Le recensioni della redazione QLibri
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Lucida analisi della società del nostro tempo
Uscito postumo, Pape Satan Aleppe è l’ultimo libro di Umberto Eco. È una raccolta di considerazioni sui più vari argomenti di attualità che hanno interessato la nostra società dall’inizio di questo nuovo secolo ad oggi, pubblicate sull’Espresso nella rubrica “La bustina di Minerva”.
Nell’introduzione Eco spiega il perché di un titolo così ambiguo eppure chiaro al tempo stesso. La scelta del noto verso di Dante, tratto dall’Inferno, VII,1, privo di un significato preciso, è apparsa all’autore quanto mai appropriata a definire l’apparente mancanza di coerenza della raccolta che riflette la reale condizione della nostra società, che nel primo capitolo egli definisce “liquida” attingendo al concetto ben espresso da Bauman, in “Stato di crisi”, dove il sociologo discute l’argomento con Carlo Bordoni.
La società liquida nasce dalla caduta delle ideologie e caratterizza la nostra epoca che potremmo definire postmoderna. Il termine “liquido” in sè, proprio nella sua evidente contrapposizione allo stato solido, suggerisce un’idea di qualcosa che sfugge, difficile da afferrare, qualcosa che assume la forma del suo contenitore.
Ciò che caratterizza la vita del nostro tempo è dunque questa corsa verso un consumismo irragionevole, dovuto alla necessità del singolo di adeguarsi al gruppo per non sentirsi escluso. Da qui l’aumentare delle esigenze, spesso ingiustificate e ingiustificabili.
Questo è il mondo della globalizzazione.
Eco suddivide gli argomenti trattati in quattordici capitoli, dando in questo modo un ordine logico al contenuto. Affronta così il tema del progresso tecnologico indiscutibile in sè, che presenta tuttavia diversi aspetti negativi, soprattutto per le giovani generazioni che divengono fruitori spesso passivi dei moderni “device” abbandonandosi a una nociva pigrizia mentale. Non manca mai, nelle disamine di Eco, la vena umoristica, anche se spesso accompagnata da una malcelata amarezza.
Progresso come regresso, dunque, è ciò che spesso si verifica nel nostro tempo. Molto significative le pagine sull’upgrade e il downgrade.
Nè risparmia il suo biasimo, l’autore, nei confronti di una società che vuole “apparire” a tutti i costi. L’individuo fa di tutto per essere visibile, non importa diventare famosi per qualcosa di grande o per qualcosa di spregevole. L’importante è essere popolare. A questo fine sono utilizzati spesso i social network. “Twitto, ergo sum”, Twitter come il bar sport di qualsiasi villaggio.
L’analisi della nostra società procede, capitolo per capitolo, con grande lucidità, affrontando il tema del “falso complotto”, di come ognuno sia portato a credere a tutto e al contrario di tutto, come ci si abbandoni troppo spesso a una facile dietrologia, come il bello si sia confuso e amalgamato col brutto, quasi a riprendere la profezia delle streghe di Mcbeth.
Ogni argomento affrontato, la relazione tra giovani e vecchi, il fallimento dei sessantottini, le pagine sull’odio e la morte, sulla privacy o “privatezza”, sull’ “homo cellularis” e sul Big Brother del 2000,
sull’antisemitismo, ognuno di questi temi, sarebbe utile fosse affrontato nei licei. Ogni “bustina” potrebbe essere letta e discussa in classe e ciascun allievo potrebbe in seguito elaborare e ampliare l’argomento secondo la propria sensibilità e le proprie conoscenze. Ciò a conferma, non solo della piacevolezza dell’opera, ma della sua effettiva utilità se ben utilizzata. Ciò solo come modesta proposta.
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Universo oscuro
“Costellazione familiare” è un romanzo appena edito da Adelphi, firmato da un'autrice che seppur lontana dalle tirature folli dei best sellers, possiede delle qualità letterarie pregevoli.
Lei è Rosa Matteucci e la prova di scrittura resa con questo suo ultimo romanzo ne mette in luce un'ottima caratura.
L'autrice compie un viaggio nelle zone più intime, complesse e inafferrabili dei rapporti familiari, scandagliando la nascita e la cristallizzazione dei rapporti, scavando sotto le croste indurite dal tempo e dagli eventi.
L'originalità narrativa non va cercata nelle tematiche affrontate, ma nella freschezza stilistica che utilizza un linguaggio d'urto pronto a divenire immagine e sensazione. Il ritmo narrativo è rapido come un razzo, esente da momenti di ristagno, ironico ma serio, pungente ed intenso.
Il nodo cruciale del rapporto tra madre e figlia affiora durante uno dei momenti di maggior fragilità dell'essere umano, la malattia, la trasformazione fisica e mentale, la strada verso un percorso denso di insidie, di cadute e di non ritorni.
Un rapporto raccontato dall'autrice in maniera innovativa, allontanandosi dai consueti cliché, sperimentando una narrazione empatica ed efficace che trae linfa dalla quotidianità che ci circonda fino ad astrarre a forme di pensiero meno tangibili.
In questo romanzo la famiglia si compone un po' alla volta, i sentimenti si svelano col tempo, le immagini scorrono come atti di una tragi-commedia da seguire in silenzio e senza pregiudizi.
Il bene ed il male non sono scissi in maniera netta, ma sono vissuti come momenti alterni.
Una lettura che rinfranca, lasciando un sentore forte di buona letteratura, lontana dal circuito commerciale.
Rosa Matteucci, una voce da ascoltare e da premiare per la sperimentazione linguistica adottata.
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Un dramma di altri tempi
La famiglia Neville gode del titolo nobiliare di “conte” ma non della ricchezza che ci si aspetterebbe da un simile rango. Henry Neville infatti ha eredito dal padre non solo il castello di Pluvier ma anche una ferrea onestà, qualità che l’ha portato a non arricchirsi, a vivere in ristrettezze e, alla fine, a dover rinunciare alla dimora della sua infanzia. Dei tre figli nati dal matrimonio con la bella Alexandra Serieus è la più enigmatica, l’unica a non aver ereditato la bellezza e l’umorismo della madre, a 17 anni si fa notare per la sua assenza più che per la sua intelligenza. Eppure a detta di chiunque la conosca c’è stato un tempo in cui le cose erano diverse, fino ai 12 anni e mezzo almeno….
Serieus è una creatura misteriosa, affamata di emozioni cerca nei libri la risposta a un problema che non riesce a identificare. Il suo bisogno di risposte la porta, una notte di settembre, ad allontanarsi dal castello per godere della natura ma una strana chiromante le impedirà di portare a termine la sua missione e innescherà una catena di eventi per cui padre e figlia perderanno il sonno.
Amélie Nothomb consegna al lettore un dramma che trae nutrimento dalla tragedia greca dove gli dei potevano cambiare le sorti dell’uomo e l’onore era la qualità più importante da rispettare. La famiglia Neville è una creazione d’altri tempi, sospesa tra il reale e il fiabesco si fa garante di valori ormai decadenti e inscena una rappresentazione che ha del grottesco. Lo stile è semplice e lineare, quasi si trattasse di una favola da leggere prima di dormire. La Nothomb dipinge un affresco surreale di una quotidianità che difficilmente appartiene a qualcuno di noi, un libro che si lega bene agli altri pubblicati in precedenza anche se, a mio parere, non ne condivide la qualità stilistica.
Tutti sul camper, direzione Las Vegas
Piacevolissimo e spensierato dalla prima all'ultima pagina. È bello lasciarsi trasportare dagli eventi che coinvolgono la sempre più amata eroina di Sophie Kinsella. Seguire Becky Bloomwood, nelle sue peripezie rocambolesche e nel suo modo positivo di uscire dai problemi, fa vivere serenamente anche il nostro quotidiano.
Non ne sono sicura, ma credo che Becky riesca a contagiarmi un po' della sua fortuna.
Le capita di tutto. Ovviamente si caccia sempre in situazioni assurde. Le sue avventure e i personaggi che la circondano sono a dir poco esilaranti, divertentissime. Lei riesce sempre a venire fuori da ogni situazione ostile, pericolosa, compromettente. Nel personaggio c'è stata un'evoluzione, nel corso dei romanzi, ma solo nello stato anagrafico e civile della protagonista, poiché riesce ancora a gettarsi consapevolmente nei guai, ma riesce comunque a venirne fuori in piedi. Beata lei!
In questa ennesima avventura chick lit, ormai ne ho perso il conto, c'è la novità del romanzo tutto on the road. Dopo Hollywood, troviamo la nostra Becky in direzione Las Vegas. Posto pericoloso per una come lei che ha le mani bucate e tante necessità e desideri. Per fortuna che con lei ci sono sempre il suo Luke, la sua piccola e loquace Minnie e tutti gli altri personaggi che la assecondano o la consolano nelle sue vicissitudini (la sua mamma, Suze, Janice, Alicia, Elinor, ecc.). Sono tutti su un camper, direzione Las Vegas.
Perché sono diretti proprio lì?
Seguono le tracce del padre di Becky e di Tarquin, marito della sua amica Suze.
Per una volta non è lo shopping l'obiettivo, ma tanto troveranno il modo di farne un po' ;-)
Stile arguto e brillante come sempre. Trama destinata al lieto fine. Ore di lettura piacevole e spensierata, all'insegna del buon umore. Sophie Kinsella resta la regina del genere.
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Roma e..Rocco Schiavone
Rocco Schiavone, Vicequestore del comando di Roma, è un pubblico ufficiale tutt’altro che ordinario, un uomo che nonostante vesta i panni della giustizia non disdegna qualche affaruccio poco lecito, che per ben cominciare la giornata si concede quella cannetta sacrosanta e benedetta, che non può resistere alle movenze sensuali del gentil sesso e che, infine, non ha scrupoli né con i buoni né i con i cattivi a cui riserva imparzialmente i suoi modi burberi e rozzi ed il suo carattere ironico e strafottente. Un personaggio, dunque, che dovrebbe risultare odioso ma che invece affascina e si fa amare dal pubblico.
Per soddisfare la nostra curiosità Sellerio riunisce in questo volume i racconti pubblicati in passato (dalla medesima casa editrice) che hanno reso celebre il commissario; una raccolta che permette altresì di ricostruire la figura di Schiavone. Le vicende sono pertanto ambientate a Roma, Rocco, ne combina una dietro l’altra e poco importa se i risultati dei suoi casi sono ineccepibili e magistralmente risolti, il comando ha deciso per il suo trasferimento, di conseguenza nelle storie riportate lo troviamo in attesa di questo forzato trasloco, in una fase in cui è consapevole di dover dire addio alla città tanto amata, ai luoghi familiari, agli amici ed ai colleghi, e dove soltanto la destinazione è ignota.
Pagina dopo pagina abbiamo modo di osservare del lato malinconico e pessimistico del funzionario che cade sempre più nella morsa del suo passato. In ciascun episodio viene messo in risalto un corollario diverso dell’agente, viene evidenziato il suo acume nella risoluzione del crimine commesso senza mai renderlo un supereroe bensì mostrandolo per quello che è, un uomo concreto che grazie al suo intuito, al suo cinismo, alla sua perspicacia è in grado di riconoscere (e distinguere) un colpevole da un innocente e viceversa.
Le cinque indagini sono altresì caratterizzate da un linguaggio diretto, scorrevole, con quel giusto quantitativo di romanesco necessario a rendere credibili e veritieri i fatti. Chi legge si immagina senza difficoltà nel commissariato o con la squadra a svolgere le varie inchieste talché la lettura si rende non solo agevole e rapida ma anche particolarmente piacevole. Un personaggio che, anche in questo prequel, risulta essere ben costruito nonché capace di catturare il lettore regalandogli ore liete. Si ultima in un giorno e mezzo al massimo, ma con soddisfazione.
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Rosso buffone
Adesso è un momento speciale in cui si condensano speranze e possibilità, un istante magico che un’infinità di anime ha vissuto, un’altra infinità sta sognando e un’altra ancora sta rifuggendo: è l’inafferrabile attimo in cui nasce un amore. Quello che Chiara Gamberale mette sotto i riflettori e viviseziona con il suo bisturi di parole non è però l’amore della giovinezza, pieno di aspettative e proiettato verso il futuro dalla forza propulsiva dell’ingenuità, ma un amore fragile, di uomini feriti e ammaccati, trincerati dietro i meccanismi di difesa che le delusioni passate hanno eretto, prigionieri ma anche protetti dalle proprie abitudini.
Chiara Gamberale scava nel mondo dei sentimenti e parla direttamente a una generazione di ragazzi cresciuti solo anagraficamente che si sentono fuori tempo massimo per l’innamoramento, ancora figli quando l’età li vorrebbe madri e padri, ancora alla ricerca di un terreno edificabile quando dovrebbero avere già costruito il proprio futuro sentimentale. Anzi, nemmeno più alla ricerca, ma ormai abituati a implodere i desideri più segreti in un regime di indifferenza alle emozioni, perché l’asettica impalcatura di alibi e schemi è in fondo una disperazione confortevole che non riserva sorprese. Ma proprio quando non ti chiedi nemmeno più se succederà qualcosa, in una giornata come tutte le altre che scorrono immancabilmente uguali a se stesse, ecco, quella cosa speciale, un giorno, succede proprio a te. Davvero? Quando? Adesso.
Il protagonista della storia è quindi il cuore, muscolo involontario, mollusco invertebrato, rosso buffone. Atrofizzato, morto, affetto da una malformazione congenita che lo rende incapace di ricevere ma forse, solo perché ricevere significherebbe anche dare. E aprirsi al rischio, al cambiamento. Ma come trovare allora la forza e il coraggio di mettersi in gioco? E’ una domanda commovente che parla al cuore di tutti noi e, infatti, risulta facile empatizzare con Pietro e Lidia (che abbiamo già conosciuto nel romanzo “Le luci nelle case degli altri”), sentirsi protagonista delle loro vite e riflettere così su un tema estremamente attuale quale la difficoltà di crescere, di amare davvero, di cambiare.
E’ un testo dallo stile non impegnativo, alleggerito anche dalla scelta di affidare parte della narrazione a forme briose come mail, sms, addirittura un curriculum sentimentale, e di vivacizzarla con curiosi e divertenti coprotagonisti, le cui vicende si intrecciano e si sfiorano, alternandosi alla storia principale. Ma attenzione, non è un romanzo d’amore quanto più un romanzo sull’amore. Le vicende sono poche se confrontate alle pagine dedicate a dissezionare il cuore con “accanimento sentimentale”, ad analizzare le dinamiche e le alchimie umane, a voler ostinatamente dare un nome a tutte le emozioni e le insicurezze che ci rendono così complessi. Una tendenza molto femminile che, in tutta onestà, produce anche una certa stanchezza di lettura.
Una piccola nota. Per chi avesse, come me, adorato il personaggio di Mandorla nel romanzo “Le luci nelle case degli altri”, imperdibile scoprire, a pagina 125, che fine ha fatto diversi anni dopo!
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C'è posta per te 2.0
La Corrispondenza è l'ultimo film di Giuseppe Tornatore, pluripremiato regista italiano (ricorderanno tutti l'Oscar per Nuovo Cinema Paradiso), in programmazione nelle sale italiane proprio in questi giorni (febbraio 2016 per i posteri che leggeranno).
E' anche un libro scritto dallo stesso regista ma, differentemente da quanto accade spesso, in questo caso non è il film che trae ispirazione dal libro e ne diventa la sua trasposizione su celluloide.
In questo caso il libro esce contemporaneamente al film e, lasciatemi dire, anche per le sue dimensioni contenute, potrebbe essere definito un libretto, simile a quello che consegnano in teatro prima di un'opera preannunciandone la trama.
E non voglio nascondervi che un cattivo pensiero mi sia passato per la mente, un'insinuazione quasi da pettegolo direi: che forse il libro, o libretto che dir si voglia, nasca solo da un'esigenza puramente commerciale, dalla speranza di poter sfruttare l'eventuale successo della sua versione cinematografica (bissando magari il trionfo de La migliore offerta)?
E' lo stesso regista/scrittore a smentire questo mio dubbio:
"Ciò che vi accingete a leggere è il romanzo La corrispondenza, tratto dall'omonimo film. Un'originale e formidabile opportunità per restituire alla parola scritta la supremazia usurpata dall'immagine. Una ragionevole occasione per riscattare tutto ciò che lo schermo cinematografico deve o preferisce sottintendere".
E allora perchè dubitare di tale spiegazione, più che plausibile?
Metto da parte, quindi, la veste di pettegolo e provo ad esprimere un giudizio personale ma sincero.
Premetto anzitutto che sono costretto ad essere un pò vago sulla trama perchè altrimenti rischierei di svelare l'unico 'colpo di scena' presente nel romanzo, tuttavia ben calibrato, nel senso che si manifesta inaspettamente con effetto sorpresa garantito e generando quindi la dovuta reazione di sconcerto nel lettore (ovvio, si sconsiglia vivamente la visione del film prima del libro).
E direi che tale evento rappresenta quasi un taglio netto nel romanzo, lo divide in due parti di cui solo la prima riesce a mantener vivo l'interesse del lettore, evitando che la noia abbia il sopravvento.
La prima parte del romanzo, infatti, racconta in modo equilibrato, senza cioè sfociare in un romanticismo melenso e sdolcinato, il rapporto clandestino tra Ed Phoerum, noto astrofisico di fama internazionale, e Amy Ryan, una studentessa delle stelle che, pur essendo fuoricorso di alcuni anni, rimane comunque molto più giovane del suo professore.
Una storia d'amore sbocciata nel più classico dei modi, uno sguardo di troppo durante una conferenza dell'esimio professore, che si concretizza e si alimenta, però, sfruttando le tecnologie più recenti, quelle dell'era 2.0, Skype, video-messaggi, mail, chat e diavolerie simili.
D'altronde è facile intuire che il rapporto tra codesti amanti non possa svolgersi in modo differente, Ed Phoerum infatti è anche sposato con figli e le leggi etiche e morali della nostra galassia reputano quanto meno sconveniente per un uomo come lui rendere pubblica una relazione extraconiugale con una donna quasi coetanea di sua figlia.
"La prossima volta. Un'espressione bollente, difficile, scomoda da maneggiare. Non è mai facile incontrarsi, non per loro due. Ci riescono una volta al mese, un paio al massimo quando va bene. Ogni volta devono chiudersi alle spalle la porta di una stanza d'albergo, prima che possano guardarsi come desiderano, prima che ogni abbraccio conquisti la libertà di realizzarsi.
Sono tanti quelli che comprimono l'amore nel letto di un hotel, o nella fretta clandestina di un messaggio sul cellulare."
Poi, però, il colpo di scena, inatteso anche per me: e quello che speravo fosse il racconto di un amore epistolare, seppure in forma digitale, assume un'altra connotazione.
Speravo, forse ingannato anche dal titolo, che il romanzo affrontasse temi legati alla solidità di un rapporto 'virtuale', alle complicazioni che ne derivano, al rischio di perdere contatto con la realtà, di lasciarsi trasportare da emozioni sicuramente intense ma illusorie, ingannevoli.
Invece nulla di tutto ciò, quel colpo di scena ha frantumato in un secondo tutte le mie migliori aspettative su questo romanzo.
E, forse per questo senso di delusione, ho trovato la seconda parte del romanzo noiosa, stucchevolmente adolescenziale e persino poco realistica, anche per quelli della generazione 2.0
Vi dirò di più: prima della lettura del romanzo ero certo di voler vedere il film, essendoci Jeremy Irons come protagonista nei panni del professore Phoerum, attore che considero molto bravo e perfetto nelle interpretazioni di storie tormentate, complesse, amori illeciti ma vissuti intensamente (si pensi per esempio a Il danno, Lolita, Casanova, tanto per citarne alcuni).
Ora però devo ricredermi: se il libro è tratto dal film e ne ricalca fedelmente la storia, come precisato dal regista, preferirei quasi la corrispondenza 1.0 di Maria De Filippi in C'è posta per te.
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La famiglia Goodenough
La vita non sarebbe stata semplice nella Palude Nera (Ohio), James e Sadie Goodenough ne erano perfettamente consapevoli sin da prima di giungervi. Ma quale altra scelta avevano i coniugi e i loro 10 figli se non quella di lasciare la fattoria del padre dell’uomo in Connecticut e tentare la fortuna ad Ovest? Sadie non era mai piaciuta alla famiglia Goodenough ed il suo essere così prolifica non ne aveva certo agevolato la permanenza, anzi, aveva accentuato i contrasti, le difficoltà della convivenza ma soprattutto reso le condizioni economiche sempre più precarie con così tante bocche da sfamare.
Primavera 1838, Palude Nera, Ohio. Sono già trascorsi 9 anni eppure Sadie proprio non riesce ad amarla quella terra che già si è portata via 5 dei suoi 10 figli con quella maledetta febbre, con la incontrastata malaria. Caleb, Nathan, Sal, Martha, ed il piccolo Robert sono gli unici sopravvissuti. E come non sopporta quelle lande nutre un odio sviscerato per quel marito che ve li ha condotti e che si rifiuta di andarsene. Per cosa poi? Per delle stupide mele!! Non lo può proprio tollerare questo atteggiamento, come si può permettere lui di mettere in secondo piano i suoi bisogni per quei maledetti alberi, fortuna che c’è l’acquavite.. Eh si, perché la donna sfrutta tale bevanda e il sidro per stordirsi, sono più i giorni in cui è ubriaca di quelli in cui è sobria. E James dal canto suo sa che non deve abbassare la guardia, il risentimento della moglie è talmente forte che sarebbe disposta a tutto pur di distruggere quei fusti e quelle coltivazioni che gli danno da sopravvivere. Se a questo si aggiunge che l’uomo è costretto altresì a tollerare i suoi continui tradimenti nonché le angherie nei confronti dei figli, non stupisce che la tensione sia al massimo.
1856. Robert è un uomo adulto. Negli anni che sono trascorsi si è spinto sempre più ad ovest fino ad arrivare in quel di San Francisco. Eppure, per quanto si sia spinto lontano dall’Ohio, non potrà mai dimenticare quel giorno, non potrà mai dimenticare i suoi fratelli, non potrà mai obliare a quei gesti e a quelle ultime laceranti parole….
Ma cosa è successo alla famiglia Goodenough? Quale mistero si cela dietro la dipartita del fratello più piccolo? Cosa è accaduto di così traumatico da costringere una persona a dire addio alle sue origini?
Con “I Frutti del vento” Tracy Chevalier ci regala un romanzo intenso, basato sulla famiglia, l’amore, gli affetti, sulla difficoltà di crescere e di lasciarsi il passato (e i relativi traumi) alle spalle, ma ci dona anche un romanzo sulla natura, sulla bellezza delle piccole cose, sulla capacità di ricominciare, passo dopo passo, imparando a prendere le proprie decisioni, non avendo più timore di noi stessi, sollecitandoci ad apprezzare la solitudine senza però tramutarla in uno scudo con cui proteggersi da quel che significherebbe aprirsi a chi ci circonda. E’ un testo a tratti cupo, pieno di forza, commovente. Uno scritto caratterizzato da personaggi concreti, reali, perfettamente descritti e capaci di arrivare al lettore per la loro genuinità. Pagina dopo pagina la storia scorre rapida e chi legge entra nelle vicende come se le stesse vivendo egli stesso.
La narrazione si alterna a livello temporale mostrandoci la realtà di quella famiglia allo sbando, vittima di una faida familiare determinata dalle incomprensioni di due genitori che non riescono a fare fronte comune, e di poi quella di un giovane uomo che cerca di vivere senza mai affrontare i giorni che avrebbero dovuto essere della sua fanciullezza sino a giungere a quella che è la sua crescita personale. Tanto di quel che accade in quei 18 anni di lontananza dalla Palude Nera lo scopriamo grazie alla corrispondenza epistolare ed è impossibile non restarne affascinati.
Un elaborato genuino è quello della Chevalier, maturo rispetto all’opera che l’ha resa nota ai più ed avvalorato da una penna rapida, diretta, erudita nonché da una ricerca storica solida e senza lacune. Un testo in crescendo che si divora in un giorno e mezzo, uno scritto che sa farsi amare ed apprezzare per la sua semplicità.
«Rincuorato dalle parole affettuose di Molly, Robert si infilò la mano in tasca, toccando il fazzoletto con dentro i semi che gli aveva portato Martha. I semi erano duri a morire, avevano bisogno solo del posto giusto per risvegliarsi. E il cuore l’avrebbe aiutato a riconoscerlo».
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Il "perché" di una vita.
Recensire “Piccoli colpi di fortuna” di Claudia Piñeiro, una delle scrittrici più importanti della letteratura argentina e latino americana contemporanea, è davvero complicato.
E' complicato perché non credo di essere capace, in poche righe, di esprimere tutte le emozioni che un racconto così intenso riesce a suscitare nel lettore.
E' complicato perché questo libro, davvero ben scritto (penso che leggerlo in lingua spagnola debba essere ancora più emozionante), è molto scorrevole (sono circa 200 pagine) ma lascia un segno indelebile nel lettore.
E' complicato perché questo romanzo, una biografia scritta in prima persona? un diario di viaggio? una confessione?, costringe il lettore a pensare, a riflettere su temi delicati, drammatici, con cui noi tutti dobbiamo confrontarci almeno una volta nella nostra vita.
Il dolore.
Questo è, forse, il tema centrale dell'intero racconto.
Il dolore di una bambina, la piccola Marilé, che osserva impotente la propria madre consumarsi in un male oscuro e il padre affogare nel disperato tentativo di mantenere la famiglia a galla.
Il dolore di una donna, la moglie Marilé, costretta in una vita falsa, ipocrita, che, a causa di un terribile evento, si rivela in tutta la sua atrocità.
Il dolore di una madre che, per il bene del figlio, deve prendere la decisione più difficile della sua vita.
Vent'anni è il tempo che Marilé impiega per comprendere le sue colpe e le sue responsabilità ma anche i suoi pregi e le sue virtù. In vent'anni Marilé riesce davvero a crescere come persona, riuscendo ad affrontare con incredibile e fredda lucidità temi come la famiglia, il destino, la maternità: “Perché tante donne considerano la maternità come qualcosa di scontato? Perché crediamo che la maternità arrivi con la naturalezza – e l'irreversibilità – con cui arrivano l'autunno o la primavera? […] Troppe domande in solitudine. La maternità o si prende in modo del tutto naturale e ineluttabile o genera troppe domande”.
Il racconto intrappola il lettore in un crescendo di suspence: chi è il “lui” a cui Marilé si riferisce nelle prime pagine? Che ruolo hanno un treno e un passaggio a livello nella vita di questa donna?
Claudia Piñeiro cattura con il suo stile semplice, commovente, mai banale.
Il lettore vuole capire il perché di un evento, vuole capire il perché di una determinata azione.
Tuttavia alcune domande potranno restare aperte: come spesso capita nella vita vera, molte cose accadono senza alcun perché.
Quindi, che dire se non buona lettura? :)
“Sono tornata in Argentina. Dopo vent'anni. Tuttavia, tra i miei piedi e la terra c'è ancora una certa distanza, per ora il suolo che tocco è quello dell'aereo. Quand'è che si torna davvero? Quand'è che si può dire di aver nuovamente calpestato il suolo dove si è nati? Cos'è in realtà il ritorno? […] Ma di lì a poco chiedo all'autista di fermarsi sul ciglio della strada. 'Non si sente bene?' mi chiede. 'Sì,' mento. Scendo dall'auto, faccio qualche passo, mi tolgo le scarpe, chiudo di nuovo gli occhi. I piedi scalzi sul prato. Li muovo da ferma, e poi da una parte e dall'altra senza voler andare in nessuna direzione, solo per sentire – non guardare ma sentire – la gramigna che punge sotto le piante dei piedi. Riapro gli occhi, finalmente. Adesso sì. Ecco, sono tornata.”
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Linee parallele
Matteo Stella è un padre di famiglia permissivo, votato al dialogo e alla comprensione. Ha educato i figli in un clima sereno, senza mai alzare la voce o peggio ancora le mani.
Vede i suoi amati come linee parallele, ognuna la sua vita ed il proprio carattere, ma alla fine, in barba ad ogni logica geometrica, è convinto che queste linee siano destinate ad incontrarsi, fosse anche all’infinito.
Per lui è normale fare da scudo, gestire insoddisfazioni, insicurezze ed ogni malumore. Non si accorge però che il granitico muro eretto con tanto sforzo e costituito da innumerevoli mattonelle armoniche sta cominciando a presentare preoccupanti crepe.
In poche ore l’idillio fatto di solidarietà e rispetto reciproco sembra non stare più in piedi; la ribellione del figlio minore Stefano incrina sempre di più il rapporto a quattro di cui fanno parte anche Anna, la moglie pubblicitaria ben poco presente, e Eleonora, ragazza sveglia alle soglie della maggiore età ed alle prese coi primi amori.
Il sacrificio di Matteo perpetuato attraverso il confronto e mai mediante l’ostentazione dell'autorità non è servito, quella felicità effimera alla fine si è volatilizzata, più debole di una farfalla esposta al gelo dell’inverno.
Convinto di vivere in un nucleo sano, lontano dai perbenismi di facciata, dall'essere estranei a una middle class in cui la felicità è regolata dal potere d’acquisto, Matteo si ritrova disilluso ed incapace di accettare l’amara realtà.
Il suo problema sta nel rifuggire la battaglia, nell’alzare difese senza affrontare con decisione le avversità. Quel pizzico di severità indispensabile gli è sconosciuto, e mentre i figli scivolano via come acqua tra le dita sembra deteriorarsi anche il rapporto con la moglie, già indebolito anni prima da un episodio spiacevole.
La mitezza di Matteo non riesce a trasformarsi in qualcosa di più utile, è vittima e carnefice di se stesso, vuole farsi carico di tutto complice l’assenza della compagna, finendo col perdersi tra le varie esigenze, lasciando ad aleggiare solo l’insoddisfazione.
Simone Giorgi centra l’involuzione di un rapporto in deteriorarsi con incredibile capacità analitica. Lo fa portando a galla le colpe di un uomo convinto di agire a fin di bene, ed invece costretto a perdere di vista il proprio ruolo di educatore, mentore, amico, complice, maestro, proprio per via delle proprie certezze.
In tal senso i dubbi diventano macigni e l’autore elegge gli Stella come simbolo distorto dell’attuale valore famigliare, in cui si dialoga senza aver nulla da dire, in cui si ride perché è importante dare un’immagine positiva, ma in realtà chiacchiere e dentature perfette celano indifferenza nel migliore dei casi, invidia e livore nel peggiore.
Una visione estrema e pessimista, ovviamente da non leggersi come interpretazione universale.
Giorgi demolisce alcune facciate attinenti alcune famiglie, scovando dietro di esse il vuoto.
Solidarietà, affetto, compattezza, comprensione e amore fagocitati, sviliti da un mero, egoistico e primitivo bisogno di sopravvivenza, in cui il branco difende e permette di sussistere, ma all'interno dello stesso vigono leggi spietate impossibili da regolare solo con l’indulgenza.
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Il faticoso cammino verso l'emancipazione
È un romanzo toccante e coinvolgente l’opera d’esordio di Chigozie Obioma, nato in Nigeria, ma insegnante di Letteratura negli Stati Uniti, presso l’Università del Nebraska.
È la storia di una crescita segnata dal dolore e dalla speranza, dalla perdita degli affetti più cari, in un paese, la Nigeria, che tenta faticosamente di avviarsi verso l’emancipazione, un paese dilaniato da decenni di lotte intestine e alla perenne ricerca di un’identità unitaria che superi gli inconvenienti del bilinguismo, elemento che accentua la discriminazione sociale con la distinzione tra lingua ufficiale e lingua nativa, un paese in cui la persistenza d’un paganesimo recidivo e impermeabile al vero messaggio cristiano costringe l’uomo a una condizione di soggezione nei confronti degli eventi naturali.
È nella città di Akure che ha luogo il dramma che colpisce la famiglia Agwu, composta da Padre Madre e sei figli. Sono i quattro maschi più grandi al centro degli eventi che vengono narrati con un’efficacia espressiva che raccoglie l’eredità della tradizione epica. Obioma sembra voler insistere sulla felice unità familiare che comincia a disgregarsi nel momento in cui il padre si allontana per lavorare in un’altra città . Il nucleo, più fragile, diviene facile preda delle più assurde credenze popolari e si convince d’essere oggetto di una maledizione lanciata dal pazzo Abulu. Il maleficio riguarderebbe in particolare Ikenna, il primogenito al quale si preannuncia una morte per mano del fratello Boja. Qui siamo davvero di fronte alla tradizione mitologica, così come l’abbiamo appresa attraverso i classici greci. La superstizione domina l’animo umano e conduce ad estreme conseguenze. La disgregazione della famiglia seguirà un percorso doloroso e inevitabile, dal momento che la volontà del singolo non riesce a prevalere sul mistero minaccioso che l’attende.
Il carattere quasi “naïf” della narrazione é determinato anche dal parallelismo personaggio/animale, personaggio/insetto, come se solo dall’analisi del mondo animale e naturale che ci circonda, potessimo meglio cogliere il carattere delle persone. In questa prospettiva Ikenna è dapprima assimilato a un pitone, noto per la sua forza, poi a un passero, noto per la sua fragilità . L’aquila rappresenta il padre, la sanguisuga è il male che toglie la vita.
La sventura che colpisce la famiglia distrugge i sogni del Padre, che avrebbe voluto vedere i figli affermarsi con successo nella vita. È il sogno di una realizzazione nel mondo occidentale, lontano dalla miseria, dalla sporcizia, dalle guerre locali, gli antagonismi religiosi, sempre più frequenti. È il sogno di un’emigrazione in Canada, che va in frantumi e trascina nel fango i giovani Agwu. Nelle parole del Padre ai figli il messaggio più bello, più dolorosamente disilluso: “Quello che voglio è che siate pescatori di sogni buoni, che non si arrenderanno finché non avranno catturato la preda più grossa. Voglio che siate dei Titani, dei pescatori minacciosi e irrefrenabili. Ragazzi che affonderanno le mani nei fiumi, nei mari, negli oceani di questa vita e avranno successo. Dottori, piloti, professori, avvocati. Questi sono i pescatori che voglio avere come figli.”
Un romanzo sulle grandi passioni che alimentano il cuore dell’uomo: sull’amore, sull’odio, sul desiderio di vendetta, sulla lealtà e soprattutto sui sentimenti che uniscono o dividono gli animi in seno ad una stessa famiglia.
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EVANESCENZA
Non appena inizi a leggere il libro, fai fatica a orientarti: chi racconta cosa, a chi? Lo scrittore più che raccontare allude, come se già noi fossimo a conoscenza dei fatti e delle persone di cui si sta parlando. In effetti, andando avanti, capisci che a sbagliare eri tu, nell’aspettarti un romanzo da qualcosa che romanzo non è: escludendo i tassisti dal suo racconto, Cordelli abbonda in definizioni e precisa che il loro racconto, ovvero suo e della persona cui il racconto viene fatto, sua figlia, è una raccolta di appunti, è una serie di ricordi e infine è la sua “compiacenza” e il suo “amore”. “Una sostanza sottile” sfida il lettore dandogli il ruolo di terzo incomodo fra un padre e una figlia che colloquiano fra loro in Provenza ad Avignone. In realtà è il genitore a svelare, a ripercorre avanti ed indietro gli eventi di un’esistenza, che fa fatica a definirsi, a essere qualcosa di più di un vago assestarsi fra figure femminili evanescenti, letture e reminiscenze letterarie, malattie e degenze in ospedale, viaggi ed eros. La natura di un libro, si afferma ad un certo punto, è non intellettuale ma “cantabile” ed alla fin fine la sonorità dei periodi, il ritmo, la composizione sinfonica, l’eufonia degli aforismi è l’impronta che ti resta di quello che hai letto, il resto ti è sfuggito, un’ombra appena intravista.
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UN GRIDO SCOMODO E RIPUGNANTE
Nei pressi di Camerino, nelle Marche, Renacavata ospita un convento la cui storia è strettamente legata agli inizi dell’ordine cappuccino. Qui i vuoti della terra,dovuti all’estrazione della pietra arenaria, vengono riempiti da “pietre vive”, giovani che sentono la vocazione e si dedicano al noviziato cui seguiranno, dopo un periodo minimo di un anno, i voti temporanei e le professioni solenni.
Emanuele è uno di essi: smetterà l’abito sei anni dopo la sua prima scelta compiuta a diciannove anni.
Il libro è proprio il resoconto del noviziato, il ricordo lo cristallizza in accezione negativa. A distanza di vent’anni l’esperienza viene consegnata al lettore epurata appunto da quel “fervore” che la animò e tutto è ridotto a pura contingenza:
“Ci avevano trascinati lì, nel convento di Renacavata, un sogno fatto di necessità (...)Tu arrivavi dai tuoi diciotto anni, da una terra che avevi abbandonato per precipitare in un convento(...) Eri scappato via. Avevi lasciato tua madre e tuo padre, avevi lasciato la tua terra per andare ad abitarne una ignota, spinto da un fervore che improvviso ti aveva invaso. Non potevi sostenere il nulla, l’ingiustizia.”
Se gli intenti sono dei migliori, il risultato a fine esperienza consegna un uomo che fa del suo fallimento un grido scomodo e ripugnante consegnando il suo credo in ottica rovesciata. Tutto è ridotto a “sacra rappresentazione”, a inversione, a profezia devastante:
“Eravamo capodogli destinati all’olio lucente, non pesci da frittura. Ci avrebbero dovuto fiocinare e spremere per fare luce. Invece avremmo spruzzato un nero di seppia, avremmo fatto buio nel mondo con quelle inutili macchie di paure.”
Solo pochi barlumi di serenità, di speranza e un congedo ad un mondo fuori dal mondo. “Essi non son del mondo, siccome io non son del mondo” Giovanni 17, 13-15
Leggerlo? Apprezzarlo? Disprezzarlo? Tutte e tre le azioni mi hanno animata. Cosa resta?
Un profondo malessere per un’esperienza che immaginavo più edificante e che mi aspettavo di leggere, non conoscendo l’autore, declinata in toni più teneramente memorialistici, non certo dissacranti.
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Voglia di vita monastica?
Un noviziato lungo un anno in poche pagine, concentrato di avvenimenti ed esperienze di vita monastica, sicuramente romanzate, ma che partono da una esperienza realmente vissuta dall'autore.
Esperienze forti, intense, che a tratti farebbero venir voglia di passare del tempo in un convento, per placare il frastuono e la frenesia dei nostri giorni. Episodi altrettanto forti, descritti in maniera interessante, che fanno invece venir voglia di tenersene alla larga.
Fervore, quello con cui un uomo decide di intraprendere un cammino tutt'altro che semplice e naturale, una chiamata, che deve essere confermata da tanto spirito di sacrificio, rinuncia e forti contrasti che mettono alla prova l’uomo.
La sessualità è evidentemente un aspetto fondamentale di questo cammino, ipocrita sarebbe non considerarla, in questo Tonon è bravo a non farsi intimorire, ci racconta episodi abbastanza intimi della vita monastica. La sessualità è sicuramente un contrasto estremamente intenso per chi decide di intraprendere questo cammino, è una sorta di spartiacque, un limite con la quale confrontarsi ogni giorno, una realtà che non si può annullare, ma alla quale si deve trovare un compromesso.
Non si tratta ovviamente di un trattato sulla sessualità nella vita monastica, Tonon ci porta nel convento, ci fa vivere gli ambienti del convento, le cellette, il refettorio, i campi da coltivare per mangiare. Ci presenta i suoi compagni di noviziato, i frati residenti, le loro abitudini e le disavventure.
Una scrittura sicuramente ricercata, composta come fosse un diario, un memoriale, un flusso di coscienza, un racconto classico, un insieme che rende particolare la lettura di questo romanzo breve.
Tonon scrive bene, ma ha uno stile, a mio avviso, un po’ troppo carico di orpelli, alcuni pezzi sicuramente poetici, altri estremamente pieni di parole troppo ricercate, per i miei gusti ovviamente. Tutto sommato un libro abbastanza interessante, che non mi ha rapito completamente, ma che non mi ha neanche deluso.
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Seguace dello stereotipo
Impossibile non ammettere che gialli/thriller nordici negli ultimi anni stiamo andando parecchio forte.
Jo Nesbo, Stieg Larsson, Camilla Lackberg e chi più ne ha più ne metta. In questo mare di giallisti che hanno trovato la fama, cerca di ritagliarsi il suo spazio anche Ingar Johnsrud, che con il suo primo romanzo "Gli adepti", in Italia è riuscito a farsi pubblicare da Einaudi. Mica male per un esordiente.
È un esordio discreto, anche se si sente tutto. Lo stile è semplice ma non eccelso, un po' lento e confuso all'inizio per poi riprendersi nel corso delle pagine. Ci sono comunque delle scelte coraggiose, come quella di gestire un racconto parallelo in flashback, ovviamente attinente alla trama, con delle scene che si incastrano bene nel mezzo della storia principale.
Abbastanza piacevole a leggersi, ma non memorabile, soprattutto a causa della quantità di stereotipi presenti nel romanzo. Una setta religiosa che cerca a modo suo di salvarsi dal giorno del giudizio? Già visto. Esperimenti su cavie umane per studiare le distinzioni razziali ai tempi del nazismo? Visto. Ceppi di virus mortali prodotti in laboratorio, accompagnati dal pericolo che questo possa diffondersi? Niente di nuovo sotto il sole.
Nonostante ciò, la storia presenta qualche tocco di originalità interessante, e vale la pena darle un'occasione.
Tutto inizia con una tragedia che ha luogo a Solro, dove una setta religiosa detta "La Luce di Dio" ha la sua dimora. Un pazzo assassino ne ha ammazzato alcuni componenti, mentre degli altri non vi è più alcuna traccia. Nei sotterranei della casa in cui dimoravano, viene rinvenuto un laboratorio adibito a scopi oscuri, ma ormai vuoto.
Tutto questo scatenerà una lunga serie di eventi che porteranno i due agenti Fredrik Beier e Kafa Iqbal lungo una scia di sangue e mistero, sulle tracce del mostro assassino che si cela dietro queste tragedie, alla ricerca della comunità scomparsa e del misterioso predicatore Per Olsen, anche lui scomparso, e che a quanto pare è la chiave di tutto.
"Gli adepti" è il primo romanzo di una trilogia, che a quanto mi è parso di capire sarà tutta incentrata su questa storia. Non si tratterà quindi di indagini differenti con i medesimi personaggi, ma di un'unica storia che si spalmerà su tre libri. Questo almeno, è quello che si deduce dalla lettura del romanzo, che lascia molti spiragli aperti. Giusto per farvi capire a cosa andate incontro.
"La maledizione della ricchezza. La prima generazione accumula i soldi, la seconda di amministra e la terza li sperpera. Piuttosto logico, in effetti. È difficile apprezzare una cosa per la quale non hai mai dovuto lottare."
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Minestrone di neve
Il romanzo ha ricevuto tanti elogi e non capisco perché. A me non è piaciuto lo stile e nemmeno l’intreccio. L’idea di fondo è buona, anzi molto interessante, ma l’autrice avrebbe dovuto lavorarci e ragionarci. Invece la mia sensazione è che il romanzo sia un caotico buttasù soprattutto nella parte finale che sarebbe da stracciare e da rifare. L’incipit non è granché ma al limite potrebbe funzionare e la parte centrale ha delle idee buone per cui è un gran peccato aver rovinato il libro pubblicandolo così con quelle bruttissime ultime 100 pagine. Lo stile di scrittura è leggero e frizzante ma anche insipido.
L’idea base è quella di riscrivere Biancaneve , favola interessante soprattutto per i temi che affronta: lo specchio, l’identità, il doppio, e così via. Insomma di spunti interessanti ce n’erano una marea e l’autrice ne coglie diversi nella parte centrale del romanzo per sprofondare in un guazzabuglio tematico improponibile verso la fine. La sensazione è che Helen voglia sorprendere e spiazzare il lettore e non sappia bene dove andare a parare. Le oscillazioni nell'identità, l’idea che il male che uno ha subito possa tornare fuori sono stimolanti e intriganti ma la scrittura è superficiale e non porta grandi spunti di riflessione. Se lo scopo era divertire e non far riflettere, la contorsione del finale a me non è sembrata piacevole e la trama è troppo assurda e complessa, ma di un complesso caotico.
Insomma è un libro che non consiglio ma tenete conto che i giudizi dei lettori su questo romanzo sono molto diversi e contrastanti.
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Phoenix vs. Clois
Alex, Phoenix, giorni nostri, vs. Marc, Clois, Francia 1233.
Sicuramente un bel salto temporale ricco di avventure sulle quali tutti abbiamo fantasticato almeno una volta: come sarebbe la nostra vita in un'epoca diversa? come ci comporteremmo con abitudini, usi e costumi completamente differenti dai nostri? come comunicare senza computer, cellulari e wi-fi perennemente disponibili anche negli ancoli più remoti del pianeta?
Domande ragionevoli che Alex, la co-protagonista di questo libro non ha avuto il tempo di porsi, catapultata com'é direttamente nel Medioevo più profondo, grazie, o per sfortuna, al gioco Hyperversum Next, seguito di quello con cui giocavano vent'anni prima Daniel e Ian, protagonisti dei precedenti volumi.
Li ritroveremo anche in questa storia, sotto spoglie diverse, ma con lo stesso carisma, mentre Alex, giovane e atletica ragazza maschiaccio del XXI secolo si batte per la sua vita e per sopravvivere nel 1233, dove incontra Marc de Ponthieu, aitante nobile a caccia di guai, che sembra condividere il suo stesso destino, nonostante le chiare diversità fra i due.
Piuttosto ovviamente, tra i due nascerà del tenero e insieme andranno incontro a rocambolesche avventure e a un bel finale che conclude il libro in maniera definitiva.
La trama é molto semplice e anche piuttosto poco originale: una ragazza in difficoltà che viene salvata dal cavaliere di turno e di cui poi si innamora.
Il ritmo del racconto é buono, fa venir voglia di continuare a leggere e il volume permette di andare in modo spedito e di finire il libro in poco tempo, soprattutto per scoprire cosa succederà nel momento in cui Daniel, il papà di Alex, tornerà nel Medioevo per riportarla a casa, al proprio posto.
Ho trovato la trama un poco banale e l'approfondimento dei personaggi superficiale, troppo stereotipato; cio' non toglie che sia un libro piacevole e scorrevole, soprattutto per chi ha letto i tre volumi precedenti, che narrano le vicende di Daniel e Ian, quest'ultimo, a mio avviso, il personaggio più interessante di tutti in assoluto.
Il libro puo’ essere letto in maniera autonoma rispetto agli altri tre, in quanto auconclusivo e narrato da punti di vista differenti, ma il mio consiglio é di approfondire meglio il mondo di Hyperversum, leggendo anche la trilogia precedente composta da : « Hyperversum », « Hyperversum, Il falco e il leone » e « Hyperversum, Il cavaliere del tempo ».
In questo modo si capirà meglio il rapporto di Alex con il padre, il carattere carismatico di Ian e come tutti personaggi si incastrano nella storia finale.
Un libro piacevole se si cerca una lettura leggera e poco impagnativa.
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Hyperversum, Il falco e il leone
Hyperversum, Il cavaliere del tempo
La scala di ferro
Una finestra affacciata su un ampio terreno filtra le luci e i suoni di un luna-park; quelle stesse luci illuminano, con tutta la loro frenetica vitalità una camera da letto, intrisa di un plumbeo profumo di sonno.
Il chiarore emanato dai lampioni delle giostre lascia il posto, durante l'inverno, al rossore del neon di un club notturno che dipinge di una scarlatta atmosfera quelle quattro pareti.
La stanza da comune e spaziosa si fa sempre più piccola e claustrofobica, l'odore di sonno diviene odore di sospetto e di paura.
Quell'unica via di fuga, la scala di ferro, complice e traditrice allo stesso tempo, diviene la migliore amica del protagonista, nascondendo agli occhi dei dipendenti i suoi baci rubati, nascondendolo agli occhi della moglie mentre cerca di spiarla.
In un crescendo di tensione, Simenon, gioca col lettore ponendolo sulla strada giusta per poi fargli rendere conto che aveva capito male, non si trattava di quello che pensava.
Un po' come quelle giostre che volteggiano nell'aria, per poi tornare a terra per tornare ancora in aria, così anche il lettore si trova a balzare dalla sedia di fronte all'evidenza lapalissiana dei fatti che vengono smentiti in modo altrettanto evidente.
Non è possibile staccare gli occhi dalle pagine, non si riesce a d arrendersi al sonno, non si trova il coraggio si lasciare il protagonista da solo, come lui vogliamo sapere, dobbiamo sapere, perché dobbiamo emettere il nostro giudizio, dobbiamo formulare la nostra sentenza.
A lasciare le pagine si ha quasi la sensazione di perdere i personaggi tra le pagine o peggio di trovarli morti, per questo non ci è possibile non concludere.
Una storia a tratti insopportabile, per il tema, per la naturalezza con cui i personaggi sono caratterizzati, per come lo svolgersi della vicenda non possa che portare alla conclusione che non si vuole accettare, che non si può credere, ma che risulta la realtà crudele e ingiusta.
Ogni singola parola di questo romanzo è al posto giusto, tessera di un mosaico che nella sua totalità risulta essere perfetto.
Senza dubbio, per il momento, il miglior Simenon che abbia mai letto.
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A ciascuno il suo mestiere
Il primo capitolo di questo romanzo mi ha intrigato parecchio, peccato che è stato l'unica parte del libro a farmi questo effetto.
Un funerake: un uomo fa il discorso di commiato in chiesa, con davanti la bara ricolma di fiori, e lo conclude dando del mostro alla cara estinta. Sorpresa nella sorpresa si tratta del figlio. In più, non ci sembra che gli altri intervenuti alla cerimonia se n'abbiano poi tanto a male.
Con una serie di flashback e salti temporali la Masini ci fa entrare nel mondo di Anna, una corretrice di bozze, e di un paesino sulle sponde del lago di Garda. Storie nuove di amori illeciti, di cambi di vita, di amicizie improbabili si intrecciano con storie di vecchi amori illeciti, vecchi cambi di vita ed antiche amicizie improbabili. Il colpo di scena, con la rivelazione che ci spiega tutto, arriva circa a metà del romanzo. Dapprima lo intuiamo da soli, nonostante sia talmente assurdo da essere incredibile, poi sono gli stessi protagonisti a confermarci che la nostra pensata è stata coretta. Il finale è solo un tirare le fila del resto del romanzo, quasi un nuovo inizio verso cosa? Altri amori proibiti, altre amicizie bizzarre?
La trama di questo libro mi ha ricordato i romanzi di Charlotte Link, senza però la ricchezza descrittiva dei personaggi e la precisione espositiva di questi ultimi. In sostaza la Masini ha introdoto tutti gli elementi cari all'autrice tedesca: una giovane donna dalla vita complicata si trova per varie ragioni a trasferirsi in una casa nuova piena di storie e fantasmi. si incontra con un'anziana signora che le racconta a spizzichi e bocconi la sua vita nella quale c'è un qualche segreto. Le due vicende per certi versi si somigliano aiutando la più giovane a prendere una decisione rimandata da tempo.
La novità che c'è in questo volume e che alla fine fine mi porta a dare un giudizio positivo è la presenza di alcuni racconti per bambini che ho trovato molto belli. La Masini nasce come autrice per l'infanzia e solo da poco si è cimentata anche con la letteratura pr adulti. Attraverso l'espediente di una vecchia scatola piena di appunti è riuscita a inserire in questo romanzo anche quello che secondo me è il migliore dei suoi talenti.
Non mi piace molto, invece in generale il suo modo di scrivere. Alcune parti, soprattutto le descrizioni dei paesaggi e degli scorci del lago sono molto belle: sembra di trovarcisi dentro, di sentire i rumori e di vedere i colori che Anna ha davanti. Altre volte invece ho trovato le sue descrizioni prolisse e inconcludenti. Sembra quasi di trovarsi davanti ad una dimostrazione di forza: ecco metto in campo tutta la mia abilità letteraria. Per quanto riguarda la trama. troppi personaggi, uno più improbabile dell'altro, un'infinità di luoghi comuni sugli abitanti dei piccoli borghi e sul loro essere burberi/ottusi.
Tutt'altra cosa i racconti per bambini: trame semplici, ma efficaci con un linguaggio chiaro e diretto adatto sia ai bambini che agli adulti.
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ALLY E LE SUE ORIGINI
Questo romanzo è il secondo di un progetto ambizioso composta da ben sette libri che Lucinda Riley ha deciso di regalarci.
L’intera opera gira attorno al mito delle costellazioni delle Pleiadi,alle sette sorelle, o meglio dire sei, che portano il nome di una stella.
La copertina del romanzo ci fa scorgere una ricostruzione del lago dove si affaccia la villa dove sono cresciute le sette sorelle e la famosa sfera armillare che unisce tutte le figlie di Pa’ Salt.
Nessuna di loro sa le proprio origini, il loro padre Pa’ Salt le ha adottate in varie parti del mondo e loro hanno vissuto insieme a Ginevra fino a quando non hanno preso le loro strade lontano dalla Svizzera.
L’unica che è rimasta a vivere là è Maia che è la protagonista del primo romanzo.
Lucinda ha creato in ogni libro una storia diversa, l’unico fatto che accomuna i romanzi è la tragica scomparsa del loro padre, che ha lasciato alle figlie delle lettere e delle coordinate per ritrovare e ricostruire le loro storie.
Molti misteri avvolgono l’intera saga, il primo fra tutti chi sia il misterioso e ricchissimo milionario Pa’Salt e come abbia adottato le sette bambine e poi perché l’ultima sorella non è mai arrivata?
Dopo Maia, in questo libro è il turno di Alcyone o meglio chiamata Ally o Al, una velista esperta, che ha molto talento nel suo lavoro e sta vivendo un amore appassionato con il famoso skipper Theo.
Così inizialmente l’autrice ci fa conoscere la loro storia d’amore, la loro intesa sia sul lavoro che a livello personale, la scomparsa del padre adottivo per Ally è un duro colpo, cerca di affrontarlo al meglio e all’inizio quasi non crede a quello che è successo.
Ally decide di non iniziare subito la ricerca delle sue origini, accantona le coordinate che Pa’ Salt le ha lasciato e continua a vivere la sua vita fino a che un altro drammatico evento la travolgerà e l’unica cosa che le rimane è quella di ricominciare da dove era nata, capire chi era veramente.
Va in Norvegia e su suggerimento del defunto padre inizia la lettura di una biografia su Anna Landvik, famosa cantante d’opera norvegese dell’Ottocento che divenne la musa del compositore Edvard Grieg, personaggio realmente esistito.
Quindi si reca a Bergen sulle tracce della vera storia di Anna.
In questo romanzo troviamo tre livelli di narrazione e tre epoche storiche differenti che si intrecciano per raccontarci la storia di Ally, l’abilità dell’autrice sta nel fatto che riesce a mescolare tempi e luoghi differenti riuscendo a trovare un filo conduttore che accompagna il lettore per tutto il libro.
Quello che mi affascina di questo romanzo è che la suspence rimane costante per tutto il libro e quando pensi di aver capito le origini di Ally, in realtà quello che si è scoperto non è tutta la verità.
Questo libro, in un certo modo ci fa conoscere anche alcune parti del carattere delle sorelle di Ally, anche se loro rimangono marginali rispetto alla storia della protagonista.
Verso la fine del romanzo conosciamo Star, la terza sorella, sarà la ragazza che conosceremo nel prossimo capitolo dell’opera di Lucinda.
La narrazione è molto scorrevole, non mi sono mai annoiata e i vari avvenimenti e le scoperte che via via Ally faceva rendevano la storia interessante e non vedevo l’ora di andare avanti con la lettura.
Il lettore si trova quindi catapultato in un viaggio ricco di storia, musica, e anche mitologia che rende affascinante il romanzo e anche l’opera stessa, la curiosità che si ha nello scoprire chi sia veramente Pa’ Salt e le origine delle ragazze come anche il segreto della settima sorella.
Un’opera ben congeniata e studiata a tavolino come un arazzo che via via riesce a comporsi con tutti i suoi fili al posto giusto, quest’idea così grande e ai nostri occhi anche esagerata può risultare vincente se l’autrice continua a tenere questi segreti e questi misteri ben stretti a sé e a poco a poco li fa scoprire.
Le descrizioni dei luoghi che Ally visita, sono molto accurati e dettagliati sembra quasi di vedere un film, sebbene il romanzo si snoda in 600 pagine la storia ha così tante sfaccettature e sfumature che nemmeno te ne accorgi e non risulta affatto un libro impegnativo da leggere.
Il personaggio di Ally, viene ben delineato, lei è la leader delle sorelle anche se è la seconda, però conosciamo anche quanto sia fragile e quanto i fatti che le succedano la colpiscano molto. Sebbene sia una velista con molta esperienza, il mare è generalmente un luogo per uomini, pertanto lei si deve far strada per dimostrare quale sia il suo reale valore.
Oltre a questo Ally da piccola amava suonare il flauto che però tralascia per seguire la sua passione per il mare, ma il talento che ha per la musica è comunque ben radicato in lei.
A mio parere Lucinda, oltre alla mitologia e alla Pleiadi, ci vuole descrivere anche sette o sei grandi personaggi femminili, che con il loro carattere diverso, fragilità,sentimenti e aspirazioni sono una spaccato delle ragazze di oggi indipendenti, intelligenti e al pari degli uomini.
L a particolarità di quest’opera è che si può cominciare a leggere anche in un ordine differente rispetto a quello scelto dall’autrice e riuscire comunque a seguire l’evolversi della storia.
Non mi resta che continuare la lettura di questi romanzi e capire quale mistero ci sia dietro le sette sorelle!
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Tajùt e frico
Drago Furlan è un ispettore campagnolo amante dell’Udinese, del frico, del vino, delle cose genuine, un omone dai modi burberi.
È alle prese con un cadavere, pochi i dubbi sulle cause della morte, quello è ben visibile, molti, invece, gli interrogativi sul chi e il perché.
Tra bevute in osteria, luogo sacro al vero friulano, e interrogatori tra i montanari granitici nella loro reticenza (“ La signora Vendramina d’altronde l’aveva sempre messo in guardia: montanari … lupi mannari), l’ispettore deve trovare la pista giusta - e non azzardatevi a chiamarlo commissario in onore di Montalbano – (“Non sono commissario ma ispettore, la differenza è la stessa che c’è tra infermiere e medico, a pulir la merda ci mandano l’infermiere, a prendersi l’onorificenza di cavaliere del lavoro mandano il medico”).
Insieme al fido vice, sbarbatello da istruire su madre natura e i proverbi tramandati da generazioni di Furlan, al bisbetico Drago spetta un salto nel tempo, una rispolverata al passato, uno scontro fra coscienza e conoscenza, tra giustizia privata e quella pubblica.
Un noir intriso di storia, di ironia, di saggezza popolare, arricchito da piatti e vini tipici della regione, animato da personaggi ben caratterizzati, l’amore per la propria terra è palpabile.
Durante la lettura si prova allegria per le battute dell’ispettore e tristezza per i fatti, si giunge all’epilogo con la consapevolezza che la Storia non si può e non si deve dimenticare. Mai.
Concludendo, un appetitoso libro assolutamente da gustare.
“Orfeo, i cetrioli, se non li innaffi costantemente, non vengono su. Così le indagini: se non le segui costantemente, non danno frutti. Dobbiamo continuare a innaffiare il terreno. Il contadino che era in lui non si smentiva mai.”
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Opinabile.
Mia Vitale, trentenne, è una giovane veterinaria attiva e dedita alla sua causa con passione e determinazione. In particolare presta la sua opera tanto nella propria clinica, “Qua la zampa”, che presso l’ospedale torinese dove è stato avviato il suo progetto di pet therapy.
La sua vita è però priva di una figura maschile, da anni infatti la dottoressa non riesce a lasciarsi andare, troppe ferite hanno segnato la sua anima e al tempo stesso non ha trovato la persona giusta per lei. Quando quindi incontra Diego, poliziotto originario di Gallipoli trasferito vicino alla sua abitazione e con cui dovrà lavorare vista la sua collaborazione con le forze dell’ordine che si trovano a dover fronteggiare cani e altri animali in difficoltà, e Alberto medico ospedaliero presso la struttura in cui ella metterà in atto il suo progetto, è spiazzata, ha paura di soffrire ancora. Inutile dire che dopo essere stata corteggiata da entrambi, e dopo il susseguirsi di varie peripezie, finirà con l’innamorarsi di uno dei due.
Il testo di per sé presenta tutti gli elementi per poter affascinare il lettore; la storia d’amore c’è, la cura del prossimo e dei cuccioli a quattro zampe anche, situazioni paradossali ma ilari si aggiungono al mix già presentato, ed infine, il lieto fine è assicurato. La varietà di tematiche non sorprende ma nemmeno delude le aspettative affrontando problematiche attuali e fortemente discusse.
Quello che in parte può disturbare è la scarsa originalità e la forma linguistica adottata, nello specifico i tempi verbali che sono presi e buttati li come un dado. Questi due elementi rendono, per scarsa arditezza, la trama prevedibile tanto che chi legge può prefigurarsi gli avvenimenti successivi e facilmente può intuire il finale, e, per stile narrativo, a tratti farraginoso l’elaborato che fatica a fluire, a scorrere. Non solo, verso la metà dello scritto l’autrice tira fuori il cd “asso nella manica” svelando un avvenimento intimo e che dovrebbe essere percepito quale determinante per comprendere l’indole e l’essenza della protagonista. Il problema è che lo inserisce così, di punto in bianco, senza accompagnare, introdurre, avvicinare, o far semplicemente intuire che dietro alla facciata si può nascondere qualcosa del genere, così che questa perdita è percepita quasi come irreale se valutata in relazione all’età, all’intreccio narrativo e ai dialoghi che si susseguono pagina dopo pagina.
In conclusione, “Te lo dico sottovoce”, è un romanzo leggibile ma da cui il lettore non deve aspettarsi troppo e/o per il quale di certo non può gridare al capolavoro. Risulta essere adatto ad un pubblico prevalentemente femminile e di tutte le età, ed in particolare a chi cerca un libro non impegnativo con cui trascorrere qualche ora.
Indicazioni utili
- sì
- no
no = a chi cerca un testo be scritto, con un contenuto sostanziale e un intreccio narrativo solido. Amo gli animali in modo incommensurabile, ma in questo romanzo qualcosa, almeno secondo me, stona.
Natura vs Umanità
Dopo essersi fatta conoscere dal grande pubblico con il suo “L'eleganza del riccio”, l'autrice francese Muriel Barbery torna nelle librerie con un titolo particolare che fa volgere il pensiero alla fiaba.
In effetti quello ricostruito e narrato tra queste pagine è l'esemplificazione dell'incontro tra un mondo segreto e fantastico ed il mondo reale, l'unico che sia dato conoscere all'uomo.
Occorre subito dire che, per chi ha avuto modo di apprezzare gli intenti narrativi e l'ottima costruzione dei personaggi nel romanzo precedente, “Vita degli elfi” è una esperienza letteraria di tutt'altra natura, vuoi per i percorsi di fantasia a cui costringe il lettore, vuoi per uno sviluppo della trama fatto di tasselli scissi che tendono a creare una frammentazione visiva e concettuale.
Sono Maria e Clara le protagoniste indiscusse, bambine dal volto umano ma generate da un mondo distinto e parallelo, capaci di comunicare con la natura,di ascoltarne i gridi di allarme e gli avvertimenti.
Bambine dotate di una sensibilità superiore, caratteristica che l'essere umano sembra avere perduto, reso cieco dalle preoccupazioni quotidiane e dall'egoismo.
Una chiusura mentale e di orizzonti che le bambine devono scalfire, rendendosi anello di congiunzione tra due poli contrapposti il bene ed il male.
Appare subito palese quanto il tema sia iper sfruttato da innumerevoli filoni letterari, tanto da chiedersi se rimanga ancora da svelare qualche immagine o concetto dal sapore nuovo; detto ciò, nonostante ci si possa avvicinare al romanzo carichi delle migliori aspettative, purtroppo giunti in fondo al sentiero non rimane che constatare quanto già conosciamo i volti del mondo segreto e naturale e di quello reale.
La nota distintiva dell'autrice si conferma essere l'ottima prosa, studiata nel linguaggio e nel particolare, tesa alla ricerca dell'eleganza, intrisa di concetti filosofici.
Il mondo della filosofia fa parte del percorso formativo e professionale della Barbery ed i suoi romanzi ne diventano specchio; tuttavia mentre ne “L'eleganza del riccio” la cultura filosofica si fonde alla perfezione con l'intreccio narrativo e con i protagonisti, qua è talmente presente da trasmettere una sensazione di soffocamento, rendendo la lettura a tratti faticosa.
Come annunciano le note editoriali e la mancanza di un finale, questo è il primo volume, quindi il lettore viene rimandato a data successiva per conoscere il destino delle vicende rappresentate.
Indicazioni utili
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- no
Bella e nuova
Nuova: forse non sono io la persona più adatta a dirlo non conoscendo la vecchia Mariapia Veladiano ma certo dalle recensioni degli amici lettori sui suoi precedenti romanzi, dagli incipit me la immaginavo molto diversa. Mi aspettavo, avendo letto la prefazione, un romanzo sulla seduzione, questo sì, ma con redenzione del seduttore o almeno un tentativo di redenzione a suon di salmi. Invece niente. La nuova Maria Pia lascia Dio sul Suo trono e al seduttore ci pensa lei: lo serve al lettore, tagliato a fettine sottilissime con contorno di fiori e flambè al fuoco della passione naturalmente. Il romanzo è molto bello, davvero diverso da come me lo aspettavo: tagliente, affilato direi, diretto, schietto.Bianca, la protagonista è una donna bella e brava, una che va a testa alta. Una persona che ama l’arte e si circonda di cose belle. Anche lui ama l’arte e si circonda di cose belle, cose e persone, un occhio alla cartella con i dipinti e l’altro alle gambe dell’artista. Mentre Bianca è una persona trasparente per il lettore, non ci nasconde nulla, lui invece è difficile da capire anche se viene vivisezionato nei suoi modi costruiti e nelle sue strategie che funzionano sempre. Elsa Morante direbbe che Mariapia ci ha raccontato la storia d’amore tra la donna-fiore e l’uomo-camaleonte, perché il tratto più tipico di lui è questa rara capacità di capire al volo chi ha davanti e di usare le parole giuste e diverse per ogni donna, una qualità rara. Dodici donne e anche qualche uomo perdono la testa per lui con un totale di tre suicidi. Lui è un bell’uomo, alto 2 metri, ma niente di speciale. La sua bellezza è tutta nei modi di solito perfetti e soprattutto calibrati sull’interlocutore. Certo la storia d’amore tra i due sembra, come dice il titolo, perfetta ma a un certo punto lui sparisce, si nasconde sperando che Bianca sopravviva al dolore. Certo non si capisce perché lui scappi da Bianca. E’ un uomo calcolatore, seduttore e Bianca gli sembra bellissima. Ha 100 cartelle e con quelle potrebbe mettere le mani su una miniera d’oro. Se fosse un po’ più calcolatore dovrebbe restare con Bianca almeno fino all’esaurimento della miniera, potrebbe sfruttare qualche altro filone. Io credo che questa fuga, così poco conveniente dal pdv economico, sia la dimostrazione che lui tiene a Bianca. Forse è il gesto generoso di una mente storta che intuisce che tirare la storia per le lunghe renderebbe l’inevitabile colpo della separazione mortale. Il lettore vorrebbe immaginare un gesto protettivo da parte di lui anche se espresso in una lingua straniera. Certo, Bianca, come le altre donne si è abituata al suo camaleontismo e naturalmente ha preso sul serio le sue parole in lingua-Bianca. Ma lui non ha mai fatto promesse. Non ha mai fatto promesse a nessuna donna. Probabilmente nella sua vera lingua, quella incomprensibile alle donne, segue la famosa filosofia della passione: eterna per un solo istante. Per cui non ci sono promesse, non c’è domani, c’è solo l’oggi.
La sincerità dovuta è solo quella ai propri sentimenti. Il finale lascia intuire il suo rimpianto per qualcosa di bello che si è perso e al lettore dispiace un po’ per lui anche se è solidale con lei che non si lascia schiacciare e abbattere e esce dalla dura prova nuova e bella e … con tante nuove cartelle.
Il romanzo oltre che essere piacevole, bello, di facile lettura ha qualcosa di buono, come credo l’abbiano tutti i romanzi di Mariapia, qualcosa che paragonerei ai gorghi buoni che sputano la gente fuori dal fiume dandogli un po’ di carica, facendola sentire anche lei nuova e bella.
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Care amiche lettrici se lui lavora fino a orari impossibili anche se è disoccupato o peggio dipendente pubblico e quando torna non sembra distinguere tra voi e l’armadio regalatevi subito il libro della Veladiano e vi consolerete subito con l’idea che vi poteva capitare anche di peggio.
Speranza
E’ il 6 luglio 2013, Remon, quattordicenne, cristiano copto ed egiziano non ha altra scelta che lasciare tutto quello che ha.
Il suo sogno è ed è sempre stato quello di fare l’ingegnere, ama studiare ed è un giovane calmo, rispettoso delle tradizioni e di grande sensibilità eppure sa che se non intraprenderà quel viaggio nulla di tutto ciò vedrà mai realtà. La scoperta della paura ha avuto inizio il 26 gennaio 2011 con quella che ancora oggi è chiamata la rivoluzione egiziana, una guerra civile in cui un gruppo di persone denominate “Fratelli Musulmani” voleva ribaltare l’ordine delle cose in Egitto, questo stava a significare che per i Cristiani e tutti coloro che professavano una fede religiosa diversa, da quel momento la vita sarebbe stata molto più dura e certamente non sarebbe stata più possibile una quieta coesistenza tra differenti credi.
Per Remon iniziano mesi di persecuzioni, bullismo, provocazione, violenza. Ogni scusa è buona per attaccare briga, per far perdere le staffe al giovane ragazzo, per indurlo a commettere un errore, per portarlo a segnare la sua condanna, sino a quando la pazienza giunge al termine e l’egiziano reagisce. Da quel momento il suo sogno di studiare svanisce, non avrà mai modo di realizzare i suoi sogni restando li, deve andarsene e per farlo deve intraprendere quello che è, e sempre sarà, il viaggio più lungo ed odiato della sua esistenza. Lascia la certezza per abbracciare l’incertezza, abbandona tutti i suoi affetti per rincorrere un sogno, per la libertà.
Seppur contenutivamente il romanzo si presenta ricco di spunti di riflessione e si dimostra in grado di capovolgere la prospettiva di chi legge, di far riflettere sul perché le persone che comunemente chiamiamo immigrati arrivano a compiere gesti simili e su quali siano i veri costi che queste si assumono con le loro scelte, stilisticamente il testo è acerbo, scorre ma manca di quel qualche cosa in grado di renderlo indimenticabile. Suddetto dettaglio, sicuramente frutto di una decisione ponderata ed identificabile nel far si che chi legge si catapulti nei panni dell’adolescente protagonista, in parte contrasta con quella che è l’essenza dello scritto, il messaggio che l’autrice vuole trasmettere.
Resta comunque una piacevole lettura, ottimale per ponderare su quella che è una diversa realtà senza cadere in pregiudizi bensì studiando la problematica da una diversa prospettiva.
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Iago e Desdemona
Nelle prime pagine del romanzo si afferma che il matrimonio può, nel migliore dei casi, soltanto avvicinarsi alla perfezione. E che l'unione può essere eterna al di là del bene e del male, non l'amore.
Un'opinione cinica, metafora di quei rapporti umani che Roberto Costantini tesse in una storia che parla di sentimenti universali. Come appunto l’amore. Collante, spesso temporaneo e non particolarmente resistente, tra personaggi irrisolti e incapaci di essere sinceri con gli altri e soprattutto con se stessi.
Bianca Benigni è un Pubblico Ministero. Una donna prudente, abituata al rispetto di regole severe. Tra inchieste per corruzione e indagini su appalti irregolari, conduce una vita routinaria con Giovanni Annibaldi, psicologo specializzato nella terapia di coppia. Un professionista che, ironicamente, soffre il rapporto rigido e privo di libertà e leggerezza che si è creato con la moglie.
Il Sordomuto è un malavitoso, un ex militante di ambienti terroristici in rapporti stretti con una miriade di personaggi più o meno insospettabili.
L'elegante Nicole Steele e la provocante sorella Scarlett sono due sorelle americane. Abitano in Italia da un anno, al seguito di Victor Bonocore, scienziato e professore universitario geniale e arrogante, sposato con Nicole.
Sono questi i personaggi attorno ai quali Costantini costruisce, a cavallo tra la Roma del 2001 e quella del 2011, una trama densa di segreti e menzogne che parte da una ventunenne ritrovata morta sul lungomare di Ostia e affonda le sue radici nella corruzione e nel malaffare che inondano la capitale.
E poi c'è Michele Balistreri, ancora più disilluso e scostante. Le donne, il whisky, le sigarette, niente lo ha reso capace di superare la difficile giovinezza vissuta in Libia. Impenetrabile e detestabile, è un commissario al servizio di uno Stato che non stima. Ma è un uomo sfaccettato, in continua evoluzione, a cui non mancano carisma e una profondità d’animo testardamente nascosta. Stavolta la sua presenza è più sfumata del solito e condivisa con il punto di vista narrativo degli altri personaggi.
Costantini, confermandosi un autore interessante, si allontana quindi parzialmente dalla celebre e fortunata “trilogia del male”, e con questo ottimo quarto romanzo crea un intreccio più lineare, sicuramente dotato di minore audacia e complessità, ma anche privo di alcune complicazioni e dispersioni tipiche dei libri precedenti.
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Non mi toccare
Questo è il mio esordio con Camilleri, so già che è un romanzo differente dai suoi soliti gialli d’autore, ma inizio con il dire che mi è piaciuto tanto. Un romanzo composto quasi esclusivamente da dialoghi che, il grande maestro del giallo italiano, sapientemente organizza per raccontarci una vicenda. Una donna, palesemente volubile e facile all'amore, che solo poche persone capiscono fino in fondo. Camilleri dipinge un ritratto di una donna complessa e lo fa utilizzando lo strumento a lui più famigliare, il giallo, ma questo non affatto un romanzo giallo. Laura ci affascina e a tratti ci ripugna, sappiamo che è molto bella e anche lei lo sa, usa il suo corpo scindendolo da quello che la sua intima natura, usa il suo corpo per mettere a tacere la sua essenza. Una donna colta, profonda, estremamente intelligente, e allo stesso tempo apparentemente lasciva, pennellata dopo pennellata, dialogo dopo dialogo, Camilleri ci fa un’analisi completa di questa complessissima personalità.
Noli me tangere, non mi toccare, quasi una necessità disperata di annullare il corpo troppo scisso dall'essere dalla sostanza intima dell’esistenza.
Molto incisiva e decisiva la nota finale dell’autore, della quale dirò solo che è per me la perla che fa meritare la lode a questa storia. Solitamente non amo particolarmente i dialoghi nei romanzi, per mio gusto preferisco il racconto degli eventi, certo qualche dialogo ben organizzato può risultare piacevole. Per paradosso ho apprezzato moltissimo questa storia composta in prevalenza da dialoghi, discorsi, ritagli di giornali, lettere e notizie, tutto ciò mi ha fatto riflettere su quanto sia complesso strutturare dialoghi perfetti e piacevoli. Camilleri, con questo romanzo mi ha dimostrato che una storia può essere fatta esclusivamente da parole dette e non raccontate. Mi ha fatto sentire ogni singola parola, ogni suono di ogni singola frase, nelle mie orecchie risuona la voce del marito di Laura, del commissario Maurizi e di Laura. Questo grande scrittore mi ha portato nel centro delle indagini, a casa del signor Todini e nei suoi più intimi turbamenti, tutto questo grazie alla sua maestria nel congegnare dialoghi perfetti.
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Lo scambio dei sessi a Forks
Inutile negare che per molti lettori (o meglio, lettrici) il fenomeno di Twilight sia stato uno di quei tormentoni che ti tengono sveglio la notte, fantasticando sul principe azzurro che arriva sul cavallo bianco…o come nel caso di Edward Cullen, a bordo di una fiammeggiante Volvo argentata. E posso dire anche nel caso di Edythe Cullen.
Ebbene si': la protagonista del libro, insieme al suo alter ego in versione maschile di Bella Swan, ovvero Beau Swan, guida la stessa macchina, ha lo stesso colore di capelli, gli stessi occhi cangianti e la stessa famiglia, solo che i lui solo diventati lei e viceversa.
Abbiamo cosi' Edythe invece di Edward, Beau invece di Bella (il suo nome in francese significa "bello", quindi c'é una non molto sottile coerenza), Carlisle che diventa Carine, una dottoressa rubata alle sfilate di Victoria’s Secret, Earnest invece di Esme, Archie invece della bella Alice, Jessamine invece di Jasper, Eleanor invece di Emmett e Royal al posto della scettica Rosalie.
E ovviamente una lupa, Jules, che ruba il posto a Jacob Black e Joss, la segugia vampira, invece di James.
Tutti i personaggi nella nuova versione della storia cambiano sesso, persino Jules non ha più il papà costretto sulla sedia a rotelle, ma una mamma, pur sempre nelle stesse condizioni, che prende il nome di Bonnie e che, ovviamente, é una licantropa.
Gli unici a non cambiare sono i genitori di Beau che restano Charlie e Renée.
Anche la storia di Beau e Edythe, sostanzialmente, non cambia, ma ricalca a linee pressocché identiche quella di Bella e Edward, salvo per il finale, che riserva una sorpresa inedita e che, personalmente, é una delle poche cose che mi hanno sorpresa.
Quando ho iniziato a leggere questo libro, complice forse la storia quasi identica a quella di Twilight (ecco perché ho dato due stelline al contenuto), mi sono ritrovata a provare le stesse emozioni di quando scoprii la storia originale e a farmi le stesse domande : se Edythe, la nostra bellissima vampira dai capelli color del bronzo, fosse stata in grado di leggere i pensieri di Beau le cose sarebbero andate allo stesso modo? o lei l’avrebbe ignorato come tutti gli altri, per i quali non prova alcun interesse, lasciando il nostro impacciatissimo e scoordinato Beau a straziarsi d’amore per lei ?
E se il profumo di lui fosse stato meno delizioso ?
Se, ma, forse…fatto sta che i due si innamorano perdutamente e la storia procede come tutti la conosciamo, salvo per il twist del finale.
Prima di immergermi nella lettura, ho letto che la Meyer ha voluto costruire la storia in questo modo per riscattare la figura di Bella, da sempre tacciata di essere un personaggio troppo debole, la classica e noiosa « pricipessa » che pende dalle labbra del principe e che non fa nulla tranne aspettare che lui la salvi. La Meyer ha voluto dimostrare, invertendo le parti e mettendo un uomo al posto di Bella, che alle stesse identiche condizioni, anche lui, Beau, poteva soffrire in egual modo e forse anche di più, dimostrando in questo modo che anche gli uomini possono innamorarsi follemente tanto da non riuscire a pensare ad altro.
E possono anche sacrificarsi in nome dei loro sentimenti.
Trovo che, a mio avviso, sia una giustificazione un po’ forzata : é stato bello rileggere le avventure di Bella ed Edward in modo speculare, ma credo che riscrivere una nuova versione della storia, con personaggi diversi, ma con le stesse motivazioni, sarebbe stato molto meglio. Magari l’ambientazione poteva essere la stessa, ma si poteva cambiare il periodo temporale, spostando la storia in un’altra epoca, ad esempio.
Il fatto di aver semplicemente invertito i sessi e cambiato il finale mi lascia leggermente infastidita e insoddisfatta. Avrei preferito uno sforzo maggiore : se quello che voleva la Meyer era risollevare la figura troppo passiva di Bella, avrebbe potuto mantenere una protagonista femminile e indurire il suo carattere, rendendola più forte, più sicura di sé, più badass insomma. Credo che a quel punto si’ che la figura della donna in balia delle onde dell’amore sarebbe stata riscattata. Invertendo i sessi, io credo che abbia fatto l’esatto opposto di quelle che erano le sue intenzioni, ovvero confermare che, uomo o donna che sia, il protagonista della storia é un personaggio debole.
Non so se consigliarlo o meno : se siete fan di Twilight non potete non leggerlo, ma io ho trovato la storia dal punto di vista di Beau meno credibile.
Se invece non avete amato Twilight, non vi piacerà neanche questa versione.
Un appello alla Meyer : sarebbe meglio finissi Midnight Sun, quello é l’unico punto di vista maschile della storia che voglio leggere.
"Non dire mai a te stesso che non sapevi"
Il nuovo scritto di John Boyne , l’autore de “Il bambino con il pigiama a righe”, è un romanzo per ragazzi a contenuto storico. Vi si narra la vicenda di Pierrot, madre francese e padre tedesco, negli anni tra il 1936 e il ’42 e si conclude in lenta dissolvenza in quelli successivi .
Il bambino ha una vita difficile: il padre è un reduce della Grande guerra , alcolizzato e tormentato psichicamente sparisce ben presto di scena; la madre si prende cura di lui fin quando non viene uccisa dalla tisi. Orfano di entrambi i genitori non può essere accolto dalla famiglia ebrea del suo amico sordomuto e finisce in un orfanotrofio fino a quando non si riesce a contattare la zia paterna che è disposta ad accoglierlo. La donna è la governante del Berghof, la residenza di vacanza di Adolf Hitler, nelle Alpi bavaresi.
Inizia per Pierrot una nuova vita, entrando in contatto col Führer verrà “educato” e accolto sotto la sua ala protettrice rendendosi progressivamente plasmabile e asservito ai nuovi “valori”. La sua lenta decadenza e la sua trasformazione da ingenuo e sensibile bambino al prototipo del perfetto nazista rendono a tratti indigesto lo scritto che ha però un chiaro intento pedagogico il quale si rivela nel giusto epilogo.
Lo stile di scrittura è semplice e lineare, l’approfondimento storico minimo, la lettura agevole e sul finire coinvolgente. Le tematiche affrontate sono veicolari di riflessioni importanti adatte a ragazzi preadolescenti: amicizia, tradimento, rispetto, lealtà, amore. Lo sfondo storico può essere utile per anticipare lo studio del periodo in modo coinvolgente, ma non mira ad alcun approfondimento, relegherei la lettura alla scuola secondaria di primo grado.
L’adulto che vorrà leggere l’opera vi potrà trovare una buona storia con la quale trascorrere alcune ore senza alcuna pretesa.
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Quando i profiler arrivano in Italia...
“Questo romanzo è la mia vendetta. La sola che sono stato capace di compiere. L'unica necessaria”.
Vorrei iniziare la recensione di “E' così che si uccide”, romanzo d'esordio di Mirko Zilahy, con le stesse parole dell'autore. Anzi, proverò a fare una recensione basandomi sulle tre pagine a fine romanzo intitolate “Nota dell'autore”. Vorrei fare questo esperimento perché, conclusa la lettura del romanzo, tutta la storia mi è apparsa diversa, con un altro significato, leggendo le note dello scrittore e i ringraziamenti.
Il protagonista di questo thriller è il commissario Enrico Mancini, unico nel suo genere.
Mancini è un profiler: dagli anni degli studi si è sempre interessato alla psicologia criminale e per approfondire tale tematica ha ottenuto una specializzazione a Quantico.
Conosce i pensieri dei criminali seriali.
Conosce cosa realmente un essere umano sia in grado di fare.
Questa consapevolezza è un tormento per il commissario, sempre più deciso ad abbandonare la propria avviata carriera, anche a seguito di un dolore privato che fatica ad accettare.
Non vuole seguire il caso che sta sconvolgendo Roma: un assassino uccide senza pietà e come un'ombra scompare, senza lasciare alcuna traccia.
Mancini è allo stesso tempo un commissario atipico e tradizionale del romanzo giallo italiano: è, come molti altri protagonisti di libri thriller, un uomo solitario, tormentato, che soffre e cerca sempre di mascherare le sue debolezze. Tuttavia, a mio parere, si discosta dal panorama italiano per questa sua “istruzione a Quantico”. Facilmente potrei immaginarmi Enrico Mancini come il protagonista di un romanzo giallo di un autore americano. In effetti, anche lo stile dell'autore si avvicina più a quello dei romanzi americani che a quello di autori italiani.
Ammetto di aver apprezzato Mancini solo a conclusione del romanzo. Nonostante le difficoltà che deve superare, nonostante i problemi della sua vita, ho faticato ad affezionarmici. Ho provato molta più simpatia per i suoi compagni di squadra, dall'ispettore Comello al futuro membro della Scientifica, Caterina De Marchi. Nota positiva del romanzo è che l'autore non si limita a descrivere solo il suo protagonista, come se tutti gli altri personaggi fossero semplici pianeti che orbitano intorno a una stella. Tutti sono descritti in maniera minuziosa, con un'indagine delle emozioni e dei pensieri che poche volte sono riuscita a trovare in un romanzo. Anche oggetti che potrebbero apparire banali (un paio di guanti, una macchina fotografica), sono fondamentali per capire veramente la psicologia dei protagonisti. Non a caso l'autore scrive: “[...] ho compreso cosa mi chiedeva il personaggio solitario e tormentato che nel frattempo era diventato il commissario Mancini nelle pagine di note che avevo steso: di vestire le sue mani, di coprirle con un'altra pelle. Così sono arrivati i suoi guanti”.
Bisogna però citare una grande protagonista della storia. Si tratta di Roma, la Capitale, città che appare tutt'altro che semplice scenario nelle indagini di Mancini.“Ho sempre subito il fascino del profondo contrasto che, in una città strabordante d'arte, storia e cultura come Roma, si coglie quando ci si trova improvvisamente di fronte a uno dei suoi mille mostri d'acciaio. […] E se la bellezza di quei monumenti mi ha sempre provocato una sorta di stupore estatico, i suoi giganteschi scheletri meccanici mi evocano un incanto cupo e irresistibile”.
Leggere questa descrizione nelle note mi ha sorpreso e piacevolmente colpita, anche perché penso sia un sentimento condivisibile da molti. Come specifica lo stesso autore “questi giganteschi ibridi tra edifici – macchine – monumenti” non sono solo romani ma abitano tante città in tutto il mondo, “passando spesso inosservati”.
Essendo un romanzo thriller, la morte è un tema centrale dell'opera.
E alla morte si relaziona il tema delle donne.
L'importanza della figura femminile in questo romanzo potrebbe essere sottovalutata ma è lo stesso autore che ce la suggerisce: “In questo romanzo le donne hanno una parte speciale. Sono catalizzatori di emozioni, come in Poe, e di morte. Tutte portano con sé un destino tragico, ma sono allo stesso tempo vivide, capaci, volitive. Sono il motore dell'amore e dell'odio, del delitto e del castigo”. Le donne sono il motore della storia. Leggendo il romanzo mi è apparso piuttosto evidente che, senza l'intervento di una donna, difficilmente Mancini sarebbe riuscito a risolvere un problema o una difficoltà. Le donne hanno un ruolo centrale nella vita del commissario ma anche dello stesso autore: “Sono cresciuto in una famiglia di donne lettrici. Nei miei personaggi femminili sento riviverle tutte, quelle di ieri e quelle di oggi. E questo è certamente un romanzo di donne e di libri”.
Nel complesso il romanzo si legge volentieri. L'italiano usato è davvero buono e il racconto scorre velocemente, spingendo il lettore a continuare la lettura, nonostante ci siano alcuni passaggi che possono apparire leggermente oscuri (ancora adesso mi chiedo da dove Mancini e i suoi compagni abbiano tratto alcune conclusioni durante l'indagine...).
Questo però non è un problema perché, a pensarci bene, l'indagine passa quasi in secondo piano.
“E' così che si uccide” non dovrebbe essere presentato come il nuovo romanzo thriller rivelazione nel panorama italiano ma come un romanzo che obbliga il lettore ad affrontare temi dolorosi, profondi, intimi, che non sono dolori di un singolo ma collettivi.
Quindi, che dire se non “Buona lettura”? :)
“Sai, Walter, io la sento. La vedo questa cosa. Tutti i giorni. Camminiamo sulla superficie del mondo e sento che il moto orizzontale che imprimiamo alle nostre vite è l'unico possibile. Il movimento dell'azione, dell'affermazione della nostra esistenza, lentamente e inesorabilmente frenato da quello della gravità, che ci spinge verso il basso. […] Il moto orizzontale che ci anima incontra la gravità, declina in una parabola che dura tutta la vita e si spegne con la vittoria della forza verticale che ci condanna... al sottosuolo. […] No, amico mio, è peggio di così. Siamo dei sopravviventi. Ci troviamo in questo perenne stato d'attesa. Attesa del nulla.”
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Sulle tracce della donna bionda
"Incidente notturno" è l'ultimo libro di Modiano che ci è giunto in traduzione.
Ogni testo del grande scrittore francese è in sé compiuto, ma le ambientazioni e le sfumate atmosfere parigine sono quelle che caratterizzano un po' tutte le sue opere, tanto che ciascuna di esse è come un tassello del grande mosaico della sua intera produzione, che in fondo è la sua personale 'Recherche'. Tale caratteristica, unita alla dimensione proustiana che le connota, lo accomuna all'opera di Lalla Romano, come anche il linguaggio essenziale e profondo, con l'intersecarsi di diversi piani temporali.
Qui l'Io narrante è un uomo maturo che rievoca un incidente accadutogli quando era ventenne. Ci fa sapere che "era successo in tempo per permettermi di dare alla mia vita un nuovo inizio"; "mi permetteva di riflettere su cosa era stata la mia vita fino a quel momento".
Egli, ferito, viene portato in ospedale con una giovane donna bionda, che era alla guida dell'auto che l'ha investito: l'atteggiamento benevolo quasi protettivo di lei lo induce a rievocare un'analoga disavventura di anni prima, con la donna bionda (la stessa?) anche allora al suo fianco : realtà o fantasma della memoria ?
Sulla scena compare anche un uomo, figura inquietante, che all'uscita dall'ospedale gli lascia una busta contenente una cospicua somma di denaro. Chi è ?
Non ancora ristabilito, vediamo il protagonista alla ricerca della donna bionda partendo dai pochi dati di cui è in possesso. In un clima da romanzo giallo, vaga per i quartieri di Parigi, ambienti colti in suggestive immagini preferibilmente notturne, come in un film d'Autore girato in bianco e nero.
La bellezza dello stile di Modiano ha modo di esplicare tutto il suo fascino, in particolare nella seconda parte del libro : la scrittura è tersa ed evocativa, senza mai un cedimento; i diversi piani narrativi fluiscono e si intercalano con naturalezza; le sapienti pennellate fanno emergere vari elementi e ne celano altri. Analogie e sottili ambiguità quasi oniriche producono sensazioni di "eterno ritorno".
Più che in altri testi, s'intravede una conclusione, anche se nell'autore molte porte restano sempre aperte a interpretazioni possibili.
L'arte di Modiano, come avviene per gli scrittori veramente grandi, pur partendo da vissuti individuali ben delimitati, ci offre la possibilità di scorgere un 'afflato cosmico' che coinvolge il lettore, qualunque lettore, nel destino comune, in cui palpitano "tanti visi colti per un istante che brilleranno nella memoria con uno scintillio di stelle lontane per poi spegnersi il giorno della nostra morte senza aver rivelato il loro segreto".
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altri libri di Modiano
Yin Yang
È forse in questo particolare periodo della Storia dell'umanità, che più siamo sensibili a quello che concerne la religione islamica e i suoi diversi tipi di seguaci.
Oltre a esserne spaventati, per mezzo della sua componente più estremista, che si tratti di Al Qaeda o del Califfato, siamo anche incuriositi. Vogliamo conoscere quel che ci fa paura, quel che ci troviamo ad affrontare ogni giorno, chi in prima linea, chi da spettatore. Ed è qui che romanzi come "Il grande futuro" di Giuseppe Catozzella trovano terreno fertile.
Lo stile dell'autore è scorrevole, magari non eccelso ma comunque piacevole. L'ho trovato un autore molto Coelhiano, per lunghi tratti, anche se forse è l'ambientazione ad accentuare questa sensazione. Credo di poter comunque dire che chi apprezza l'autore brasiliano, probabilmente apprezzerà anche Catozzella, almeno in questa sua ultima fatica.
Amal e Ahmed sono due ragazzini, migliori amici fin da quando erano piccoli, con un'unica differenza: la famiglia del primo fa da serva a quella del secondo. Questo non impedisce ai due giovani di condividere una profondissima amicizia, costellata da giochi, disubbidienze, rischi, primi amori e anche contrasti. La vita li porterà a dividersi, a prendere due strade completamente opposte, e sarà quella di Amal, il servo, che seguiremo passo passo.
Il giovane dal cuore diviso (letteralmente), sarà nel corso degli anni alla perenne ricerca della pace interiore. Proverà a trovarla nel lavoro, nell'amore, nella fede, nella guerra, che permeeranno a turno le varie fasi della sua vita e della sua crescita. Quale di queste cose avrà la meglio?
Il viaggio di Amal ci porterà a guardare dall'interno la parte più oscura dell'Islam, quella più estremista e violenta, che forse con la religione non ha molto a che fare. Ma ci farà conoscere anche la grande devozione dei veri credenti, che nulla hanno da condividere con i sanguinosi terroristi che siamo purtroppo abituati a conoscere. Giusto per ricordarci che non si può fare di tutta l'erba un fascio.
È un romanzo che pone l'accento sulle contrapposizioni, l'Islam devoto e quello estremista, per l'appunto; la fede come scelta contro quella che viene imposta; l'amore contro il pregiudizio e l'odio.
La guerra contro la pace. Guerra vera e propria, ma soprattutto, guerra come conflitto interiore.
Perché non importa se siamo cristiani, musulmani o buddisti, tutti ci troviamo a combattere una guerra continua contro noi stessi, alla perenne ricerca di ciò che è in grado di portarci alla felicità. Per raggiungerla non esiste una strada precisa; ogni individuo può raggiungerla soltanto percorrendo la propria strada, che è unica e personale.
Ma per percorrere una strada, bisogna pur sempre camminare.
"Volevo ricordarti che la felicità è un diritto di tutti, Amal. Ricorda queste parole, qualunque cosa accada la tua giovane vita. Hai diritto alla tua felicità. Se la cercherai, lei si farà trovare. Te lo prometto."
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Saprai cosa si prova.
Gli occhi ci raccontano sempre qualcosa. Ci trasmettono sensazioni, cui possiamo scegliere se dar credito o meno. È accaduto così tra Colin e Maria, i due co-protagonisti del romanzo: "Deve decidere lei se crederci o meno".
Sempre coinvolgente e intenso e, pur rispettando sommariamente la stessa struttura narrativa degli altri romanzi, NEI TUOI OCCHI riesce a risultare totalmente nuovo e originale per l'autore, grazie all'ingrediente del mistero che movimenta la trama, dandole anche adrenalina al cardiopalma nella risoluzione del giallo.
NEI TUOI OCCHI, nuovo riuscitissimo romanzo di NICHOLAS SPARKS, è un consistente tomo che rasenta le cinquecento pagine, ma che risulta coinvolgente proprio perché a metà narrazione cambia totalmente e si sviluppa introducendo vicende nuove per questo autore, almeno secondo la conoscenza che ho dei suoi romanzi.
Devo ammettere che i suoi romanzi mi hanno abituata a situazioni fortemente intense, drammatiche, tragiche e lacrimose, mentre leggendo NEI TUOI OCCHI, una volta tanto, non ho pianto a fiumi, ma mi sono lasciata coinvolgere in una storia tanto avvincente da dovermi trattenere, nel parlarvene, per non lasciarmi sfuggire niente dei dettagli o degli sviluppi della trama che possano togliervi il bello di scoprirlo da voi ed appassionarvi nella lettura.
Diverso dal solito e forse ancora più commerciale dei precedenti, NEI TUOI OCCHI è un romanzo che chiunque può leggere, dalla teenager all'adulto in cerca di una avvincente lettura di svago, scritta con sapiente maestria ed eleganza. La tecnica narrativa tiene vivo l'interesse, nonostante il gran numero di pagine. Nella prima metà del tomo ci si appassiona per un motivo, mentre nella seconda metà il cuore ha una serie di sussulti per altre situazioni.
Pur essendo una storia differente dalle solite di Sparks, con una trama movimentata, gli elementi immancabili, di questo formidabile autore, sono presenti con l'abituale, elevata qualità: le sensazioni generate dall'amore, così come lo descrive lui, hanno quel qualcosa di tangibile e reale nella percezione. NICHOLAS SPARKS sa costruire una storia e fartela sentire come se la stessi vivendo. La tematica di base è attualissima, anche se ormai un po' troppo abusata, anche se sicuramente non con il suo grado di qualità. Anche la narrazione con i suoi repentini ed improvvisi sviluppi risulta verosimile.
Nel raccontarla Nicholas forse ha già pensato di portarla sul Grande Schermo, poiché leggendola si ha l'impressionante sensazione di vederla, oltre che percepirla nelle sue romantiche sfumature.
"Saprai cosa si prova" è l'affermazione che segna il confine tra le due parti del romanzo, è la linea di demarcazione tra il prima ed il dopo e mai era stato così evidente e brusco un cambio di rotta in un libro. È un cambiamento di direzione nella narrazione che si percepisce in maniera ambivalente: da una parte, l'idea potentemente positiva di un sentimento; dall'altra, l'inquietudine e il disagio di una feroce ossessione.
BUONA LETTURA ...
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La Conoscenza è potere
Soho, anni '70. In questo quartiere di Londra che sembra l'anticamera del secondo cerchio dantesco, quello dei lussuriosi, si respira sesso e depravazione ad ogni angolo di strada.
Cinema a luci rosse, riviste porno in bella mostra, peep show, locali di strip tease aperti ad ogni ora del giorno e della notte, prostitute per tutti i gusti e tutte le esigenze.. insomma, un vero paese dei balocchi per gli uomini della Londra perbene e non, che giungono qui per soddisfare il loro desiderio di sesso senza inibizioni e complicazioni di sorta, in un'epoca in cui il permissivismo regna sovrano ed i divieti imposti dalla legge sono solo formali, un'epoca in cui la polizia corrotta sino al midollo protegge ed alimenta il mercato del sesso e la parola aids non significa nulla non essendosi ancora trasformata nella principale causa di declino di quel florido commercio.
Questo è il mondo in cui vive Duffy e, per carità, nessuno pensi che gli dispiaccia o che non si senta a suo agio. Questo è il suo habitat naturale, anche perchè - meglio precisare sin da subito - a Duffy piace sia la carne sia il pesce, come si suol dire, 'piace fare sia da spina che da presa. E non aveva bisogno di un trasformatore'; ed il quartiere di Soho è sicuramente l'unico in tutta Londra con la più ampia vetrina di esposizione adatta alle sue particolari esigenze.
La bisessualità di Duffy si riflette anche nella sua personalità, Duffy è uno che cerca sempre il miglior compromesso, tra bianco e nero lui sceglie grigio, tra bene e male sceglie il suo interesse e si schiera di conseguenza.
Non che non abbia mai tentato una presa di posizione nella sua vita: ha provato con Carol, la sua donna, ma l'entusiasmo iniziale si è spento, o dovrei dire afflosciato, ben presto. E' stato anche un poliziotto, tra i più validi persino, tanto da infastidire un pò troppo le persone sbagliate e qualcuno decide di incastrarlo.
E' costretto ad abbandonare il corpo della polizia perchè scoperto dai suo colleghi a letto con un corpo meno 'prestigioso', ossia quello di un ragazzone di colore dalle sembianze di un ragazzino, scelto con cura dalla persona a cui Duffy ha pestato i piedi per poterlo così allontanare definitivamente dalla piazza con l'accusa più infamante per un poliziotto, quella di essere gay e per giunta pedofilo.
Da allora Duffy sbarca il lunario (perdonate codesto gergo tipicamente poliziesco ma questo libro s'insinua sin nelle budella) come esperto di sistemi di sicurezza e, all'occasione, detective privato; e l'occasione giusta per rimpinguare il suo portafoglio gli si presenta quando il signor McKechnie, un rispettabile imprenditore che commercia in maschere di carnevale e giocattoli vari, torna a casa dal lavoro e trova la rispettabile moglie imbavagliata e tagliuzzata delicatamente lungo la spalla e, per giunta, il rispettabile gatto di casa infilzato con lo spiedino del girarrosto a mò di kebab; alquanto spaventato, McKechnie ritiene saggiamente che tutto ciò non sia una ripicca di gelosia della sua rispettabile amante-segretaria e decide di rivolgersi al nostro Duffy, considerato lo scarso interesse della polizia locale al suo caso.
E il resto? Il resto si sviluppa tra le pagine di questo romanzo dando vita ad una storia 'sporca', nera, ma condita dal tipico umorismo britannico che alleggerisce i toni cupi privilegiando ad esempio i dialoghi spassosissimi e ben costruiti tra Duffy ed il suo antagonista, Big (pur essendo magrolino) Eddy Martoff, il boss emergente del quartiere, tanto spregiudicato e violento nelle sue azioni quanto impeccabilmente british nella parlantina; oppure deliziando il lettore con uno stralcio esilarante dei locali peccaminosi che pullulano tra le strade di Soho, cinema a luci rosse in cui si proiettano film con un sonoro talmente scadente che l'orgasmo della donna può benissimo confondersi col verso di una papera, senza ovviamente tralasciare una parodistica descrizione dei loro frequentatori, delle loro abitudini e di come fosse evidente, dallo sguardo sempre basso e dall'incedere, la paura e l'imbarazzo di essere scoperti in flagrante mentre entrano in quei locali.
Non mancano quindi gli elementi tipici del genere hard-boiled, sesso, violenza, ma con moderazione, nella giusta misura, quasi in ossequio ad un puritanesimo ormai dissolto nel libertinaggio dilagante di quei tempi. Si avverte invece in modo più distinto lo sdegno verso la corruzione e lo squallore sociale che ne deriva di conseguenza, con criminali e poliziotti avvolti in una spirale di ricatti e favori reciproci.
Un finale forse troppo frettoloso ma la scrittura fluida e diretta dell'autore celano questa lacuna.
Ecco, l'autore: Dan Kavanagh è lo pseudonimo di Julian Barnes, scrittore inglese di romanzi di successo ma di tutt'altro genere: Duffy è quasi un gioco, una follia forse, un libro che non avrebbe mai potuto scrivere col suo vero nome, perchè poco consono al suo stile.. si sa come sono gli inglesi, il decoro e la dignità prima di tutto.
Dieci e lode per la copertina 'vintage' ma elegante, con un'illustrazione di Jacono che riporta alla mente i gialli di un'epoca ormai lontana.
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Tiziano Scarpa, tutore transbiografico
Originale, satirico, provocatorio, eccentrico: così si può definire l’ultimo ottimo libro di Tiziano Scarpa. Già dalla lettura della prefazione si capisce che ci si trova di fronte a un’opera che si allontana dagli schemi tradizionali del romanzo contemporaneo. Qui il narratore presenta e descrive se stesso come essere non esistente, qualcuno che avrebbe potuto avere un corpo e tuttavia non ha nulla, nemmeno una voce. Egli si definisce l’Interrotto, dichiara di aver affidato il suo racconto alla forza delle parole, organizzate in forma di romanzo dallo scrittore Tiziano Scarpa, suo tutore transbiografico.
L’opera segue separatamente per diciotto capitoli le vicende di due personaggi fondamentali, Federico Morpio, artista, e Adele, giovane impiegata. Il diciannovesimo capitolo intreccia storie e personaggi, infine il ventesimo costituisce l’epilogo.
Morpio, creatore di video artistici, è il mezzo attraverso il quale l’autore esprime una critica feroce nei confronti delle dinamiche che regolano il rapporto tra talento, societá e mercato, denunciando quanto spesso la vera arte sia penalizzata o addirittura ignorata per favorire ambienti o personaggi che contano. La progressiva perdita di autostima induce Federico, artista fallito, rimasto senza soldi e senza la donna che amava a rinunciare alla sua arte per guadagnarsi da vivere. Egli prende coscienza di ciò che non va nel suo personale rapporto con l’arte nel momento in cui si sofferma a guardare il movimento vorticoso del cestello della lavatrice durante la centrifuga. Egli comprende che ciò che lo frena è la sua incapacità di concentrarsi. Egli ha un rapporto “circonferenziato” con la sua arte. Così come i panni centrifugati nel cestello scompaiono schiacciati sui bordi, così la sua arte, non prodotta da un processo di concentrazione, risulta invisibile. I pensieri di Morpio si “disperdono nell’inconsistenza”. È questo uno dei punti più originali del romanzo.
Parallelamente alle vicende esistenziali di Federico, si svolge la storia di Adele. La sua progressiva integrazione nel mondo cristiano avviene in seguito a quella che si può definire l’epifania del geco. È infatti l’osservazione di questo animaletto insettivoro che riesce a superare quasi ogni prova di sopravvivenza, ma che rimane imprigionato tra le pareti di una pentola rivestita di teflon, che spinge Adele a stabilire un contatto ravvicinato più intenso e spirituale con la natura e con la fede. Il suo incontro con Ottavio la spingerà ulteriormente in questa direzione fino ad abbracciare i principi dei Cristiani Sovversivi. L’adesione così totale alla fede porta Adele e Ottavio a cercare il famoso cronovisore, strumento noto per la capacità di captare quelle onde lasciate da personaggi del passato, anche remoto, e riprodurre le stesse scene e gli stessi avvenimenti. Essi sono spinti dal desiderio di rivedere la resurrezione di Cristo. Ma la fede non avrebbe più ragione di essere se la veridicità degli eventi potesse essere dimostrata.
L’epilogo del romanzo ritorna in maniera circolare a ciò che era stato annunciato nella prefazione. Il lettore si troverà di fronte al narratore che si è definito l’Interrotto. Sarà chiaro infine che l’intero romanzo è un atto di fede dell’autore Scarpa nella forza della parola e della letteratura, che ritrova la sua funzione in un mondo in cui l’arte sembra stia perdendo progressivamente quella dignità che le spetta.
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Cameriere, per me acqua ed erba
Ding Gou’er e’ stato incaricato di indagare su un presunto reato al limite del verosimile. Pare infatti che a Jiuguo, il Paese dell’Alcol, alti funzionari si nutrano di rinomati banchetti a base di carne tenerissima . Carne di bambino.
Osceno, inenarrabile penseranno gli oppositori a tale pratica. I sostenitori, per contro, troveranno una spiegazione molto semplice : se il genitore procrea col solo intento di vendere la creatura a fini alimentari, senza considerare il pargolo quale progenie ma semplicemente un prodotto, che differenza fa allevare e mangiare un pulcino, un agnello, un cagnolino, un bambino ? L’elemento privato di soggettivita’ resta soltanto cibo. Cibo tenero.
Voci di delirio, chi venderebbe un figlio ? E se quel croccante bimbetto dorato servito a centro tavola fosse semplicemente il risultato di una raffinata cucina artistica, dove le piccole braccia sono rape, la materia rossastra succo di anguria ?
Quando sfoglio un Mo Yan sono sempre pronta ad ogni crudelta’ perche’ il suo realismo non conosce filtro ma, benche’ non sia facile, ho sempre concluso soddisfatta i suoi romanzi. In questo caso il realismo allucinatorio con cui si motivo’ il Nobel e’ riscontrabile nella sua peggiore accezione.
Allucinazione che percuote il sognatore per una notte intera, dopo un banchetto bulimico a base di ettolitri di sostanze etiliche. Le pagine piu’ cruente riguardano piu’ gli animali che i bambini , eppure anche laddove tratteggia Mo Yan sa essere di una potenza destabilizzante tanto fastidioso e’ l’argomento.
Con l’intento di criticare la societa’ cinese, cosi’ mirata al potere ed al business da banalizzare ogni forma di etica, il romanzo puo’ condurre a una serie di riflessioni a seconda della ricettivita’ del lettore che nel mio caso e’ stata prevalentemente orientata sulla difensiva, quindi poco redditizia.
L’autore coniuga realta’ e finzione in un gioco di specchi dove nulla e’ certo o scontato, inframezzando i capitoli con inserti di lettere e racconti inviati da un dottorando, il cui contenuto rimanda al testo principale.
Buona la penna, chi sa scrivere sa scrivere, ma la lettura mi e’ stata di una difficolta’ e di un malessere inauditi. Se la fantasia letteraria di Mo Yan conduce al coma etilico i suoi figli e si nutre de i suoi neonati, io auguro un buon pasto per educazione e mi inabisso in fretta sconsigliando di buon grado questo libro inquietante .
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Costantinopoli sta cadendo
Pubblicato da Neri Pozza, editore che dedica particolare attenzione al romanzo storico, è in libreria da poche settimane un'opera dal titolo “La reliquia di Costantinopoli” di un autore ad oggi scarsamente noto, Paolo Malaguti.
L'autore, attraverso una ricostruzione mirabile dei luoghi, offre immagini realistiche della Costantinopoli al tempo della caduta; volgeva l'anno 1453.
Nonostante il tema dell'assedio e della presa da parte turca sia stato oggetto di tanta letteratura fino ad oggi, il valore dell'impresa narrativa di Malaguti merita di essere riconosciuto.
I vicoli, le piazze, i luoghi di culto, i palazzi della città sono frutto di una documentazione certosina e di approfondimenti storico-archeologici da parte di colui che scrive; i particolari colpiscono per aderenza al vero, così come sono percepibili gli odori speziati dei cibi e dei mercati e gli olezzi mefitici dei vicoli bui e delle dimore più umili. Di particolare intensità le scene di assalti e scontri tra le forze cristiane e gli Ottomani, scene che portano nella narrazione fiumi di sangue, orrori e morte.
Il pretesto narrativo utilizzato per imbastire la trama e mettere in pista due protagonisti di grande empatia, trae vita da un mondo ammantato da sempre di mistero, quello delle cosiddette reliquie, simboli della cristianità, oggetti intrisi di sacralità, come i chiodi della crocifissione o i resti lignei della croce o la corona di spine.
L'autore fonde in un unico excursus, materiali prettamente storici ad altri rielaborati con un pizzico di invenzione.
Il prodotto che viene generato è un romanzo corposo non solo per la mole delle pagine, ma per il contenuto, davvero esauriente e per le vivide scene dei lunghi mesi di assedio di Costantinopoli.
Da ultimo, ma non meno importante di tutto il resto, Paolo Malaguti possiede una scrittura di gran pregio, difficile da riscontrare in tempi odierni; mai un rigo ha un costrutto banale, anzi lo stile è lontano da certe scelte di semplificazione linguistica moderne.
Per un autore che vuole esplorare il mondo del romanzo storico, uno stile linguistico appropriato è il punto di partenza per varcare i cancelli della Storia.
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Di nuovo a Bombay
Dopo 10 anni di attesa Gregory David Roberts ci regala una straordinaria storia di amore, guerra, passione, amicizia, filosofia. Mille e più pagine si susseguono senza mai perdere il ritmo, in una narrazione densa di riflessioni sulla vita e sulla morte.
Dopo "Shantaram" torniamo di nuovo per le strade affollate di Bombay, tra le sue fragranze e i suoi colori, in mezzo al chiasso e al caldo. Passiamo spalla a spalla con i peggiori gangster della città e subito dopo siamo al tavolo del Leopold a bere birra ghiacciata con un nuovo straniero incontrato per strada.
I personaggi sono gli stessi che abbiamo conosciuto la prima volta che Roberts ci ha catapultati in India: Vikram, Karla, Didier, Kavita, Lisa, Sanjay, Abdullah.... Personaggi che impariamo a conoscere ancora più a fondo, scoprendo nuovi lati della loro personalità e ulteriori dettagli sulla loro vita. Mentre i nuovi personaggi che si uniscono alla variegata famiglia di Linbaba si dimostreranno amici e nemici difficili da dimenticare.
Linbaba fa ora parte della Sanjay Company formata dagli eredi di Kaderbhai dopo la morte di quest'ultimo. Lo slum è ormai una realtà a cui Lin non appartiene più del tutto nonostante non manchi di tener fede al suo impegno come medico e ad aiutare amici in pericolo. Ora divide il letto con l'affascinante Lisa, scappata alle grinfie di Madame Zhu grazie all'intervento di Karla (per ora solo una misteriosa figura sullo sfondo di Bombay). Didier trascorre le sue giornate tra traffici illegali e camerieri scortesi. Tutto come un tempo, o quasi: la città sta cambiando e i suoi segreti stanno per essere resi di pubblico dominio, la pace crollerà.
Se "Shantaram" aveva rappresentato la fuga e la scoperta di una nuova città, di una nuova identità, "L'ombra della montagna" rappresenta la redenzione dal passato, la remissione di tutti i peccati che hanno macchiato l'anima del protagonista. Un libro che ha la rara capacità di tenere il lettore incollato alle pagine nonostante la mole tipica di storie epiche. E non si può certo dire che qui manchino i temi principali che hanno sempre caratterizzato le grandi saghe: una donna intelligente da rincorrere, un malvagio da sconfiggere per ottenere la pace, vite da sacrificare per raggiungere uno scopo più grande, amori perduti, battaglie da combattere, maestri da cui apprendere le risposte alle grandi domande dell'esistenza e amici con cui curarsi le ferite e brindare alla vittoria.
La trama è avvincente, la narrazione fluida e intrigante fa emergere le riflessioni che devono aver accompagnato per lungo tempo l'autore, i personaggi sono tratteggiati con passione e le ombre sono messe in luce con maestria.
"Shantaram" ha aperto le porte di Bombay e "L'ombra della montagna" le chiude lasciando intatto l'incantesimo dell'inizio.
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ROSA DELLE TEMPESTE
Corina Bomann continua a regalarci dei romanzi molto intensi, un’autrice che sa trasmettere delle emozioni e sa coinvolgere il lettore rendendolo partecipe della storia.
La protagonista del libro è Annabel, giovane mamma che si è separata da poco dal marito e che cresce da sola la figlia di cinque anni Leonie.
La donna sta attraversando un periodo molto doloroso causato dalla fine del suo matrimonio, per ricominciare a vivere decide di cambiare città e si trasferisce in una casa nell’isola di Rugen.
Ma Annabel non sta scappando solo dal suo recente passato ma anche da una ferita che non si è ancora rimarginata, infatti quando era piccola sua madre l’ha abbandonata per scappare nella Germania ovest.
Infatti in questo romanzo oltre a raccontare la vita della protagonista si ripercorrono alcuni fatti storici non troppo lontani da noi, parliamo della divisione della Germania in due parti est e ovest dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Ed è così che conosciamo meglio alcune nozioni di storia recente che magari avevamo dimenticato o non abbiamo avuto l’occasione di approfondire, migliaia di persone hanno cercato di fuggire dalla Repubblica Democratica Tedesca per riuscire a raggiungere l’ovest.
Anche la vera madre di Annabel è scappata all’ovest e l’ha abbandonata e questo episodio della sua vita l’ ha segnato molto e la tormenta ancora, infatti, la giovane donna sogna spesso quell’ultima notte insieme, e non riesce a capire cosa sia successo alla madre per aver fatto una scelta simile.
Dopo un periodo in istituto Annabel viene adattato dalla famiglia Hansen, i suoi nuovi genitori la crescono con tutto l’amore possibile ma alla donna manca sempre qualcosa che solo la sua vera madre può darle, un vuoto che non riesce a colmare.
Un giorno la protagonista vede al porto una vecchia barca la “Rosa delle Tempeste”e se ne innamora tanto da volerla comprare, purtroppo però non dispone di tutti i soldi necessari per l’acquisto.
Ma la soluzione al suo problema si chiama Christian Merten anche lui è interessato alla vecchia imbarcazione ma per motivi leggermente diversi rispetto a quelli di Annabel.
Il ragazzo le propone di diventare soci in affari e di comprare insieme la “Rosa delle Tempeste”.
Anche Christian ha un passato doloroso che è legato alla storia della barca, infatti, questa che non era solo un peschereccio ma è stata anche un mezzo per trasportare i cittadini che volevano scappare dalla Germania est all’ovest.
In più Annabel ritrova nella barca una lettera di una donna Lea che dice addio al suo adorato Bob, anche lei stava tentando di passare il confine.
Chi è questa donna? E come mai la madre ha abbandonato Annabel?
E Christian sarà per Annabel solamente un socio o qualcosa di più?
Annabel tenterà di riportare alla luce la storia della barca ma questo riaprirà le vecchie ferite del passato sia della protagonista che di Christian.
Corina ci conduce in una storia davvero molto credibile e ricca di suspence ma anche intrisa di una parte forse poco ricordata del nostro recente passato.
Una pagina della storia forse non approfondita, ma la creazione del muro di Berlino è stato un evento che ha cambiato la vita di molte persone, lo costruirono nel 1961 fu voluto dal governo della Germania est e divise il paese per ben 28 anni e impedì alle persone di andare liberamente da una parte all’altra della Germania.
Infatti dalla divisione del paese tedesco in quattro zone avvenuta nel 1949, moltissime persone emigrarono dall’est all’ovest, il muro fu realizzato proprio per impedire l’esodo.
Nella repubblica Democratica Tedesca la televisione e la radio erano controllate dalla stato, ma in alcune zone si potevano vedere quelle dell’ovest, naturalmente tutto quello che non veniva ritenuto idoneo veniva censurato ecco perché moltissime band o cantanti famosi dell’epoca e conosciuti in tutto il mondo erano proibiti all’est.
Annabel e Christian sono figli di questo tempo ecco perché il nostro libro si intreccia ed è legato a doppio filo con questa parte della storia, ma anche Lea e la sua lettera sono un esempio di questo drammatico periodo.
Questo romanzo però affronta anche un altro punto importante, il passato non può essere dimenticato fa parte di noi, del nostro vissuto e in qualche modo ha contribuito a formare la nostra personalità.
“Evidentemente non ero riuscita a lasciarmi tutto alle spalle, trasferendomi in quel luogo. Ma è mai possibile cancellare il proprio passato?” (citazione)
Cambiare paese, iniziare una nuova vita cercare di dimenticare un periodo doloroso e difficile che ancora ci fa soffrire, a volte non serve a niente forse bisogna affrontare le nostre paure e non nascondersi.
Annabel è un personaggio veramente ben delineato e che ho apprezzato molto sia per la sua voglia di realizzare i suoi sogni sia per il fatto che non si arrende davanti alle prime difficoltà ma che trova sempre un modo per andare avanti.
Ho adorato anche Leonie, sua figlia, una vera forza della natura, simpatica, spiritosa ma anche molto sensibile.
I luoghi che vengono descritti sono molto realistici e quasi quasi andrei volentieri a visitare l’isola di Rugen e il bellissimo porto di Sassnitz e magari salpare con la “Rosa delle tempeste” per poter rivivere le mille storie che lei ci può raccontare.
Corina ha creato una storia veramente emozionante che ci fa capire che si può superare le sofferenze del passato e continuare a vivere.
La lettura va via veloce anche perché il romanzo coinvolge il lettore, che si lascia trasportare dalla vita dei protagonisti.
L’unica pecca del libro è secondo me il titolo o meglio la traduzione, quello originale “Rosa delle tempeste” era sicuramente più incisivo quello scelto invece nella versione italiana è troppo lungo e devia un po’ il senso del libro, che invece merita molto.
Consiglio assolutamente la lettura di questo libro!
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Il ritorno dell'alligatore..
Un locale notturno caratterizzato dalla voce roca di una cantante Jazz e una misteriosa rapina avvenuta oltre due anni prima costituiscono la base di partenza di questo nuovo romanzo di Massimo Carlotto. Marco, infatti, se da un lato è affascinato da Cora e dalla sua vita, dall’altro è deciso a far luce su quelli che furono gli avvenimenti nella villetta della famiglia Oddo. La banda che vi aveva fatto irruzione non si era limitata a rubare il bottino che gli stessi abitanti e i collaboratori avevano provveduto a sottrarre ad un’altra gioielleria la notte antecedente, si erano anche vendicati sul marito e sulla governante che prestava servizio presso la maison. La donna, in particolare, aveva subito le conseguenze peggiori di quell’assalto e dopo stupri e violenze varie quel colpo di pistola, che le aveva fatto esalare l’ultimo respiro, era quasi sembrato una grazia del cielo. La cameriera, già provata da una vita di delusioni, lasciava così solo il figlio Sergio. Quest’ultimo era stato preso in custodia dallo zio che tra le lamentele della moglie e altri due pargoli a carico, aveva delle difficoltà a mantenere anche il nipote tanto da manifestare la volontà di chiuderlo in un istituto.
E chi poteva pensare al giovane orfano se non L’alligatore e i suoi soci, Beniamino Rossini e Max la Memoria? Con un ingaggio di appena 20 centesimi ha inizio l’indagine di questi investigatori senza licenza e con la propria legge della strada e della galera, una ricerca che porterà alla risoluzione di un caso che tutto è tranne che scontato.
Suddiviso in tre parti, “Per tutto l’oro del mondo. Un nuovo caso per l’alligatore” è un giallo che scivola bene, caratterizzato da un linguaggio rapido e fluente, che ben incuriosisce il lettore spingendolo ad andare avanti nel racconto. L’intreccio narrativo è ben costruito, non lascia nulla al caso, nemmeno il finale.
Un elaborato semplice, senza pretese, che si esaurisce in poco più di una giornata ma con cui trascorrere ore liete.
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FINE!!! SI SPERA...
Eccoci arrivati all'ultimo libro di questa trilogia firmata Glenn Cooper; pensavo che solo il suo nome in copertina fosse una garanzia, ma.... mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo!
Emily e John sono tornati da poco sulla terra dopo la loro secondo volta all'Inferno, speravano fosse finita ma niente da fare, attivare e disattivare il MAAC ha causato delle falle nel sistema, dei buchi, dei passaggi tra il nostro mondo e l'altro: una massa devastante di curiosi dannati sta infatti invadendo la città inglese ed è ora di correre ai ripari se si vuole evitare una sorta di the walking death.
E così siamo punto e a capo, ci si prepara per ripartire con tanto di forze armate speciali per l'occasione, inglesi pronti a tutto pur di difendere il proprio paese, nuove leve e vecchie conoscenze; basteranno?
Obiettivo? Trovare Paul Loomis, l'unico che pare essere a conoscenza della soluzione a questo problema...tra mille peripezie, viaggi, morti (prime e seconde), creazioni di armi per difesa personale e non, attraversamento dei soliti corsi d'acqua, ecc ecc... la nostra chiave di soluzione viene finalmente ritrovata, nelle linee nemiche e amiche si contano i caduti e si ritorna così, volendo o nolendo, verso il mondo dei viventi...
ma.... ma che fine tirata via è questa????? Forse non c'erano più pagine per scrivere, forse si doveva concludere qui, entro tot pagine, ma una fine più banale e assurda non me l'aspettavo proprio!!
Era partito meglio degli altri questo libro, la speranza era sul filo del rasoio, ma dopo 400 pagine di visto e rivisto e quasi niente, mi aspettavo di più, molto di più... ahimè mestamente metto in libreria questo libro di uno scrittore che tanto amavo leggere: Cooper stavolta mi hai proprio deluso!
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Haller: presente e passato.
Michael Haller, noto avvocato penalista statunitense, è alle prese con l’ennesimo caso malvisto dalla società quando riceve da Lorna, ex moglie nonché attuale segretaria riconiugata con l’investigatore privato del legale Cisco Wojciechowski, un messaggio col codice 187, sigla notoriamente utilizzata in California per indicare il sopraggiungere di un incarico per omicidio.
Andre La Cosse, l’accusato, ha infatti esplicitamente richiesto la nomina di Haller quale proprio avvocato di fiducia, il problema è il perché. Il legale non ha memoria dell’uomo, talché le domande sorgono spontanee e solo dopo un primo colloquio con il detenuto tutto inizierà a farsi più chiaro e al contempo più confuso.
All’imputato è stato segnalato il suo nome da niente di meno che Giselle Dallinger, la vittima stessa dell’omicidio nonché ex cliente, con l’identità di Gloria Dayton, del penalista. Quest’ultimo scopre inoltre che la femme, con la quale aveva avuto un legame particolare e che aveva creduto essere uscita dal giro della prostituzione e della droga, in realtà era tornata ad esercitare la vecchia professione nonché a riabbracciare quelle abitudini poco salutari dalle quali teoricamente doveva essere stata riabilitata.
Haller non perde tempo ed in un susseguirsi di battute e sequenze rapide si rende conto di quanto l’arresto di La Cosse e la morte di Gloria siano inevitabilmente legati ai fatti conclusasi ben 7 anni prima con la condanna all’ergastolo di Hector Arrande Moya e il suo cartello della droga. Ma chi si cela in realtà dietro la morte di Gizelle e Moya? Chi è il burattinaio delle marionette? Che i buoni, questa volta, siano i cattivi e non viceversa?
Con grande maestria Michael Connelly sviluppa l’intreccio narrativo che, tra sequenze rapide e dialoghi centellinati e mai superflui, risulta privo di lacune e/o sbavature. Stilisticamente il linguaggio è fluente, il lettore si fa trascinare dal narrato, ne è attratto, nutrendo il desiderio di sapere chi e che cosa si cela dietro la morte della donna.
Il romanzo è interamente incentrato dietro il cd “giallo giudiziario” pertanto, chi è solito leggere testi del genere e/o ha già in passato avuto modo di conoscere di opere dello stesso autore e/o di altri quali Grisham, sa cosa aspettarsi; lo stile e la trama non si distinguono per originalità, ma rispetto a precedenti episodi aventi quali protagonista Mickey in quest’ultimo elaborato Connelly riesce a rendere il mistero più intrigante, non sussiste quella sensazione di deja-vu o di lentezza che potevano riscontrarsi nelle antecedenti prestazioni. Rispetto ad “Avvocato di difesa”, primo romanzo ad avere quale protagonista il suddetto penalista, lo scritto è più fluido, scorrevole, privo di quegli elementi che tendevano a rendere farraginosa la lettura. Lo stesso Haller, che a tratti poteva (e può) suscitare antipatie e dubbi in chi legge, si è evoluto come personaggio.
Un breve estratto:
«Tuo padre chiamava la giuria “il dio della colpa”. Ti ricordi?»
«Si, perché erano i giurati a decidere se uno era colpevole o innocente. Ma adesso cosa c’entra?»
« Il fatto è che c’è un sacco di gente che passa il tempo a giudicare ogni nostro gesto. Ce ne sono un sacco di dei della colpa in giro. Vedi di non aggiungerti anche tu».
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La Storia continua
Nel 2010 Pennacchi vinse il Premio Strega con il suo “Canale Mussolini” ed ora pubblica un sequel di quel romanzo.
Una vena mista tra scetticismo e curiosità spinge necessariamente alla lettura il pubblico precedente, vuoi per comprendere il taglio dato al nuovo lavoro vuoi per poter affermare che non tutti i sequel sono deludenti per antonomasia.
L’epopea della famiglia Peruzzi tra Veneto e Agro Pontino è stata il fulcro della narrazione pregressa con la sua genealogia pazzesca tanto da far invidia alla miglior mitologia greca; ebbene il prosieguo del racconto parte sempre da quei volti pittoreschi, che l’autore colloca in una zona intermedia tra leggenda e storia, immergendoli in una serie di colori che sfumano nell’indefinito.
La narrazione parte con un ritmo e con uno stile linguistico del tutto similare al precedente romanzo, costringendo a recuperare nella memoria nomi e personaggi, ma all’improvviso e senza nessun tipo di cesura il racconto diventa saggio, mutando completamente pelle.
Ora, per chi ama la Storia raccontata in qualsiasi tipo di versione, da quella più romanzata a quella documentale, la piacevolezza dello scritto è discreta; per coloro che preferiscono i contorni morbidi di un romanzo storico alla spigolosità del resoconto saggistico, la lettura potrebbe assumere connotati aspri.
Questa analisi è doverosa per comprendere la fattura del romanzo, cui l’autore ha volontariamente conferito una veste ibrida, quasi camaleontica, riuscendo a passare da un genere all’altro nello spazio di una pagina.
Sulle parti prettamente documentali che analizzano il periodo dalla caduta del fascismo al primissimo Dopoguerra, Pennacchi alterna notizie ufficiali tramandate dalla Storia a notizie più blande, quasi colte dalla “vox populi” del tempo o desunte da corrispondenze non ufficiali, ricamando su determinati episodi una coltre di indeterminatezza oppure gettando ipotesi per nuove interpretazioni storiche.
Per chi è avvezzo a leggere pagine di storia, può essere l’occasione per ripercorrere gli anni della caduta di Mussolini fino alla fine della guerra, tra immagini note e meno note e tra notizie a metà strada tra ufficialità e cronaca. Interessanti le ricostruzioni di alcuni passaggi politici e nitidi i volti degli uomini che hanno contribuito a scrivere le pagine di storia dell’epoca, da De Gasperi a Togliatti, a tanti altri.
Nel complesso appare un lavoro che non riesce a portare quel quid aggiunto al resoconto di una delle epoche di cui si è detto e scritto di più in assoluto, di cui la saggistica di destra di sinistra e di centro ha oramai esaurito gli argomenti. Si avverte una vaga sensazione di voler continuare a calpestare un sentiero vecchio e conosciuto su cui oramai non sopravvive più uno stelo d’erba.
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Il bene non esiste. Solo il male minore.
Questa "corposa" ultima fatica di Don Winslow mi ha piacevolmente sorpreso, se non addirittura stupito. C'è da dire che le premesse per attendersi un ottimo libro c'erano tutte, partendo dall'acclamatissimo prequel "Il potere del cane", passando dal fatto che è già in programma un film ispirato al romanzo, e finendo con i commenti entusiasti di grandi maestri come Ellroy e Connelly, e di grandi testate giornalistiche come il New York Times.
Insomma, quando un libro ha successo, qualche volta c'è dietro un motivo reale, un motivo che ho scoperto pagina dopo pagina.
Certo, le pagine non sono poche (quasi 900), ma la lettura è resa fluida dallo stile ottimo e magnetico di Winslow, che nonostante narri una miriade di vicende e introduca tantissimi personaggi (caratterizzati alla perfezione, alcuni dei quali memorabili), mantiene sempre vivo l'interesse.
La storia è coinvolgente e ben scritta, permeata da una buona suspance e ricca di informazioni accurate, che mettono in luce un evidente e approfondito studio da parte dell'autore. Il fatto che questa storia sia ispirata a fatti realmente accaduti, mette davvero i brividi.
Nonostante "Il cartello" sia il diretto sequel del precedente libro di Winslow "Il potere del cane", ci tengo a dirvi che può essere letto anche senza aver nemmeno aperto il prequel, anche se la voglia di leggerlo sarà tanta, quindi tanto vale cominciare da quello, no?
L'ex Re messicano della droga, Adàn Barrera, sta vivendo uno dei momenti più bui della sua vita. Sbattuto in galera dal suo acerrimo nemico, l'agente della DEA Art Keller, ha visto il suo potere dissolversi e la sua organizzazione scindersi nel caos.
Ma non del tutto.
Adàn si prepara con pazienza a riprendere il suo trono, e stavolta non ci sara Keller che tenga.
E' da qui che ha inizio una sanguinosa guerra tra le varie fazioni che si dividono il potere nel traffico di droga in Messico, in cui i veri cattivi sono difficili da individuare e i buoni non esistono. Winslow ci catapulta in un mondo dove il bene assoluto non esiste; dove con certe cose "sbagliate" non si può fare altro che imparare a conviverci; dove il male non lo si può estirpare. Si può solo accettare il male minore.
Il Messico diventa scenario di sangue e dolore, non adatto ai deboli di stomaco, dove il numero di vittime innocenti non si può contare.
"Il cartello" è crudo, intenso, spietato.
La violenza dilaga al punto che anche il lettore vorrebbe che finisse, come se la vivesse, trascinato nel terrore dilagante disegnato dalla penna di Winslow, che vuole rendere il tutto spaventosamente reale. La possibilità che questa possa essere la realtà in cui viviamo fa davvero paura.
Un "piccolo" capolavoro per stomaci forti e palati sopraffini dei thriller/noir contemporanei.
Per concludere, vi rendo partecipi di una domanda che mi è sorta durante la lettura, che soltanto chi conosce quel capolavoro assoluto di serie TV che è "Breaking Bad" potrà capire: se i cartelli della droga in New Mexico hanno solo un pizzico della crudeltà spietata di quelli messicani presentatici ne "Il cartello", come diavolo ha fatto Walter White a non finire morto ammazzato dopo la prima settimana? Heisenberg doveva essere proprio cazzuto, e la meth che cucinava roba da nouvelle cousine.
Da leggere.
"La sua solitudine è come un dolore lieve, una vecchia ferita che non noti più perché ormai è parte di te."
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Chi ha visto e amato Breaking Bad.
Racconti gialli
Dalla mente creativa di Georges Simenon prende vita un ispettore di polizia apprezzabile, mite, geniale, sensibile, ed un altro personaggio altrettanto importante, un affezionato amico, voce narrante.
Abbondano le descrizioni dei luoghi e delle persone, misfatto e contesto sociale si prendono a braccetto (“Cercherò di essere il più breve possibile, perché anche i dettagli hanno la loro importanza”).
La caratteristica specifica di questo autore è solitamente l’importanza che dona al lato umano della vicenda ed anche qui, insieme al giallo da risolvere, troviamo la disperazione della condizione umana che spinge ad un determinato atto, l’ispettore stesso è in balia dei sentimenti e delle emozioni.
I protagonisti possono essere tranquillamente collegati a Sherlock Holmes e all’amico fidato Watson, tranne per la diversità di carattere, l’uno umile e l’altro superbo (“A quanto pare, c’è gente così acuta da saper discernere con precisione il motivo per cui fa una cosa o un’altra. Io invece non so mai dire con esattezza quale è l’esatto sentimento a cui obbedisco … o meglio, ce ne sono sempre parecchi così intrecciati che alla fine non mi raccapezzo più”).
Lo stile è curato, bada all’estetica e ci tiene a deliziare il lettore, è un piacere sfogliare le pagine. Opera diversa rispetto ad altre produzioni dello stesso autore, meno analisi psicologica.
I racconti di per sé non sono eccelsi, brevi ma completi, prevale l’ammirazione per la penna. Il voto è più sulla fiducia e la stima.
La copertina è azzeccata, in tinta con il contenuto.
Concludendo, non resta che invitarvi a sedervi comodamente in poltrona, ore piacevoli e rilassanti vi attendono.
“Nessuna deduzione né niente di simile … ho viste delle persone … le ho annusate … mi sono ricordato di un altro caso e soprattutto mi sono ricordato la storia di quasi tutti i criminali … mestiere tutto qui!”
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1901: complotto anarchico da operetta
Marco Malvaldi ha momentaneamente abbandonato l'allegra combriccola del Bar Lume, per dedicarsi ad una altra scenografia. Ha scelto come ambientazione storica la città di Pisa nel 1901. Un contesto storico particolarmente rilevante.
La narrazione unisce elementi inventati a fatti e personaggi storici. La rappresentazione della "Tosca" a Pisa, con la rumorosa assenza del maestro Giacomo Puccini, fa molto parlare di sé finché non accade dell'altro: l'omicidio commesso sul palco del teatro, mentre ad assistervi vi è, niente di meno che, sua Maestà, il re Vittorio Emanuele III di Savoia. Questi ingredienti, uniti al solito umorismo, all'arguzia dell'intreccio e all'accuratezza con cui Malvaldi ricostruisce il momento storico (1901) e l'ambientazione pisana, decretano questo nuovo successo letterario.
È un ottimo lavoro con un tocco di teatralità esplicita, ossia la suddivisione in tre atti.
La vicenda narrata, in primo piano, è quella di una sgangherata, quanto improbabile, compagnia teatrale che mette in scena una delle opere liriche italiane più celebri, la "La Tosca" di Giacomo Puccini. Nell'atmosfera storica regna ancora l'inquietudine anarchica a seguito dell'attentato di Gaetano Bresci che, come tutti sappiamo, ha ucciso il re d'Italia, Umberto I. Molto probabilmente il destino misterioso dell'anarchico italiano, vittima forse della tecnica punitiva del santantonio, ha aggiunto un giallo storico al giallo teatrale. Mentre lo spettro di un nuovo attentato anarchico si propaga ovunque, anche nel teatro, c'è un bel daffare tra la grande emozione per l'ospite illustre e la paura di un nuovo insuccesso, con conseguente fermento e mobilitazione da parte delle forze dell'ordine e della stampa ufficiale.
Essendo un giallo, com'è prevedibile, anche al culmine della rappresentazione teatrale, ci scappa il morto, tra una cerchia colorita e variegata di attori, più o meno improbabili.
BUCHI NELLA SABBIA è un ottimo giallo che si legge scorrevolmente e divertendosi.
La descrizione dei personaggi è così credibile che più volte viene da chiedersi se Malvaldi non stia raccontando, trasformando in letteratura d'intrattenimento, un fatto realmente accaduto. Malvaldi è tanto bravo che mi sono posta il dubbio ed ho rispolverato i miei vecchi e polverosi volumi di storia senza trovare riscontro. A fine romanzo, però, la finzione emerge con chiarezza, ma questo non cancella la sensazione che alla base della narrazione ci sia stato un accurato lavoro di documentazione. Anche la descrizione del mondo della lirica ai primi del Novecento è particolarmente meticolosa, avvalorata e comprovata, con citazioni e notizie disseminate lungo il racconto.
È un libro spassosissimo, grazie all'ottima tecnica narrativa dove le scene si susseguono veloci come in una commedia brillante dai toni farseschi. Si ha la costante sensazione di essere seduti in poltrona a teatro ad assistere all'opera lirica, grazie allo stile intelligente e brioso, ma sapientemente magistrale, da narratore onnisciente di Malvaldi, che ha la capacità di rendere visivamente quello che racconta, confrontando la realtà storica con quella contemporanea.
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Vita nel kibbutz
E' trascorso quasi mezzo secolo dalla pubblicazione di questo interessante romanzo. Ora è giunta la sua prima traduzione italiana (di E. Loewenthal).
L'allora ventisettenne Amos Oz diede alle stampe questo libro scritto 'a caldo', quando anche molti giovani del mondo occidentale sentivano il fascino della vita quasi comunitaria del kibbutz.
Quello rappresentato dall'autore è posto in zona di confine, a qualche chilometro dai territori arabi. Formato da un piccolo villaggio e terreni circostanti, resi fertili da moderni sistemi tecnologici, è animato da uno spirito tipicamente ebraico-socialista, con una modalità di organizzazione particolare: ad ogni famiglia è assegnata un'abitazione, ma tutto viene deciso collettivamente. I pasti vengono consumati nel refettorio comune; i giovani vengono ospitati a parte; perfino i neonati hanno la loro specifica dimora.
L'Io narrante è un personaggio del posto ed esprime un punto di vista interno. Protagonisti sono i componenti di tre famiglie, o ciò che rimane di esse; gli assenti rientrano nella narrazione attraverso il ricordo: c'è chi è morto in uno scontro armato, chi schiantato dal lavoro, chi è fuggita per fulminea passione, presenza che ancora s'intravede ad agire dietro le quinte.
Il racconto presenta però una coralità che ricorda, con le dovute e ovvie differenze, il verghiano "I Malavoglia".
"Il pettegolezzo (...) ha qui un ruolo di primo piano e a suo modo contribuisce all'impresa di riformare il mondo" : "qui tutti sono giudici e tutti sono giudicati". "Qui vivono persone ansiose di migliorare il mondo, che lottano contro le debolezze umane", e le debolezze umane esistono come altrove. In questi casi, niente accuse pubbliche: "Bisogna chiacchierare con i singoli. Bisogna scegliere degli interlocutori con molta cura". Si coglie infatti un'atmosfera di grande rispetto reciproco, un atteggiamento di autentica solidarietà e senso di eguaglianza, anche se c'è chi afferma che "in kibbutz tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri".
Il romanzo ha una grande capacità di rispecchiamento/rappresentazione di una realtà sociale, che è stata (è?) storicamente rilevante per lo Stato d'Israele, proprio attraverso le vicissitudini dei personaggi, gioie e sofferenze, secondo gli auspici della critica letteraria d'impronta sociologica, diffusa in Italia tramite la pubblicazione dell'opera di G. Lukacs.
L'approfondimento psicologico è quasi altrettanto curato, capace di esplorare con delicatezza le sfaccettature relazionali di carattere privato, le antiche ferite e l'irrompere di sentimenti nuovi.
Come succede nella narrativa d'Autore, molte zone d'ombra rimangono tali, e qualche caso di inquietante ambiguità mette in allarme un po' tutti, personaggi e lettore. Le sfumature rendono più complessa l'opera, perché nella realtà notiamo caratteri esteriori, comportamenti, fatti. Ma neppure questi elementi ci danno per intero la verità.
Rimanere "cuccioli" dentro aiuta
Siamo stati tutti i “cuccioli” di qualcuno: amati, coccolati, di certo non gettati come immondizia accanto a un cassonetto. Eppure è questo il destino che tocca a un cucciolo indifeso, una neonata, abbandonata come se fosse spazzatura. E’ proprio l’abbandono di questo cucciolo il punto di partenza del nuovo romanzo di Maurizio De Giovanni.
“Cuccioli per i Bastardi di Pizzofalcone” è il quarto libro della serie che ha come protagonista la squadra poliziesca guidata dal commissario Palma.
Due sono le indagini che vengono condotte dalla squadra: quella ufficiale, per capire chi ha abbandonato la bambina, e una parallela, condotta in segreto, per capire chi è la causa della scomparsa dei tanti cuccioli randagi che popolano le vie partenopee.
Tuttavia, le indagini sono quasi lo sfondo, lo scenario, su cui prende vita la vera storia del romanzo: l’autore, con grande sensibilità, approfondisce i sentimenti, i pensieri, dei suoi protagonisti.
Il giallo in sé non tiene con il fiato sospeso il lettore ma non si può interrompere la lettura perché si vogliono seguire le tormentate storie dei Bastardi.
I sette protagonisti sono costretti ad affrontare dolori e problemi sia durante il lavoro (nel tentativo di essere accettati dagli abitanti del quartiere e di dare nuovamente lustro a un commissariato caduto in disgrazia) sia nella vita privata, da chi non riesce a dimenticare la moglie a chi non riesce a confessare il proprio amore.
Non vorrei sbilanciarmi troppo ma il romanzo, più che un giallo, è una vera indagine psicologica.
De Giovanni, con sensibilità, studia e sviluppa i caratteri dei propri personaggi: non solo dei Bastardi ma di tutti quelli che compaiono in scena, dal delinquente al bambino.
Con sensibilità mostra come il mondo non sia “o bianco o nero”: i buoni possono nascondere e trattenere impulsi di cattiveria, possono peccare di arroganza, mentre i cattivi sono anche capaci di esprimere dolcezza.
“Cuccioli per i Bastardi di Pizzofalcone” è un romanzo corale: il quartiere è quasi un mondo a sé dove tutti sono a conoscenza di quello che succede agli altri, anche prima della stessa polizia.
Napoli, con le sue vie, le sue piazze, i suoi quartieri, è protagonista indiscussa: De Giovanni la descrive con tenerezza, rivelando tutto il suo amore per la città.
Infatti Napoli non solo è protagonista nei libri della serie dei Bastardi ma è anche protagonista di un’altra serie di De Giovanni, quella del commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta.
Nonostante non abbia letto i primi romanzi della serie non ho avuto alcun problema nella lettura del romanzo. Molte pagine sono quasi usate come un riassunto delle storie dei protagonisti, delle vicende che molto probabilmente sono state presentate nei precedenti romanzi.
Forse l’autore ha cercato di dare non solo ai suoi fedeli lettori ma anche ai “neofiti” la possibilità di apprezzare appieno le indagini dei Bastardi.
Per quanto mi riguarda, è riuscito nella sua impresa.
Ho divorato il libro, leggerò i primi romanzi della serie e non mi perderò le prossime indagini dei Bastardi.
Sicuramente è una serie che gli amanti del giallo italiano non possono non leggere, anche solo per lo stile dell’autore, stile che ho amato dalle prime pagine.
Quindi, che dire se non “Buona lettura”? :)
“Pizzofalcone, poi, era tutto una storia, anzi mille storie. La tradizione voleva addirittura che l’intera città venisse da lì, che fosse un luogo fondativo. Una collinetta che era il tumulo di una sirena e che a cerchi concentrici si era espansa verso il vulcano e le alture vicine come una macchia d’olio.
Il quartiere replicava in piccolo tutte le anime della metropoli: il ventre molle e verminoso del dedalo inestricabile dei vicoli, con le sue attività oscure e illecite; il senso antico della famiglia, l’acre sapore della rivalità; la via commerciale dei negozi, sempre meno, e della borghesia impiegatizia messa in ginocchio dalla crisi; la bella piazza finanziaria, dove il denaro regnava incontrastato e i traffici loschi e i delitti venivano perfezionati con una firma in calce a un contratto; il ricco e trionfale lungomare, abitato da un’esangue aristocrazia con tripli cognomi che, al riparo delle finestre chiuse, consumava i propri giorni osservando annoiata lo scorrere di una vita fasulla.
Sì, Pizzofalcone era la metafora perfetta della città, pensava Pisanelli. E lui e i suoi colleghi stavano a valle di questi fiumi di sentimenti e di dolori per raccoglierne i frutti marci”.
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Tuttavia, anche chi non l'avesse lette, può avvicinarsi al romanzo senza alcun problema.
La famiglia Palermo
New York, inizi del 1900. Tony ha un sogno: fare il cinema perché il cinema trasforma i desideri in realtà e lui “ci tiene proprio” a fare felici le persone estraniandole dalla cruda quotidianità.
Luigi Palermo, di anni 39 all’inizio del romanzo, coniugato con la coetanea Carmela Infantino, quando ha lasciato la Sicilia sperava semplicemente di poter donare alla sua famiglia una vita migliore. E quale altro modo se non tentare la sorte in quel Nuovo Mondo così sinonimo di libertà e di possibilità infinite?
Francesco (detto Frank), Salvatore (Sal), Nina (Ninetta), e Antonio (Tony) sono i quattro figli della coppia e giorno dopo giorno affrontano la loro giovinezza istruiti e condotti da quei valori di onestà e lealtà trasmessi dai genitori.
Frank ama studiare e vuole diventare avvocato, crede nella legge e nella giustizia, il suo obiettivo è quello di essere un americano vero, rispettato ed ammirato dagli altri così da poter riscattare anche i suoi compaesani italiani considerati alla stregua di mafiosi criminali.
Sal è il suo esatto contrario. Egli crede nei valori del padre, lo vede lavorare giorno dopo giorno come un mulo senza mai arrancare, implorare, abbassare il capo o scendere a compromessi, eppure vuole di più; brama il riscatto, il potere, il denaro. Vuole raggiungere una posizione di privilegio in quegli ambienti malavitosi che dovrebbe evitare ma da cui non riesce proprio a stare alla larga. Ninetta, la sartina, tra i fratelli è quella che più lo apprezza e stima perché anch’essa, come le giovani della sua età, agogna una posizione di pregio o comunque semplicemente di potersi levare qualche sfizio senza patire la fame.
Tony ama scrivere ed è la voce narrante di questo ben costruito romanzo. Egli elaborerà la storia più bella in assoluto, quella della sua famiglia e sarà un gran successo. Senza se e senza ma riuscirà a farsi notare da Warner e a mettere in scena il suo progetto.
La storia si snoda proprio mediante la voce del più piccolo dei fratelli, nonché dell’unico nato in America. In un intreccio che ripercorre lo sviluppo e la crescita dei personaggi, che all’inizio del racconto non sono altro che bambini e giovani genitori, alternandosi al set dove gli stessi avvenimenti vengono riproposti al grande pubblico, si sviluppa la storia proposta da Valsecchi composta da una serie di vicende dove si alternano soprattutto due protagonisti: Frank e Sal, il figlio desiderato da tutte le madri contro la pecora nera della casata. Valori contrapposti e molteplici vengono inoltre presentati in questo scritto, dove tutto viene rimesso in gioco ed al lettore non resta altro che interrogarsi su questi emigranti che vogliono semplicemente darsi un’altra possibilità.
Stilisticamente l’opera è fluente e caratterizzata da un linguaggio forbito avvalorato da espressioni tipiche siciliane che la rendono concreta e tangibile per chi legge. Non solo, contenutivamente il testo non lascia insoddisfatti essendo costituito da una concatenazione di eventi solida e realistica.
Uno di quei romanzi da gustarsi un poco alla volta, con ambientazioni e personaggi che è impossibile non amare.
Buona lettura!
"Non è che ti perdi?"
Il bambino scosse la testa: "Mai mi perdo".
"E tutta sta sicurezza in capo chi te la mise?" scherzò sua madre. Frank stava meglio e si poteva permettere un momento di sollievo.
"La carta scritta" rispose Tony, "la carta scritta non sbaglia mai".
cit. pag. 68
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TERMINE DI CONFRONTO PER I SANI
“Le conseguenze dell’odio” è il 19° caso dell’aristocratico e compassionevole ispettore di New Scotland Yard, Thomas Linley, eroe dei romanzi di Elizabeth George, apprezzata autrice di romanzi gialli. Il corposo libro non rappresenta una sorpresa per chi ama la scrittrice: se ogni evento delittuoso è l’inevitabile conseguenza di un determinato contesto familiare è lì che l’attenzione del narratore deve concentrarsi, è lì che vengono gradualmente alla luce i sintomi della patologia psichica che latente per anni finirà per scaturire nell’atto violento. Ne “Le conseguenze dell’odio” la ricerca della verità sull’assassinio di una nota scrittrice femminista Clare Abbot viene condotta dall’ispettore Linley e dalla sua squadra, il rude sergente Barbara Havers e il salutista Winston Nakata nel puro rispetto delle convenzioni del genere, fra i patemi interiori dei poliziotti relativi alla loro vita privata e gli indizi che ingarbugliandosi rendono ardua la sfida. Qui però conclusa l’indagine il vero inquietante mistero, ovvero la malattia psichica, sfugge alla spiegazione logica: la personalità ingombrante di Coraline, l’assistente della donna assassinata, occupa il centro della scena come possibile assassina o come potenziale vittima. La George le affida sicuramente il ruolo di prima donna, motore degli eventi, le sue azioni hanno conseguenze irrimediabilmente tragiche, è madre snaturata, moglie inqualificabile, suocera crudelmente intrigante, ricattatrice, tuttavia un epiteto atto a qualificarla moralmente non ha molto senso. Caso clinico o amore deviato che sia, meglio consentirle d’essere il termine di confronto salvifico per il mondo dei “sani”
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