, grandissimo candore a cui l’autrice si affaccia con senso di grande nostalgia, forse proprio per il senso di perdita dell’innocenza che sta vivendo.
Il romanzo è minuzioso, descrive la vita di tutti i membri della famiglia nei particolari, è lento. Ma dalla lentezza delle pagine emergono i profili psicologici ben delineati di tutti. Forse le figure più ambigue e meno sviscerate sono quelle dei genitori. Le molestie del padre alla figlia emergono a un certo punto del libro come dal nulla. Sembra che l’autrice non abbia molta voglia di indagarle e di spiegarsele. Le accenna e poi sembra dimenticarsene. Non parla nemmeno delle conseguenze su Louise se non in mezza frase in cui dice che lei si era fatta più introversa, mezza riga.
Il romanzo è bello ma lento, di una lentezza che si apprezza dopo averci fatto l’abitudine e che mi ha ricordato un’altra autrice: Paula Fox.
Certo i ritmi dei romanzi moderni e spesso anche del passato erano molto diversi. Qui sembra che lei abbia stirato il tempo perché raggiungesse la lentezza del tempo reale, perché le giornate a casa dei nonni sembrassero più verosimili.
C’è nostalgia per la leggerezza e il desiderio di riviverla attraverso le pagine. E’ una leggerezza non solo mentale ma dell’anima, data dall’innocenza che forse oggi ragazzini adolescenti di 12-15 anni non hanno.
La saga non è solo un racconto superficiale di fatti o di avvenimenti come le saghe che a volte si vedono in TV ma ha un suo spessore e una grande vivacità per come i personaggi dopo le prime poche pagine prendono vita. C’è anche un ribaltamento: la famiglia di Louise che sembrava la più fortunata all’inizio del romanzo, in realtà è la meno fortunata. Le altre si rivelano più forti, affiatate, più positive per i loro figli, più amorevoli. Non so se nelle descrizioni delle altre famiglie c’è un senso di invidia. Dopo aver rivelato l’episodio del padre, Louise sembra sparire dal romanzo come se si vergognasse di se stessa mentre prima era il personaggio più presente. E’ come se non meritasse più di stare nel paradiso dell’infanzia e dell’innocenza.
““ Ah love, let us be true
To one another! For the world which seems
To lie before us like a land of dreams.
So various, so beautiful, so new…”
Le parve magicamente di risentire la sua voce pacata, un po’ stridula e pedante (non pronunciava bene la R)… poi non ricordò più come proseguire la lirica, e mentre tendeva le braccia nel buio la voce tremolò e si spense.
Era tutto finito.”
Concludo dicendo che Amis il vecchio, il terzo marito di Elizabeth, aveva ben motivo di essere geloso: quasi certamente Elizabeth scriveva meglio di lui.

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Paula Fox
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    05 Ottobre, 2015
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L’AMAREZZA DEL RICORDO

Questo è un romanzo che racconta quel momento della vita in cui credi di aver trovato la persona giusta per te, quella con cui puoi condividere tutto, che ami profondamente e con tutta te stessa ma quando la storia finisce non ti restano che ricordi, lacrime, rabbia e amarezza per quello che c’è stato e che non potrà più esserci.
Quando ci si innamora si ha veramente il prosciutto sugli occhi? Non riusciamo a vedere la realtà delle cose, i difetti che ha l’altra persona, le sue insicurezze, le sue paure ?
Antonia la protagonista racconta proprio la sua storia con Vittorio, la ragazza è arrivata a Milano con un sogno, finire di scrivere il suo romanzo ma in quella città così triste e cupa il destino le riserverà l’incontro con Vittorio, ricco e fascinoso quanto sfuggente editore.
La copertina di questo libro è molto significativa e rispecchia molto la figura di Antonia, un treno e lei che guarda fuori dal finestrino in attesa che l’uomo compaia davanti a lei e la venga a prendere.
La loro relazione anche se non si può definire così è formata da incontri mondani dove loro partecipano, e a notti di passione ma poi Antonia vorrebbe qualcosa di più una storia seria fatta di chiamate,messaggi uscite a due, invece Vittorio fugge da questo, e spesso e volentieri, non si fa sentire per parecchi giorni lasciando la ragazza a gongolare per un suo messaggio.
Antonia si dà anima e cuore in questo rapporto, quando ritorna a casa al sud sconfitta e stordita per la fine della sua relazione, cerca di ritrovare se stessa “Ma dove vanno a finire i pezzi di noi che abbiamo ceduto per un po’ d’amore?”.(cit)
Antonia vive dei suoi ricordi, dell’amore che credeva Vittorio provasse per lei, la ragazza chiede più volte di avere delle certezze nel loro rapporto ma lui non gliele da mai.
La “cosa tra noi” così la definisce la protagonista non avrà mai un nome per Antonia è un sentimento forte, puro e che la fa andare in frantumi, come un vaso che si rompe in mille pezzi.
La ragazza non si riconosce più e cerca di analizzare cosa non ha funzionato, era lei che non andava bene? O semplicemente Vittorio non era pronto ad impegnarsi fino in fondo con lei oppure non l’amava?
L’amore grande che Antonia prova poteva bastare per entrambi? Quando un amore è a senso unico, una storia può durare lo stesso?
Vittorio il fascinoso editore, con il bicchiere e la sigaretta sempre a portata di mano poteva essere veramente il grande amore che Antonia cercava?
“L’amore ti riempie e ti svuota con la stessa brutalità”.(cit.)
Vittorio sembra far capire in mille modi ad Antonia che non la ama, si allontana, si avvicina, non la chiama e non è presente quando lei ha bisogno, non si cura dei suoi sentimenti, innalza sempre di fronte a se una barriera fatta di silenzi e di punti interrogativi di fronte ai quali la ragazza non riesce a rispondere.
Nonostante tutto Antonia continua a stare con lui, a racimolare quel poco di amore che lui le dona, cercando di trovare un equilibrio alla loro relazione, anche se la protagonista immagina che Vittorio un giorno sarà con un’altra persona e non con lei al suo fianco.
L’amore rende così ciechi e poco obbiettivi?
Fino a dove possiamo spingerci per mettere a rischio la nostra felicità e per ferire i nostri sentimenti?
Antonia sbatte e sbatte ancora contro quel muro, e raccoglie, ripara e ricomincia e ancora raccoglie, ripara e ricomincia ancora e ancora prova a far funzionare la loro storia.
Il libro è un continuo flashback di ricordi e dal loro primo incontro, ai loro viaggi, alle uscite con gli amici di lui, ammiro molto Antonia che raramente riesce a colpevolizzare l’infimo Vittorio che non bada a lei e la tratta con indifferenza.
“Quando la tristezza finisce si può ricominciare?”(cit.)
Fino al momento in cui Antonia esasperata da questo tira e molla, lacera le catene che ha creato intorno a sé e affronta Vittorio per l’ultima volta, come in un ring alla resa dei conti finali.
Lui riconoscerà di amarla?
Questo non ve lo posso dire vi anticiperei il finale del romanzo e vi rovinerei la lettura.
Parallelamente alla storia personale di Antonia ritroviamo nel romanzo una serie di pagina del libro che sta scrivendo la ragazza con protagonista Silvia, una ragazza down, che come Antonia deve affrontare i suoi limiti e le sue paure.
La penna di Claudia Serrano è molto felice, fluida, coinvolgete, raramente riesci a staccare gli occhi dal romanzo, che ti avvolge in maniera inaspettata.
Il sogno di Antonia si sarà spezzato oppure continuerà?
Non vi resta che leggere questo delizioso romanzo.
“Così Vittorio mi avviava alla sua grammatica dei sentimenti e io mi affannavo a imparare: stava a me, alla mia natura di donna, farmi carico della comprensione. Era compito mio decifrare il suo linguaggio, preparargli una strada perché potesse trovare espressione, un territorio sul quale sbrogliarsi; era compito mio, un compito quasi religioso, compensare le parole mancanti non con altre parole(che io sognavo di ascoltare ma che no non gli sarebbero appartenute), ma con una comprensione più grande.”(cit.)

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    04 Ottobre, 2015
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La paura che attanaglia il vivere.

Elena ha trentasette anni, lavora alla Softy, la più grande azienda di distribuzione di software in Italia con il beneficio ed il tanto auspicato nonché raro “contratto a tempo indeterminato”, e vive anestetizzando le emozioni. Si sente come un astronauta che vaga nello spazio aperto, legato alla sua navetta solo tramite quel tubo bianco e sottile tanto noto grazie alle pellicole cinematografiche. Ha paura di disperdersi in una galassia sconosciuta dove il primo buco nero disponibile è pronto ad ingurgitarla. Nemmeno lei sa come e quando ha iniziato a sentirsi così ne tanto meno come e quando ha deciso che schermarsi con la sua muraglia invisibile di meticolosità, precisione, ordine, praticità, linearità e assoluto distacco dall'empatia sarebbe stato meglio di rischiare, di buttarsi, di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo senza il timore di quel che sarebbe potuto succedere o delle ferite che avrebbe di poi dovuto e potuto leccarsi.
Laury, è esattamente l'opposto della nostra impiegata modello, e pensare che non è altro che sua madre. Settant'anni, tanta voglia di vivere, di non privarsi di niente ma soprattutto di non crescere. Perché la donna non ci riesce proprio a vestirli questi panni dell'adulta, lei che nella sua parentesi di vita sulla Terra non ha fatto altro che godersi tutto, fare di testa propria, circondarsi di amici bio, veg, e hippy persin nel midollo. Anche quando quella sentenza giunge inesorabile l'eclettica anziana non riesce ad abbattere quel muro che si è costruita, si perché anche lei esattamente come la figlia, ha eretto una barriera silenziosa di parole non dette, legami perduti, incomprensioni maturate. Quanti lemmi vorrebbe dire ad Elena, quante emozioni vorrebbe confidarle, quanto ancora vorrebbe condividere con lei, eppure la discendente si comporta esattamente come lei si atteggiava con la sua di madre, controcorrente e testarda sino alla fine; assolutamente incapace di ascoltare, immedesimarsi, di capire la non assurdità di quegli universi poi non così paralleli..
L'uomo delle caverne Yves Chalup, sessantacinque anni, domicilio la Berthe imbarcazione classe 1935 sita in quel della Senna, coppia di fatto con il cagnolino Chien, per tempo immemore si è rifugiato nella solitudine, nella sua brontolosità, scudo e corazza di un uomo ricco di essere ma pur sempre intimorito da quell'inequivocabile ed ipotetico “no”. Quanto ci ha messo per farsi coraggio con la cara e vecchia amica Béatrice, un passo avanti e tre indietro, un passo avanti e cinque indietro, alla ricerca di quell'ardimento che avrebbe potuto donargli quella felicità tanto sperata ma mai timorosamente auspicata.
Tre storie sono quelle che ci presenta Serena Dandini, tre avventure apparentemente disconnesse l'una dall'altra ma in realtà necessariamente ed inevitabilmente interconnesse ed avvalorate dalla presenza di tanti amici e coprotagonisti dell'opera nonché ambasciatori di quella morale che si articola dietro queste pagine scritte sotto la falsariga di un tono leggero e fluente che, tra una parola e l'altra, sussurra al lettore di non aver paura della vita, di non temere quel che sarà, di non preoccuparsi del dover crescere.
Nella vita si procede a strappi e ricucite, perdite si alternano a nuovi incontri, il tutto in un mix di colori ed avvenimenti dove alcuno è in grado di calcolare in anticipo la dose di dolore che gli spetta né tanto meno quella della felicità perché non c'è logica e non c'è matematica a cui attenersi.
Un romanzo che è fotocopia della quotidianità, dell'attualità, dove vi è spazio per il superfluo della vita (twittare, taggare, smaltarsi le unghie) nonché per riflettere sulle nostre paure, sui nostri dubbi, sulle nostre incertezze, sul nostro io. Un testo dove con semplicità l'autrice ci invita ad interrogarci, a guardarci intorno, a crescere, ad imparare a volerci bene e ad accettare noi stessi, così come gli altri, per quel che siamo e per quel che sono. Un componimento dove il futuro di oggi ed il futuro di una volta si scontrano con inesorabile crudeltà nonché realtà.

“La causalità era una categoria vergognosa che toglieva spessore e importanza al nostro viaggio sulla Terra. Se la partita era truccata allora tanto valeva buttare le carte all'aria. Ma la beffa più grande per chi rimane è accorgersi che il mondo andrà avanti incurante di chi si è perso per strada e ci ha lasciato per sempre. Tutto verrà impastato di nuovo, come se uno schiacciasassi divino passasse sopra ai tuoi ricordi e alla tua sofferenza, frullando il passato in piccoli pezzi inafferrabili. Un lavoro minuzioso e implacabile che trasforma le persone amate in particelle infinitesimali di memoria, che si mischiano al nuovo ossigeno che sei costretto a respirare. “Tutto passa” e altre frasi irritanti come “il tempo è la medicina migliore la facevano infuriare. [..] Se la sarebbe cavata, non c'era altra possibilità. Lo sapeva ed era proprio questo a farla impazzire di rabbia”.

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Maso Opinione inserita da Maso    02 Ottobre, 2015
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No, la pappa non è pronta

Solo per imbastire un episodio minimo di “estetica del contrasto”, decido con dispetto di utilizzare la complessità per discutere di quanto sia frequente trovare la semplicità nel ruolo di tramite per giungere alla complessità stessa. Complico la faccenda solo per affermare quanto non sia assolutamente necessario complicare le faccende per portare alla luce qualcosa di complesso. Più che di un dispetto o di una bizzarria gratuita si tratta di un espediente argomentativo che il sottoscritto adotta per fare un po’ di chiarezza e dipanare una consistente cortina di nebbia ideologica. La complessità dichiaratamente affermata con cui ho intenzione di iniziare è, di fatto, un accademismo tanto stucchevole quanto necessitante del suscritto prodromo. Ho pensato, infatti, al pensiero eracliteo. Mi ci sono voluti giorni di raffreddamento, dopo aver letto questo romanzo in un paio d’ore, per arrivare ad un ragionamento che potesse dirsi tale, e la punta di quest’ultimo è rappresentata da quel passo della filosofia di Eraclito che critica il pitagorismo affermando che la reale costituzione di ciascuna cosa «ha l’abitudine di nascondersi», che, quindi, non tutto si mostra in superficie per quello che è nella sua intima trama di rapporti. Questo romanzo di Dave Eggers, come sostengo, mostra di avere questo genere di caratteristiche. Se la superficie mostra un romanzetto piuttosto semplice, da ogni punto di vista di carattere formale, l’interno è invece variegato da un importante intreccio di tematiche capaci di stimolare la riflessione. Banalizzando all’estremo, Eraclito potrebbe essere stato uno tra i primi a sostenere, sebbene in termini ben più elevati, che l’abito non fa il monaco.
Il monaco in questione, davvero, non lascia trasparire niente dalle fibre del suo saio. Un’edizione Mondadori costosa oltre ogni limite, se rapportata al numero di pagine, è l’unica rappresentante fisica di un grumo di problematiche attualissime che non solo non dovrebbero essere pagate come un cristallo di Boemia, ma che andrebbero divulgate a metà prezzo considerandone il valore socio-culturale e le riflessioni che ognuno potrebbe trarne.
E, come ogni ragionamento che possa definirsi edificante, tutto parte dalla necessità impellente di trovare risposte a questioni che ci si pone. Sono quelle che ci poniamo tutti, alla fine, ad essere pronunciate per noi dalla bocca di Thomas. Una trentina d’anni, un soggetto comune, un altro everyman che naviga e che si dibatte tra i flutti della società americana, nei suoi più monotoni recessi. Thomas, così inconcusso, così puerile e bisognoso di aiuto, rapisce sette persone. Una dopo l’altra rapisce, più che delle persone, degli automi che avranno la sola utilità di risolvere i più intimi e socchiusi conflitti vitali di Thomas, con se stesso, col passato, col mondo a venire. In una visione di puro utilitarismo, questo ragazzo è in cerca del proprio immenso faro di Alessandria. Tratta i grandi temi del nostro tempo nelle modalità spicciole, genuine e disinformate dell’uomo comune che ha impiegato molto tempo a strutturare una rete logica di connessioni e opinioni sulle cose, una rete che non sempre regge al cospetto della competenza differenziata di ognuno dei soggetti rapiti. Rapisce anche la propria madre, colto da un’accecante bisogno di liberarsi in recriminazioni, pretese e ricordi troppo sfumati perché possano essere veritieri.
Ma nell’apeiron, nell’indeterminatezza e nell’amara selva di domande e risposte si cela il punto nodale che giunge in un grande crescendo. Thomas spiattella la sua domanda più importante su tutta la sequela di discorsi vani che i rapiti sono stati costretti a pronunciare, e lo fa allo stesso modo di un bambino che domanda alla madre perché non può giocare ancora coi videogiochi. E’ lagnoso, è il deboscio, è la vittima, è quello che fa a pezzi la propria fedina penale per chiedere alle generazioni passate per quale motivo esse non abbiano lasciato ideali abbastanza forti alle nuove generazioni. Il mancato cameratismo, il mancato senso di comunione nell’anelito verso un’ideale collettivo, universale, è ciò che Thomas vorrebbe addurre come elemento di giustificazione alla palese degradazione che investe l’uomo e i suoi valori apparentemente più saldi. Per Thomas sono i grandi avvicendamenti globali, le grandi cause, la grandeur e la pompa magna di un grande obiettivo da incensare, glorificare e portare in trionfo a rappresentare il necessario collante per il raggiungimento di un senso pieno della vita e del rapporto con gli altri. E’ tramite questa mancanza, e con l’accusa di essere stato privato, assieme alla propria generazione, di tali eroiche opportunità che Thomas giustifica il fatto di impersonare la mediocrità. Una vita mediocre, una vita tediosa, annoiata e annoiante. Trent’anni di sopportazione del nulla più assoluto, un rapimento plurimo e il più grande, pretenzioso abbaglio che si potesse prendere. Thomas è quello che accusa (e mi trova d’accordo) le forze dell’ordine statunitensi di abuso di potere, di violenza gratuita, ma è anche quello che sostiene implicitamente che i massacri mondiali della prima metà del Novecento siano stati un’imperdibile occasione per rinfocolare il proprio sentimento di empatia verso il flusso vitale che muove le masse. Ma è anche quello che quelle guerre, se si fosse trovato veramente a doverle combatterle, le avrebbe fuggite. Thomas è un’architettura di insoddisfazione, è un’insieme di parole posticce che incessantemente si contraddicono. E’ pusillanime nella misura in cui è abile nello scarico delle responsabilità.
Per questo, Thomas, è un personaggio straordinario. E’ eccellentemente costruito a immagine dell’uomo medio. Rabbioso, presuntuoso, innocente per colpevolezza altrui. Sempre pronto a puntare il dito nell’accusa tanto quanto disinteressato al perseguimento di risposte per se stesso che vengano da se stesso. Thomas rappresenta davvero una generazione di annoiati che rimangono in attesa affinchè qualcuno gli prepari la pappa e li imbocchi imitando l’aeroplanino. Inutile dire che, nella mia opinione, un interventista che si definisca tale non aspetta che qualcun altro gli fabbrichi un ideale. Se lo crea.
Ma Thomas non cerca un’ideale. E’ troppo occupato a lamentarsi del fatto che nessuno glieli abbia lasciati per accorgersi del fatto che le cause comuni non solo non sono scomparse, ma che addirittura sono molto più cruciali, ad oggi, di qualsiasi altre nella storia dell’uomo. Non è sufficiente sapere che il nostro pianeta si avvia al più completo collasso, assieme a tutte le risorse per il mantenimento della vita umana? A me sembra di si, e mi sembra che ogni diatriba umana sia, al confronto, un semplice vociare sommesso.
Il personaggio di questo romanzo di Dave Eggers è il romanzo stesso, ed è una persona, ed è un milione di persone. E’ l’eserctito dei lamentevoli, che bisogna accudire, rassicurare e lasciarsi alle spalle. È, ahinoi, quella retroguardia umana impegnata ad accusare gli altri di fare quello che loro stessi stanno facendo; è la falange che si convince di poter risolvere le problematiche della civiltà ottenebrando e distraendo le menti con quegli stessi, mastodontici specchietti per le allodole utilizzati una volta di troppo nel corso della storia più e meno recente. La soluzione, siamo spiacenti, non è così semplice. Spazzare la polvere sotto il tappeto non significa pulire.

Sono andato forse troppo in là, anche se tanto altro ci sarebbe da dire. Da un non detto che è solo accennato, una panoplia traboccante che ci narra senza pietà.
Chiedo scusa per le tinte fosche. Consiglio la lettura.

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Riccardo76 Opinione inserita da Riccardo76    01 Ottobre, 2015
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Vite disperate

Questo romanzo di Parazzoli mi è parso un po’ ostico e frammentario, certamente fuori dagli schemi tradizionali alla quale sono abituato, sembra quasi un collage di storie frammiste a ricordi, sogni, visioni e immaginazioni.
Bello a mio avviso il colpo d’occhio su Milano, uno sguardo sapiente e piacevole sulla città in cui sono nato e vivo. Interessante anche il punto di vista utilizzato, quello degli ultimi, degli emarginati, dei clochard, l’autore ci porta nel loro mondo, nella loro realtà, ci presenta le loro vite spesso a metà tra realtà e pura fantasia, sogno, “follia”.
Mi sembra di vedere Moses, a tratti credo si sapere chi sia, forse Parazzoli descrive proprio quel clochard che vedo spesso sotto la vetrina della Chicco in piazzale Loreto, sicuramente ha preso ispirazione da lui, e questo mi è piaciuto molto perché ho avuto ben chiaro il suo aspetto durante tutta la narrazione.
Il tono delle vicende è abbastanza triste, la morte è molto presente in tutta la storia, i suicidi, la miseria, la disperazione, la solitudine sono il filo conduttore delle vicende raccontate.
La narrazione è particolare e secondo me poco fluida, a tratti ho fatto fatica a seguire le vicende e in questi casi non mi appassiono molto alla lettura.
Milano però è ben descritta, alcuni episodi storici altrettanto interessanti, la parte finale è un misto di delirio, immaginazione e visioni allucinatorie dovute probabilmente agli effetti di droghe.
Un libro diverso dal solito, che mi è piaciuto a tratti, ma che non mi ha completamente convinto.

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