Le recensioni della redazione QLibri
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Homo homini lupus
I sogni sono soltanto uno stadio passeggero, la vita vera e' altrove.
-E se io non stessi dormendo ?
I sogni sono solo il mezzo con cui l'inconscio tenta di ripulire l'anima. E' una distorsione, uno scherzo del sonno, non temerli.
-La porta esiste, la maniglia e' rovente. L'odore di carne bruciata e' tangibile. Il fumo e' concreto.
O no ?
Incubi. Durante l'incoscienza, mentre sei altrove, al di la' di ogni ragionevole dubbio o rassicurazione, essi sono la tua realta'. Svegliati, se ne sei capace, ma certi momenti durano per sempre.
Simon, dovevi andartene anche tu.
Come ogni Dorn scorre a velocita' vertiginosa, sebbene all'inizio appaia tutto molto semplice, elementare, privo di carattere. Eppure interrompere la lettura e' irritante, il boccone va rincorso fino a che i denti sprofondano nella polpa.
Così la disgrazia di un adolescente con lievi problemi di autismo diventa anche un tuo momento, il suo incontro con una ragazzina che gli esprime solidarieta' ti coinvolge in sfarfallii di tempi ormai lontani. Senza contare il potere di questo romanzo di rievocare sensazioni che ogni buon thrillerista ha gia' conosciuto e su cui e' ancora emozionante approdare. Lontano dall'emulazione verso altri scrittori, piuttosto quel meraviglioso senso di riappropriazione dell'uomo che ,perso l'udito da adulto, dopo anni riacquisisce suoni ormai sepolti. Cosi' , durante la lettura , mi sono ritrovata in corse deliranti scattando sulle staffe di oggi come sulle due ruote di Silver, che non pedalavo nel vento dai tempi di IT.
Ho camminato lentamente, contando i passi , i respiri e gli scricchiolii lungo il corridoio buio di un hotel decadente, con meno terrore ma sempre col fiato sospeso di quando ero rinchiusa all'Overlook hotel in SHINING. E l'aria gelida e solida mi ha inquietata , come ai tempi in cui il piccolo Cole era inghiottito dalle macabre visioni de IL SESTO SENSO.
L'ora del lupo arriva dopo l'ora dei fantasmi. I fantasmi ti spaventano, i lupi ti uccidono.
Francamente e di nuovo, fino alle ultime pagine, confesso non avevo capito nulla.
Bellissimo,buona lettura.
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Alea iacta est
Uno dei mezzi moderni più rapidi che ha a disposizione un aspirante scrittore per tentare di farsi conoscere è il cosiddetto self-publishing, una realtà in crescita costante che a fronte di milioni di volenterosi appassionati rimasti sconosciuti, ha permesso di emergere ad autori come Amanda Hocking e Hugh Howey. Anche “Il cappotto della macellaia”, romanzo a tinte noir scritto dall’argentina Lilia Carlota Lorenzo, ha raggiunto vette tali in termini di vendite derivanti dall’auto-pubblicazione da non poter non attirare l’attenzione delle case editrici.
Questo simpatico libro, ambientato nel 1943 in un minuscolo paese della pampa argentina, ha preso spunto da un fatto di sangue realmente accaduto e che l’autrice ha appreso dalla madre e dalla nonna, che erano solite frequentare la località.
Palo Santo. 207 abitanti. Tutti sanno tutto di tutti, in una sfilza infinita di pettegolezzi paesani.
Una realtà tanto piccola quanto autosufficiente. Una strada, un emporio, una parrucchiera, una merciaia affascinante e audace, un macellaio con a carico una figlia ingorda e una moglie superba, una sarta, uno sfaticato cacciatore, una scuola, un barbiere in pensione e una telefonista. Ognuno convinto che la vita avrebbe potuto servirgli un mazzo di carte migliori.
Ma questo “non impedisce agli abitanti di sentirsi come se vivessero nell’ombelico del mondo. Non se ne andrebbero mai”.
E certamente non se ne andrebbero proprio ora che sta per avvicinarsi la data di un matrimonio, uno dei pochi eventi capaci di spezzare la monotona routine di Palo Santo.
Il testo, da affrontare con leggerezza e divertimento, sorprende per la vivacità di uno stile ironico e grottesco, con una genuina dose di cattiveria e scurrilità necessarie a tratteggiare una schiera di comparse universalmente negative. Ed è curioso paragonare le dinamiche sociali tra i bizzarri personaggi, costretti dal destino e dalla geografia ad una convivenza forzata in un luogo ristretto, a tutte quelle situazioni che ci vedono protagonisti di piccoli microcosmi, siano essi una classe scolastica, una famiglia o un ambiente lavorativo, dove può capitare che incomprensioni, insoddisfazioni e gelosie abbiano talvolta la meglio sul quieto vivere.
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Presente e passato inquietanti...
A Vigata gli sbarchi si susseguono, in un inferno di dolore e morte che coinvolge l' intera comunità'. I migranti, soli, affamati, disperati, ricevono l' abbraccio di chi sa che questa tragedia nasconde dIsperazione, necessita', fuga da un destino crudele ed ineluttabile.
" Arrivano a centinaia, ogni notte, tutte le notti, con qualsiasi condizione di tempo. Uomini, donne, bambini, vecchi. Arrivano assiderati,affamati, assetati, impauriti, ed hanno bisogno di tutto."
Montalbano ed i suoi uomini sono impegnati nelle operazioni di vigilanza e soccorso, notti insonni e tetre si susseguono, con loro volontari, interpreti, personale sanitario, comuni cittadini.
Durante il giorno, tra le onde e le mareggiate del presente, scorre la routine di una vita scossa dagli accadimenti e che si aggrappa alle proprie certezze.
Quasi d' improvviso, un omicidio si compie, inaspettato ed agghiacciante, avvolto da una aura di mistero, doppio filo, storia nella storia.
Viene ritrovato, straziato, il cadavere di una sarta, la bella Elena, e mille interrogativi si pongono.
Lei, vedova, così' bene inserita nella comunità', tanto discreta, cordiale, altruista, quanto riservata, tormentata, silente.
Che cosa si nasconde dietro questo barbaro assassinio, chi è' realmente questa donna, quale il suo passato, ed il presente, e le sue misteriose relazioni sentimentali, chi può' averla odiata a tal punto da trucidarne il corpo in tal modo? E che ruolo rivestono in questa storia i suoi dipendenti, e la giovane Meriam, ed il bianco gatto Rinaldo?
Al commissario Salvo Montalbano ed ai suoi collaboratori la ricostruzione di un puzzle che nasce quasi dal nulla, collegamenti mancati, vuoti preoccupanti, assenze protratte, in una corsa che prevede indagine umana e psicologica, ricostruzione storica e nessi apparentemente illogici.
La risoluzione del caso, come sempre, sta nei dettagli invisibili ed in una visione parallela degli eventi.
La lettura di Camilleri, in particolare della sua creazione primaria, il tanto apprezzato, idolo incontrastato assurto a fama e gloria, Salvo Montalbano, inevitabilmente fa i conti con un passato glorioso, intoccabile, unico.
Allora, la memoria corre ai primi episodi, tra invenzioni narrative, indagine psicologica, quello scavare a fondo nel reale e nell' immaginario, quell' indagine relazionale ed intreccio di storie, mistero profondo, il sapere stupire lasciando al lettore piacere e sgomento, gioia e dolore.
E che dire di quei personaggi, dai tratti perfettamente riconoscibili, forgiati con perfetta alchimia, l' ingenuo e buon Catarella, lo sciupa femmine Mimi' Augello, lo zelante Fazio, il coriaceo e spinoso medico legale Pasquano? E quelle figure femminili eteree e bellissime, ninfe e muse ispiratrici, si pensi a Lidia, così' leggiadra, soave, paziente?
E poi, come direbbe Montalbano, " Ci sono pillicule americane che si trascinano in scene che non hanno nulla da dire... Mentre a Vigata c' e' un mondo ancora da scoprire."
Le storie ed i personaggi sono diventati nostri, li abbiamo introiettati, digeriti, sono parte di noi e di un racconto imperituro. Ci hanno accompagnato, toccato profondamente ed in qualche modo cambiato, e qui sta la grandezza dell' autore.
Tornando al presente, certamente l'ultimo Montalbano è' un nuovo Camilleri, condizionato dall' inesorabile scorrere del tempo, da un calo di verve letteraria, senza la forza e la profondita' psico-emozionale del passato. Il commissario appare piuttosto appesantito, ingrigito, stanco.
È' una storia che si trascina con lentezza, sciapa, senza la scorrevolezza e la piacevolezza creata dall' invenzione narrativa, dal tocco unico dell' autore, ha dei vuoti, un procedere a sbalzi ed un finale sorprendente per velocità' e spiazzante perché' lontano da noi, poco coinvolgente, quasi freddo, come se ci fossimo allontanati, persi, senza riuscire a ritrovare la via del ritorno.
Poi, alla fine del racconto, una nota di Camilleri, crudamente realistica e velata di malinconia, ci chiarisce quello che mistero non è' ( il proprio attuale stato di salute e la necessità' di una collaborazione nella stesura dei testi ) e, personalmente, mi suggerisce una riflessione e mi trascina in un coinvolgimento prevalentemente emozionale.
Certo, il Montalbano pregresso era diverso, e allora? In tutti questi anni, l' autore ha tracciato una via con la propria creativita', intelligenza, i suoi personaggi, le ambientazioni, la dolcezza del racconto, quell' amore per la cultura, i buoni libri, la cucina siciliana, vizi e virtù' di uomini unici che ormai fanno parte di me e li' resteranno per sempre.
Ed allora, poiché' non si vive di soli ricordi, riesco a godermi anche questo nuovo Camilleri, riconoscendone ed accettandone la diversità', e la difficoltà' del presente, e, come Salvo e Lidia partecipero' con gioia a quel "rinnovo matrimoniale " che dopo 25 anni sancira' nuovamente un atto d' amore eterno.
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L'uomo nudo
Che Simenon sia uno dei più grandi scrittori del novecento è cosa risaputa, ma scoprirlo in grado di creare personaggi credibili e interessanti senza soluzione di continuo è qualcosa che non è così scontato.
Questa raccolta di gialli, tre per la precisione, non ha come protagonista Maigret, anche se la sua figura come un fantasma benevolo aleggia nell'aria; ma l' Agenzia 0 : investigazioni provate al cui comando è un ex collabaratore del commissario, che ad un certo punto della carriera decide di mettersi in proprio.
Così, almeno vuol farci credere la quarta di copertina, dovrebbe svolgersi l'azione, casi risolti da occhi privati e non dalla polizia di Stato; la realtà, come è facile aspettarsi, è molto più variegata di quello che viene mostrato e fin dal primo racconto si capisce che il suddetto ex poliziotto Torrence non è davvero il capo, ma ne recita solo il ruolo...perché? Chi è in realtà colui che manovra l'agenzia?
Emile è un ragazzo smilzo, rosso di capelli, timido e impacciato, che ama stare defilato e nascosto, ma è proprio egli il cuore pulsante e il cervello pensante dell'agenzia; spacciandosi per fotografo è sempre con Torrence sui luoghi del delitto, come un bravo impiegato sempre alla scrivania dell'ufficio adiacente, dotato di spioncino, a vigilare sull'operato di Torrence.
Come succede anche nei gialli in cui Maigret è il protagonista anche in questo caso non sono le vicende a farla da padrona, per quanto interessanti e ben raccontate, ma gli stati d'animo e la personalità dei vari personaggi, che sono così ben caratterizzati da rimanere nel'immaginario, è così per la bella ragazza del primo racconto, sarà così per l'avvocato-clochard.
Il tutto tratteggiato con il solito lessico a cui Simenon ci ha abituato essenziale, ma elegante condito con una vena umoristica molto marcata.
Questi primi tre racconti editi da Adelphi sono imperdibili, sia per chi ama il Simenon- Maigret che non Maigret, rappresentando un buon compromesso tra i due mondi dell'autore belga.
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Rispecchiarsi in un libro
Quale interazione esiste tra un libro ed il suo lettore?
Può un lettore rispecchiarsi in ciò che legge o addirittura trovare una sorta di consolazione e insegnamento?
A questi ardui quesiti prova a rendere risposta Fabio Stassi con il suo ultimo lavoro letterario.
Un romanzo emblematico, dalla struttura accattivante, ricco di spunti di riflessione e anche se non può dirsi esaustivo in rapporto alla carne messa al fuoco, tuttavia una lettura piacevole che tenta un connubio tra il piano dell'intrattenimento e quello psicologico più profondo che cerca di andare oltre alla superficie e alle apparenze della realtà quotidiana.
Fabio Stassi ha una penna che associa alla nitidezza e chiarezza espositiva una vena narrativa calda che scorre nel profondo e mostra un interesse particolare per il lato intimo dei suoi protagonisti.
Questo è un romanzo animato da una nutrita galleria di figure femminili, diverse per stile di vita, per aspettative ed esperienze, ma tutte con un fardello da scaricare, tutte desiderose di depurarsi da una vita troppo stretta o vuota.
Allora l'autore calato nei panni inediti di un biblioterapeuta tenta di conciliare le sofferenze delle sue pazienti-clienti con l'utilizzo di un testo letterario, antidoto universale per viaggiare all'interno della vastità del pensiero e dell'animo umano.
Un testo consapevolmente bizzarro e provocatorio, che tocca con levità temi scottanti come la morte psicologica di una persona, il disperato tentativo di rinascita, la ricerca di se stessi.
Eppure l'umor nero non prende mai sopravvento, ma si cerca fino alla fine la redenzione, si vuole cogliere lo spunto positivo da ciò che il destino propone.
Ancora una volta Stassi va promosso, perchè la narrazione è scandita da un ritmo deciso e rapido, i contenuti sono buoni, lo stile è elegante.
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Too easy.
Ivan Sciarrino viene ingaggiato – e non a prezzi modici – da facoltosi personaggi allo scopo di…
Far innamorare le donne.
Che siano le mogli di rivali in affari (per rovinarli) o le proprie (per liberarsene) non ha importanza.
Lui prima di accettare il caso ascolta le storie di queste donne, ne guarda le fotografie e poi, in genere, decide per il sì. Fa innamorare le donne di sé, rovina/salva i loro mariti e intasca la sua parcella. Ma Ivan non è un gigolò, perché il modo in cui riesce a far innamorare queste donne è… innamorarsi a sua volta di loro. Le osserva, le comprende, trova in loro una qualche “luce” che lo fa palpitare e le ama. E le donne di fronte ad un uomo che tanto “scientemente” le comprende e si dona a loro, non possono fare a meno di ricambiarlo.
Quindi, alla fine di ogni “lavoro”, il nostro si trova più ricco, ma sempre più solo e triste.
La trama sembra curiosa e la scrittura scorre via abbastanza fluida, ma la storia non mi ha convinto.
Troviamo Ivan in un letto d’ospedale, gravemente ferito da un’esplosione che scopriamo essere stata un attentato alla sua vita. Successivamente tentano di avvelenarlo; intanto ripercorriamo con due carabinieri, che son poco più di due macchiette, l’ultimo “lavoro” del nostro, riguardante la bellissima Soraya e il suo losco marito.
Altre due donne ruotano intorno a Ivan, la sorella Immacolata e l’amica libraia lesbica Nadia.
La prima scrive struggenti e-mail al fratello; ha il solo scopo di colmare alcune lacune della sua biografia e intrigarci con le vicende del protagonista. Non sempre con successo.
La seconda parla come uno scaricatore di porto, ma si capisce subito che sotto sotto ha un cuore d’oro ed è l’unico affetto saldo nel mondo del tormentato (?) Ivan.
La storia procede con piccoli flash-back e i siparietti dei militari.
Il punto dolente, secondo me, sono i personaggi che non riescono ad essere caratterizzati in modo tale da diventare non dico reali, ma quanto meno credibili. Al di là di Nadia e Immacolata, che probabilmente hanno una mera funzione narrativa, anche Ivan e Soraya appaiono molto “piatti”.
Lui è una specie di Sherlock Holmes della chimica amorosa che da come una ciocca di capelli sfiora un tatuaggio deduce vita, morte e miracoli della donna che sta osservando (in fotografia), lei è bellissima e tormentata perché… perché sì, sembra.
Per Ivan qualche volta si riesce a provare un po’ di simpatia (“In terza superiore Ivan cominciò ad andare così male a scuola che lo elessero rappresentante di istituto.”) specie nella parte in cui viene rievocato l’amico Mariano. Ma anche lui… pur accettando il gioco dell’autore, le buone idee non vengono sviluppate: ci sono situazioni in cui Ivan non accetta un caso? (sembra di sì), quali sono? Perché? Che pensa questo personaggio? Che fa a parte non rispondere alle mail della sorella, farsi prendere a male parole da Nadia, soffrire di bulimia e conquistare il cuore della bellissima&tormentatissima Soraya (che – a ben guardare – non sembra poi questa inespugnabile torre d’avorio)? Come passa da un caso all’altro, da un amore all’altro?
Accenni, mezze parole, qualche perché sì. Peccato perché un’idea di fondo che poteva essere carina, viene risolta con un debole elogio alla complessità delle donne (che sono tutte complesse & bellissime, ognuna a suo modo) e una timida sferzata agli uomini che non sanno comprenderle, amarle valorizzarle.
Too easy.
Ufff.
Non è per tutti
“ Questo non è un libro.
Oppure lo è a morsi. A strappi.
A sequenze di lacerazioni"
La nota conclusiva di questa pubblicazione intitolata “Anteprima mondiale” con doveroso sottotitolo “Il seguito di Woobinda, il romanzo di culto che ha segnato una generazione” esprime l’essenza dello scritto. Aldo Nove ritorna dopo un esordio fortunato, dopo vent’anni per dire sostanzialmente che nulla è cambiato o meglio tutto è mutato in un progressivo peggioramento. I nostri tempi vengono amplificati nelle loro brutture in uno scritto che si fregia dell’imprimatur della neonata La nave di Teseo.
L’italiano dell’era postberlusconiana pare essere la vittima designata di questa scrittura fuor di misura: può essere il dipendente da videogiochi, l’internauta convinto che la realtà sia quella fittizia dei social, l’ossessionato (telefoni, sesso, pornografia), il fobico ( evito l’elenco: tutto fa paura). Ci sono Battiato, Crozza, il punto di non ritorno della nostra Europa, l’indolenza di chi subisce e non agisce neanche per capire. Ci sono i laureati sfruttati, c’è la casta universitaria,ci sono lo sporco del sesso mercificato, degli appuntamenti al buio. C’è l’euro, ci sono i Mondiali. E ci sono gli Etruschi:” i capi dei Mondiali”. C’è il voyeurismo globale, ci sono i Teletubbies e la polemica omofoba: PO, DIPSY, LAA-LAA e il presunto gay TINKY WINKY.
Vi state chiedendo di che sto parlando? Allora ho reso l’idea, in parte, del contenuto del libro. Aggiungo solamente nell’ordine una nota sullo stile e una considerazione d’ordine personale. Il libro si nutre di racconti e scritti di Niccolò Ammaniti, Nanni Balestrini, Giuseppe Culicchia, Gilda Policastro, Raul Montanari, Carmen Pellegrino. Lo si scopre sempre attraverso la nota finale ma si intuisce prima il diverso registro stilistico. I toni di Nove sono eccessivi, paradossali, volgari, studiati a d arte per scandalizzare, scuotere e irretire, giungendo a sfiorare il comico. A me personalmente non sono piaciuti anche se lo scritto ha avuto il pregio di farmi dubitare della realtà rappresentata: eccessiva, irriverente, scandalosa. Ho più volte avuto la tentazione di non credere a ciò che c’era scritto quando poi puntualmente l’informazione si è rivelata reale e incredibile e brutta. Alcune parti mi sono rimaste fumose e inaccessibili e mi sono sorpresa della mia straordinaria ignoranza del mondo e dispiaciuta di averne avuto indirettamente l’accesso attraverso questo scritto. Preferisco non conoscere certe realtà. A chi è più smaliziato, più curioso, più defraudato di un residuo senso del bello, potrei consigliare la lettura. Gli altri si astengano. Non è per tutti.
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Torna la ghostwriter
Dopo avere esordito lo scorso anno con “L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome”, Alice Basso torna in stampa con il nuovo capitolo di quella che oggi è già una saga e domani forse potrebbe divenire una fiction. E di sicuro successo. Non si può infatti negare che questo romanzo strizzi furbescamente l’occhio alle tendenze più commercialmente in voga in questo momento, mescolando generi e registri diversi: il giallo, il rosa, la commedia umoristica. Ma lo fa in modo convincente, dando vita a un testo che si distingue per originalità e piacevolezza.
Vani Sarca è una protagonista davvero unica, lontana anni luce dall’immagine della ragazza di successo, dalla bellezza ammaliante e il carattere solare, che tipicamente si incontra nel genere "chick lit". Un lavoro sottopagato come ghostwriter, scrittrice invisibile di elaborati destinati al successo altrui. Un look dark, i cui pezzi forte sono un logoro impermeabile nero e un inquietante rossetto viola, che contribuisce a cementare la barriera difensiva eretta verso il mondo. Se poi parliamo di carattere, l’ironia e il sarcasmo dissacrante sono il suo pane quotidiano.
Ma se c’è una cosa che Vani conosce sono i libri. E allora, se i libri hanno il potere magico di farti sentire meno solo, a maggior ragione lo ha il leggere di questa ragazza arroccata nella propria diversità, che da adolescente preferiva Dostoevskij a una corsa all’aria aperta e forse si è un po’ rifugiata nella carta per paura di essere ferita. E diventa davvero facile quindi immedesimarsi in questa scrittrice di non-successo, con la sua armatura di finta indifferenza e di ironico cinismo. Perché un po’ tutti ce l’abbiamo un’armatura, un’immagine, dietro cui nasconderci. Menomale che almeno ci sono ancora i libri per sognare un po’.
Ed ecco quindi che anche Vani Sarca diventa protagonista di avventure che ci permettono di far volare la fantasia e che si snodano su un duplice binario. Da un lato il giallo: nel raccogliere le memorie della cuoca di una delle più prestigiose famiglie torinesi, salita alla ribalta della cronaca nera diversi anni or sono per l’omicidio di uno dei suoi rampolli, Vani verrà a conoscenza di una nuova, possibile verità e sarà chiamata, con l’aiuto del solito commissario Berganza, a indagare e mettere alla prova il suo straordinario intuito empatico. Dall’altro il rosa, tutto giocato sull’intramontabile contrapposizione tra il fascino sfavillante, ma poco affidabile, dello scrittore di successo e la sobria intelligenza del commissario di polizia, con la sua burbera solidità.
Ancor più che nel romanzo d’esordio, la trama investigativa è probabilmente l’elemento più debole del romanzo, che privilegia la sotto-trama romantica e lo sviluppo personale della protagonista, dando più spazio a flashback del passato e approfondendo le interazioni con vecchi e nuovi personaggi a contorno. Il romanzo, pur senza pretese, è sicuramente ben scritto, caratterizzato da uno stile fresco e coinvolgente in cui si nota una certa cura nelle scelte lessicali e una piacevole ricchezza di citazioni letterarie.
Lo consiglio, da utilizzare come antidoto per una giornata malinconica e solitaria. Un difetto? Immagino servirà un altro anno per scoprire il seguito.
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Il bacio d'alluminio
Ed eccoci qua, a recensire il nuovo romanzo di Jeffery Deaver che ha per protagonista il suo personaggio di punta, il criminologo tetraplegico Lincoln Rhyme, famoso per la sua avventura col collezionista di ossa.
Lo stile di Deaver è il solito: tiene il lettore sempre sul pezzo, lo incita a continuare la lettura, lo stupisce.
Ci riesce anche questa volta, anche se non con la potenza del passato; non riesce più a lasciarci di stucco, ad appassionarci irrefrenabilmente.
Non fraintendetemi, "Il bacio da acciaio" è un buon romanzo, ma è anche ben lontano dall'essere un capolavoro. Inizia a materializzarsi la paura che un capolavoro degno del "Il collezionista di ossa" non possa essere più partorito.
La storia è carina, ma non entusiasmante; i colpi di scena ci sono, ma non lasciano a bocca aperta (anzi, alcuni sanno tanto di una scopiazzatura di Deaver a sé stesso); i personaggi mai portati al limite, forse per non urtare i lettori più sensibili, ma questo può rivelarsi un'arma a doppio taglio.
In poche parole, serve un capitolo forte per portare aria fresca alla saga di Rhyme (visto che è chiaro che andrà avanti), ma di questo passo rischia di stufare anche chi, come me, lo adora. Anche se da questo siamo ancora lontani.
Rhyme si è ritirato dalle scene per fare l'insegnante: i sensi di colpa per un errore di valutazione che ha portato alla morte di un suo sospettato erano troppo per lui, e ha deciso di abbandonare. Amelia Sachs, sua partner nel lavoro e nella vita e completamente contraria a questa assurda scelta, si ritrova ad affrontare un pericoloso criminale soprannominato "Sosco 40". Ma stavolta non avrà il prezioso aiuto di Linc. L'assassino, uccide le sue vittime manomettendo via wireless tutti quegli oggetti "superflui" di cui l'uomo contemporaneo non può più fare a meno, e inizia la sua scia di morte aprendo il vano di una scala mobile e facendo precipitare un uomo negli ingranaggi, lasciandolo morire stritolato. Si firma "Il guardiano del Popolo", e sarà il nemico pubblico numero uno.
Sachs però, non sarà sola per molto; Rhyme si troverà costretto ad aiutarla, perchè la moglie dell'uomo precipitato negli ingranaggi è coinvolta in una causa civile in cui lui prende parte. Aiutato dalla sua nuova tirocinante, Juliette Archer, tetraplegica come lui, partirà per la consueta corsa contro il tempo, tipica delle sue indagini, ma decisamente più stanca rispetto al passato. Anche "L'ombra del collezionista" scorreva più veloce e la corsa verso l'assassino era asfissiante. In nostri protagonisti erano sempre a un passo dall'acciuffarlo e questo teneva il lettore sempre incollato alle pagine. Certo, "Sosco 40" è risultato meno schematico dei nemici affrontati in passato, ma non vorrei che questa stanchezza palpabile tra le pagine sia un riflesso di quella del forse troppo prolifico autore. Non fosse stato per i colpi di scena nell'ultimo quarto di storia, il voto sarebbe stato anche più basso.
Speriamo in una ripresa.
"Quando la gente si abitua alle comodità, poi è difficile togliergliele. Spegnere le luci a distanza se le hai lasciate accese quando sei partito per le vacanze? Tenere d'occhio la babysitter in tempo reale? Dieci anni fa, quando non c'era la alternativa, non si pensava certo all'eventualità di non poterlo fare. Ma adesso? Tutti quelli che hanno un prodotto intelligente si aspettano che non smetta mai di funzionare. Altrimenti, si rivolgeranno altrove."
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Lina e Squirri
Paola Mastrocola è un’autrice che scrive romanzi, poesie, graphic novel, pamphlet e favole.
La sua ultima opera è appunto una favola intitolata “L’anno che non caddero le foglie”. L’autrice con semplicità e chiarezza va ad affrontare il tema dell’amore sotto molte sfaccettature. Le protagoniste sono Lina, una fogliolina che dopo essersi innamorata, si ribella alla Legge e Squirri, una scoiattolina innamorata, ma così timida che non è neanche capace di uscire di casa.
Le storie di queste due insolite protagoniste s’incontrano, anzi si scontrano, quando gli interessi di una vanno a danneggiare quelli dell’altra. Chi riuscirà a spuntarla delle due?
La Mastrocola ci porta in un mondo senza tempo, dove la natura e gli umani ci mostrano molto di loro, a volte anche il peggio. I suoi personaggi sono presentati con schiettezza e semplicità, riuscendo a farci percepire le loro emozioni e le loro contraddizioni, il loro coraggio e la forza dell’amore che fa rischiare e ci fa mettere in gioco.
Alla fine della lettura quello che mi è rimasto è la consapevolezza che questa è una favola per tutte le età, capace di mostrare le debolezze umane e la grandezza della natura. L’unica nota un po’ stonata è forse il troppo cinismo che in alcuni parti diventa quasi tangibile, forse la scrittrice voleva mandare un messaggio, soprattutto agli adulti, che credo sia arrivato.
Non posso fare a meno di consigliarla e soprattutto di indicarla per i più piccoli e perché no, condividerla insieme, anche perché sono molti gli insegnamenti che l’autrice lascia in queste centocinquanta pagine “condite” poi dai suoi bellissimi disegni, anche perché una favola senza disegni, non è una favola che si rispetti.
Buona lettura!
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Judith.
Judith Rashleigh ama l’arte e trova rifugio in essa sin dalla tenera età. Ha un passato difficile alle spalle, un passato caratterizzato da una madre alcolizzata e dall’essere stata vittima (e artefice per ribellarsi alla soggiogazione altrui) di atti di bullismo. La rabbia è dunque la sua unica amica, la sola forza capace di farla andare avanti a qualsiasi costo. Lavorava alla casa d’aste già da tre anni quando tutto ha avuto inizio. Sino a quel momento la ragazza aveva sempre intrapreso la strada della rettitudine e dell’intelligenza, la via dell’umiltà e dell’impegno senza però ottenere grandi risultati da quell’universo maschilista che si limitava a trattarla come poco più di una segretaria. Quando dunque incontra Leanne che le propone e promette qualche soldo facile, decide di non tirarsi indietro, se non altro per arrotondare un po’.
Da quel momento la sua routine cambia, ogni giovedì e venerdì sera terminato il lavoro ufficiale è impossibile non recarsi in quel locale dove uomini di ogni tipo sono disposti a lasciare laute mance e a spendere fior fiori di sterline semplicemente per passare qualche ora in compagnia di una bella donna capace di farli sentire desiderati, importanti. Alcun favore sessuale è richiesto a queste, la loro presenza è più che sufficiente a raggiungere lo scopo reciproco di quegli incontri. Ma a Lauren, nome d’arte della protagonista, pian piano questo non basta più, soprattutto dopo che il direttore della casa d’Aste, che nel mentre ha messo in campo una vendita della cui legittimità la Rashleigh sospetta, decide di licenziarla.
E’ arrabbiata Judith, non può tollerare un simile affronto. Non può più soprassedere al come è stata trattata e denigrata, a come le sue competenze sono state ignorate, lei che nella vita ha sgobbato per ottenere qualsiasi cosa desiderasse. L’unica cosa in cui si è sempre lasciata andare e a cui non si è mai tirata indietro è il sesso. Anche quello estremo, anche quello con perfetti sconosciuti in opinabili feste. E quando si rende conto che con la sua bellezza, il suo acume e raffinatezza nei modi nonché con la frivolezza e falsa disinvoltura acquisita nelle serate al locale, può ottenere quello che vuole, come non approfittarne? E’ ambiziosa Lauren, nulla può e deve fermarla. Alcunché deve permettersi di arrestare la sua scalata sociale. E se questo significa dover “scopare” nei modi più disparati, partecipare a festini a base di droga, soldi, sigarette e alcool, spupazzare qualche miliardario, e perché no, lasciarsi dietro anche qualche morto per la strada, ben venga, ella si farà trovare pronta e disponibile.
Che dire, questo è sicuramente quello che può definirsi un romanzo “irato”. Ogni pagina è dura, cruda, diretta. L’autrice nulla risparmia al lettore che si trova davanti una protagonista forte, egoista, che sa quello che vuole e che è disposta a tutto per raggiungere i suoi traguardi. Questa sua inflessibilità, determinazione, se così vogliamo chiamarla, è talmente eccessiva e risoluta che chi legge nutre verso la stessa un senso di disgusto, di distacco ed inevitabilmente si chiede quale sia il vero prezzo che alla fine dei giochi essa dovrà pagare. Mentalmente tenta di giustificarla per gli atti che compie perché consapevole del bagaglio di vita che si porta dietro così come di quel sentimento di furia che l’anima, ma di fatto quei gesti che determinano le sue azioni gli lo impediscono.
Per la parte sessuale potrebbe persino paragonarsi alle “50 sfumature” , in realtà va ben oltre queste. L’atto fisico è meramente uno strumento necessario per il conseguimento di uno scopo. Non vi sono sentimenti ad animarlo, non interessa col chi viene compiuto ne il come. E’ mera utilità. In più la protagonista non è la classica innocente donzella che non sa cosa vuole dalla vita: Judith lo sa anche troppo bene. Stilisticamente infine è qualitativamente migliore rispetto all’opera citata, ma sinceramente se non sposate gli ideali descritti e non siete amanti del sesso estremo è difficile, per non dire impossibile, che questo romanzo vi piaccia. Lo consiglio esclusivamente agli amanti del genere.
Indicazioni utili
- sì
- no
no = a chi ha valori diversi da quelli presentati
Vivere.
Diciotto mesi. Diciotto interminabili mesi sono trascorsi dalla morte di Will, eppure a Louisa sembra ieri. Sente ancora il suo profumo, rivive gli ultimi attimi con l’uomo che ha cambiato la sua realtà, i piccoli gesti e le consuetudini che scandivano le loro giornate insieme; non riesce ad andare avanti. Come può anche solo provarvi dopo quello che hanno condiviso? Eppure la vita non si ferma. Il tempo scorre con la sua inesorabile e lancinante imperturbabilità.
Ha viaggiato Lou, ha girato l’Europa ed ha cercato di seguire i consigli che le erano stati rivolti, tuttavia, un qualcosa l’ha indotta a tornare a casa prima del tempo, e la sua vita ora è in stand-by: lavora nel bar irlandese di un aeroporto, indossa un’orrenda divisa con tanto di parrucca, abita in un appartamento che non sente suo. Un incidente, la caduta dalla terrazza del quinto piano. Un viaggio in ambulanza, la paura di non poter più camminare, la riabilitazione. Passano altri due mesi prima che la protagonista possa rimettersi in piedi e iniziare a frequentare un gruppo di sostegno per l’elaborazione del lutto. Ed è in questa fase di incapacità a reagire che due avvenimenti sconvolgono la sua quotidianità obbligandola a fare qualcosa: l’incontro con Lily e quello con Sam.
Certo, Lou mai si sarebbe aspettata di trovarsi a far da madre/sorella maggiore alla figlia che Will non sapeva nemmeno di avere, ma cosa fare se un’adolescente di sedici anni in lite con la famiglia ti bussa alla porta con una silenziosa richiesta di aiuto? Perché dietro a quel bisogno di conoscere del vero padre, di sapere qualcosa di lui, vi è il desiderio puro e semplice di essere amata da qualcuno, di trovare un nucleo dove non si è visti solo e soltanto come un ostacolo al raggiungimento della stabilità e ricchezza di una madre egoista che non vede al di là del suo io, vi è il muto grido di una persona che ha commesso un errore e non sa come venirne fuori. Ma non sarà solo Lily a trarre beneficio dalla presenza di una ventottenne un po’ incasinata, sarà quest’ultima stessa a giovarne rivestendo un ruolo che mai fino ad allora aveva ricoperto se non per osmosi dalla sorella Treena e al tempo stesso riuscendo, grazie al consolidarsi di quel legame, ad affrontare il fantasma di Will. La curiosità della figlia associato alla sua semplice presenza porteranno la protagonista a far fronte al dolore, alla mancanza di quella figura che in pochi mesi l’ha resa una donna diversa.
Sam, paramedico che l’ha soccorsa il giorno del “volo”, avrà invece il ruolo di sbloccarla da quel timore di perdere le persone amate. Per Louisa è infatti impossibile pensare di potersi legare a qualcun altro perché la sola idea di poterlo veder svanire è un qualcosa che non riesce a sostenere. Non solo, egli riuscirà a farle capire che può essere un punto fermo per qualcuno, che può essere la sua ragione per restare, che può essere abbastanza, che il solo fatto di non esservi riuscita in passato non significa che non può esserlo nel presente e nel futuro.
Tante le tematiche trattate in questo romanzo, la Moyes passa dai rapporti e le problematiche relative alla famiglia, all’elaborazione del lutto, all’inevitabilità del dover andare avanti anche quando vorremmo che tutto si fermasse, si congelasse allo ieri, e nel farlo da un lato riprende le fila di quel che è stato (ed è) “Io prima di te” e dall’altro introduce una nuova serie di personaggi che hanno lo scopo di segnare quanto il cambiamento e il proseguire della vita sia pura e semplice conseguenza di quel che è e significa vivere.
Che dire, se decidete di leggere questo romanzo non dovete farlo partendo dal presupposto di trovarvi di fronte ad un “Io prima di te” due. Le emozioni che il primo capitolo della saga ha suscitato sono infatti irripetibili soprattutto in considerazione dell’oggetto narrato e dei protagonisti che lo caratterizzavano. “Dopo di te” è un’opera che ha tante peculiarità, a tratti può piacere di più e a tratti di meno, ma per essere apprezzata deve essere valutata nella sua unicità. I personaggi che vi troverete davanti sono cresciuti, la stessa Louisa che abbiamo amato per la sua spigliatezza, genuinità, ingenuità, dolcezza, in parte non esiste più per il semplice fatto che è maturata e che si porta dietro una cicatrice che l’ha segnata irrimediabilmente. I signori Traynor (così come la famiglia Clark) sono cambiati, sono andati avanti, hanno intrapreso un percorso in cui non hanno dimenticato il passato, semplicemente se ne sono fatti una ragione perché con la perdita impari a convivere, a gestirla. E per quanto Lou si opponga, resista, non voglia lasciarlo andare, è inevitabile anche per lei dover fare i conti con il fluire del tempo. Due anni sono ormai trascorsi e seppur sia consapevole che mai lo dimenticherà, ogni giorno che passa è sempre più distante e diverso da quello che era ieri. “Dopo di te” è dunque un inno alla vita, un inno a non sprecare il tempo che ci è concesso su questa terra, un inno a cogliere le occasioni senza farsi bloccare dalla paura, perché una cosa sola è certa nella nostra esistenza: non ci sono certezze, tutto è destinato a mutare, evolvere.
In “Dopo di te” ritroverete inoltre la penna unica di un’autrice che sa catturare il lettore, uno stile che già conoscete e che tornerà, nonostante un iniziale senso di smarrimento determinato dalle numerose novità, ad accarezzarvi l’anima. Un po’ forzato il finale più che altro perché in poche pagine sterza bruscamente lasciando presagire l’uscita di un terzo e conclusivo volume.
«Non so nemmeno se ci si riesce. [..] Impari a convivere con il dolore, impari a convivere con loro. Perché si, rimangono nel nostro cuore, anche se non respirano e non vivono più accanto a noi. Non è lo stesso dolore devastante che si prova all’inizio, il dolore che ti travolge e ti fa venire voglia di piangere nei posti sbagliati e di prendertela con tutti gli idioti che sono ancora vivi mentre la persona che amavi è morta. E’ qualcosa che impari a gestire» p. 132
«Nessuno era veramente libero. Forse ogni libertà – fisica, personale – veniva conquistata soltanto a costo di qualcuno o di qualcos’altro » p. 294
«Devi vivere. E buttarti in ogni cosa cercando di non pensare alle ammaccature.» p. 331
«Capii quello che avevo realmente fatto. Capii che potevo essere il punto fermo di qualcuno, la sua ragione per restare. Capii che potevo essere abbastanza» p. 351
Questa è la storia di Lucy Barton
“Per favore, mamma. Raccontami qualcosa. Una storia qualunque”. A dire queste parole non è una bambina che chiede una favola della buonanotte ma una donna adulta, già moglie e madre. Nella solitudine e nel buio di una stanza d’ospedale, illuminata solo dai brillanti grattacieli di New York alla finestra, Lucy Barton riceve una visita inattesa, quella della madre con cui non parla da anni. Ma come si parla alla propria madre quando il silenzio ha ricoperto anni di sofferenza e miseria, quando la tua vita è piena di non detti, quando la persona che hai davanti è inscindibilmente legata alla fonte del tuo dolore e delle tue paure, ma non puoi fare a meno di amarla?
Le parole sembrano prendere il binario delle chiacchiere leggere, unica risposta possibile a un bisogno di contatto che va oltre gli sbagli del passato e rende addirittura possibile ridere insieme “Che brutta fine ha fatto Kathy Nicely. Ti ricordi la sfortunata cugina Harriet? Sta arrivando l’infermiera Maldidenti”. Gli aneddoti delle vite altrui diventano il filo che va a cucire i ricordi di Lucy e ricomporre la sua storia, la sua carriera di scrittrice, i suoi stessi errori. Perché in fondo tutti possiamo amare solo in modo imperfetto.
Leggendo questo romanzo si ha la sensazione che la sua dimensione sia l’assenza, il vuoto, le parole non dette. La trama si compone di poche cose, sfiora la vita di tanti personaggi, lascia emergere sfumature di emozioni e persino la stessa Lucy non si lascia conoscere se non per mezzo di fugaci ricordi e frammenti di esistenza. Non c’è bisogno di scandagliare il passato, basta un episodio, una frase, una sfumatura. La straordinaria capacità narrativa dell’autrice si dimostra proprio nel far percepire il tutto come una storia unitaria. Quella di Lucy, quella dell’intera umanità, di cui Elizabeth Strout sa raccontare la psiche, con grande sensibilità.
Il parlare degli altri perché il fondo del barile che siamo è proprio il bisogno di trovare qualcuno da snobbare, sulla cui inferiorità costruire un po’ di sicurezza. Il desiderio di interrogarsi su tutti perché quando vediamo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, non possiamo fare a mano di chiederci che cos’abbiano dentro. Il sentire la famiglia come le radici profonde, di gioie e dolori, che ci tengono avvinghiati al cuore, anche quando, per difenderci, le nascondiamo sotto uno spesso strato di finta indifferenza.
Le parole sono poche ma dense, cadono come gocce limpide, da assaporare una per una. Sfiorano emozioni ed esistenze, sanno essere taglienti tanto da ferire ma anche avvolgenti tanto da confortare. Parlano di niente ma alla fine sembrano dire tutto. Arrivata all’ultima pagina, mi sento investita da così tante sensazioni e tanti interrogativi che vorrei sinceramente avere a disposizione competenze maggiori e strumenti più potenti perché sento che questo romanzo avrebbe forse molto di più da dire di quanto una semplice lettrice come me possa percepire.
«Ciascuno di voi ha una sola storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola». E questa è la storia di Lucy Barton.
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Un fratello speciale
Giacomo Mazzariol ha diciannove anni e il 21 marzo del 2015 carica un corto su YouTube, un video che fino ad oggi ha avuto quasi 150.000 visualizzazioni. Quando pensiamo a internet, video e giovani, solitamente il mix ci fa pensare a niente di buono, invece questa volta il risultato è stato strepitoso.
Giacomo ha pubblicato un video intitolato “The Simple Interview” che dopo la lettura del libro ho visto e che mi è arrivato dritto al cuore. Il corto parla del suo fratellino Giovanni, un bambino speciale, con un cromosoma in più e di come le differenze e le distanze le creiamo noi con i nostri pregiudizi. Da qui l’idea di realizzarne un libro su “Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più”.
Giacomo si racconta dall’età di cinque anni fino ai giorni nostri; il tutto parte, quando i genitori gli annunciano, a lui e alle sue due sorelle, che presto avrebbero pareggiato i conti, 3 maschi a 3 femmine e che il fratellino in arrivo sarebbe stato speciale. Giacomo pensa subito a un supereroe.
Da qui parte il viaggio di Giacomo e la difficoltà, con il crescere, di farsi accettare con un fratello “speciale”. Il giovane scrittore affronta tutte quelle tappe che noi possiamo immaginare, che includono la paura di essere deriso, allontanato e che ti fa arrivare fino al punto, non di omettere ma di mentire. Racconta anche del suo difficile rapporto con un fratello con cui credeva di correre in bicicletta e che invece non potrà condividere con lui molte cose. Ma Giacomo cresce e Giovanni ha un ruolo in questo.
Mazzariol ci presenta la vera famiglia del “Mulino Bianco”, quella che non si ferma davanti alle difficoltà, che fa del sorriso la sua carta vincente e che nel diverso non vede differenze. Con il suo stile semplice e diretto, ci fa conoscere il suo mondo, che è anche quello di milioni di persone. Con delicatezza e genuinità ci racconta uno spaccato di se, non così facile da condividere con gli altri e per questo lo ringrazio di cuore.
Bravo Giacomo e soprattutto grande Giovanni, mi hai fatto sorridere con gli occhi e con il cuore.
“Giovanni che va a prendere il gelato.
-Cono o coppetta?
-Cono!
-Ma se il cono non lo mangi.
-E allora? Neanche la coppetta la mangio!”
Lo consiglio.
Buona lettura!
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Chi è perfetto.. scagli la prima pietra!
Catherine è una donna di successo; carriera promettente, una nuova casa, un marito premuroso, un figlio poco più che ventenne che sembra aver finalmente superato un momento di crisi adolescenziale tanto da esser riuscito anche a trovare un impiego fisso; certo non il lavoro che lei e suo marito Robert avrebbero desiderato per il proprio figlio, ma non importa.
Catherine ha tutte le carte in regola per essere una donna felice, soddisfatta della sua vita, una vita perfetta. O almeno così sembrerebbe, questo è quello che gli altri vedono, l'immagine della vita di Catherine riflessa negli occhi di chi crede di conoscerla.
Ma non è un'immagine reale, è come se ci fosse uno specchio tra Catherine e gli altri che produce un'immagine distorta, una perfezione apparente.
E quel libro misterioso che capita tra le sue mani, finito chissà come tra i pacchi ammucchiati in casa dopo il trasloco, è come un sasso che colpisce in pieno centro lo specchio magico di Catherine, creando un crepa che progressivamente si allarga sgretolandolo in frantumi e mostrando la vera immagine di Catherine, e della sua vita mascherata di perfezione.
Quel libro non può essere una semplice coincidenza, il titolo 'Un perfetto sconosciuto', la storia, la protagonista seppure con un altro nome, tutto lascia supporre che l'autore conosca il suo segreto, un segreto che sino ad allora lei credeva relegato nella sua memoria, mai condiviso con nessuno, nemmeno con Robert, suo marito, impeccabile ed amorevole compagno.
Chi può volerle così male mostrando il chiaro intento di ferirla ed umiliarla agli occhi di tutti, agli occhi di chi l'ha sempre considerata una donna perfetta.
Ma nessuno è perfetto, nessuno ha una coscienza perfettamente linda, nemmeno chi si arroga il diritto di accusare e giudicare.
Siamo lontani dalla perfezione ma certamente non annoia e non risulta sgradevole la lettura di questo romanzo di esordio di Renee Knight: autrice inglese, segue la scia già tracciata da diversi altri autori che recentemente tentano la fortuna intraprendendo la strada incerta e tortuosa del thriller psicologico; genere fin troppo abusato, in cui non è facile emergere sia perchè è alto il rischio di imbattersi in trame già tessute che inevitabilmente suscitano un senso di deja vu nel lettore sia perchè, quand'anche la storia spicchi per originalità, manca talvolta di spessore la caratterizzazione dei personaggi e la costruzione dei dialoghi, elementi fondamentali in un romanzo che fa dell'introspezione psicologica il suo punto di forza.
Ma se entrambi questi elementi vengono curati ed adeguatamente sviluppati nel romanzo, il successo editoriale è praticamente certo; e non solo editoriale direi, visto che romanzi di questo tipo diventano spesso soggetti ottimali per essere trasposti su celluloide.
A mio parere, quindi, La vita perfetta non è un inganno, e questo è già tanto: quante volte, infatti, ci imbattiamo in romanzi osannati come capolavori sulle fascette editoriali o in quarta di copertina da scrittori o giornalisti vip e che si rivelano poi per quello che sono realmente: spazzatura con velleità letteraria.
Ecco, non è il caso di questo libro e, tanto per riportarne una, la citazione del New York Journal of Books in quarta di copertina "Un libro che vi farà girare le pagine vorticosamente, lo divorete" questa volta è veritiera: questa volta non mi sono sentito in obbligo, come per altri romanzi che promettevano la stessa sensazione, di correggere il termine 'pagine' con un attributo anatomico maschile facilmente intuibile.
E ritengo sia stata molto brava l'autrice a districarsi su un terreno minato, perchè il tema dell'apparente perfezione, del male che si nasconde dietro una parvenza di perbenismo, è stato affrontato già da diversi autori; anche l'idea del 'libro nel libro', del romanzo maledetto, mi ha portato alla mente il recente romanzo di Dicker 'La verità sul caso Harry Quebert'.
Ma 'La vita perfetta' mi è parso molto più avvincente, con uno stile narrativo che non perde colpi sino all'epilogo finale e con una trama che coinvolge il lettore per la sua drammaticità e per l'intensa rappresentazione dei personaggi, con cui è facile entrare in empatia... perchè ognuno di noi, uno più uno meno, ha uno scheletro nell'armadio.
"Ci vuole coraggio, non vi pare? A calare la maschera e a vederci per ciò che siamo realmente."
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Niente di nuovo sotto il sole
Lande deserte attraversate da “migranti climatici” fanno da sfondo ad un viaggio della speranza che dall’Italia parte per il Nord Europa tramite il corridoio umanitario ancora tenuto aperto dalla Svizzera. Italia, Europa e il mondo intero affrontano l’ecatombe climatica. I mari si sono sollevati, i ghiacciai disciolti, le temperature si sono impennate; orografia e idrografia sono in via di nuova definizione. Spariti l’alveo del Po e dei grandi fiumi europei, Reno e Danubio, scomparse le precipitazioni, riscritti gli equilibri del potere. Le uniche terre abitabili sono quelle a ridosso del circolo polare artico. La tundra è ora l’unico ambiente propizio all’agricoltura, all’insediamento umano e alla sopravvivenza della specie.
Anno 2082.
Livio è anziano, investe anche lui i suoi ultimi soldi per tentare la grande traversata, con lui alcune migliaia di persone: nessuna garanzia di arrivare alla meta, ancor meno di sopravvivere. La realtà che sta vivendo la ha paventata fin da giovane, la sua consapevolezza ecologista non lo ha però sottratto al destino dell’umanità. La sua mente si è nutrita di scienza, di quella disciplina che dopo la grande rivoluzione del '600 sostiene che alcune proprietà che attribuiamo agli oggetti non appartengano loro ma siano creazioni del nostro cervello e che oggi si spinge a negare in quanto enti lo spazio, il tempo, la tridimensionalità.
C’è qualcosa là fuori ma è la realtà? O una creazione del nostro cervello?
Livio, professore di neuroscienze, potrebbe essere insomma l’alter ego dell’illustre storico e filosofo delle scienze Enrico Bellone il cui suo ultimo contributo scientifico prima della morte è stato proprio un saggio intitolato “Qualcosa , là fuori”, omaggio e tributo dell’ autore campano da sempre appassionato alla fisica e interessato alle neuroscienze.
Gradevole romanzo appartenente al genere della climate fiction, nutrito di consapevoli saccheggiamenti da opere di James G. Ballard, di Cormac McCarthhy, di Carlo Lucarelli, permette di riflettere sui cambiamenti climatici in atto partendo da una buona base scientifica. Insomma ciò che è descritto non è frutto di fantasia o di mera speculazione visionaria da essa nutrita, è la trasposizione realistica in chiave romanzata di scenari ipotizzati e ipotizzabili su base scientifica. Leggerlo potrebbe aiutare a tenere desto il grido d’allarme in tempi in cui anche l’importante conferenza sul clima di Parigi( dicembre 2015)non ha potuto far altro che siglare obiettivi molto importanti ma la cui verifica è stata posticipata tra il 2018 e il 2023.
Nel frattempo continueremo a inquinare per altri tre anni?
Buona lettura.
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Strena seu de nive sexangula
Amare può voler dire abbandono, può voler dire fuggire per paura, scegliere di soffrire nell’immediato con la speranza di non soffrire di più nel futuro. Eppure il prezzo di certe scelte si paga lungo il corso di tutta una vita e senza sconti. È quanto accade a David Winkler, studioso e meteorologo, dotato di una capacità di prevedere in sogno avvenimenti funesti o minacciosi.
Comincia così, con la separazione dalla moglie Sandy e dalla figlioletta Grace, che aveva visto in sogno morire per annegamento senza poter far nulla per salvarla, l’odissea di David, che lascia gli Stati Uniti per rifugiarsi in un’isoletta dei Caraibi e vivere in una dimensione diversa, a contatto con la natura, con la speranza di guarire da quella ferita profonda che si portava dietro nell’incertezza della sorte realmente toccata alle uniche persone che amava.
Al di là della trama certamente interessante, ciò che più colpisce in questo romanzo è, a mio avviso, il riferimento più o meno esplicito all’opera di un grande classico della letteratura anglosassone, T.S.Eliot. Non a caso qui, come nella Waste Land, il tema dell’acqua è dominante. Il meteorologo David concentra la sua attenzione su tutto ciò che riguarda i fenomeni atmosferici, in particolare si sofferma a descrivere il fiocco di neve, che a una lente di ingrandimento appare come una stella a sei punte. E qui si comprende la citazione in latino che ci riporta alla Congettura di Keplero. Il fiocco di neve al suo interno contiene numerosissime molecole d’acqua sempre in movimento, seppure invisibili all’occhio umano. “Hai presente un cristallo di neve, la classica stella a sei punte? Che sembra così rigida, immobile nel suo gelo? Ecco, in realtà, a un livello piccolissimo, meno di un paio di nanometro, via via che si congela, vibra da matti...i miliardi di molecole che la compongono si agitano anche se non si vede, praticamente divampano.” Acqua in movimento, dunque, acqua portatrice di vita e di rinascita come nel mese più crudele di Eliot, Aprile. Ma l’acqua proprio perché è indispensabile alla vita, proprio perché è l’elemento predominante nella composizione del corpo umano, come lo stesso David ricorda, nelle sue riflessioni, porta con sé l’inevitabilità della morte. Perché l’acqua può essere causa di distruzione e catastrofe. Ed ecco che il tema della morte per acqua, la morte che David teme per la figlia Grace prima e per la giovane Naaliyah, dopo, è lo stesso che troviamo in Eliot nei versi dedicati a Phlebas, il Fenicio: “ Una corrente sottomarina/ gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava/ passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza...”
Il personaggio David, afflitto da questo dono di prevedere in sogno il futuro, dono che vive come una vera e propria condanna, non è molto diverso dal personaggio della Sibilla o di Tiresia, nell’opera di Eliot. Anche i suoi occhi, seppure non completamente offuscati, come quelli del profeta greco, sono deboli al punto da non vedere distintamente la realtà che lo circonda. E al caos che regna nella sua vita, David cercherà di porre ordine e rimedio, vivendo a stretto contatto con la natura, novello beau sauvage. Solo il suo estremo tentativo di ricostruire una sorta di nucleo familiare gli permetterà di restituire alla sua vita un significato. “Una famiglia è una storia: verità, tribolazioni, castighi. Una famiglia è tempo....non è tanto ciò che ricevi, ma ciò che riesci a tenere.”
Anche la struttura del romanzo ha un suo perché che si ricollega al fiocco di neve: come il fiocco di neve ha sei punte, così il romanzo è diviso in sei parti, ciascuna con una sua dinamica, un suo significato. L’ultima parte, come è giusto che sia, si interroga sulla morte, raggiunge una sofferta pacificazione dell’anima, chiude il cerchio del racconto e il ciclo della vita.
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Dello zucchero, per favore....
Maria Marra è' la protagonista indiscussa del romanzo, che potremmo definire una storia nella storia o semplicemente una vicenda parallela che percorre mezzo secolo di storia d' Italia ( dalla fine del '800 alla metà' del ' 900 ) seguendo, passo dopo passo, la vita travagliata della sua eroina e le vicende storico-politiche e socio-economiche di un paese in divenire, unito solo nominalmente, ma con retaggi feudali, nobiliari, discriminazioni, povertà', travolto dalle due guerre mondiali, dal fascismo, dalle leggi razziali, da un neo- colonialismo fallimentare, da miseria, emigrazione, analfabetismo, illegalità', profonde divergenze nord- sud.
La traccia storico-sociale caratterizza il romanzo, lo sovrasta, per lunghi tratti assistiamo a descrizioni quasi manualistiche di vicende che hanno segnato la nascita e la costruzione del nostro paese, l' avvento della modernità' ed il passaggio da un mondo agricolo all' industria, sempre evidenziando il contrasto nord-sud, con particolare riferimento alla Sicilia, dove in prevalenza è' ambientato, terra natale e cara all' autrice. Ne esce una miscellanea di accadimenti che, per essere adeguatamente sviscerati, necessiterebbero di migliaia di pagine, di approfondimenti ulteriori, forse è' eccessivamente pretenzioso condensarli in così' rapidi tocchi.
Di fatto, di manuale non si tratta, ma di un romanzo, e qui veniamo alla traccia parallela.
La vita di Maria ne è' l' elemento trainante, una eroina della modernità'. Ancora quindicenne si concede in moglie a Pietro Sala, folgorato dalla sua avvenenza, di famiglia molto benestante, viveur, amante del giuoco, delle donne, viaggiatore, inconcludente, lei che proviene da una famiglia più' modesta, anche se il padre è' un avvocato di idee socialiste. Con lei cresce Giosue', amico di infanzia ed " adottato" dai Marra, destinato a grandi cose, occhio e consigliere di Maria con vista sul mondo.
Con il passare degli anni la nostra eroina maturera', si farà' donna, uscirà' dal proprio gracile mondo paesano per affrontare la vita vissuta, sarà moglie, madre, imprenditrice, allarghera' i propri confini culturali, viaggerà', e contemporaneamente entrerà' nelle grazie dei Sala e lotterà' per migliorare le condizioni economiche e i diritti dei salariati, dei più' poveri, oltre che vivere intensamente il proprio ruolo di donna, i propri desideri nascosti, l' ideale amoroso da lei sempre agognato.
Emerge, vivido, il contrasto tra ragione e sentimento, tra speranza e cruda realtà', oltre che necessita', e Maria sarà' sempre costretta a vivere in bilico tra l' apparire, l' obbligo di sostenere e mantenere la solidità' famigliare, e viceversa il proprio irrefrenabile desiderio di donna romantica.
Credo che il limite del romanzo stia proprio nella costruzione narrativa, in quell' essere di tutto un po' senza essere niente nello specifico, in quel continuo argomentare, elencare e descrivere il particolare storico che finisce per sottrarre fluidita', armonia, profondita' alla trama ed ai personaggi.
Non ho avvertito, se non in rari momenti, sensazioni forti, sentimenti e passioni autentiche ( come invece volevasi mostrare ), mi sembrava di essere fermo ad una stazione ferroviaria guardando il passaggio di un treno così velocemente da non delinearne i contorni, da non distinguerne i vagoni, ne' la destinazione, io che invece avrei voluto si fermasse, sostasse, per salire a bordo ed avventurarmi in un lungo viaggio.
È' molto difficile costruire un romanzo sui sentimenti che attraversi un periodo storico ed è' piuttosto complicato inserire una vicenda personale, famigliare, una storia romanzata in un contesto ben definito, lontano, ignoto, approfondendone tematiche, cultura, usi e costumi, in un linguaggio leggibile e godibile, a maggior ragione se attraversa cinquanta anni così' importanti e determinanti verso la modernità'.
Inevitabilmente la profondità' letteraria viene meno, e si rischia di presentare un manuale di nozionistiche dissertazioni, con una trama fragile, senz' anima e coinvolgimento emotivo, abbandonando il lettore in una via di mezzo che diventa incertezza, smarrimento, noia.
Allora, faccio riferimento a due scrittrici, Tracy Chevalier e Catherine Dunne, i cui romanzi, pur affrontando tematiche storico-sentimentali, sono ben riconoscibili, perché' l' una tratteggia il periodo storico dipingendolo sui personaggi, l' altra privilegia il filone romantico- sentimentale con linearita' e profondita' dei sentimenti.
La conclusione è' un gusto un po' amaro, proprio come le note di quel " black coffee " che riporta la protagonista ad un dolce ricordo ed al desiderio di un caffè' zuccherato, io invece l' ho trovato solo amaro e poco aromatizzato.
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Tra la vita e la morte
La penna di Cristina Comencini è avvezza a disegnare storie dai colori forti ed intesi, storie che graffiano ed incidono nel profondo.
L'autrice tiene fede al suo stile anche con l'ultimo lavoro “Essere vivi”.
Cominciando da quello che può essere l'effetto ultimo sul lettore, si avverte una scrittura di getto, nata da un bisogno impellente di fissare con inchiostro sensazioni e riflessioni, senza dedicarsi al cesello dei contorni, alla creazione di situazioni più probabili e credibili.
Da ciò potrebbe nascere qualche vaghezza della trama narrativa, come se le rifiniture del romanzo fossero deputate a scendere in secondo piano rispetto al focus sulle persone, sui loro drammi interiori.
Due protagonisti che il destino fa incontrare per condividere uno dei momenti più amari dell'esistenza, ossia la perdita di un genitore; un uomo ed una donna obbligati a conoscersi e ad affrontare un cammino insieme, uniti nei dubbi, nel dolore, nel vuoto interiore.
Al contempo emergono i ricordi sfumati di un'altra coppia, il cui legame è indissolubile oramai e le cui scelte di vita condizioneranno pesantemente i familiari.
La Comencini ha voluto rappresentare non un semplice intreccio di vite, bensì immagini di anime perdute, eppure non vuote, ma arse da una brama irrefrenabile di riemergere dagli inferi, di tornare al sole e alla vita, spinte dalla passione per un nuovo amore, risvegliate dall'energia di un alba o di un tramonto, poste sul limite del precipizio per riflettere.
Una manciata di pagine che galoppano rapide, pur essendo disseminate di buchi neri e sabbie mobili, ma il ritmo è incalzante e spinge il pubblico a non arenarsi ma a giungere al termine dei dilemmi.
La scrittura è affilata, secca e tagliente, il contenuto emerge in tutta la sua gravità senza belletti e maschere nello stile proprio dell'autrice.
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Neal Carey
Il ventitreenne newyorkese Neal Carey sa che deve tutto agli Amici di Famiglia. Se ha infatti potuto studiare e crescere dignitosamente, lui che ad appena tredici anni pur di sopravvivere si arrangiava rubando portafogli e condividendo la propria abitazione con una madre tossica e prostituta, è solo grazie a loro e agli insegnamenti di Joe Graham. Il suo addestramento è avvenuto direttamente sul campo e sotto l’ala protettiva di quest’ultimo, uomo dalle fattezze di un folletto, che ben lo ha istruito a quelle che erano le regole della strada, le strategie da affinare nonché le cose da sapere. Eppure, quando lo studente di lettere viene incaricato di ritrovare la diciassettenne Allie Chase, il suo primo istinto è quello di rifiutarsi a un tale compito. La lezione gli è bastata, ha ancora il volto di quel gay che non è riuscito a ricondurre a casa vivo, la sua immagine lo ha torturato e continua ad assillarlo ancora oggi. Ma la famiglia è irremovibile, o se ne occupa e la riporta dai genitori entro il 1 di agosto o può dire addio alla sua cara università.
Così Neal parte alla volta di Londra e dopo settimane di appostamento, riesce a rintracciare la donna perfettamente inserita in una combriccola di punk con il falso nome di Alice. Quest’ultima è entrata in un giro di droga e prostituzione, è ormai una proprietà del suo pappone, Colin. Riuscirà l’investigatore a strapparla alle sue grinfie e a riportarla negli States? E ricongiungerla alla famiglia, sarà davvero “il male minore” per l’adolescente!?
“London Underground” è il primo capitolo (di cinque) riservato dall’autore, Don Winslow, al giovane Neal Carey. Edito in Italia da Einaudi soltanto nel 2016, il romanzo, originariamente intitolato “A Cool Breeze on the Underground”, risale al 1991 e si presenta quale un’opera ben costruita ed accattivante sin dalle sue prime battute. Pagina dopo pagina è infatti impossibile staccarsi dall’elaborato, il caso scorre rapido tra le mani del lettore che è sempre più incuriosito dalle vicende. Non solo, i protagonisti sono ben delineati e non sono i classici supereroi, anzi, sono persone comuni tanto che è impossibile non immedesimarsi. Nel corso dell’indagine veniamo inoltre ad apprendere dell’addestramento del detective, parte che risulta essere magnetica in ogni suo frangente.
La domanda ora è: a quando il secondo capitolo?
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Alba Rosa, Eugenia e la loro Caporetto.
Maria Rosa Radice, napoletana di buona famiglia, pur di sfuggire a quella vita di malinconia e apatia caratterizzata dalle continue pressioni di una madre frivola ed interessata esclusivamente a combinare il suo matrimonio con un qualsiasi uomo, parte come infermiera volontaria per il Carso. Ed è qui che incontra Eugenia Alferro, collega e compagna di stanza della protagonista dai lineamenti duri, i capelli corvini ed il volto spigoloso, ma anche donna della quale Alba Rosa profondamente si innamorerà in questi giorni che hanno rappresentato la sua Caporetto.
Il romanzo è impostato come una lunga lettera che la napoletana indirizza all’amica del fronte, è una missiva in cui questa si apre come mai a quella persona con cui condivideva la cura dei feriti, dei morti scampati e dei deceduti di fatto della Grande Guerra, in cui le narra tutto quello che non ha mai avuto modo o semplicemente il coraggio di raccontare. Ed in questo narrare, rivive. Rivive i suoi primi giorni con i malati, i suoi primi tentativi di imparare, le difficoltà di condividere quel dolore troppo immenso da gestire fino a risultarne anestetizzati, il ripudio per quelle pratiche necessarie come le amputazioni o ancora l’odore fetido di quegli arti in gangrena, ma riassapora anche la presenza di Eugenia, con quei suoi modi rudi di affrontare la realtà senza mai rifiutarsi a (e da) questa, con la sua schiettezza e i suoi rimproveri.
Un testo che si sviluppa su un doppio binario, quello della Guerra, concentrando cioè l’attenzione su quelle infermiere volontarie che con grande coraggio e nonostante il pregiudizio dell’universo maschile che mal le vedeva all’interno di quegli ospedali di fortuna, mai si rifiutavano di prestare soccorso e cure ai reduci del conflitto, e quello dell’’amore, un sentimento che trova le sue radici in due donne che con il loro essere ed il loro agire si completano, si offrono l’una all’altra nella consapevolezza delle conseguenze che le aspettano se scoperte. E tanto questo è un sentimento autentico, tanto ha costanza nel tempo e nello spazio, tanto persiste a mantenersi incolume, a resistere. Per la benestante protagonista, l’esperienza sul fronte si paleserà essere la molla del cambiamento, una volta tornata a casa e nonostante la crudezza degli eventi, deciderà di essere l’eccezione e non la regola, troverà la forza di intraprendere quel cammino atto a renderla una donna diversa.
Un elaborato rapido, diretto, che si conclude nell’arco di una giornata, non certo un capolavoro ma sicuramente capace di indurre alla riflessione.
«Che il dolore prima o poi ti piomba addosso e ti fa ruzzolare o ti paralizza come una valanga, ma l’importante viene dopo. Dopo, a poco a poco si scava una strada dentro di te, e va nel suo paese che sta in ognuno di noi, il paese del dolore, scatena un terremoto, e tutti gli altri dolori sussultano e precipitano. Poi, passato il terremoto, c’è un nuovo elemento nel paesaggio, una nuova montagna, un nuovo fiume, e sta lì, sta lì per sempre con te. Cioè, ora con me. Quella montagna, quel fiume ora sei tu.»
«Tutto è ieri, ormai. La guerra è un sipario, ricordi? Molti avranno monumenti dopo questa guerra, lo avrai anche tu. Il tuo monumento sono io. »
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Colpito e affondato
Come ci insegna Alice Martelli, vicequestore di Pineta nonché fresca fidanzata del “barrista” Massimo, tanto burbero quanto sorprendentemente intuitivo proprietario del Bar Lume, il lavoro d’indagine sul campo non è tutto intuizioni lampanti e modelli prestabiliti, come un libro giallo o un gioco di carte. E’ molto più simile alla battaglia navale: all’inizio si spara alla cieca e si fanno buchi nell’acqua, ma anche il fatto di non aver colto niente è un’informazione preziosa. Che ti porta via via alla verità.
L’indagine comincia con il ritrovamento sulla spiaggia di Pineta del cadavere di una donna, martoriato dagli scogli e tumefatto dalle onde. Il corpo viene presto riconosciuto da un malavitoso locale come la badante della propria madre e la ragazza compianta dall’intera comunità femminile ucraina in quanto buona e perbene, vittima di un passato difficile e di un ex-marito violento e vendicativo, su cui convergono tutti i sospetti. Ma non sempre l’ipotesi più probabile è quella giusta e di stranezze ce ne sono più d’una: tracce di cocaina nella giovane donna, un misterioso atto vandalico sulla stessa spiaggia, comportamenti non chiari nella comunità ucraina. E allora, chi mandare ai giardini pubblici per raccogliere informazioni su questo mondo di badanti e anziani se non gli arzilli vecchietti del Bar Lume, coadiuvati questa volta dal “compagno” Mastrapasqua, conoscitore della lingua e dei costumi dell’Est?
Leggere questo romanzo è un po’ come ritrovare, dopo qualche tempo, un vecchio amico: la sensazione è rassicurante e piacevole e il sorriso, grazie all'immancabile ironia condita dal vernacolo toscano, è garantito. La trama si snoda invece tra ipotesi inconcludenti e intuizioni sbagliate, secondo la più classica delle architetture. Gli indizi fanno via via capolino tra i dialoghi vivaci e le scene divertenti e a volte non è nemmeno semplice riconoscerli e raccoglierli. E solo alla fine si capirà quali erano veri colpi di cannone e quali solo buchi nell’acqua, svelando l’intreccio complessivo.
Forse una trama un po’ più ingarbugliata del solito, difficile quindi da dipanare senza lasciare un po’ di confusione nel lettore. Ciononostante, una lettura godibilissima, da divorare in una giornata, perché è impossibile non lasciarsi trascinare dalla curiosità di scoprire come andrà a finire. Oltre che un appuntamento irrinunciabile per tutti gli affezionati all’allegra combriccola di Pineta!
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Meglio soli che apatici
L'esordio del racconto vuole la novita' , la rincorsa immobiliare ad un nuovo appartamento dove Shizukuishi e Shin'chiro si stabiliranno per una vita insieme. Spicca la mancanza di entusiasmo della coppia in una ricerca appannata, priva di fervore. La svolta evidentemente non e' tanto nel futuro, quanto nel passato, e proprio nei luoghi della giovinezza di Shin'chiro si trova un giardino bellissimo, che avra' un peso determinante nelle scelte della giovane coppia.
Il romanzo e' il terzo capitolo della serie IL REGNO di cui ignoravo completamente l'esistenza , potra' dunque essere piu' ricco di stimoli per chi ha gia' conosciuto le vicende precedenti ,sebbene sia di senso compiuto anche la singola lettura.
Penna molto semplice quella della Yoshimoto, razionalmente ritengo che questo nuovo lavoro - come altri- sia di fatto insipido, privo di un gran valore letterario, nonostante la giapponese possa cogliere il favore del lettore premendo sul rapporto empatico .
La vicenda e' comune e lo scorrere e' placido, a tratti la trama sfiora la banalita', non nascondo pero' che l'esotismo persistente nel testo, confluito in una tradizione ed in una contemporaneita' tanto amene quanto quelle nipponiche, ha risvegliato la mia attenzione.
Elementi quali l'usanza di consumare tè con costanza rituale, di affondare le stanche membra e gli umori fossili nella rigenerante pratica termale, così come l'abitudine di abbandonarsi ad un vaporoso bagno bollente premiano il romanzo della Yoshimoto rievocando luoghi lontani con un pacato realismo, ovattato ma intenso.
Motivando il buon voto nella piacevolezza mi appello quindi non di certo alla forma, nemmeno alla trama, ma sicuramente alle atmosfere eloquenti ed accattivanti, con la tipica, pacifica flemma di Banana.
Buona lettura.
Undici
Questo romanzo sarebbe risultato più fruibile se fosse stato presentato come una raccolta di racconti; si ha infatti la sensazione che Coe abbia unito varie immagini vive nella sua testa in una storia unica, ma che appare piuttosto slegata come se, appunto, il filo conduttore non spiccasse dagli altri che formano le varie sottotrame.
Senza dubbio il piano narrativo non è quello più importante, c'è una critica sociale molto chiara, ma mai originale, anzi piuttosto banale.
Sono presenti però, alcuni stralci davvero molto belli e poetici, per esempio, "Il giardino di cristallo" che non solo ha uno stile semplice e lieve, ma il messaggio, diciamo, psicanalitico che gli sottende è originale e toccante.
Questo capitolo è posto più o meno alla metà del libro e una volta conclutosi si coglie ancora di più la mancanza di ispirazione presente nel resto del romanzo; qui si parla di un'emozione e omaggiando in qualche modo Proust, la si vuole ricercare; il percorso per farlo è così sopra le righe, ma così dolce e così penetrante che non si può non approvare e non capire il protagonista che lo percorre.
I personaggi sono piuttosto piatti, ma Coe riesce dosandoli con maestria a creare un insieme piacevole, anche se troppo definiti, quasi stereotipati, finiscono con non generare alcuna empatia riducedosi così ad attori senza carisma.
In conclusione sembra che il romanzo stia sempre per decollare, ma ogni volta è una falsa partenza, rimane in ogni caso un'opera piacevole e che consiglio anche solo per quel gioiello che al suo interno è contenuto "Il girdino di cristallo"
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RIDERE DI QUALCOSA CHE RIDERE NON FA
È possibile poter ridere, e ridere da morire, di qualcosa che in realtà non fa poi così ridere? Anzi…
Beh, se si apprezza e se si riesce a capire il tipico humour inglese, sicuramente sì.
Quell’humour caustico, amaro, ma che io personalmente trovo irresistibile.
In una raccolta di sei racconti che sono in realtà dei brevi sketch teatrali.
Alan Bennet, drammaturgo inglese a me, prima di questo “il gioco del panino”, del tutto sconosciuto, parte un po’ in sordina con “La mano di Dio” in cui la rigida rigattiera Celia, per avidità si lascia sfuggire l’affare della vita.
Si prosegue con “Miss Fozzard a piede libero” in cui il rapporto paziente/medico (in questo caso, per essere precisi, Miss Fozzard/podologo) diventa qualcosa di sicuramente insolito… nella sua narrazione, nonostante, per dirla terra terra, si parli praticamente di prostituzione, il tutto prende una piega quasi surreale e quasi “entusiastica”.
“Il gioco del panino”, un lavoro complesso sul tema della solitudine più devastante, arriva come un pugno nello stomaco, si intuisce solo verso la fine quello che succede e come dice lo stesso Bennet nella sua lunga introduzione (citando un altro autore) “E’ questo che bisogna fare per venire isolati: ammazzare bambini. Nient’altro ha lo stesso effetto, perché qualsiasi altro crimine ti farà comunque trovare degli amici. Stuprali, ammazzali e fatti beccare”.
Da qui in poi l’omicidio diventa il filo conduttore dei racconti a seguire.
“Il cane deve stare fuori”: una donna ormai matura, vera “malata di pulito” odia a morte il cane del marito, non lo vuole in casa, sporca, perde peli, deve stare fuori… la sua ossessione non le fa nemmeno vedere che il marito si comporta stranamente, e ogni volta che porta fuori il cane…una giovane donna della zona viene uccisa…
“Notte nei giardini di Spagna”: una donna di mezza età, sposata da 30 anni, senza figli accorre a casa della vicina, che ha appena ucciso il marito. Diventa la sua migliore amica e scopre che la vicina Fran ha solo messo fine ad una vita di soprusi e maltrattamenti da parte del marito…maltrattamenti a cui forse ha preso parte anche suo marito, il timido e dimesso Henry… e si interrogherà se in prigione è Fran (che comunque sconta la sua pena) o lei che finalmente, dopo una vita di lavoro, ha seguito il marito a Marbella…
“Aspettando il telegramma”: qui non viene ucciso nessuno, ma la morte è comunque protagonista con la vecchia Violet che, tra momenti nebulosi e momenti di lucidità, vede andarsene tutti quelli che la sua mente annebbiata ama, in particolare l’infermiere Francis. Aspettando il telegramma della regina che si congratula per il suo secolo di vita, la sua mente prenderà del tutto il largo, ricordando quell'altro telegramma, quello che annunciava la morte in guerra del suo primo amore.
I temi di questi sketch sono largamente spiegati nell'introduzione dell’autore, ma è sicuramente riconoscibile il tema della vecchiaia (nessun protagonista è giovane), della sterilità (nessun protagonista ha figli, solo Violet ne ha uno, ma non lo riconosce), della malattia (ictus, alzheimer, aids) della solitudine, della morte, dell’omicidio…storie che raccontano una cosa, ma in parallelo anche tante altre.
Temi amari, temi deprimenti, per i quali si riesce anche ridere, in puro stile british.
Sei racconti che sono più dei bozzetti, scorrevoli, piacevoli e per nulla scontati.
Guardare è bello,
toccare ancor di più,
ma se lo rompi
dovrai pagarlo tu.
Il marito era disteso su un tappeto, a pancia in su – un tappeto di quelli a pelo lungo – e gli era uscito sangue e non so cos'altro da dietro la testa. La cosa orribile è che per prima cosa ho pensato: non verrà mai via.
Dev'esserci una parola per definire quello che sto facendo, ma… le giro intorno.
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Le tragedie tingono gli uomini di grigio
Il libro che mi accingo a recensire ha causato in me delle reazioni un po' controverse.
Partendo dallo stile, l'ho trovato buono, la Stridsberg é molto brava e il suo modo di scrivere non è certo banale, ma la decisione di strutturare questo racconto come un'accozzaglia confusa di ricordi senza un filo cronologico (né logico, a mio parere), ha reso il tutto molto difficile da seguire e capire.
Il romanzo scorre abbastanza bene, ma è anche merito della sua divisione in brevi scene, lunghe in media tre pagine, se non meno. La storia in fin dei conti è interessante, ma non proprio magnetica, e seppure raggiunga buone vette in certi tratti, in altri pare perdersi. Molto spesso si fa fatica a collocare gli eventi nel rispettivo spazio temporale e capita spessissimo di non saper distinguere il sogno dalla realtà. Un momento prima una personaggio c'è, quello dopo non c'è più, quello dopo ancora ce lo ritroviamo di fronte. Ah no, aspetta, era solo un sogno. Forse.
I miei voti potevano salire di almeno un punto, se fosse stato reso il tutto un po' più fluido e lineare.
Jackie è una bimba di Stoccolma. Sembra più grande della sua età, forse per quello che la vita le ha posto di fronte fin da piccola. Non è stata certo generosa con lei. Suo padre, Jim, è matto, o almeno così pare. Passa buona parte la sua vita nell'ospedale psichiatrico di Bockemberga, anche se il controverso dottor Edvard gli permette spesso di uscire. Lui è felice in quell'ospedale, o forse no. Probabilmente non è felice in nessun luogo. La piccola Jackie va sempre da lui, sua madre non la vede mai. Jackie ama suo padre, ama stare in quell'ospedale, come se fosse irrefrenabilmente attratta da tutto ciò che è dannato e che non può amarla di rimando.
Lì Jackie conosce l'amore, l'amicizia, la paura. La sua è una storia triste, come quella di Jim, quella di Sabina, quella di sua madre Lone, come se il loro mondo fosse colorato di grigio dalle tragedie che vi hanno luogo, così lontane dal corpo, così vicine al cuore.
Chernobyl. Odessa. Le guerre mondiali. L'Olocausto.
Non vi è alcun ammonimento in questo libro, non esplicito almeno. Come se l'accusa più grande fossero gli uomini e le donne che di quella realtà sono state il frutto. Un frutto marcio, che considera sé stesso insalvabile e senza futuro.
Un libro forse troppo triste, confuso e pervaso da metafore non troppo chiare, ma comunque non da buttare.
"Ho sempre pensato che avrei potuto salvarti, ma forse non si può salvare qualcuno da sé stesso. Forse hai sempre saputo che non sarebbe stato possibile, solo io credevo che tu lo volessi."
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- sì
- no
Di come i Nephilim affrontino il Dio Amore..
“Ma molto era più forte il nostro amore
che l’amor d’altri di noi più grandi
che l’amor d’altri di noi più savi
e né gli angeli lassù nel cielo
né i demoni dentro al profondo mare
mai potran separare la mia anima dall’anima
della Bella Annabel Lee”.
Una vera poesia di Edgar Allan Poe, del 1894, che Cassandra Clare adatta al suo nuovo romanzo, una poesia che sarà costantemente presente all’interno della trama del libro e che celerà fra le sue righe numerosi misteri da sbrogliare, spesso anche determinanti per la risoluzione dell’enigma.
Chi è Lady Midnight, la signora della mezzanotte a cui fa riferimento il titolo?
Ci si aspetterebbe che la protagonista assoluta della trama sia questa donna misteriosa e per certi versi lo è, ma non nel senso classico del termine: non è mai fisicamente presente, nessuno sa chi è e prima che i veri protagonisti arrivino a capirlo, è solo un’ombra di sfondo che aleggia sulle pareti della vita altrui. Sospetto tuttavia, considerato il finale, che i romanzi seguenti a questo primo capitolo della nuova serie, The Dark Artifices, ne approfondiranno la conoscenza.
La storia si ambienta a Los Angeles, cinque anni dopo le vicende narrate in “Città del fuoco celeste”, ultimo capitolo della serie The Mortal Instruments: i protagonisti, quelli veri, sono Emma Carstairs e Julian Blackthorn, insieme a tutta la sua famiglia di numerosi fratelli e sorelle, ugualmente importanti ai fini delle trama quanto i primi due. Tutta la trama si concentra sulla risoluzione di un mistero e per questo motivo si colora di tinte da romanzo giallo, senza snaturare però la natura fantasy della storia. Ritroveremo quindi gli Shadowhunters, le rune, i parabatai, il Conclave, tutte le sue crudeli regole e una breve comparsa di Clary e Jace.
Lo stile è sempre quello della Clare: diretto, intuitivo, coinvolgente e per questo familiare.
Ci si aspetterebbe un romanzo d’azione e di coraggio, di lealtà e tradimenti e lo è, ma il fil rouge che tocca tutti i personaggi è l’amore: l’amore di Emma per i suoi genitori perduti, l’amore di Julian per la sua famiglia, l’amore non detto, quello nascosto, quello proibito, che ti costringe a fare delle scelte dolorose, talmente forte da non essere sopportabile, perché più è impossibile e più si accende.
E’ stato questo a colpirmi del libro, questa costante presenza di sentimenti forti, durevoli, a lieto fine in alcuni casi, irrealizzabili in altri. Questo e Mark, il personaggio che più ho amato tra quelli presenti nel libro: affascinante, originale, mai banale, il più riuscito tra quelli della Clare (non considerando Magnus Bane).
Da leggere in modo categorico se siete fan della serie e se vi è mancato il mondo dei Nephilim, ma anche nel caso in cui non siate amanti del genere fantasy: il lato umano e l’approfondimento dei sentimenti molto spesso, nei libri della Clare, prende il sopravvento rispetto a tutto il resto.
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IL LUNGO CAMMINO VERSO L'ALTARE
Melissa Hill, come nei precedenti libri, riesce sempre a conquistare il lettore portandolo dentro un mondo in cui si perde e dove, anche se per poche ore, si dimentica di tutto quello che lo circonda.
Unico è il suo stile, il suo modo di raccontare la storia e i personaggi e dobbiamo ammettere quanto sia difficile rendere piacevole e non scontata la lettura di un romanzo rosa.
Il libro inizia con un invito di matrimonio che Cara, la protagonista, riceve da una sua amica.
Questo non sembra proprio un invito per partecipare ad un evento felice ma sembra più una lista di pretese che gli sposi avanzano sui possibili partecipanti,è come se fosse più una sorta di raccolta fondi e non una festa per festeggiare un amore.
Per questo mi sorge una domanda, ma il matrimonio oggi è come viene descritto da Melissa, solo una questione di soldi e regali? Tutto ruota attorno alla festa, agli invitati, all’abito ma i sentimenti dove sono andati a finire?
Cara, è una giovane designer e ha una famiglia che è tutt’altro che ordinaria, la sorella maggiore Danielle vive in America e non si fa mai sentire, la sorella minore Heidi è una ragazza viziata, si lamenta per tutto e fa la parte della vittima l’unico che si salva è il fratello Ben che vive felice il suo matrimonio con Kim.
Il ragazzo di Cara si chiama Shane, diciamo che subito mi è sembrato un antipatico almeno leggendo la trama del libro, dove veniva definito”bello,intelligente e sicurò di sé”io aggiungerei anche ricco e quasi perfetto.
Già di per sé mi sembra una cosa irreale che una sola persona abbia tutte queste caratteristiche, inoltre mi sembrava esagerata come descrizione quindi mi ha fatto una brutta impressione.
Shane invece, si è rivelata una persona molto intelligente ma anche e soprattutto bella dentro e ho tifato perché l’amore per Cara trionfasse su ogni cosa.
I due decidono di sposarsi e qui iniziano i problemi, Cara e Shane non decidono di fare una cerimonia sfarzosa ma optano per qualcosa di semplice e intimo ma verranno contrastati dalle rispettive famiglie che vogliono per loro qualcosa di più.
Tutti i personaggi subiscono un’evoluzione durante il libro, quando la famiglia va a pezzi è qui che i componenti della stessa o cadono o si rialzano ancora più forte, quello che conta è sicuramente il rimanere uniti.
Troviamo molto clichè tipici del romanzo rosa, amore, ostacoli, sentimento, personaggi di supporto al protagonista e antagonisti, nonostante questo Melissa è riuscita a dare un qualcosa in più alla storia.
C’è un filo sottile tra il noioso, il banale, il già letto e tra il piacevole, l’innovativo e l’originale.
Questo confine non si è spezzato anzi la Hill lo ha reso più forte e ha fatto si che la tensione crescesse con il passare delle pagine.
Naturalmente la trama ci anticipa che un segreto che sconvolgerà la vita di tutti e per me l’autrice l’ha inserito nel momento giusto e lo ha reso credibile.
Ma ci sono alcuni punti deboli altrimenti non si spiegherebbe la mia valutazione, l’autrice non approfondisce i personaggi, ce li fa conoscere, ci parla solamente brevemente dei loro caratteri non andando a scavare nella loro interiorità diciamo che ne fa una descrizione in maniera superficiale e approssimativa.
Come anche il titolo del libro si insegna, questo romanzo ruota attorno ad un”matrimonio complicato”, titolo sicuramente azzeccato anche se non rispecchia fedelmente quello originale, ma superato questo la storia parla solo di matrimonio di come organizzarlo, di ostacoli da superare, di invitati che non vogliono partecipare e niente altro. Non ho trovato reale il fatto che questi personaggi siano così tanto stereotipati cioè non si confrontano con i problemi della vita di tutti i giorni, in fondo a parte qualche cenno non ne ho visto traccia.
Alla fine del libro ogni cosa e ogni personaggio trova la sua dimensione e il suo posto “giusto”, forse questo è stato per me la cosa più scontata del libro e mi è dispiaciuto perché nonostante Melissa riesce a trascinare il lettore e a coinvolgerlo nella storia non mi spiego come si sia abbandonata ad un finale triste.
In fin dei conti un romanzo non deve essere perfetto ma ti deve saper emozionare per me è stato così, almeno per buona parte della storia, lo consiglio a chi ama le storie romantiche e complicate ma che riescono a far sorridere.
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At the light of the sun
Contea di Finnmark, estremo nord della Norvegia. Uno spacciatore di hashish, in fuga da Oslo ed in cerca di redenzione, trova rifugio in un piccolo villaggio chiamato Kasund. Deve nascondersi, perché il più potente boss della droga di tutto il paese lo sta cercando. Il suo soprannome è il Pescatore, perché ha un negozio di pesce e soprattutto non smette mai di cercare un debitore, fino a che non lo ha risucchiato dall’oscurità di qualsiasi nascondiglio. Come quella volta che due dei suoi spacciatori sparirono dopo aver tentato di fregarlo, e nei mesi successivi si vociferava che le polpette di pesce del suo negozio fossero più saporite del solito, in virtù di uno sconosciuto ingrediente.
La vicenda criminale corre parallela alla descrizione della geografia del territorio, nonché a brevi ma interessanti approfondimenti socio-culturali. La particolarità dell’ambientazione e l’originalità della popolazione locale residente a Kasund suscitano curiosità. I sami sono un popolo con una forte identità culturale e si mantengono alla larga dal processo di assimilazione agli stili di vita norvegesi, finlandesi, svedesi. Praticano antichi culti religiosi, rifiutando la dissolutezza e predicando la lontananza da qualsiasi atto ritenuto colpevole di insidiare l’integrità della morale umana.
Il Finnmark è un luogo inospitale, brullo. “Sembra Marte”. Un concentrato di pascoli, corsi d’acqua da cui pescare merluzzi ed abitazioni malmesse, esposte alla potenza dominatrice della natura. Nonostante siano terre tradizionalmente associate ad un clima freddo e rigido, il romanzo è ambientato nei mesi estivi, con la costante presenza di un sole che, a causa di affascinanti fenomeni astronomici, non tramonta mai. Sarà il nascondiglio ideale per il protagonista?
Il romanzo, sequel di “Sangue e neve” e ambientato anch’esso nel 1977, conserva pregi e limiti del predecessore. Anche stavolta siamo di fronte ad un titolo minore nella vasta produzione letteraria di Nesbo, imparagonabile alla serie incentrata sul poliziotto Harry Hole (che curiosamente ha una madre di origine sami), ma comunque in grado di garantire una piacevole lettura d’evasione.
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Il bazar dei... sogni
Un titolo suggestivo per una raccolta di racconti nella norma. Ormai il King degli ultimi anni è pericolosamente nella norma, e ci si aspetta molto di più da lui. Certo, ci sono storie di buona fattura, e la varietà di temi e generi conferma la poliedricità dell'autore, ma nessuno dei racconti realmente memorabile. La lettura è comunque abbastanza piacevole, e lo stile del re e sempre inconfondibile.
Il bazar dei brutti sogni è un luogo in cui non vi sono soltanto incubi. Vi troverete di fronte a macchine infernali (vi ricorda qualcosa?), giocatori di baseball tonti e sanguinari, dune di sabbia premonitrici di morte, bambini cattivi e Kindle multidimensionali.
Il re del brivido riesce ancora a tenerci sul pezzo, in alcuni racconti, alcuni dei quali mi hanno riportato alla mente i meravigliosi "Piccoli brividi", che tanto mi terrorizzavano (e intrigavano) da bambino, emozioni che è raro provare ancora. In altri, mancano il mordente e l'elemento soprannaturale, che in un libro dal titolo del genere ci si aspetta in ogni pagina. Non vorrei che alcuni racconti siano stati buttati lì giusto per allungare il brodo, e sono dell'idea che ometterli sarebbe stato probabilmente più produttivo.
C'è un'idea strana che mi frulla in testa ultimamente, quando mi cimento nelle più recenti uscite letterarie di Stephen King, ed è che si sta tentando di sfruttare tutto quello che è sfruttabile. Qualsiasi cosa, buona o cattiva che sia. Non è sempre una buona scelta, anzi, direi che non lo è quasi mai.
Concludendo, il bazar di brutti sogni contiene alcuni racconti non eccezionali, altri molto buoni, come "Ur", "Il bambino cattivo", e "Seppellisco i vivi", ma nessuno di questi è stato memorabile per davvero.
Peccato.
"Puoi arrivare alla persona, ma non al male. Il male sopravvive sempre. Vola via come un uccello del malaugurio e si posa su qualcun altro. È questa la cosa davvero infernale, capisci? La cosa davvero terribile."
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Emma.
Quando dopo dieci anni la storia e convivenza con Tommaso giungono alla loro conclusione, per Emma si apre una voragine, un vuoto immenso difficile da arginare. Quei vent’anni che la separano dal medico per cui ha messo in discussione tutto, dai genitori agli studi, si riversano su di lei come una spada di Damocle e la pura e semplice realtà dei fatti pronunciata dal compagno “non ti amo più”, sono troppo da sopportare.
Così, quando incontra Marco, Emma crede di aver trovato l’uomo giusto. E’ disillusa, affranta, provata da quella relazione su cui ha tanto investito e che ora e le si riversa contro. Il nuovo pretendente è un collezionista d’arte (o almeno così sostiene), la riempie di attenzioni, fiori, gesti galanti. La sorprende in tutto, compreso nella volontà di sposarla in segreto il giorno prima della Pasqua dopo appena sei mesi di frequentazione. La ragazza, ingenua e illusa dai falsi modi del contendente, decide di buttarsi; coniugarsi e metter su famiglia è sempre stato il suo sogno, ed ora che ha trovato la persona giusta perché tirarsi indietro?
Una mattina come tante e si riscopre sposata a quell’individuo che sin da poche ore dopo la celebrazione si rende conto non conoscere. Basti pensare al passatismo dello stesso di fronte alla comunicazione del loro connubio alle due rispettive famiglie. Per Emma quel distacco, quell’indifferenza dei parenti del marito e di questo, è stranissima, così come lo sono le parole della di lui madre «non ho paura di te, ho paura per te».
Sin da subito le reazioni dell’uomo si dimostrano imprevedibili, i suoi sbalzi d’umore ingestibili e purtroppo anche le mani. E se inizialmente Emma tollera perché non vuol ammettere di aver commesso un errore, non vuol chiedere aiuto, e crede di potercela fare da sola, alla nascita della sua piccola Martina tutto cambia. Adesso deve combattere, deve risvegliarsi da quei giorni, mesi, anni, di tentata comprensione e remissione, deve salvarla. Il coniuge è arrivato a segregarla nella sua residenza della famiglia in San Biagio, e giorno dopo giorno le sue aggressioni verbali e fisiche sono più forti, incontrollabili, impossibili da gestire. E se per vendicarsi di lei e della sua inadeguatezza come donna e come moglie avesse iniziato a rifarsela su Martina? Come avrebbe fatto allora? Un conto era lei, ma la bambina non doveva essere toccata. Il calvario non sembra avere fine, eppure Emma ci riesce, lo attira di fronte ai fratelli, al padre e alla madre obbligandolo a curarsi. Per lei e la figlia un nuovo inizio, purtroppo ancora non rosa. Seguono anni di controversie legali, ma anche di minacce, aggressività, costrizioni, paura. Per la donna è arduo andare avanti, vivere senza il terrore, ricominciare…
Sara Rattaro, vincitrice del premio Bancarella del 2015, torna in libreria con un romanzo dalle tematiche forti. Le violenze domestiche, un amore comandato dall’autorità, dal dover chiedere il permesso per qualsiasi cosa, dal dover sopportare, tollerare e sottomettersi alle percussioni e lesioni di un marito autoritario e paranoico, la voglia di vincere quel dolore, di vedere quella luce in fondo al tunnel, di abbracciare quella speranza che tanto è stata relegata nel profondo, il desiderio di riconquistare la propria indipendenza e la fiducia in se stessi e negli altri, la volontà di proteggere la propria figlia da quell’inferno quotidiano, sono solo alcune di queste.
La storia narrata, è una storia come tante, come molte di quelle che ascoltiamo alla televisione o che leggiamo sul giornale. E’ una realtà in cui è intriso anche un obiettivo, quello di invitare queste anime violate da chi professava di amarle, a ribellarsi alla tirannia, alla prigione in cui si sono ritrovate per errore, consapevolezza, ingenuità, è la preghiera silenziosa a rivolgersi a centri di accoglienza specializzati, a farsi del bene, a riprendersi la propria vita. Perché a volte non vogliamo vedere oltre, vogliamo a tutti i costi trovare il buono in chi abbiamo accanto, concedergli fiducia. E nessuno può essere condannato per questo, è un proposito insito nell’animo umano. Tutti sbagliamo, e certe volte ammettere l’errore e concedersi una seconda possibilità è quanto più difficile ci sia. Della storia di Emma, vicenda ahimé realmente accaduta ad una persona vicina all’autrice, la parte più difficile da affrontare non è nemmeno tanto quella delle violenze, è quella della rinascita, quella del “dopo”; scoglio apparentemente insormontabile.
Fluente, diretto, concreto. Un testo che è capace di coinvolgere chi legge tanto che si conclude in appena 7/8 ore; ma alla sua ultimazione state pur certi che non vi avrà lasciato indifferenti. L’unica pecca, il solo cavillo: il tentato linguaggio giuridico, lo sperato approfondimento legale. Purtroppo su questo fronte qualche lacuna c’è, poteva fare di più per rendere maggiormente solide le sue argomentazioni. Lo so, sono puntigliosa, ma per altrettante sostenibili ragioni. Buono comunque il proposito.
«Non esiste la coppia perfetta. Nessuno può amarsi per sempre, nutrire infinita fiducia o costruire un rapporto del tutto privo di minacce. Esistono solo impavide persone che nonostante tutto ci provano. A volte ci riescono.»
«Si chiama dolore, ha mille abiti ma un solo odore»
«Tutto questo viene comunemente chiamato guarigione, il nostro ritorno all’equilibrio e alla salute. Raramente però è accompagnato dalla dimenticanza. Ma non importa, perché l’unica cosa davvero importante è ricordarsi di splendere. Anche se il mondo, a volte, te lo impedisce, tu splendi. Splendi più che puoi.»
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Alan Turing
Otto giugno 1954. Alan Mathison Turing, nato il 23 giugno 1912 a Paddington, Londra, viene ritrovato morto nel suo appartamento di Hollymeade in Adlington Road. Presunto suicidio. Causa del decesso; cianuro.
Leonard Corell, ventotto anni, giovane ispettore dell’anticrimine incaricato di seguire il caso, viene immediatamente colto da quell’odore inconfondibile ed indimenticabile che soltanto quel veleno è capace di sprigionare, fragranza a cui sono legati ricordi di un doloroso passato ma dalla quale non deve farsi distrarre. Troppi gli elementi tra loro discordanti. Tutto fa pensare al fatto che possa trattarsi di una morte autoindotta, ma al tempo stesso altrettanti elementi convincono il funzionario di polizia ad indagare, ad andare oltre le apparenze. In primo luogo, si chiede, perché intingere proprio una mela nella tossina? Perché prepararne un intero pentolone e disporre dei cavi quando un morso al frutto sarebbe stato più che sufficiente a causare la morte di qualsiasi individuo?
Inizia così l’analisi e l’indagine di Leonard, tanti tasselli da ricomporre e da mettere insieme in uno scenario tutt’altro che chiaro. Ben presto scopre infatti che Turing nel 1952 era stato condannato per il delitto di omosessualità, reato di grave oltraggio alla decenza così come sancito al paragrafo 11 del codice penale, supplemento alla Legge del 1885 e guarda caso, stesso capo di imputazione con cui venne condannato Oscar Wilde. Altra contraddizione è riscontrabile nel colloquio del defunto con le autorità quando a seguito di un furto e affermazioni annesse questo si è praticamente auto dichiarato colpevole del delitto de quo. Avendo scoperto la gola, così, liberamente, si è offerto a chi doveva offrirgli aiuto e protezione senza vederne la vera essenza di carnefice, circostanza alla quale si somma la tranquillità con cui lo stesso aveva provveduto a rispondere alle domande da questi poste, quesiti ai quali nulla aveva celato e a cui anzi aveva provveduto a rimarcare la sua posizione enunciando il seguente paradosso matematico: “ io mento. Se l’affermazione è vera, è falsa perché la persona mente, ma allora ovviamente è vera perché la persona dice di mentire” (p.70).
E se si considera che Turing, da grande scienziato quale era, stava lavorando ad un “cervello elettronico” capace di pensare “come me e te”, un’invenzione tale da richiamare l’attenzione del mondo comunista così come di altri servizi segreti e al tempo stesso costretto ad assumere per oltre un anno estrogeni, è evidente che in questa presunta volontà di farla finita, qualcosa non torna. Com’è possibile che un uomo tanto intelligente e capace di risolvere equazioni matematiche di elevato grado di complessità e dalle idee talmente rivoluzionarie da attirare l’attenzione dei potenti si sia così deliberatamente costituito per un delitto di cui era ben consapevole della conseguenze, crimine tra l’altro consumato con Arnold Murray, delinquente abituale con il quale aveva instaurato un rapporto basato sul denaro? Com’è possibile che un uomo che aveva prenotato “la macchina” all’università per il giorno seguente, che aveva colloquiato e cercato persone care per incontrarle potesse contemplare una tale ipotesi di morte?
In uno scenario di guerra fredda, pregiudizio e chiusura verso gli omosessuali nonché di retaggi verso gli ebrei, prende campo l’indagine posta in essere da David Lagercrantz, autore ormai noto al grande pubblico per la realizzazione del quarto capitolo della saga di “Millennium” del venuto meno Stieg Larsson. Enigma, tra l’altro, basato sulla matematica, sulla scienza ma anche su quello che è il puro e semplice aspetto umano.
Il testo si presenta avvincente, di facile e scorrevole lettura tanto che si conclude nell’arco di un paio di giorni. Seppur l’autore non riesca a far completamente breccia nel cuore dell’avventuriero, la ricerca della verità incuriosisce sufficientemente chi legge che vuol risolvere e far luce sul mistero.
In conclusione, piacevole, con uno stile molto più fluente di quello riscontrato in “Quello che non uccide. Millennium 4”, a tratti troppo freddo e distaccato. Non un capolavoro, ma sicuramente una buona lettura per chi ama i misteri, i thriller, gli enigmi.
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Chisti su mali iurnati, ascuta a mia...
Portella della Ginestra è una località in provincia di Palermo; poche anime ancora la popolano, suddivise nei paesi di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello. Gente povera, in gran parte contadini, gente che ama la propria terra e la lavora, dieci, dodici ore al giorno, dall'alba al tramonto, perché la terra offre loro il minimo indispensabile per vivere e crescere una famiglia, dignitosamente.
"Non ho memoria di aver vissuto bene. Né l'aveva mio padre e, prima, suo padre e il padre di suo padre. Per mangiare abbiamo rubato erba a pecore non nostre; per bere, raccolto, pagato e trasportato acqua da sorgenti che, chissà per quale volontà o potere, non ci appartenevano. Sempre abbiamo vissuto con dignità, anche se il poco pane l'abbiamo strappato ai sassi e dovevamo condividerlo coi padroni dei sassi."
Il libro di Loriano Macchiavelli è anzitutto un encomio a questa gente che è la parte sana e nobile della Sicilia ma è anche il racconto di un tremendo atto di violenza perpetrato nei loro confronti, un vero e proprio eccidio, che fu consumato in questa zona il Primo maggio del 1947: una carneficina talmente efferata ed implacabile da essere considerata la prima tragica strage della Repubblica, inaugurando la cosiddetta strategia della tensione degli 'anni di piombo'.
Su questo episodio tante sono state le ipotesi, i depistaggi, le testimonianze ma i veri responsabili, i veri mandanti che ordinarono il massacro al bandito Salvatore Giuliano restano tuttora impuniti e la strage di Portella della Ginestra rimane ancora un segreto di Stato.
L'opera di Macchiavelli non vuole indicare un colpevole o incriminare qualcuno, sia esso lo Stato o la mafia, o entrambi visto che un accordo segreto, un compromesso tra mafia e Stato che avrebbe salvaguardato gli interessi di ambo le parti è del tutto plausibile in quel periodo storico.
Questo romanzo vuole solo smuovere la memoria affinché il ricordo di quel giorno non si perda nel tempo, non si dissolva al vento.
Perché le undici persone falcidiate dal mitra di Salvatore Giuliano e dei suoi compari erano tutti innocenti, uomini, donne e bambini che si erano riuniti con tanti altri paesani nella vallata circoscritta dai monti Kumeta e Maja per un giorno di festa, l'unico in cui era consentito loro sollevare la schiena dai campi per onorare quello stesso lavoro con cui dignitosamente vivevano; ed era un giorno di festa non solo per i lavoratori ma anche per le loro famiglie, che a quel lavoro e a quella terra dovevano tutto.
Per loro, soprattutto per loro, non bisogna dimenticare; perché sono ancora lì che gridano, che urlano il loro dolore per essere stati strappati alla vita in un modo così ingiusto, così vigliacco, colpiti alle spalle da assassini nascosti tra i massi di Portella.
Quegli stessi massi su cui tutto il sangue versato non dovrà mai essere cancellato:
"Hanno fiori rossi le nostre ginestre e rossa è la ferita che le raffiche della mitraglia hanno scavato nella terra di Portella. Vedi lassù quelle rocce? Di là è partito il piombo rovente che si è conficcato nella carne dei nostri bambini."
Sono pagine molto toccanti quelle in cui l'anziano Omero rievoca al suo interlocutore gli eventi di quel drammatico Primo maggio; straziante il ricordo della gioia e dell'entusiasmo nei cuori dei ragazzi mentre salivano il monte, trepidanti per quel giorno di festa tanto atteso, e subito oscurato dal ricordo della pioggia di proiettili, del rumore assordante delle raffiche di fuoco che per quindici lunghissimi minuti portarono morte e sangue ovunque.
Altrettanto efficaci e degne di menzione sono le descrizioni del paesaggio siciliano, veri e propri affreschi dipinti tra le pagine del libro:
"Cattedrali di roccia dai pinnacoli aguzzi e figure, pure di roccia, che vento e pioggia e sole hanno modellato con lo scalpello del tempo. Qua e là, e improvviso, il mare chiuso da gole e montagne e infinito. Nuvole immobili impigliate nelle cime di monti aridi, e fra le nuvole brandelli di cielo."
Ad onor del vero, il libro intreccia gli eventi purtroppo reali di Portella della Ginestra con una storia dai connotati tipicamente polizieschi, un intrigo che vede coinvolti personaggi immaginari della mafia e della politica italiana.
Ma per quanto Loriano Macchiavelli sia un autore di spicco del 'giallo' italiano, e quest'opera non ne sminuisce certo la sua reputazione rispetto ai romanzi precedenti, ciò che rimane impresso nel lettore è altro.
E' la Sicilia, e la gente di Portella, i morti di Portella, il cui pianto dolente ancora risuona tra quei sassi in cerca di giustizia, solo giustizia:
'A 'ddu jornu, fu a Portedda,
cu ci va doppu tant'anni,
vidi morti 'n carni e ossa,
testa, facci, corpa e jammi,
vivi ancora, ancora vivi
e 'na vuci 'n celu e 'n terra:
O justizia, quannu arrivi?
O giustizia, quannu arrivi?
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Lea e Giacomo
Una storia tragica.
Lea e Giacomo, si amano e si odiano. Si prendono, si lasciano e si ripigliano.
Un legame che è come una corda tesa, alle estremità duellano espressione massima dei sentimenti e distruzione della sfera affettiva. Tirano, si impuntano, resistono e allentano la presa, poi alla fine la corda si spezza o c’è il vincitore?
Lei ama tanto da coprire il mondo, lui soffre troppo da imbruttire tutto.
Un passato che ritorna prepotente, fantasmi puntualmente presenti, gioie e dolori fanno a pugni, le pene si scontano.
Non importa quanto tempo possa passare, alcuni amori sono così forti da scorticare e dolere ad ogni cambio di stagione e alla fine richiedono il conto finale. Voltar pagina o perdersi nelle righe precedenti, già lette e vissute? Usare furbizia saltando all’epilogo, giusto per correre ai ripari?
Un romanzo dal sapore orientale per i rimandi e le citazioni. Una storia che in fondo non porta novità e ci fa anche storcere il naso su alcuni punti scontati. I personaggi non offrono mezze misure, o si odiano o si adorano, le loro scelte sono opinabili, i loro comportamenti discutibili, qualcuno vorrà condannare, altri osannare.
La penna è sempre piacevole, trascinante al punto giusto. Ho decisamente preferito altre sue opere (“Nessuno sa di noi” e “Se chiudo gli occhi”).
Concludendo, una lettura fra tante, tutto sommato gradevole.
“ Ci sono amori che aprono spazi e altri che quegli spazi li riempiono. Amori che spalancano finestre, facendo entrare il vento, la pioggia, la neve; e altri che si preoccupano solo di proteggere, di tenere al riparo dalle intemperie. Giacomo era stato uno di quegli amori dolorosi, da porte aperte e mai richiuse”.
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Il gioiello che era nostro
Norman Colin Dexter è il creatore dell'interessante personaggio del detective Morse. Riesce perfettamente a fondere la componente classica del giallo deduttivo al poliziesco d'azione. Docente di greco all'università e specialista in enigmistica, Colin Dexter mette tutte le sue conoscenze nei romanzi della serie del detective Morse, diventando famoso, prima in Inghilterra e poi nel resto del mondo, anche grazie alla fortunata serie televisiva inspirata alle indagini. Dexter trascina il lettore in una giostra di indagini, ciascuna con raccolta di indizi, analisi, profilo del sospettato, ricostruzione del passato, trama del crimine e colpo di scena catastrofico. Seguire il personaggio di Morse nella sua attenta analisi della scena del crimine, dei tanti dettagli, che, attraverso deduzione e colpi di scena si trasformano in illuminazione finale è il massimo che un lettore appassionato di questo genere possa chiedere. Anche il metodo narrativo è geniale e attento nel dosare suspense e colpi di scena. Inoltre, l’ironia del narratore rappresenta quel tocco in più che delinea, arricchendo di sfaccettature, i vari personaggi che affollano la trama e ruotano intorno all'indagine.
In questo caso, IL GIOIELLO CHE ERA NOSTRO, a sparire è un antico gioiello, il Puntale di Wolvercote, che un’ereditiera americana vuole donare a un museo di Oxford. Ovviamente, il gioiello non arriva a destinazione, perché viene rubato. Poco dopo il furto, la proprietaria muore d'infarto e il curatore delle antichità anglosassoni del museo, il professor Theodore Kemp, viene assassinato. C'è sempre qualcosa che può accadere. Morse lo sa e indaga al fine di prevedere l'imprevedibile, mettendo ogni tassello al suo posto, per svelare la giusta concatenazione degli eventi. Scrutando in ogni dettaglio, il solitario detective Morse scopre qual è il «gioiello che era nostro» alla base di una catena di morti dolorose.
IL GIOIELLO CHE ERA NOSTRO è un romanzo stimolante dal punto di vista intellettuale e avvincente dal punto di vista narrativo. È un'ottima lettura per gli amanti del giallo.
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33 pillole di realtà.
“Passeggeri notturni” è un libro davvero particolare.
Il testo è stato presentato come una raccolta di 33 racconti (ciascuno di sole tre pagine) in cui l'autore affronta temi diversi con stili diversi, utilizzando con sapienza dosi di ironia o di serietà, a seconda delle necessità.
Tuttavia “Passeggeri notturni” mi è sembrato qualcosa di più di una semplice raccolta di racconti.
Data la brevità del testo, i racconti possono essere “divorati” anche solo in un'ora.
La prima lettura potrà essere veloce ma è con la seconda (o con la terza o la quarta...) che si apprezzano davvero i singoli racconti che Carofiglio ci offre.
Consiglierei di leggere un racconto per volta, quasi come se ogni racconto fosse una pillola giornaliera da assumere, magari prima di andare a dormire.
Questi 33 racconti immortalano come fotografie momenti di quotidianità, temi delicati, situazioni particolari o divertenti.
Ci saranno sicuramente racconti che verranno maggiormente apprezzati rispetto ad altri; tuttavia, nonostante conclusa la prima lettura ne ritenessi alcuni addirittura non adatti alla raccolta nella sua “globalità”, con le successive letture, più lente e ragionate, mi sono dovuta ricredere.
Un filo invisibile collega ogni racconto di “Passeggeri notturni” che risulta così essere un ottimo punto di partenza per riflettere su noi stessi, sugli altri, sulla realtà e sulla vita.
Non penso che per presentare un così particolare testo sia necessaria una lunga recensione.
La lettura di questi racconti è un'esperienza estremamente personale: ognuno avrà le proprie reazioni, i propri pensieri, le proprie opinioni. Potranno far sorridere, far arrabbiare e, perché no, anche far piangere.
Quindi, che dire se non: “Buona lettura?” :)
“Un monaco incontrò un giorno un maestro zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domandò:
- Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos'è la realtà? - Il maestro gli diede un pugno in faccia”.
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Divieto di addio
Il romanzo per il contenuto mi ha ricordato molto La lucina, forse più deGli increati per la presenza del bambino e per chi rappresenta quel bambino. Anche qui il discorso è difficile: come può l’uomo spiegarsi e giustificare la sofferenza dell’innocente. Non può. Non c’è spiegazione che convinca, non c’è ragionamento, non c’è azione che la possa colmare e sanare. Nemmeno la vendetta del poliziotto giustiziere serve a nulla. L’unico balsamo è la vicinanza solidale dell’uomo al bambino, del bambino all'uomo, quell'esserci e camminare vicini. Per il resto il male è invincibile, è troppo forte, è alla radice di tutto, prima e dopo. Nemmeno in una favola si riesce a estirpare la sua radice maligna in modo da far cessare il canto dei bambini che accolgono altri bambini che in ogni momento muoiono di morte violenta. Il mondo è ingiusto, violento, marcio. Le ferite che vorremmo curare e vendicare sono le nostre stesse ferite, l’unico guadagno è tenere per mano noi stessi bambini.
Di fronte alla tenerezza dell’uomo per il bambino fa quasi un passo indietro anche l’amore che è meno presente che negli altri romanzi di Moresco. La tenerezza per il bambino riempie tutto il romanzo in modo bello e straziante e la si percepisce dal non detto, dal non descritto, dal rispetto con cui è trattato il tema da uno scrittore che di solito non ci risparmia nulla. La critica al male è radicale, c’è il male evidente dell’uomo di luce che risplende nella sua terribile ovvietà e c’è il male nascosto nelle pieghe della società, subdolo e carnivoro. C’è una descrizione della materia che rimanda alla morte, all'abiezione, al degrado come quando vengono descritti certi personaggi che mangiano, ruttano, guardano film porno come se piacere e dolore fossero strettamente legati e il male si nascondesse tra le pieghe della vita, di quella che consideriamo vita. I bambini cuciti, i bambini che cantano però sono immagini di pace, nonostante tutto. Certo, di fronte al dolore dell’innocente non c’è risposta solo umana.
Come direbbe Camus, anche se tutti dovessero morire di peste il medico resta al suo posto a fare il medico fino alla fine e pure il poliziotto e, perchè no, lo scrittore con i suoi occhi bianchi. Infatti, le parole sono importanti per combattere il male: sono il cannone, la mitragliatrice, la pistola e la bomba a mano.
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Un argomento non semplice
L'attrice brasiliana Fernanda Torres per la prima volta si cimenta nella scrittura. "Fine" è il suo primo romanzo, ambientato nella sua città, Rio de Janeiro.
Cinque amici di lunga data sono i protagonisti. Troviamo Alvaro l'impotente, Neto il monogamo, Ribeiro sempre a caccia di vergini, Silvio il trasgressivo e Ciro l'infedele. Cinque amici che arrivano alla fine e riflettono sulla vita.
La Torres divide il romanzo in sei capitoli, dedicando i primi cinque a ogni protagonista. I capitoli sono brevi, legati gli uni agli altri e vanno a toccare l'intimità dei personaggi.
Ognuno di loro ha affrontato la vita come meglio credeva, arrivando alla fine e tirando le somme e ricevendo il giusto trattamento per le azioni compiute. Impossibile non far partecipare anche le varie moglie e figli a questo resoconto. La fine ci mostra i risultati.
La Torres utilizza un linguaggio schietto, spicciolo. Mostra una società insoddisfatta, anche nel pieno degli eccessi, sempre incompleta. Alla ricerca di qualcosa che inevitabilmente porta verso il tramonto. Con la domanda che aleggia nell'aria "Chi sarà il prossimo?".
Un libro che non lascia soddisfatti, che mi ha fatto storcere il naso e la bocca più volte. Non per il modo di scrivere, ma per la realtà che rappresenta. Uno scorcio sul mondo maschile che fa male. Su vite portate all'estremo oppure vissute in maniera apatica. In entrambi i casi, il risultato cambia poco, e l'amarezza resta.
La Torres, si è scelta un argomento davvero molto forte. Ha deciso di scrivere sugli uomini e su come affrontano la loro fine, andando a scovare vite che rappresentano in alcuni casi gli estremi della società. Ce ne lascia un'immagine non molto ottimistica. La sua scrittura per tratti ancora acerba mostra però un buono stile. E' diretta, spietata, maschile e riflessiva.
"Non faccio la raccolta differenziata, non riciclo niente, butto le cicche nel gabinetto, faccio lunghe docce calde e lascio il rubinetto aperto per lavarmi i denti. Chi se ne frega dell'umanità. Tanto non sarò qui a vederne la fine".
È una lettura che non consiglierei a tutti. Non è un racconto, è un romanzo diviso in più parti. Un libro tragico, reale e diretto.
Buona lettura!
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Attenzione a ciò che si desidera
"La stanza in fondo alla casa è un rettangolo. Si entra da una porta alla fine del corridoio, accanto alla porta c'è il letto, accanto al letto un mobile e accanto al mobile la finestra".
Jorge Galan ci racconta una storia romantica, piena di fantasia quasi fiabesca, dove persone strane con doni o condanne altrettanto strane si trovano a convivere assieme. Questa storia è per la maggior parte incredibile, ma comunque coinvolgente, capace di stimolare la curiosità, piacevole da leggere scorrevole e densa di sorprese.
Una donna ormai anziana che si trova appunto nell'ultima stanza della casa, avvolta nella penombra racconta al nipote la storia dei suoi antenati. Lo fa correndo a ritroso nel San Salvador degli anni 1900. Lo fa parlando non solo dei familiari, ma anche di amici, conoscenti e vicini di casa che in qualche modo hanno influenzato la vita l'uno dell'altro. Innanzitutto ci parla di lei: Magdalena una ragazza tanto bella che si diverte a far girare la testa agli uomini. Quegli uomini però non sanno del suo terribile potere. E' quello di far avverare disgrazie alle persone che l'hanno ferita. Troppo buona per poter abusare di un tale potere passerà la vita a trattenersi per paura di far del male a qualcuno. Solo alla fine quando desidererà intensamente che il marito straziato da un cancro muoia non riusccrà ad ottenere nulla. Il suo potere deriva dall'odio e dalla rabbia non dall'amore e dalla pietà, ma in lei sono questi ultimi i sentimenti che prevalgono.
E dai meandri della magia arriva anche la baby sitter spinta dal vento e incapace di dire no. Tanto incapace di farlo che le sue mani sono completamente lisce: il suo destino dipende dal vento e quindi non è segnato dalle linee della vita. Anche per lei è l'amore che domina su tutto e anche lei ne sarà colpita, travolta e infine straziata.
Ci sono tre colori che dominano questo volume:Il giallo dei bambù che circonda la casa dei nonni dove una Magda bambina ascolta molte torie, il bianco profumo notturno dei gelsomini che circondano la casa dell'adolescenza e della prima giovinezza e infine il buio che avvolge l'ultima stanza, dà riparo e forse riposo a chi per tutta la durata del libro ha sofferto, sperato e camminato in punta di piedi.
Volume all'inizio non semplice da seguire, perchè le prime pagine ti fanno dire: ma dove vuole andare a parare?. In breve però tutte le tessere del puzzle vanno al loro posto, i personaggi si delineano e si capiscono chiaramente legami e funzioni all'interno della trama. Scrittura scorrevole, ricca di dettagli anche olfattivi e paesaggistici che rendono più coinvolgente la trama. Si legge in tranquillità e anche piuttosto velocemente ( ha solo 200 pagine). Forse merita una seconda lettura per cogliere meglio tutti i dettagli.
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Gesù uno di noi. Noi.
Un libro organizzato come un copione teatrale, un dialogo fra Giuseppe e Maria in prossimità della nascita del Redentore, durante la sua vita e dopo la sua morte. La voce del narratore spiega e contestualizza la storia, le vicende sono inserite geograficamente nei luoghi canonici, ma la mentalità e le usanze sono tipicamente quelle del nostro meridione.
A chi somiglia il bambinello santo? Il pettegolezzo per una paternità accettata di cuore da Giuseppe, ma con un evidente dubbio, nato dalla certezza di non essere il padre naturale di Gesù, un atto di fede e di fiducia nei confronti di Maria, che è sicuramente pura e indiscutibilmente onesta. Un amore quello fra Giuseppe e Maria che va oltre, è forte nonostante tutto, Gesù definito come il primo “latitante” della storia, Gesù visto come un bambino speciale, poi un ragazzo speciale e in fine un uomo speciale. In prossimità della Pasqua, che per i cristiani è la commemorazione della morte e risurrezione di Cristo, questa è una lettura interessante, anche se a onor del vero non mi ha particolarmente entusiasmato. Simpatico il tentativo di italianizzare la Sacra Famiglia con sfumature caratteriali tipicamente partenopee e meridionali, quasi a voler dire che la Sacra Famiglia siamo noi, è in noi, è lo specchio di ogni famiglia, un tentativo di renderla più intima, più vicina a noi. Cristo è un messaggio vivente per tutti i credenti di fede cristiana, ma lo è anche per i credenti di altre fedi, che lo riconoscono quanto meno come profeta. Cristo reso umano nella sua misticità, per poter essere più facilmente comprensibile anche ai cuori meno mistici.
Questo è il senso che ho voluto dare a questo libro, che non definire un romanzo, ma un messaggio e in questa chiave, complessivamente, non mi è dispiaciuto. Un po’ forzata però la strada presa da De Luca per “meridio-italianizzare” la vita e la morte di Cristo.
Anche lo stile di De Luca è diverso dal solito in questo libro, a mio avviso meno poetico del solito, anche se dimostra tutta la sua conoscenza su questo argomento.
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Un'estate per sempre
Una delle penne dei Wu Ming si è staccata dal collettivo per pubblicare un piccolo romanzo in solitaria.
Il formato ed il titolo del romanzo non possono non ricordare una fiaba, un viaggio nel mondo della fantasia.
Difatti il racconto inizia come una storia di bambini, di avventure estive, di giochi nella casa sull'albero, di esplorazioni in vetusti casali infestati da orchi.
Presto il substrato narrativo si arricchisce, si popola di personaggi adulti, di madri e padri, di reduci di guerra, di famiglie perfette e di famiglie misteriose.
La fiaba svapora in un testo dal sapore amaro, innescando un connubio tra il mondo visto da un manipoli di ragazzini e il mondo degli adulti, di una società a tratti umana a tratti crudele.
Il mondo spensierato dell'infanzia entra in contrasto con forze bieche e malvagie, con segreti custoditi e tramandati, con le sfumature più diverse dell'animo umano.
Un'estate da ricordare come un marchio a caldo sulla pelle, un'estate traumatizzante.
Interessante questa rappresentazione del passaggio dalla stagione della spensieratezza a quella della consapevolezza, dal sogno alla ragione.
Un tema già trattato in letteratura eppure un esperimento narrativo riuscito, che nonostante lo si legga con la leggerezza stilistica di una novella, tuttavia non risulta per nulla scontato e si presta a diversi piani di lettura.
Amaro come solo la vita reale riesce ad essere, dolce come il viso di un bimbo che sgambetta tra prati verdi, misterioso come tanta parte dell'esistenza di uomo.
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MENTALISTI
Carlo Martigli nel suo ultimo romanzo affida a Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, l’indagine sugli intrighi in Vaticano, ipotizzando per assurdo che nel 1903 Leone XIII, prima di spirare, ricorra a lui per scoprire chi ha spinto una cameriera e una guardia svizzera a gettarsi da una finestra; suo scopo è impedire che il colpevole diventi papa. Perché proprio lui, ebreo e notoriamente scettico in materia religiosa? Il motivo è semplice: suo compito non è quello di andare in giro a raccogliere indizi e ad interrogare testimoni. Egli deve limitarsi a far sdraiare sul suo lettino i tre possibili indiziati, esaminare i loro sogni e da lì trarre le sue deduzioni. L’inchiesta dunque prevede molta più riflessione che azione, tanto più che l’immersione nell’ambiente romanzo provoca nel dottore viennese rigurgiti di sensi di colpa provocati dal risveglio dei sensi nonché aneliti di auto analisi. La promozione a “ mentalista” di un personaggio storico è un topos nella detective story, basti pensare, per limitarci ad un solo esempio, ad Aristotele nei libri della canadese Doody. Ma a non convincere pienamente nella contaminazione fra romanzo storico e giallo in questo caso è proprio l’assenza di un vero percorso che conduca a una verità sorpredente: gli intrighi trans Tiberim restano sullo sfondo, limitati ai peccati di letto, cosi come i demoni vestiti di porpora della situazione, tratteggiati in breve, non affascinano più di tanto, abbastanza simili come sono l’uno all’altro nelle loro ambiguità. Ma forse la delusione deriva dall’impatto con la realtà svelata della recenti inchieste giornalistiche di Fittipaldi e Nuzzi: altro che romanzo!
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Un sogno da rincorrere
Un attimo sei un giovane pieno di speranze che affida alle stelle i suoi sogni e l’attimo dopo ti ritrovi un quarantenne che di sogni non ne ha più e, anzi, non saprebbe nemmeno da dove iniziare per trovarne uno. Perché anche alla stella più luminosa ogni tanto devi concedere uno sguardo affinché possa continuare a dare luce alle tue speranze. Invece la quotidianità finisce per avere il sopravvento e ti trascina per inerzia lungo un cammino che non riconosci nemmeno più come tuo, tracciato dalle aspirazioni della famiglia, dalla voglia di accontentare o non far soffrire chi ti sta accanto o forse, semplicemente, dalla difficoltà di concederti tempo per capire cosa vuoi davvero e trovare poi il coraggio di dar voce a questi desideri.
Tutto questo lo sa bene Erri Gargiulo, che di persone con cui fare i conti, nella propria “famiglia allargata”, ne ha davvero tante: un padre biologico assente che gli ha insegnato a calpestare le emozioni in nome di una presunta pace interiore, una madre dispotica che ha sempre imposto le proprie scelte nascondendo le proprie fragilità, un padre acquisito dal cuore buono che si ha paura di perdere, una pletora di mezzi fratelli e mezze sorelle dalle svariate combinazioni genetiche. Mezzi. Come si è sempre sentito Erri. Che ha reagito imparando a vivere in difesa, nell’ombra, senza dare fastidio, senza alzare la voce. Per non esporsi al dolore.
Ma quando, all’improvviso, Erri si ritrova a dover affrontare il tradimento della moglie e il conseguente licenziamento da parte del suocero, questa forzata libertà si trasforma nell’occasione per fare i conti con se stesso e i propri desideri. E comincia a ripensare al passato, raccontandoci lucidamente dei piccoli e grandi avvenimenti che hanno tracciato il suo cammino e delle persone che lo hanno accompagnato, la sua famiglia.
Ancora una volta Lorenzo Marone ci parla di vita da vivere, di scelte da affrontare, di possibilità. E ancora una volta lo fa con la semplicità di un personaggio capace di arrivare al cuore di tutti perché nella vita di ciascuno di noi vi sono sogni segreti che col passare del tempo sono diventati segreti persino a noi, occasioni perdute che ci portiamo dietro come zavorre, la paura di cambiare e renderci vulnerabili. La narrazione scorre morbida e coinvolgente e ci accompagna in modo ironico e accattivante nelle pieghe di questa famiglia napoletana scombinata, una galleria di anime e personalità diverse, che si vogliono bene a modo loro, ciascuno con la propria storia e la propria formula per vivere, o quantomeno per arginare il dolore: dall’accettazione più rassegnata all’intransigente rifiuto di ogni regola.
Leggere queste pagine innesca ancora una volta una riflessione sulla vita reale, la nostra, e viene voglia di guardare nella notte e cercare una stella.
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Per amore solo per amore
Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo, giovane autore pluripremiato e il cui talento fu avallato dal grande Tabucchi in occasione della pubblicazione di “Dove eravate tutti” propone, attraverso un impianto narrativo filtrato dalla voce narrante di Grazia, una storia di crescita personale condita da un mix di saporita tutta italiana: il conflitto generazionale del meraviglioso “Ai miei tempi..”, la presenza ingombrante e problematica di una popolazione vecchia, l’eterno dilemma tra ateismo e cristianesimo, la lontananza sempre più marcata dal faticoso giro di boa rappresentato dall’ingresso nell’età adulta.
Quando si diventa adulti in Italia? Quanto l’appartenenza ad una precisa epoca incide sulla qualità della vita che si sta vivendo? Qual è la genuinità del nostro vivere?
Il vissuto di Nino, ventitreenne scapestrato, dall’ottobre del 2012 al maggio del 2013 offre la possibilità di conoscere le difficoltà legate alla crescita di una giovane persona quando nel suo cammino si incrociano due direttrici importanti: un serio impegno di lavoro e un sentimento d’amore vero.
Nino torna in Italia da Londra perché Grazia, sua ex insegnante di teatro, gli propone, complice una madre disperata, una docenza a Roma in un corso di teatro per anziani. Incontra ogni lunedì Teresa, nipote trentenne di Grazia e sua accompagnatrice. Benché i due siano molto diversi, in loro nasce un reciproca curiosità che gradualmente li farà aprire l’uno all’altro...
Scritto con una prosa frizzante, veloce, si lascia leggere facilmente offrendo alcuni spunti di riflessione intervallati da eventi storici recenti il cui impatto ha probabilmente segnato anche il vostro vissuto. Ho apprezzato l’idea di raccontare una storia “quasi solo d’amore” che avvicina ad un messaggio sempre attuale: amarsi e amare, affidandosi ad altri non sempre e necessariamente all’interno di un rapporto sentimentale. Lo consiglio a chi gradisce letture veloci ma non superficiali, ambientazioni italiane dal verace sapore nostrano, sperimentazioni stilistiche mai audaci ma efficaci.
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LA VITA SECONDO ZIO ASHER
“Ascolta lo zio Shmuck, okay? Le cose vanno e vengono, e tu devi essere un ricettacolo, devi fartene attraversare. Altrimenti, per te, ragazzo, la morte sarà atroce, e a me spiacerebbe tanto. Che cosa vuoi diventare, un inscatolatore di esperienza? Ci metterai un tappo sopra e uno sotto? Lascia che l’esperienza fluisca, lasciala andare. Aspetta e accetta e impara a tirar via la mano. Non aggrapparti! Che cos’è il matrimonio, se non merdosa forma di rapacità, una terribile, ripugnante manifestazione di superbia.”
Il romanzo ha un incipit e un finale bellissimi, due lettere, la cosa migliore del romanzo, degne dell'ultimo Roth.
La storia è scritta in parte in prima persona dall’io narrante Gabe, studente e poi docente di letteratura che conosce una coppia: Paul e Libby Hearz. Gabe si sente di dovere la sua educazione sentimentale a Henry James, e Henry James è galeotto all'inizio del romanzo nel creare un filo d’attrazione tra Gabe e Libby. Bisogna però anche dire che Henry James stesso nutre seri dubbi sulle proprie capacità nel campo dei sentimenti, espresse in modo toccante in uno dei suoi racconti La bestia nella giungla, con rara sincerità. Magari maestro di stile,di eleganza, di nebulosità, ma affidare l’educazione sentimentale a Henry James….
Gabe presta, come dicevo, Ritratto di signora a Paul, ma lui non ha tempo per il romanzo, perciò lo legge Libby; all’interno del romanzo c’è la lettera della madre di Gabe, una lettera molto personale (quella dell’incipit). Dalla lettura nasce una certa intimità tra i due e anche attrazione. Gabe però ha l'attrazione facile, come vede una donna se ne innamora e entra in confusione. Libby dal canto suo ha un marito cervellotico e antipatico, adatto a rovinare la vita propria e altrui. Paul l'ha sposata senza ascoltare i giusti consigli di zio Asher di rimandare alla fine degli studi il matrimonio, l’ha spinta ad abortire quando lei desiderava tanto un figlio, e quando quel figlio poteva far loro recuperare il rapporto con i genitori di entrambi, rotti a causa del matrimonio. L'aborto era tra l'altro clandestino con il 16% di possibilità di morte della donna, e Paul aveva seri dubbi sulle capacità del medico. Il legame della coppia è da subito una specie di cappio al collo; Libby deve lasciare gli studi. L'aborto (causato dal rifiuto inconscio di John del legame) rappresenta il secondo passo falso. L'aborto verrà pesantemente espiato con l'astinenza sessuale, il disamore, la malattia di Libby e la sua nuova rinuncia agli studi e l'adozione costosissima di un altro bambino.
Spero tra l'altro che le adozioni in America non funzionino più così come viene descritto nel romanzo.
Gabe nel frattempo pur pensando a Libby con una parte del cervello, conosce una donna divorziata con due figli, Martha, ma anche lì porta scompiglio perché pensa a corrente alternata di amare/non mare la donna che certamente è attratta da lui. Gabe nel momento del culmine della passione e dopo che Martha ha passato due notti insonni a vegliarlo malato, non appena si alza va a perquisire gli armadi della poveraccia facendo notare al lettore e a Martha stessa lo stato di tremendo disordine della sua casa. Non solo, nota subito che la donna, una taglia forte, ha dei pantaloni che le ingrossano il sedere, e fa i suoi commenti velenosi con il lettore e con lei sullo stato del suo abbigliamento. Per non parlare delle meschine discussioni sui cento euro dell’affitto che lei non ha, e che chiede a lui (figlio di dentista di grido) con grette discussioni sulla spartizione delle bollette. Questo al culmine della passione, facciamo passare un anno. In ogni caso, la collega di Martha resta incinta e nel frattempo la coppia di Libby e Paul ha deciso di adottare il bambino e Gabe darà una mano anche in questa impresa grottesca.
Il lato debole del romanzo è che Roth non è ancora ben consapevole di sé, dei suoi limiti e punti di forza umani, di cosa è e di cosa vuole come uomo, non come scrittore. Nel romanzo si intravede, in alcune pagine molto chiaramente il talento del grande scrittore ma credo che questo non sia il suo miglior romanzo. Non c’è quella sua bellissima feroce lucidità. C’è una nebulosità non solo sentimentale, ma di conoscenza di sé, che allontana il libro dal lettore. I personaggi sono ondivaghi, soprattutto gli uomini, e le donne sono un po’ troppo succubi. Credo che il consiglio di zio Asher nel caso di Gabe e anche di Paul sia azzeccatissimo. In varie parti del romanzo Gabe decide di sposare qualcuno, in genere Martha. Ma poi si ricrede sempre. Non so, in questo romanzo le cose che mi piacciono di Roth non sono ancora molto evidenti, ma è sempre un Roth. Forse è un Roth che potrebbe piacere anche ai non –lettori di Roth, forse più a loro che agli altri. In ogni caso ci regala una storia sentimentale godibile, piena di dialoghi intelligenti (anche se non sempre brillanti come nei suoi migliori romanzi), e con molto poco zucchero. Forse alcune pagine andavano tagliate, per esempio la visita di Gabe ai parenti di Paul. Adatta per i lettori sentimental-diabetici ma non per le lettrici di romanzi rosa. L’idea di “sentimentale” che ha Roth lascia abbastanza a desiderare. Io lo preferisco come mostro senza cuore, dopo la metamorfosi o l’autocoscienza quando passa al sesso e lascia perdere i sentimenti che tanto non fanno per lui.
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Il licantropo atipico
Anne Rice, la regina dei vampiri, la fantastica ideatrice di " Intervista col vampiro" (1976), un cult della narrativa horror che ha ispirato centinaia di libri, torna con un nuovo romanzo e con un nuovo essere soprannaturale come protagonista: il licantropo.
Niente vampiri dunque, mi dispiace per i vampirofili come me.
Il protagonista è Reuben Golding, un ragazzo giovane, molto bello, molto ricco, molto intelligente che per un incidente tragico, in cui perde la vita una donna, molto bella, molto ricca, molto intelligente e, a quanto pare, molto disponibile (come tutte le donne di questo libro), eredita il Crisma, ovvero il dono del lupo. Da principio, Reuben, spaesato e spaventato, non capisce quello che gli stia succedendo, ma quando, notte dopo notte, si trasforma in una specie di satiro, alto un metro e ottanta, con i capelli lunghi, le zanne e la pelliccia dappertutto, capisce di essere cambiato.
Una serie di avvenimenti farà via via luce sulla sua natura e il fantasma di Felix Nideck, uomo avvolto nel mistero e che sembra fortemente legato al destino di Reuben, tornerà per fare chiarezza e per un regolamento di conti che sembra durare da millenni.
Nessuno sa della sua nuova vita, solo Jim, suo fratello, e Laura, misteriosa donna dai capelli d’argento incontrata nel bosco: Reuben, da lupo, può sentire l’odore del male e dell’innocenza, viene richiamato dalle voci e dalle urla della gente bisognosa di giustizia e vendetta e non può in nessun modo tirarsi indietro. Diventa una sorta di paladino della notte, mentre durante il giorno interroga se stesso su temi profondi e importanti, quali l’esistenza di Dio, il significato del bene e del male, della vita e della morte.
Due punti fondamentali lo diversificano dal classico licantropo: prima di tutto, la trasformazione non ha nulla a che fare con la luna piena e, in secondo luogo, non è dolorosa e straziante, come siamo abituati a pensare, ma viene accompagnata da ondate di piacere che liberano tutta la forza prorompente del dono.
Non è dunque un licantropo qualsiasi ma un Morphenkinder, un essere giusto e al di sopra delle parti, dotato di una coscienza e di un cervello perfettamente funzionante, anche durante la mutazione, che combatte contro l’odore del male, dell’egoismo e della cattiveria.
Tutta la storia sembra promettere bene, dunque perché l’ho votato in modo mediocre?
Il ritmo della narrazione coinvolge ma, a mio avviso, procede a singhiozzi, alternando parti più scorrevoli a pozzanghere in cui mi sono infangata e, a dirla tutta, annoiata; ho trovato le donne del romanzo, a parte la madre di Reuben, senza spessore, pronte a gettarsi nel letto di Reuben senza una plausibile giustificazione, un mero contorno, nonostante lo sforzo dell’autrice; il personaggio principale non mi ha affascinato per nulla: sì è bello, è ricco, è sveglio, ma non mi ha conquistata, anzi, al contrario, l’ho trovato poco profondo, superficiale, un tentativo non riuscito.
Questo non vuol dire che nel romanzo non si affrontino temi di una certa consistenza ma il modo in cui è stato fatto, in cui i pensieri e le idee dei personaggi sono stati incastrati nella trama, non mi ha convinta: credo che la battaglia tra la razionalità, la volontà di conservarsi umani e civili e la bestialità, l’istinto primordiale di cacciare, combattere, abbandonarsi alla propria natura sia stato mal elaborato e, in alcune parti, spiegato in modo troppo complicato e astruso.
Devo ammettere che mi aspettavo molto di più, probabilmente perché l’aspettativa era molto alta.
Ho apprezzato, tuttavia, l’originalità di alcuni elementi, come le caratteristiche intrinseche del dono di Reuben, diverse da quelle che associamo normalmente ad un licantropo, e il personaggio di Felix Nideck che mi è piaciuto molto, pur comparendo non tanto quanto avrei voluto.
Credo che Anne Rice abbia un dono: quello di scrivere ma, purtroppo per me, non di licantropi. Molto meglio le sue idee geniali sui vampiri, su personaggi indimenticabili come Lestat, Louis, Armand o Pandora. Reuben? Da dimenticare.
New York, New York...
New York, capodanno 1976. Mercer Goodman, ventiquattrenne di colore originario di Altana, vive nella metropoli con l’amato William Stuart Althorp Hamilton-Sweeney III, trentaduenne musicista, artista, eroinomane, cocainomane, diseredato uomo che non ha superato la morte, avvenuta all’età dei suoi sette anni, della madre. Da allora ogni occasione è stata una sfida, una lotta, la possibilità per mettersi contro quella famiglia che tanto disapprova.
La trentaseienne Regan Hamilton-Sweeney, sorella di William III, sta affrontando la separazione dal fedifrago marito Keith Lamplighter, consulente patrimoniale con cui ha concepito William IV, 12 anni, e Cate, 6 anni. Al contempo cerca di far fronte a quella che è la crisi dell’attività di famiglia, soprattutto dopo l’ultima rivelazione posta in essere dallo spietato Armony, lo zio diabolico e dalla nuova moglie del padre Felicia. Ma non è semplice gestire tutto ciò e al contempo resistere a quell’irrefrenabile bisogno di mettersi due dita in gola ed espellere tutto quello che ha dentro, tutto il dolore e la sofferenza che prova, tutto quel senso di impotenza, di sconfitta, di abnegazione che la distrugge dall’interno, che la fa sentire una fallita, che la confina in una condizione di cecità verso quelle due anime ancora in fase di crescita eppure sempre più dedite ad allontanarsi da lei.
Charlie Weisbarger, diciassettenne adottato ebreo ed asmatico dalla folta capigliatura rossa, non può resistere all’occasione di uscire con Samantha Cicciaro, coetanea che lo ha aiutato a far fronte al lutto per la prematura morte del padre ed il sopravvenire di due gemelli, tanto desiderati dai genitori, ma di fatto individui che lo hanno confinato nella condizione di invisibile. Mai si sarebbe però aspettato che la serata si sarebbe conclusa con un esito tanto disastroso. Il programma tutto sommato era semplice; recarsi nella city ed assistere al concerto degli Ex Nihilo originariamente Ex post facto, sballarsi un po’ – evitando la polverina bianca, almeno per ora, come si erano ripromessi – ed aspettare la mattina. La mezzanotte. Uno sparo, o forse erano due, Un corpo, una giovane ragazza riversa in una pozza di sangue, colpita da una serie di colpi di arma da fuoco da parte di ignoti. In condizioni critiche, in coma.
Da qui l’introduzione di altri due personaggi, Richard Groskop, giornalista che entrerà nelle simpatie di Carmine Cicciaro, padre di Sam, e che al contempo ha un pluriennale rapporto d’intesa con Larry Pulaski, viceispettore storpio a causa della polio e chiamato ad indagare, seppur non ufficialmente, sul mistero di Central park. Ed ancora di Bruno, omosessuale, mercante d’arte ed ex insegnante di William III e della sua collaboratrice Jenny Nguyen, vietnamita. Accanto alle vicende principali si affiancano ancora i rocker che hanno colorato gli anni del tempo e che sono riportati a galla da un musicista realmente esistente e trasmutato nell’opera, così come da Nicky Chaos, Sol, Sewer Girl e tutti gli altri esponenti che nel libro rappresentano il movimento punk, o ancora i sovversivi, quelli che dicono no senza avere il coraggio di dire anche di si, i post-umanisti e ancora e ancora.
Onde evitare di svelarvi altro sulla trama, e dunque rovinarvi il gusto della lettura, su questa mi sono limitata a darvi le linee guida per affrontare un testo corposo, solido ma anche caratterizzato da una vastità di personaggi che si intersecano l’uno con l’altro.
L’ambizioso progetto di Garth Risk Hallberg di misurarsi con il cd «Grande romanzo americano» con le sue 1.001 pagine, non delude i lettori né per contenuto né per qualità. In primo luogo è bene precisare che è un elaborato tanto statunitense quanto europeo; battuta dopo battuta non mancano riferimenti a personalità quali Proust, Balzac, Marx, Nietzsche, (o al russo) Bakunin etc così come innegabile è la struttura classica, con temi moderni, del libro. La prima sensazione è infatti quella di trovarsi dinanzi ad opere quali “Grandi speranze” di Dickens o ancora alla “Century trilogy” di Ken Follet o ancora, per qualità e scorrevolezza narrativa, alla J.K. Rowling.
Il secondo elemento che viene immediatamente all’attenzione del lettore è quello della realtà storica descritta. New York non è infatti la Grande Mela che siamo abituati ad immaginare, non è quella metropoli ricca di offerte, di occasioni, di innovazione e possibilità; è al contrario un luogo di disillusione, di abbandono, dove criminalità e droga regnano sovrane sulla scia di quello che fu il ’68 americano, dove vi è il desiderio di cambiamento ma non la volontà di porlo in essere. E’ al limite del collasso, al limite della sua sopravvivenza. Dà l’impressione di implodere dentro e su se stessa. E’ l’imperfezione pura e semplice. Eppure, è proprio in questa imperfezione, manifestata con questo amore difficile fra William e Mercer, dove il docente cerca di abbattere quella volontà di indipendenza e quelle barriere del pittore che si chiude a riccio e scappa ad ogni scalfitura del suo guscio da tartaruga, in quello inespresso di Charlie per Sam, in quello inclinato dal silenzio tra Keith e Regan, in questo senso di impotenza per la distruzione, in questo disilluso modo di osservare gli anni che scorrono, in questo abbandono alle sostanze stupefacenti per non pensare per non affrontare i problemi, che risiede la bellezza e la verità di un romanzo che colpisce ed affonda nel cuore di chi legge per quelli che sono i contenuti e le vicende e non tanto per la biblicità e la grandiosità della mole cartacea del testo.
Leggendo questa immensa narrazione (ri)troverete i Televisori di “Marquee Moon”, i Suicide di Martin Rey e Alan Vega, le tinte livide della Bowery e del Bronx, i “Great Jones Street” di Don DeLillo, Ziggy Sturdust, i Ramones, i Led Zeppelin, il “Chiamalo sonno” di Henry Roth, i the Clash, Iggy e molti molti altri esponenti del punk ad oggi quasi sconosciuti affiancati da ulteriori altre eclettiche personalità. Rivivrete – se li avete vissuti – gli anni della vostra giovinezza o al contrario assaggerete per la prima volta, quei lustri di cui tanto avete sentito parlare.
Sugli echi e gli accordi di una chitarra punk, sulle ceneri di una città in blackout, sulle fiamme di un fuoco che continua ad ardere Garth Risk Hallberg ha creato un romanzo vivo, senza cali di attenzione che richiede di essere letto nella sua interezza, gustato nella sua abnormità, goduto sino alla sua conclusione. E vedrete che per ognuno di voi il viaggio sarà diverso..
Un’ultima cosa.. Gli interludi. Non saltateli. Quegli inserti, quelle parti scritte a mano, dattiloscritte, quelle finte fanzine ed immagini che contrastano con la classicità dell’impostazione del volume rendendolo moderno, tangibile, col cuore pulsante, non sono messe li per caso, sono parti della storia, tasselli che vanno a ricomporre gli avvenimenti, che vanno ad arricchire e ad approfondire i protagonisti e che vi permetteranno di entrare ancora di più nell’universo di “City on fire”.
A parte qualche piccolo errore di battitura dettato probabilmente dalla fretta di tradurre un tomo mastodontico, “Città in fiamme” non delude le aspettative, sprona all’avventura e non desidera altro che farsi conoscere e giudicare da ciascuno di noi/voi.
«La guardai, sfinita nel letto d’ospedale, lei guardò te, e tu guardasti me che la guardavo, con i tuoi occhi che non avevano mai conosciuto nient’altro e ti giuro che li, per un attimo, ci vedemmo l’un l’altro con una trasparenza che nulla potrà mai alterare, né il tempo né il dolore, né la morte. E in un certo senso, figlio mio, ti tengo ancora stretto e rimango con tanto amore, anche se da lontano..» cit. Primo interludio
«Voleva seguire l’anima abbastanza lontano lungo queste linee relazionali da mostrare che non c’è un punto fisso dove termina una persona e comincia l’altra. Voleva che i suoi pezzi fossero non proprio infiniti, ma così grandi da suggerire l’infinito» p. 195
«William non sa ancora cosa, ma di sicuro qui c’è un messaggio, se solo riuscirà a guardare abbastanza a fondo. Un segno. Una visione. Una fine o un inizio. Prima di premere il pulsante indugia un altro secondo, un altro ancora. E poi ancora uno. Perché sente che se gioca bene le sue carte, se smette di provare a fuggire da se stesso, uno di questi momenti si dimostrerà decisivo» p. 987
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ps. perdonate la lunghezza della recensione ma l'opera, con le sue 1.001 pagine si presta a far parlare di sé. E pensate.. Non ho detto nemmeno tutto quello che avrei voluto dire :-)
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L'importanza di chiamarsi Purity
Oscar Wilde aveva intitolato una delle sue commedie “The importance of being earnest”, giocando ironicamente sull’equivoco tra il termine earnest (serio, onesto, zelante) e il nome del protagonista Ernest.
Nell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity è sia il nome del personaggio intorno al quale si snoda tutta la vicenda, sia l’apparente scopo del Sunlight Project, l’organizzazione clandestina che diffonde via web informazioni riservate, portando alla luce numerosi traffici illeciti. Più che evidente è il riferimento a Wikileaks e a Julian Assange, che si citano esplicitamente nel corso della narrazione.
Il simbolismo è d’altra parte sempre presente nella letteratura americana, sin dai tempi di Hawthorne e Melville. Ciò è palese anche nelle scene più drammatiche, dove la caduta spirituale del personaggio nell’abisso del peccato è scandito dal rumore della pioggia e ogni movimento è rallentato e compromesso da un mare di fango.
La struttura di quest’opera corposa è costituita di sette lunghi capitoli: i primi tre introducono i personaggi più importanti, mentre negli altri si chiarisce come si intreccino le vite di ognuno. La narrazione è impersonale, a eccezione di un capitolo in stile diaristico in cui Tom racconta di sé.
Sono tanti gli argomenti affrontati dall’autore in questo romanzo, dal condizionamento esercitato dalla moderna tecnologia sulla vita di ognuno, con conseguente perdita della privacy, alla difficoltà per il giornalismo vecchio stile di sopravvivere nell’era di internet, che trascura completamente il lato umano dei fatti e delle persone. Si trattano sia il tema della sicurezza di un paese come gli Stati Uniti che producono armi nucleari che talvolta non riescono a custodire con tutte le garanzie del caso, sia il tema della democrazia imperfetta del mondo occidentale, e quello dei danni scaturiti da un regime totalitario con riferimento alla Germania Est fino alla caduta del muro (“un intero paese di vite sprecate”).
In questo serio groviglio di argomenti, ciò che colpisce, come sempre nelle opere di Franzen, è il ruolo della famiglia nella società, delle tensioni, delle incomprensioni, dei fenomeni di incompatibilità tra genitori e figli che possono spesso ripercuotersi sulla collettività. Il difficile rapporto tra Purity e sua madre, il disprezzo che Clelia nutre per Annelie, l’odio feroce di Andreas per Katya vengono descritti con parole accorate, lasciando intendere la sofferenza dei personaggi che in alcuni casi sembrano non avere speranza. È sempre lacerante il mondo di Franzen. Le sue donne sono dotate di una forza dominante, che le rende autonome ma spietate. Eppure dietro questa maschera quasi shakespeariana, questi personaggi femminili celano un bisogno incompreso d’amore, una sofferenza generata dall’incapacitá di comunicare che le rende fragili. È ancora la strenua lotta per l’emancipazione da uno stato di subalternità rispetto all’uomo che non si è ancora conclusa.
E d’altra parte neanche l’amore trova facile realizzazione nei romanzi di Franzen. Il sesso sostituisce spesso i sentimenti e viene sperimentato nei modi più trasgressivi, quasi come volontà di affermazione di un ego tolto bruscamente dal grembo materno e ancora in cerca di tenerezza e calore.
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Di rabbia e di vento
Forse il mondo là a Milano è davvero così, forse Robecchi si limita raccontare uomini reali e la freddezza metallica dei personaggi è voluta; o forse ci mostra la pochezza degli uomini con le loro contraddizioni, la totale perdita di valori e la snervante e inutile ricerca degli stessi in situazioni al limite del credibile.
La struttura del racconto è quella di un giallo, tra l'altro neppure così banale, interessante e avvincente: se fosse letto sulle pagine di un quotidiano locale.
La vicenda si svolge in una Milano claustrofobica, le cui strade, vicoli e viali sono intrecciati in un nugolo di nomi che si sovrammettono uno sull'altro nel vano tentativo di restituire al lettore l'atmosfera con interminabili serie di nomi di strade, forse caratteristiche, ma che alla lunga rimangono solo echi vaghi e ridondanti nella mente; ma quello che davvero rende la lettura irritante è la continua aspettativa di capire i motivi che fanno nascere determinate emozioni: forti profonde, vive, ma del tutto prive di pathos.
A volte ci sono personaggi che possono, anche solo con un silenzio, una pausa, un sospiro restituire uno stato d'animo perso, una paura nascosta, un'angoscia che urla dal profondo; sono quelle figure che rimangono nella mente e di cui rimaniamo amici per sempre; non è questo il caso: qui ogni figura suscita emozioni contrastanti, da una parte l'autore cerca di spiegare le loro ragioni, dall'altra il lettore non riesce a sentire niente e alla fine non comprende il perché di tutto.
Lo stile di Robecchi è difficile da giudicare, si ha l'impressione che sia una penna classica contaminata dalla modernità: la continua rottura della quarta parete e la scelta del narratore onnisciente rendono tutto molto pesante e anche quando la trama si dipana e l'entusiasmo dovrebbe arrivare al suo apice, qualcosa non funziona, la voglia è quella di giungere alla fine e non di scoprire chi sia l'assassino e quale sia la storia che si cela dietro le vittime.
In conclusione non è una lettura spiacevole, rimane la sensazione che sotto forma di racconto avrebbe reso meglio e che una maggiore sintesi e delicatezza stilistica avrebbero reso il tutto molto più piacevole.
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Ricerca, senso, vita.
Fran è cresciuto nella solitudine degli anni imperfetti, con un padre perennemente assente ed una madre alla costante ricerca di frivolezze, apparenze e affetti con cui riempire la sua esistenza di donna di casa, circostanza che si è tramutata in totale disinteresse per quel figlio così introspettivo, romantico, fuori dal comune, abbandonato a sé stesso. E se da un lato il ragazzo cresceva osservando e scrutando la figura materna nel susseguirsi della prima di molte dipendenze, quella sportiva con il fedele Mr. Gambe, dall’altro coltivava un unico rapporto di amicizia, quello con Edoardo, discendente della famiglia di veterinari della zona. Mentre lui viveva insieme a tanti altri nel complesso residenziale, l’amico e sua sorella Tania, di cui si crede innamorato, risiedevano in una villa isolata dal resto del mondo. Così come diverse sono state le abitazioni, altrettanto vari sono stati i percorsi di studio, in una scuola privata per quest’ultimo, in una pubblica il protagonista, con un lavoro ordinario – in una videoteca – Fran ed alle dipendenze di un misterioso Boss Edu.
La linea di demarcazione del romanzo è data dalla decisione di sposarsi della giovane; da quel momento ciascuno intraprende la propria strada, Fran è allo sbaraglio, vede la sua esistenza scorrere senza un vero obiettivo. Il padre chiede il divorzio alla madre che torna a lavorare dal dentista presso cui prestava la sua opera prima di coniugarsi nella consapevolezza di non potersi più dedicare interamente a sé stessa. I contatti con l’amico di un tempo sembrano ormai definitivamente recisi, eppure, in un pomeriggio come tanti, Edu fa la sua comparsa affidando all’altro una misteriosa chiave. Da qui la sua scomparsa. Fran scopre rapidamente quel che questa è in grado di aprire, mentre più tempo gli è necessario per comprendere le ragioni di quel gesto, di quella visita. Cosa ha voluto veramente dirgli Edu? Cosa gli ha lasciato in realtà?
Il testo è interamente permeato di una profonda malinconia, pagina dopo pagina assistiamo alle vicende dell’anti-eroe incapace di far alcunché per migliorare la sua posizione (anche solo per desiderare di incrementarla), per crearsi degli obiettivi, per amare. Idealmente lo scritto può essere suddiviso in due parti, quella infantile-adolescenziale e quella dell’età matura di quell’ormai uomo disilluso e disincantato dalla vita, dalle circostanze, dalle emozioni.
Lo stesso si snoda altresì sul piano filosofico lasciando al lettore l’onere di scegliere il suo un messaggio di destinazione. E’ chi legge che deve interpretare ed interrogarsi sul senso del volume, la morale altrimenti è sfuggente, oscura, semplicemente da ricercare tra le righe. Stilisticamente la scrittura è forbita e la lettura risulta piacevole seppur caratterizzata da un inizio lento che fatica a decollare. Non presenta particolari colpi di scena, siamo nella mente di Fran, che non è un personaggio né scontato né semplice, bensì complesso, viviamo e percepiamo i fatti mediante le sue riflessioni, i suoi pensieri, i suoi dubbi, il suo lasciarsi trasportare dagli eventi, ed è da ciò che vicende prendono atto.
«La mente non si ferma. Anche se non vuole pensare, pena. Ma cosa pensa? Tutto dipende da ciò che le dai, se la rifornisci abbastanza, perché in caso contrario dovrà adattarsi a ciò che ha di volta in volta. Di volta in volta l’irresistibile sensazione che annega la coscienza con i suoi piccoli specchi che la moltiplicano. Forse da qui provengono le ossessioni patologiche, dal tentativo di saziarsi nella stessa sensazione, rigirandola, mangiandola a poco a poco o trangugiandola e in tutti i modi possibili. I pezzi dello specchio che si compone nelle forme della memoria. Abbiamo bisogno di riserve per il pensiero futuro»
«Comporta un grosso peso diventare responsabile della speranza di qualcuno, perché diventi responsabile anche della sua delusione. E io ho paura di deludere l’unica persona che è capace di credermi infallibile»
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